di Rosa Ana De Santis

Era il 2011 quando a Novi Ligure una ragazzina, Erika, uccideva a coltellate la propria madre e il fratellino Gianluca. Chi ha visto la scena del crimine, anche gli addetti ai lavori con più anni di esperienza sulle spalle, riferivano di un quadro orribile (97 coltellate) e di un’efferatezza difficile da sopportare. Omar, il fidanzato di Erika di allora, non ebbe la forza di fermare quel piano diabolico ordito da mesi.

Oggi quel ragazzo è fuori ed Erika lo sarà a breve. Dieci anni di carcere sono abbastanza per la legge italiana, per effetto di indulto e buona condotta. La condanna prevedeva, in ogni caso, una manciata di anni in più.

L’intervista di Omar davanti alle telecamere di Matrix racconta di incubi, di cambiamenti interiori e di consapevolezza. Ma soprattutto di volontà di avere una vita normale, quella che anche Erika sogna una volta fuori dal carcere. Non furono ben accolte le foto che la ritraevano in un’uscita fuori dal carcere per una partita di pallavolo, né quelle recenti nella comunità che la accoglie in quest’ultimo periodo.

Neppure Omar nelle prime immagini che lo ritraevano impiegato nei lavori socialmente utili raccolse consensi. Come se il male assoluto di quell’assassinio fosse superiore anche alla volontà di chi tenderebbe a credere alla veridicità dell’espiazione.

E’ la sua diffusione mediatica, però, a verificarne in un colpo il senso, l’attendibilità e soprattutto l’utilità. La tv non può diventare la scorciatoia di un dolore e di una trasformazione che è tutta rigorosamente interiore e che non si conclude affatto con il ritorno alla libertà. Il presidente dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori, Marziale, si è detto contrario all’intervista di Omar sia per tutelare l’integrità psichica e sociale che i due ragazzi rei stanno provando a ricostruirsi, sia per limitare i danni educativi dello spettacolo che ormai la tv costruisce senza limiti sulle pagine della cronaca nera.

Lo vediamo in numerose trasmissioni tv, dai plastici di Vespa al ritmo del processo che ogni venerdì viene riproposto negli studi di Quarto Grado. Da ultimo lo abbiamo visto con la scarcerazione di Amanda Knox e Sollecito: un circo di foto, di commenti in cui sparisce dalla memoria collettiva la vittima e il suo brutale assassinio.

La contrizione di un assassino non può essere esportata in tv, scivolando nella confusione inevitabile di realtà e fiction e con il desiderio di recuperare velocemente immagine e accettazione. La mitizzazione o la demonizzazione sono i due soli risultati possibili. La tv in un fatto di cronaca nera come questo non può che limitarsi ai fatti.

Il resto, il “di più”, serve a nutrire la morbosità di un pubblico abituato allo show dei crimini, a coltivare maggiore risentimento verso pene che sembrano esigue e minime rispetto ai misfatti; non serve alle vittime che, mai come in questo caso, sono state protette dal clamore mediatico dal padre di Erika, l’unico scampato alla strage. Ben diverso dall’esibizione scomposta della vicenda della piccola Sarah Scazzi e della sua tragica fine.

Alle domande di Alessio Vinci sul perdono, Omar risponde di chiederlo ogni sera alla mamma Susy e a Gianluca. Sa bene di essersi rovinato la vita quel giorno, come sa che quelle grida non scompariranno. Gli assistenti sociali e i formatori parlano di ragazzi cambiati, diversi da quelli di allora. Ma qui nessuno può entrare e accendere la luce. Nessun microfono, alcuna esibizione.

Qui il bene è un tema solo privato, così come lo è il dolore di un padre che è rimasto chiuso nel silenzio per anni, quasi con devozione. Privato e intimo come solo il perdono vero può essere, come solo il veleno che Erika aveva nel cuore poteva essere. Impenetrabile a ogni sforzo di comprensione. Così tanto distante che spiegato diventa banale, si chiama gelosia o disagio giovanile. Eppure è qualcosa di più. Così come la conversione di un giovane ragazzo cresciuto in carcere. Davanti ai riflettori sembra recitato, fittizio, di opportunità. Soprattutto inutile a tutti.

E’ qui che si misura il limite della televisione. Un racconto senza profondità, a due dimensioni, una velocità che non riesce a spiegarci l’oltre. E che quindi non serve: né alle vittime che non ci sono più, né agli assassini, né a chi dalla cronaca di quel crimine non può avere altro se non il ritratto di un’umanità perduta, di un precipizio di ragione che non ha bisogno di spettacolo. Non serve. Meglio sarebbe un soprassalto di decenza.

 

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