Migliaia di persone sono scese in piazza a Kiev per protestare contro la legge fatta approvare da Zelensky che pone sotto il controllo del governo le agenzie che si occupano del contrasto alla corruzione. Che in Ucraina è questione enorme quanto atavica: rimonta sin dall’inizio degli anni ’90 e ha visto tutti i pupilli dell’Occidente - dalla Timoshenko a Poroshenko finendo con Zelensky - trasformare le loro amministrazioni in una greppia.

Le diverse Ong statunitensi ed europee denunciavano, sin dalla fine degli anni ’90 e, con maggior forza, dal 2014, come la corruzione avesse raggiunto livelli tali da non potersi più determinare con certezza giuridica il funzionamento del sistema-paese. L’ONU e la UE ponevano l’Ucraina ai primi posti del mondo per corruzione.

Sulla natura di queste mobilitazioni si registrano però alcune anomalie.

La propaganda occidentale le ha dipinte come dimostrazione dell’esistenza di un tessuto democratico in Ucraina e certo denunciano l’insofferenza verso Zelensky. Bene, come non approvare? Ma ci si chiede: dov’era questo spirito democratico quando Zelensky proibiva l’uso della lingua russa (parlata dal 100% della popolazione); metteva fuorilegge partiti politici e sindacati, chiudeva radio e tv, proibiva persino l’attività religiosa della chiesa ortodossa? Per non parlare di un Presidente scaduto da quasi due anni che si rifiuta di andare al voto ed occupa abusivamente il potere, sostenuto dalla UE che non gli chiede conto.

Strano che un popolo rimasto passivo e silente di fronte all’utilizzo del suo Paese come arma della NATO, causando così circa un milione di morti, 7 milioni di rifugiati (4,2 solo in Europa) e un paese distrutto, protesti contro un atto di arroganza politica che però, paragonato alla distruzione dell’Ucraina, risulta oggettivamente un danno minore. Mobilitazioni ben maggiori di questo “tessuto democratico” avrebbero dovuto e potuto disegnare l’intollerabilità di quanto sopra, ben più grave di un provvedimento ordinamentale, per sfacciato ed arrogante che sia.

La seconda osservazione è che in quelle piazze c’erano giovani in età di leva, che nell’arrivare e nell’andar via hanno rischiato di incorrere nei reclutatori a forza dell’esercito ucraino, che avrebbe potuto prelevarli e portarli all’arruolamento forzato: sarebbe stato un prezzo alto da pagare per una protesta contro una legge, per intollerabile che sia. A meno di non disporre di garanzie.

Insomma non è che si voglia usare il microscopio per leggere i dettagli, ma c’è una sproporzione verso i temi più drammatici della vicenda ucraina che non può non essere colta. Zelensky ha operato una forzatura evidente ponendo i controllori nelle mani del controllato. Ma anche volendo credere ad una sensibilità particolare nella lotta alla corruzione, davvero gli ucraini individuano nell’annullamento dell’indipendenza delle agenzie di contrasto alla corruzione l’unico male da contrastare scendendo in piazza? E si crede davvero che l’indipendenza formale di queste agenzie sia anche sostanziale? E quando mai queste agenzie hanno denunciato con nomi, cognomi, fatti e date la corruzione militare e politica che ha visto sparire oltre il 50% degli aiuti militari occidentali verso la criminalità organizzata europea e caucasica, come denunciano gli stessi USA?

Queste mobilitazioni, che hanno come oggetto la difesa di organismi voluti dagli USA (come in tutto il mondo le autorità anticorruzione, volute e gestite direttamente da Langley), e sembrano indicare la scadenza definitiva per il presidente, corrotto fino al midollo. Cosa quindi buona e giusta ma che, forse non casualmente, si incrocia con la linea politica statunitense sulla questione ucraina.

Si sa che da tempo a Washinton e a Langley si studiano operazioni di rimozione di Zelensky ed alcuni epurati formano la lista dei papabili da insediare al suo posto. Si studia la possibilità di mettere in atto un processo di cambiamento politico sostanziale che non favorisca Mosca ma che possa agevolare le trattative per la fine della guerra.

Dall’arrivo di Trump alla Casa Bianca, le cose si sono messe male per Zelensky. Trump non gli perdona di non avergli fornito le prove sul coinvolgimento diretto della famiglia Biden in Ucraina e dei contratti milionari assegnati ad Hunter Biden in cambio degli aiuti USA durante la presidenza Obama. La volontà di infliggere una sconfitta militare alla Russia appare anche a Trump come un errore strategico dai costi enormi e senza possibilità di successo. Trump vuole uscirne evitando però che appaia come una sconfitta statunitense e una vittoria russa. Una resa dell’Ucraina da parte di un nuovo governo, salverebbe Washington da un’altra onta anche mediatica dopo il ritiro frettoloso e poco onorevole da Kabul. Si scarica quindi l’Ucraina sulle spalle (e sui piedi) di una UE guerrafondaia ed impotente, che può proseguire con la guerra altri due mesi, ma che si accollerà poi la sconfitta definitiva.

Del resto gli Stati Uniti sanno di non potersi permettere economicamente, oltre che militarmente, di continuare a sostenere Zelensky. La loro dottrina militare non prevede la gestione simultanea di due conflitti di durata medio-lunga e la situazione mediorientale ha assoluta preminenza rispetto a quella ucraina. Soprattutto, la priorità strategico-militare è sull’area dell’Indopacifico, vero e proprio Big Bang del dominio statunitense sul mondo.

A Washington sono consapevoli di due cose: la prima che in Ucraina si è consumata l’ennesima sconfitta della NATO. Sconfitta tanto più bruciante perché avvenuta contro il suo incubo peggiore, ovvero Mosca, la sua potenza militare e la sua resilienza e dinamicità economica, la sua rete di alleanze e la capacità di ottenere la solidarietà dell’intero blocco di paesi BRICS.

La seconda è che l’avanzata della NATO verso l’Asia sia questione chiusa ed aver aggiunto alla sua Alleanza Svezia e Finlandia (che già operavano con la NATO) offre una magra consolazione di fronte ad una sconfitta politica e militare di dimensione storica.

Dunque per Trump si tratta di far uscire l’Ucraina dalla sua agenda politica. Quello che poteva prendere ritirandosi l’ha già preso con l’accordo sulle terre rare ucraine. Di più non può ottenere, quindi prova a non continuare a spendere e a non cucirsi addosso la sconfitta. Vorrebbe la resa di Zelensky ma la sua opposizione alla pace, spalleggiato dalla UE, lo ha indispettito e complica la sua exit-strategy. Del resto un personaggio detestato dai nemici e discusso dagli amici non favorisce il tentativo USA di uscirne riducendo i danni. La questione, allora, è come disfarsi di Zelensky: il personaggio è usurato, ormai privo dell’allure del resistente e nell’evidente parte di Dead Man Walking. E’ chiaro che la fine della guerra per Mosca coincide con l’azzeramento del governo di Kiev e Trump intende favorire il dispiegarsi di queste condizioni preliminari poste da Putin.

Ovviamente la presa d’atto di una sconfitta non significa la rinuncia a colpire la Russia con il dipanarsi di guerre e conflitti di varia natura ai suoi confini, comunque nella sua orbita geopolitica, non potendo sopportare la crescita dell’influenza internazionale del Cremlino. La Moldavia è il nuovo Paese su cui la NATO conta per la prossima guerra, magari da scatenare con un attacco alla Transnistria che vedrebbe certamente una reazione di Mosca. L’idea, insomma, non è quella di sconfiggere Mosca ma di tenere la Russia in uno stato di guerra permanente che limiti la sua crescita economica e che possa minare il consenso di Putin. Una Russia in guerra permanente perderebbe parte della sua agibilità politica internazionale ed un nuovo conflitto ai suoi confini è ritenuto dagli USA utile per limitarne la presenza forte in Libia e nel resto dell’Africa.

Una strategia imbecille più che ambiziosa, dal momento che le condizioni militari non sono alla portata di Washington e non è nemmeno detto che la pazienza russa sia infinita, specie nei confronti del quarto reich insediatosi a Berlino e dei suoi satelliti baltici. Colpire la Russia per incrinare la sua alleanza strategica con la Cina continua ad essere il mantra dell’Occidente, che rischia però di sommare sconfitta a sconfitta e finire in un vicolo cieco dove l’eco della sua crescente irrilevanza rischia di diventare una roboante quanto devastante abitudine.

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