di Mariavittoria Orsolato

Non pago di avere in più occasioni svelato il suo altissimo senso del dovere (verso Berlusconi ofcourse) il numero uno di viale Mazzini - il solerte Mauro Masi - si ritrova nuovamente al centro delle cronache per il suo reiterato tentativo di bloccare un programma in fase di avvio. Dopo “Report” e “Parla con me” - e nell’attesa (vana) di veder scorrere lungo il suo personale fiume il cadavere della nemesi Santoro - il baffuto dg Rai va ora a ostacolare la nuova creatura dell’inedito duo Fazio-Saviano, il programma di approfondimento culturale “Vieni via con me”.

Il pretesto è come al solito farlocco e si sostanzia nel porre il veto non tanto ai due intoccabili hosts, ma ai loro superospiti. Il motivo? Chiedono compensi troppo esosi e l’azienda proprio non se li può permettere, quando un solo Bruno Vespa costa 1.187.800 Euro all’anno. In questi tempi di vacche anoressiche le motivazioni addotte dal megadirettore potrebbero anche avere un senso: il bilancio in perenne deficit e le condizioni avverse del mercato pubblicitario impongono un elevato grado di austerità.

Ma il maldestro Masi, nella sua smania di compiacere l’inquilino di Palazzo Chigi, pare dimenticarsi del fatto che il programma in questione è l’evento televisivo più atteso dell’anno e che gli ospiti cui ha bellamente sbattuto la porta in faccia sono premi Oscar del calibro di Roberto Benigni o rockstar planetarie come il leader degli U2 Bono Vox. Gente insomma che se anche si mettesse a fare le pernacchie con l’ascella davanti a un microfono farebbe come minimo il 30% di share. Fatto di non poco conto se si pensa che gli spazi pubblicitari in contesti come questo si vendono a peso d’oro.

Di fronte a cotanto perseverare, l’iniziale e sacrosanta indignazione muta in cinica ilarità nel momento in cui ci si ritrova a constatare come, nonostante i salti mortali per applicare un mobbing formalmente accettabile, Mauro Masi finisca sempre per favorire chi in realtà vorrebbe penalizzare e viceversa. Prestandosi al gioco al massacro che B. vorrebbe applicato a tutti i sussulti di autonomia creativa o di semplice deontologia giornalistica, il direttore generale Rai non fa altro che pubblicizzare - e, nel caso di Santoro, addirittura canonizzare - le espressioni che vorrebbe costringere a far chiudere. Al contempo, riesce a tirare una gigantesca zappa sui piedi all’azienda che è stato chiamato a dirigere ed eventualmente risollevare.

E lo fa sia in termini di immagine - ormai definitivamente compromessa - che in termini economici, contravvenendo a quella che dovrebbe essere la condotta connaturata al suo ruolo: come ha giustamente sottolineato il conduttore di “Annozero” nel monologo che passerà alla storia come il discorso del vaffanbicchiere, non è assolutamente concepibile che il capo di un’azienda qualunque (a maggior ragione la Rai) remi così palesemente contro quello che dovrebbe essere il suo stesso interesse.

Cosa che non pretendiamo essere la qualità del servizio offerto ma almeno la quantità di introiti necessari alla sopravvivenza del baraccone altresì noto come tv di Stato: un enorme aspirapolvere di risorse cui i contribuenti sono coattati a provvedere tramite canone.

Che la Rai sia il paradiso della lottizzazione più selvaggia e il rifugio dorato dei fedelissimi di Padron ‘Silvio non è di certo una novità, da Deborah Bergamini in poi tutti hanno fatto il gioco della concorrenza, finendo per impaludare un’emittente (ri)nata con il preciso intento di essere un servizio alla cittadinanza.

Masi, probabilmente suo malgrado, rimane infatti il principale dirigente di una delle più mastodontiche aziende pubbliche e, nonostante il suo compito precipuo sia quello di lavorare in modo tale da giovare ad una Rai in evidente caduta libera, nel suo operato si ravvisa solo la volontà di ostacolare su commissione le pochissime voci del palinsesto che, oltre a produrre trasmissioni di indubbia qualità, sono di fatto le galline dalle uova d’oro in termini di raccolta pubblicitaria. Insomma, traslando con il linguaggio gretto che tanto piace ai mufloni leghisti, Masi si ritrova a fare la parte del marito che pur di fare dispetto alla moglie si evira.

Una condotta a dir poco paradossale che in un contesto privato porterebbe all’immediato licenziamento e che all’interno di un’emanazione della pubblica amministrazione dovrebbe almeno rischiare gravi sanzioni o, meglio ancora, passare sotto il vaglio impietoso della Corte dei conti per i danni economici che l’azienda subisce in forza del suo operare. Di fronte ai mancati introiti derivati, l’organismo posto a vigilare sul corretto utilizzo dei soldi pubblici non potrebbe far altro se non constatare l’assoluta inadeguatezza di Masi a ricoprire il ruolo di dirigenza.

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