Durante il diciassettesimo incontro annuale dei BRICS, recentemente celebratosi a Rio de Janeiro, i leader del blocco hanno proposto di avanzare nella creazione di un nuovo sistema di transazioni finanziarie nell’ambito dell’Iniziativa dei Pagamenti Transfrontalieri dei BRICS, con l’obiettivo di facilitare transazioni più accessibili, rapide e sicure tra i Paesi membri.

L’iniziativa mira a proteggere i Paesi BRICS dalle sanzioni unilaterali imposte dalle potenze occidentali tramite il sistema SWIFT e altre forme di sanzione. In senso più ampio, intende ridurre la dipendenza dal dollaro statunitense nel commercio e nella finanza internazionali.

Con questa misura si rafforzano le basi del processo di de-dollarizzazione dell’economia globale, basato su due assi: intensificare il commercio interno al blocco utilizzando le rispettive valute locali e conseguente riduzione della domanda di dollari nei mercati internazionali, indebolendo così l’influenza statunitense ed esponendo Washington a rischi di insostenibilità del proprio debito.

Pensare che ridurre il peso del dollaro sia un progetto illusorio sarebbe un grave errore. Gli stessi Stati Uniti, così come il resto dell’Occidente, sono perfettamente consapevoli che tali misure rappresentano un arretramento progressivo delle loro posizioni dominanti nei mercati internazionali e, con esse, della capacità di determinare o anche solo influenzare lo sviluppo di decine di Paesi cosiddetti emergenti.

Dal 2023, la quota di PIL mondiale gestita dai BRICS ha superato quella del G7, che peraltro non include né la prima né la quarta economia mondiale (Cina e Russia), diventando così un G7 “camuffato”. A Rio de Janeiro è stata ufficializzata l’adesione di nuovi membri: alcuni con potere demografico (Indonesia, il Paese con il maggior numero di musulmani al mondo), altri con vasta estensione territoriale (Algeria, il Paese più grande dell’Africa, e Bolivia, tra i principali produttori di gas), altri ancora con rilevanza geopolitica (Nigeria, Turchia, Vietnam, Malesia, Bielorussia, Uzbekistan, Kazakistan).

Non è un caso che Trump abbia annunciato (o minacciato, che per lui è lo stesso) di imporre dazi aggiuntivi del 10% a tutti i Paesi che si allineeranno con i BRICS. Il blocco, da parte sua, ha condannato sia le sanzioni che i dazi - due facce della stessa medaglia - così come l’aggressione all’Iran da parte degli Stati Uniti, intervenuti là dove Israele non riusciva a piegare Teheran.

Al vertice di Rio sono state espresse posizioni su temi economici e finanziari, ma sono emerse con maggiore chiarezza rispetto al passato anche posizioni su questioni più ampie della politica internazionale. Gli obiettivi dei BRICS includono il rafforzamento della cooperazione economica, politica e sociale tra i membri e l’aumento dell’influenza del Sud Globale nella governance internazionale. Il blocco si definisce “un forum di coordinamento politico e diplomatico per i Paesi del Sud Globale, attivo nelle più diverse aree”. Inoltre, è il blocco con le maggiori risorse di energia fossile e terre rare, il meno indebitato e con le maggiori opportunità di crescita.

Il progressivo aggravarsi delle crisi internazionali, dovuto alle politiche aggressive dell’impero occidentale che rifiuta di accettare la propria perdita di potere nella governance globale, rende necessaria – a breve e medio termine – la presenza di un soggetto plurale e alternativo al dominio unipolare. In questo senso, una strutturazione globale dei BRICS come blocco politico, economico e militare potrebbe offrire quel contrappeso internazionale oggi assente.

L’assenza di un reale contrappeso è ciò che permette all’impero anglosassone di agire senza limiti, senza doversi adattare a equilibri sostenibili. Dal 1991 e ancora oggi, l’Occidente resta l’unico blocco politico e militare del mondo, e continua a operare con la logica della forza e del saccheggio, ostacolando lo sviluppo delle economie emergenti.

Non si tratta solo di una distorsione del libero mercato o di una cattiva e interessata interpretazione del globalismo. In sostanza, si tratta di una questione di democrazia. La sfida è capire come e con quali strumenti ricostruire un asse riequilibratore che contenga un impero malato e fuori controllo. La mancanza di omogeneità ideologica o dottrinaria tra i BRICS non è un ostacolo insormontabile. Condividere un progetto di emancipazione, libertà commerciale e riequilibrio politico globale costituisce già una piattaforma politica comune.

Per questo motivo, i BRICS dovrebbero strutturarsi politicamente, adottando una dimensione inclusiva e un sistema di governance interna che li protegga dai veti individuali riguardo all’ingresso di nuovi Paesi o alle politiche comuni da seguire.

Senza voler sembrare idealisti, bisogna riconoscere che non è praticabile l’idea di un organismo in cui ogni membro abbia esattamente lo stesso peso decisionale. La realtà impone che il peso specifico di ciascuna nazione influenzi il valore della sua posizione. Ma, poiché prima si vota e poi si pesa, si potrebbe adottare un meccanismo di maggioranza qualificata, eliminando veti e ostruzionismi (come nel caso del Brasile con Lula) o ingressi e uscite decisi altrove (come nel caso dell’Argentina), che rischiano di trasformare alcuni Paesi in cavalli di Troia dell’impero occidentale.

La democratizzazione dei mercati è uno strumento fondamentale per ricostruire il tessuto delle relazioni internazionali, oggi danneggiato dalla crisi delle Nazioni Unite e di altri organismi che un tempo svolgevano un ruolo arbitrale nei conflitti internazionali. La diplomazia deve tornare al centro della scena globale, basata su regole condivise e rispettate. È essenziale il ritorno al Diritto Internazionale, oggi piegato agli interessi dell’Occidente.

Il rifiuto delle ingerenze esterne, spesso sfociate in “interventi umanitari” contro sistemi politici non allineati con gli interessi occidentali, è il terreno imprescindibile per seminare una nuova era di dialogo e soluzioni condivise, basate sul riconoscimento reciproco tra gli attori internazionali.

Ma ciò non basta. I BRICS dispongono del peso economico, demografico e finanziario necessario a dar vita a un’alleanza strategica che includa anche la cooperazione militare, destinata a frenare gli impulsi distruttivi che Stati Uniti, Unione Europea, Giappone e Israele hanno trasformato in politica estera. Come insegnò il campo socialista dopo la Seconda Guerra Mondiale, fu la deterrenza reciproca a fermare i sogni espansionistici della NATO. La NATO fu costretta a contenere le sue ambizioni e a confrontarsi con uno scenario internazionale non sottomesso né silenzioso. Ebbene, oggi occorre riproporre lo stesso meccanismo. Perché il capitalismo internazionale, specie in tempi di crisi, comprende solo il linguaggio della forza.

La deriva bellicista dell’Occidente, che ha visto ridursi il proprio peso politico e militare e cerca ora solo soluzioni militari alle crisi diplomatiche, espone il mondo a una minaccia concreta di una Terza Guerra Mondiale. Evitare questo esito per l’umanità è un valore superiore a qualsiasi altra considerazione di opportunità o rischio. Quali che siano le incertezze, bisogna andare avanti. Perché niente è peggio che restare a guardare mentre all’orizzonte si avvicina un tornado.

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