La Corte Suprema degli Stati Uniti ha confezionato questa settimana un altro regalo per l’amministrazione Trump nell’implementazione del programma ultra-reazionario diretto contro gli immigrati. I sei giudici di estrema destra che ne compongono la maggioranza hanno infatti annullato l’ingiunzione di un tribunale federale che aveva congelato le espulsioni forzate di migranti condannati per qualche reato verso paesi “terzi”, cioè con cui non hanno nessun legame, anche se in stato di guerra o in condizioni di estrema precarietà economica e sociale.

La causa era stata intentata da organizzazioni a difesa dei diritti civili per conto di otto immigrati residenti negli USA, sei dei quali originari di vari paesi dell’America centrale. La Casa Bianca aveva emesso per loro un ordine di deportazione verso il Sud Sudan, paese dal quale proveniva solo uno del gruppo di migranti. Un altro avrebbe dovuto invece essere spedito da qui al Myanmar, suo paese di origine. Sei degli otto destinatari del provvedimento, quindi, erano condannati a essere inviati in un paese afflitto da guerra civile, fame, malattie e violenza, oltretutto senza nessun legame linguistico, famigliare o culturale con esso, per non parlare del rischio di tortura o morte.

Secondo la legge americana sull’immigrazione, provvedimenti simili possono essere adottati solo se risulta “sconsigliabile o impossibile” rimandare i migranti in questione nei loro paesi di origine. La causa legale in corso era stata intentata contro l’amministrazione Trump perché gli ordini di espulsione verso paesi “terzi” erano stati decretati praticamente senza dare tempo ai destinatari di ricorrere davanti a un giudice, come prevedono la legge e la Costituzione USA.

Il giudice distrettuale del Massachusetts, Brian Murphy, era perciò intervenuto imponendo al governo di dare un preavviso di almeno dieci giorni ai migranti oggetto della deportazione, in modo da consentire loro di ricorrere in tribunale. Il dipartimento per la Sicurezza Interna, per tutta risposta, aveva messo gli otto immigrati su un volo per Gibuti, dove sono rimasti in stato di detenzione presso la base militare americana ospitata dal paese del Corno d’Africa in attesa degli sviluppi legali. Oltre al Sud Sudan, un altro paese emerso come destinazione dei migranti espulsi è la Libia, com’è noto devastata dalle conseguenze della guerra istigata dalla NATO nel 2011.

La sentenza d’appello aveva in ogni caso confermato l’ordine del giudice Murphy, così che il governo di Washington ha alla fine deciso di ricorrere alla Corte Suprema. Senza rilasciare nessuna dichiarazione per spiegare il verdetto, i sei giudici di maggioranza hanno appunto cancellato lunedì l’ingiunzione contro l’amministrazione Trump, che potrà dunque riprendere le deportazioni verso paesi “terzi” in attesa che il procedimento legale faccia il proprio corso nei tribunali federali. Tradotto: per arrivare a una decisione finale potrebbero volerci anni e nel frattempo i migranti che finiscono nella rete del governo potranno essere spediti all’istante e senza possibilità di appello in paesi pericolosi e a loro totalmente sconosciuti.

L’opinione dei tre giudici di minoranza che hanno votato contro il governo è stata scritta in termini durissimi dalla giudice Sonia Sotomayor, la quale ha attaccato i colleghi di ultra-destra per avere “premiato l’illegalità” dell’amministrazione Trump. Il riferimento immediato è alla già ricordata decisione del dipartimento della Sicurezza Interna di mettere i migranti oggetto della causa su un volo per Gibuti in violazione dell’ordine del tribunale distrettuale del Massachusetts. Questo atteggiamento di sfida nei confronti dei giudici da parte della Casa Bianca non è nuovo e lo si è potuto osservare in maniera inquietante in svariati casi soprattutto in relazione ai provvedimenti anti-migranti.

Il procuratore del governo che ha discusso il caso davanti alla Corte Suprema, John Sauer, aveva da parte sua spiegato che la decisione del giudice Murphy ha imposto “una serie di procedure onerose” che ostacolano le facoltà del presidente di condurre le proprie politiche in materia di affari esteri. Nel concreto, Sauer sosteneva che il rispetto della legge e della Costituzione sono “incombenze” che il presidente non è tenuto a considerare né rispettare.

Tornando al parere sul verdetto della giudice della Corte Suprema Sotomayor, quest’ultima ha spiegato come il governo di Donald Trump abbia “dimostrato nelle parole e nei fatti di sentirsi svincolato dalla legge” e “libero di deportare chiunque senza avviso né opportunità di appello”, così che la decisione a suo favore espone “migliaia [di immigrati] al rischio di tortura e di morte”. La giudice ha aggiunto che “il principio [costituzionale] del giusto processo” determina il fatto che “il nostro sia un governo della legge, non degli uomini, e che ci sottomettiamo ai governanti solo se essi operano nel rispetto delle regole giuridiche”. Premiando l’illegalità, ha concluso la Sotomayor, “la Corte [Suprema] compromette ancora una volta questo principio fondamentale”.

I legali delle associazioni che hanno sostenuto i migranti nella causa hanno a loro volta messo in luce gli aspetti pericolosi e contraddittori sia della sentenza sia della condotta dell’amministrazione Trump. Mentre il presidente e i membri del suo governo sostengono frequentemente che i migranti deportati sono “il peggio del peggio”, nella realtà molti di essi non hanno nessun precedente penale. Inoltre, uno dei paesi verso cui sono destinati alcuni degli espulsi, il Sud Sudan, viene considerato sicuro per questi ultimi nonostante il dipartimento di Stato abbia diramato un’allerta ufficiale, invitando i cittadini americani ad abbandonarlo e a non recarvisi a causa dei rischi derivanti dal “conflitto armato” in corso.

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