di Michele Paris

A quattordici anni dagli eventi che portarono all’invasione dell’Iraq e alla virtuale distruzione del paese mediorientale in base ad accuse totalmente fabbricate, gli Stati Uniti sembrano essere sul punto di scatenare una nuova aggressione contro un altro paese arabo grazie alla messa in scena seguita al recente “attacco” con armi chimiche in Siria, attribuito senza nessuna prova al regime di Bashar al-Assad.

I fatti che si sono susseguiti dopo l’episodio di martedì nella provincia nord-occidentale di Idlib hanno innescato due dinamiche ben precise e attentamente pianificate da parte dei fautori della guerra contro la Siria. Da un lato, l’intera macchina governativa e militare degli Stati Uniti ha iniziato una campagna retorica contro Damasco di un’intensità che non si riscontrava dall’agosto del 2013.

Dall’altro, questo sforzo è stato sostenuto da una vigorosa propaganda dei media “mainstream” per incolpare senza la minima esitazione il regime di Assad e soffocare qualsiasi voce critica o intenzionata a mettere in discussione la ricostruzione ufficiale di quanto accaduto in Siria.

La nuova offensiva dell’apparato militare e della “sicurezza nazionale” americano per giungere a un intervento su larga scala in Siria per rovesciare il regime di Damasco sembra avere ormai travolto anche la nuova amministrazione Trump, delle cui velleità di imbastire un dialogo con la Russia per combattere la minaccia terroristica in Medio Oriente non vi è ormai quasi più traccia.

Praticamente nulla del tradizionale corredo che precede le operazioni maggiori dell’imperialismo americano è stato trascurato in questi giorni: dalle accuse infondate rivolte ai propri nemici per un fatto di sangue dai contorni oscuri all’ostentazione rivoltante di scrupoli umanitari, dalla promessa di assecondare l’imperativo morale che guiderebbe la politica estera degli Stati Uniti all’occultamento delle responsabilità americane in crimini di gran lunga peggiori.

Il presidente, i membri del suo gabinetto e i vertici militari hanno così messo in chiaro come questa settimana sia stato fatto un passo forse decisivo nell’apertura di un nuovo rovinoso fronte di guerra in Medio Oriente, destinato ad abbattere il regime di Assad e a colpire nel contempo gli interessi di Russia e Iran.

Anche da un punto di vista formale, l’accelerazione dell’amministrazione Trump sulla Siria ha ricordato la campagna del 2003, soprattutto con l’intervento dell’ambasciatrice americana all’ONU, Nikki Haley, nella giornata di mercoledì durante una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza. Apparentemente senza imbarazzo, l’ex governatrice della South Carolina ha mostrato immagini di bambini vittime del presunto attacco con armi chimiche di martedì, avvertendo che il suo paese potrebbe adottare iniziative unilaterali se le Nazioni Unite non saranno in grado di fermare il massacro in Siria.

La presa di posizione più clamorosa è stata però quella del presidente, apparso in una conferenza stampa a Washington con il sovrano di Giordania, Abdullah II, per annunciare il suo cambiamento di “attitudine nei confronti della Siria e di Assad”. Per Trump, il regime di Damasco avrebbe commesso un atto “atroce” e “oltrepassato parecchie linee rosse”, in riferimento all’avvertimento di Obama allo stesso Assad nell’estate del 2013 dopo un altro attacco con armi chimiche attribuito al regime e che portò gli USA sull’orlo della guerra in Siria.

Le parole di Trump sono ancora più significative se si pensa che solo pochi giorni prima alcuni esponenti del suo gabinetto, tra cui la stessa ambasciatrice Haley, avevano rilasciato dichiarazioni pubbliche che sembravano riconoscere l’inevitabilità della permanenza al potere in Siria del presidente Assad.

Il repentino cambio di rotta, sollecitato dal presunto attacco con armi chimiche nella provincia di Idlib, dimostra come gli ambienti di potere negli Stati Uniti contrari alle posizioni di Trump sulla Siria e la Russia abbiano deciso di accelerare la propria offensiva, così da rimettere in linea la nuova amministrazione con gli obiettivi della galassia “neo-con”, votata all’interventismo a oltranza sulla scena internazionale nell’illusione di riuscire a invertire il declino della potenza americana.

A queste dinamiche può essere forse collegato anche un altro evento importante di questi giorni, cioè la rimozione del consigliere di Trump, Stephen Bannon, dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale (NSC). L’ideologo dell’ultra-nazionalismo di Trump sarebbe stato silurato dal direttore dell’NSC, generale Herbert Raymond McMaster, ovvero il principale rappresentante dell’apparato militare nel cuore della Casa Bianca. McMaster era stato scelto da Trump pochi giorni dopo l’insediamento per sostituire il “filo-russo” Michael Flynn, costretto alle dimissioni a causa dei suoi contatti “illeciti” con l’ambasciatore di Mosca a Washington.

McMaster avrebbe voluto il passo indietro di Bannon proprio per escludere dalla formulazione delle politiche sulla “sicurezza nazionale”, ovvero le decisioni in merito a guerre e iniziative militari di vario genere, un uomo molto vicino al presidente e per il quale aveva modellato i piani di impronta nazionalista, nonché moderatamente tendenti all’isolazionismo e alla distensione con la Russia.

Il riorientamento dell’amministrazione Trump verso le tradizionali posizioni “neo-con” che hanno dominato la politica estera USA dei suoi due predecessori è apparso evidente anche dalle parole seguite ai fatti in Siria di martedì del segretario di Stato, Rex Tillerson, considerato, almeno fino a qualche settimana fa, tra i principali sostenitori del disgelo con Mosca all’interno del gabinetto. Tillerson si è in sostanza anch’egli allineato alla nuova attitudine della Casa Bianca, assicurando di non avere dubbi sulle responsabilità di Assad e invitando la Russia a “riconsiderare attentamente il proprio sostegno al regime” siriano.

Per quanto riguarda i dettagli dei fatti di martedì in Siria, le incongruenze della versione ufficiale, subito sposata dagli Stati Uniti e dai loro alleati ma smentita in maniera decisa da Mosca e Damasco, sono state ampiamente messe in risalto da vari giornalisti e siti web indipendenti. Per i media ufficiali, invece, tutte le prove necessarie per la colpevolezza di Damasco consistono nelle informazioni provenienti da fonti dell’opposizione siriana e dalle note ufficiali dell’ufficio stampa della Casa Bianca.

Anche solo la parvenza di una posizione neutrale e indipendente avrebbe dovuto richiedere almeno un’indagine approfondita di quanto accaduto in una realtà complessa e difficilmente accessibile. Inoltre, i precedenti attacchi ben documentati con armi chimiche condotti da gruppi “ribelli” in Siria, assieme alla certificazione nel 2016 da parte dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche della rimozione dalla Siria di tutto l’arsenale proibito in possesso del regime, avrebbe dovuto suggerire cautela nel giungere alle conclusioni.

Ancora, non un solo giornale “mainstream” ha fatto notare ad esempio come l’indignazione del governo americano e dei suoi alleati occidentali per le vittime siriane di martedì si sia manifestata proprio mentre Trump accoglieva a Washington il presidente-macellaio egiziano al-Sisi, responsabile della morte di migliaia di oppositori interni a partire dal colpo di stato del luglio 2013 contro il presidente democraticamente eletto, Mohamed Mursi.

Non solo, sempre questa settimana la premier britannica, Theresa May, il cui rappresentante all’ONU ha contribuito alla stesura di una risoluzione di condanna del governo siriano, è stata protagonista di una visita cordiale in Arabia Saudita, il cui regime ultra-reazionario sta conducendo una guerra sanguinosa in Yemen, con il pieno appoggio occidentale, che ha fatto migliaia di vittime civili. Le notizie provenienti dal Medio Oriente fino alla scorsa settimana erano infine dominate dai bombardamenti americani a Mosul, in Iraq, nel quadro della battaglia contro lo Stato Islamico (ISIS) e che anche in questo caso avevano provocato centinaia di morti tra la popolazione civile.

Per questi fatti non è stata convocata nessuna riunione urgente del Consiglio di Sicurezza, né i diplomatici occidentali hanno mostrato indignati al mondo le immagini di donne e bambini massacrati dalle bombe degli Stati Uniti e dei loro alleati, nonostante le prove delle responsabilità siano in questo caso decisamente più consistenti di quelle contro la Siria.

Forse ancor più delle circostanze sul campo, praticamente impossibili da verificare in questa fase, è comunque un’analisi delle ragioni che avrebbero potuto motivare un eventuale attacco con armi chimiche da parte del regime di Assad a risultare utile per fare chiarezza sui fatti di martedì nella provincia di Idlib.

Per quanto alcuni analisti citati dai media ufficiali abbiano provato a dare giustificazioni contorte delle motivazioni di Damasco, in nessun modo il regime avrebbe potuto trarre vantaggio da un’incursione in un’area controllata dai “ribelli” utilizzando il sarin o altre sostanze chimiche, oltretutto prendendo di mira la popolazione civile.

Un governo, come quello di Assad, che ha resistito per oltre sei anni a un’offensiva sostenuta dalle principali potenze regionali e internazionali, a costo della devastazione del paese e di centinaia di migliaia morti, solo in un gesto del tutto irrazionale, per non dire suicida, avrebbe potuto pensare che il ricorso ad armi chimiche contro i civili non si sarebbe risolto in nuove accuse, pressioni e minacce di guerra.

Inoltre, Assad avrebbe ordinato un’operazione di questo genere proprio quando negli Stati Uniti si è insediata una nuova amministrazione apparentemente meno ostile della precedente e pochi giorni dopo che alcuni esponenti di quest’ultima avevano mostrato aperture circa la sua permanenza al potere in Siria.

Al contrario, sono proprio le formazioni dell’opposizione armata a raccogliere i benefici di un attacco con armi chimiche attribuito al regime, tanto più in uno scenario segnato da mesi di pesanti rovesci sul fronte militare.

Come dimostrano anche in questo caso i precedenti sia in Siria sia in Iraq, il tempismo di quanto accaduto non è casuale. Oltre che all’indomani delle già citate dichiarazioni del governo USA sul riconoscimento della posizione di Assad, l’episodio di martedì è arrivato in contemporanea con l’apertura a Bruxelles di una conferenza internazionale sulla Siria, nel quale si è discusso di una possibile “transizione” politica e di una ricostruzione che, tuttavia, dopo i fatti di questi giorni sembra appartenere a un futuro sempre più lontano.

di Michele Paris

La vigilia del primo faccia a faccia tra il presidente americano, Donald Trump, e quello cinese, Xi Jinping, è stata segnata dal lancio, da parte della Corea del Nord, di un missile balistico nel Mare del Giappone, il più recente di una serie che nelle ultime settimane ha accompagnato una pericolosa escalation di minacce americane nei confronti del regime stalinista di Pyongyang.

La stampa sudcoreana ha dato notizia del lancio nella prima mattinata di mercoledì. Attorno alle 6.40 ora locale, dalla base nordcoreana di Sinpo è partito quello che i militari americani hanno identificato come un missile a medio raggio KN-15, affondato in mare 11 minuti più tardi dopo avere percorso circa 60 chilometri.

Visto il quasi completo isolamento internazionale in cui continua a trovarsi la Corea del Nord, i test missilistici sono solitamente il metodo preferito del regime di Kim Jong-un per comunicare con l’esterno, in particolare con i propri nemici.

Come sempre, inoltre, il lancio di ordigni fa aumentare pressioni e provocazioni che soprattutto gli Stati Uniti mettono in atto nei confronti della Corea del Nord. Quest’ultimo paese, a sua volta, insiste nel mantenere un atteggiamento di sfida, alimentando una spirale di minacce e ritorsioni che rischia seriamente di far riesplodere la guerra nella penisola di Corea.

Se l’ultimo episodio della vicenda nordcoreana è tutt’altro che inedito, esso si inserisce in un clima particolarmente teso, con la nuova amministrazione Trump impegnata a mandare segnali espliciti circa una possibile soluzione militare a tutto campo per risolvere definitivamente il problema rappresentato dal regime.

A dare l’idea della situazione è stata la risposta ufficiale del dipartimento di Stato USA al lancio di mercoledì. Il segretario Rex Tillerson non ha cioè nemmeno commentato l’iniziativa di Kim, ma ha semplicemente riconosciuto il lancio di un missile balistico per poi sottolineare in maniera concisa come “gli Stati Uniti abbiano parlato abbastanza della Corea del Nord” e non vi siano “ulteriori commenti” da fare.

Questa sorta di silenzio su Pyongyang da parte di Washington sembra prefigurare l’esistenza di avanzati preparativi per un’azione militare distruttiva. Una sensazione, quest’ultima, suffragata dalle dichiarazioni rilasciate pubblicamente nei giorni scorsi dal presidente Trump, da membri del suo gabinetto e da alti ufficiali militari.

Il presidente americano, in un’intervista al Financial Times, aveva invitato ancora una volta la Cina a collaborare per fermare il programma nucleare di Pyongyang, ma, se ciò non dovesse avvenire, Trump aveva assicurato che gli Stati Uniti si faranno carico da soli della risoluzione del problema nordcoreano.

Trump era stato solo parzialmente contraddetto poco più tardi dal numero uno del Comando Strategico americano, generale John Hyten, responsabile tra l’altro dell’arsenale nucleare USA. Hyten aveva spiegato come Pechino sia essenziale nell’affrontare la sfida della Corea del Nord, lasciando intendere quindi che qualsiasi soluzione unilaterale rischierebbe di trascinare la Cina in un conflitto armato in Asia nord-orientale. Lo stesso generale aveva comunque aggiunto che il comando da lui guidato avrebbe presentato al presidente i piani per una possibile opzione militare in relazione alla Corea del Nord.

L’opzione militare, assieme a nuove sanzioni e cyber-attacchi clandestini, è stata citata apertamente martedì anche da un membro dello staff della Casa Bianca, dal momento che “il tempo è ormai scaduto” e la situazione nella penisola è di “urgente interesse” per l’amministrazione Trump.

Anche il segretario di Stato Tillerson, nel corso della sua trasferta in Estremo Oriente a metà marzo, aveva affermato che la politica della “pazienza strategica” aveva fatto il proprio corso e che, nei confronti della Corea del Nord, sul tavolo vi era anche l’ipotesi di un attacco militare.

Trump e il suo entourage insistono sul fallimento dei precedenti governi americani nel risolvere la crisi coreana attraverso metodi “pacifici” o con la collaborazione cinese. In realtà, però, nel recente passato le amministrazioni americane hanno sempre boicottato i negoziati con Pyongyang, preferendo alimentare lo scontro per i propri interessi strategici.

Malgrado le poche settimane trascorse dall’insediamento, anche la nuova amministrazione non ha ritenuto opportuno considerare l’ipotesi di aprire un qualche dialogo – diretto o indiretto – con Pyongyang. Anzi, quando qualche settimana fa Pechino aveva proposto il ritorno al tavolo delle trattative, chiedendo agli Stati Uniti di interrompere le massicce esercitazioni militari in corso con le forze armate sudcoreane in cambio del congelamento del programma nucleare del regime di Kim, Washington ha opposto un secco rifiuto.

Ex esponenti dell’apparato militare americano hanno anch’essi confermato in questi giorni come l’amministrazione Trump stia seriamente considerando un’operazione militare contro la Corea del Nord. Uno di questi è l’ultimo segretario alla Difesa di Obama, Ashton Carter, che nel fine settimana si è detto pessimista sulla possibilità di risolvere diplomaticamente la crisi nordcoreana con la collaborazione della Cina.

Carter, considerato uno dei più convinti “falchi” della precedente amministrazione Democratica, ha parlato di un possibile attacco “preventivo” contro le installazioni militari nordcoreane, in seguito al quale, però, Pyongyang risponderebbe con un’invasione o un contrattacco nei confronti della Corea del Sud.

A questo punto lo scenario ipotizzato dal numero uno del Pentagono diventa catastrofico e dimostra la totale assenza di scrupoli degli ambienti di potere americani per la vita di milioni di persone. Carter si è mostrato “ottimista” sull’esito dell’eventuale conflitto, ma ha avvertito che la guerra contro il regime di Kim sarebbe di un’intensità e di una violenza tali da essere paragonabile a quella del 1950-1953, al termine della quale, secondo alcune stime, si contarono un totale di circa 5 milioni tra morti, feriti e dispersi.

La stampa occidentale continua a far notare come la Corea del Nord non abbia ancora le capacità tecniche per equipaggiare un missile a lungo raggio con una testata nucleare. Ciò non rappresenta però uno stimolo a percorrere al più presto la strada della diplomazia, ma sembra essere piuttosto un motivo per accelerare un attacco militare prima che sia troppo tardi e la reazione di Kim risulti efficace.

L’ex direttore della CIA, Michael Hayden, ha ad esempio avvertito in una recente intervista alla CNN che, “prima della fine del mandato di Trump, la Corea del Nord sarà probabilmente in grado di raggiungere [la città sulla costa occidentale americana di] Seattle con un’arma nucleare… montata su un missile balistico intercontinentale”.

I venti di guerra in Asia nord-orientale continuano a essere alimentati da un dibattito sui media e all’interno della classe politica americana che omette puntualmente di ricordare le più che probabili conseguenze di un attacco contro la Corea del Nord. Una guerra provocherebbe non solo un numero enorme di vittime nella penisola di Corea, ma rischierebbe di allargarsi rapidamente, coinvolgendo la Cina e, forse, la stessa Russia o il Giappone, mentre estremamente probabile sarebbe il ricorso ad armi nucleari.

Secondo alcuni osservatori, l’escalation di minacce del governo americano contro il regime di Kim rientrerebbe in una strategia che non prevede tanto il ricorso immediato alla forza ma che serve più che altro ad aumentare le pressioni su Pechino, sia per richiamare all’ordine la Corea del Nord sia, ancor più, per ottenere concessioni militari, commerciali e strategiche dalla stessa Cina.

Come già ricordato, la nuova crisi in Asia orientale è esplosa pochi giorni prima dell’arrivo negli USA del presidente cinese Xi per un vertice con Trump che si annuncia estremamente teso e sul quale peserà l’ombra della situazione in Corea. Se anche così fosse, tuttavia, l’aggressività della nuova amministrazione Repubblicana di Washington non può che far aumentare il rischio di un conflitto con la Corea del Nord o con la Cina, nel breve o nel medio periodo.

In ogni caso, l’ipotesi di un attacco militare ordinato da Trump contro Pyongyang non può essere scartata, al di là delle conseguenze che ne deriverebbero. A spingere verso questa soluzione ci sono vari fattori – dalla popolarità in picchiata del presidente al conflitto interno alla classe dirigente americana sulla Russia, dalle pressioni dell’apparato militare alla necessità di far fronte alla crescente influenza cinese – tutti derivanti invariabilmente dal rapido e inevitabile deterioramento della posizione internazionale degli Stati Uniti.

di Mario Lombardo

Il bilancio dell’attacco terroristico nella metropolitana di San Pietroburgo è stato aggiornato nella giornata di martedì a 14 morti, mentre le autorità di sicurezza russe hanno fatto sapere di avere identificato l’autore della strage in un cittadino russo di origine kirghisa.

Nonostante non siano giunte finora rivendicazioni ufficiali, come per gli episodi che hanno sconvolto varie città europee in questi ultimi anni l’origine dell’attentato è molto probabilmente da collegare al fondamentalismo islamista e alla guerra vera o presunta condotta contro questa minaccia dalle potenze internazionali in Medio Oriente e in Asia centrale.

Praticamente tutti i giornali occidentali e non solo in questi giorni hanno ricordato il doppio fronte sul quale Mosca combatte il jihadismo da un paio di decenni, quello caucasico e, più recentemente, quello siriano, a cui vanno aggiunti i primi segnali di un possibile allargamento dell’impegno alla Libia.

Nel quadro della campagna anti-russa che sta infuriando in Occidente, i media ufficiali hanno nascosto a malapena una certa soddisfazione nel descrivere gli effetti collaterali dello sforzo russo contro il terrorismo islamista. In molti hanno anche insistito sui metodi brutali avallati da Putin come motivo della vendetta jihadista, tralasciando di ricordare ad esempio le recenti incursioni aeree americane contro l’ISIS a Mosul, responsabili della morte di centinaia di civili innocenti.

Soprattutto, la Russia pagherebbe però la decisione del suo governo di schierarsi dalla parte “sbagliata” nella guerra in Siria, a sostegno cioè del regime di Assad e a fianco di Iran e Hezbollah. Com’è quasi universalmente noto, l’obiettivo dell’impegno bellico russo in Siria, da ritenersi legittimo dal punto di vista del diritto internazionale, al contrario di quello di altri paesi come Stati Uniti e Turchia, è la galassia jihadista dell’opposizione sunnita, armata e finanziata precisamente da Washington e dai suoi alleati in Medio Oriente.

Se le città russe subiscono uguale o peggiore sorte di quelle occidentali a causa della fuoriuscita del fenomeno fondamentalista, gli attentati di San Pietroburgo non possono dunque finire nello stesso calderone di quelli di Parigi, Bruxelles, Berlino o Londra.

Infatti, gli attentati in Occidente, così come in Turchia, sono la diretta conseguenza di avventure belliche intrecciate in maniera inestricabile con politiche e scelte deliberate che, direttamente o indirettamente, utilizzano proprio il presunto nemico del fondamentalismo islamista come arma al servizio degli interessi dei governi coinvolti.

Per quanto riguarda la Russia, al contrario, pur essendo fuori discussione la brutalità dei metodi e le motivazioni legate ai propri interessi strategici, è evidente che le azioni intraprese nel Caucaso e in Medio Oriente sono di natura fondamentalmente difensiva.

Senza giungere a stabilire un legame diretto nell’organizzazione degli attentati tra la miriade di gruppi integralisti attivi in Medio Oriente e altrove e gli ambienti dei servizi segreti delle monarchie sunnite del Golfo Persico, della Turchia o degli stessi Stati Uniti, è altrettanto chiaro che stragi come quella di lunedì a San Pietroburgo intendono mandare un messaggio a Mosca il cui mittente potrebbe essere ugualmente lo Stato Islamico, al-Qaeda o i governi dei paesi appena elencati.

In altre parole, le iniziative russe in Medio Oriente disturbano allo stesso modo Washington, Riyadh o il cosiddetto “califfato”. L’attentato nella seconda città della Russia è avvenuto d’altra parte in concomitanza con la chiusura dell’ennesimo round di negoziati sulla Siria, alla guida dei quali Mosca ha soppiantato da tempo gli Stati Uniti.

Inoltre, la presenza di Putin nella giornata di lunedì a San Pietroburgo, dove ha incontrato il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, conferma ancora più chiaramente l’ipotesi del messaggio diretto ai vertici del governo russo. Tanto più che nei giorni precedenti, lo stesso presidente russo aveva incontrato a Mosca il suo omologo iraniano, Hassan Rouhani, in un vertice che era servito a sottolineare i sensibili progressi nel consolidamento di una partnership strategica con la Repubblica Islamica.

Proprio l’asse Mosca-Teheran risulta essere un motivo di preoccupazione per Washington, Riyadh e Tel Aviv, il cui tentativo di isolare l’Iran è da collegare in buona parte alla partecipazione di questo paese nel conflitto siriano a fianco della Russia contro l’opposizione islamista armata.

A questo proposito, è difficile non ricordare la minaccia nemmeno troppo velata rivolta alla Russia lo scorso mese di settembre dall’allora portavoce del dipartimento di Stato americano, John Kirby. Se Mosca non si fosse adoperata per mettere fine alla guerra in Siria, ovviamente secondo i termini dettati da Washington, quest’ultimo aveva avvertito che gli “estremisti” avrebbero allargato il proprio raggio d’azione, prendendo di mira gli “interessi russi” e, “forse, anche le città russe”.

A riprova dell’attitudine occidentale nei confronti della Russia e della lotta al terrorismo, è singolare che i governi europei e quello americano non stiano parlando, dopo l’attentato di San Pietroburgo, della necessità di un maggiore “coordinamento” e “scambio di informazioni” con Mosca per prevenire e combattere una minaccia che dovrebbe essere comune. Appelli alla cooperazione tra i vari governi dei paesi colpiti dal terrorismo sono invece puntualmente lanciati dai leader occidentali quando i fatti di sangue avvengono entro i propri confini.

La stampa filo-russa ha ricordato in questi giorni come il governo di Mosca avesse nel recente passato sollecitato soprattutto gli Stati Uniti a condividere le informazioni di intelligence sul movimento jihadista, ma, come ha ad esempio spiegato al network RT l’ex ambasciatore britannico in Siria, Peter Ford, “il Pentagono aveva respinto questa proposta”.

Che la lotta al terrorismo appaia diversa agli occhi dei leader occidentali se a essere coinvolto è un rivale strategico, come appunto la Russia, è evidente infine dalle reazioni anche simboliche alla strage di San Pietroburgo.

Il cordoglio espresso ufficialmente dai governi in Occidente non è andato infatti molto al di là di dichiarazioni pro-forma rivolte ai familiari delle vittime, alla popolazione o ai leader russi. Manifestazioni di solidarietà decisamente più appariscenti sono state in pratica inesistenti, a differenza di quanto accaduto dopo gli attentati dei mesi scorsi nelle città dell’Europa occidentale.

Sui social media e sulla stampa “alternativa” si è discusso molto ad esempio della mancata illuminazione con i colori della bandiera russa di edifici simbolo come la Torre Eiffel o la Porta di Brandeburgo. Solo in seguito alle pressioni popolari, il sindaco di Parigi ha deciso che martedì notte le luci che illuminano la Torre Eiffel rimarranno spente come segno di solidarietà con San Pietroburgo.

Questa partecipazione al dolore di popolazioni di altri paesi colpiti dal terrorismo era diventata una consuetudine in Europa dopo gli attacchi più recenti, ma, evidentemente, la sensibilità dei governi occidentali risulta meno sollecitata se a essere colpiti sono obiettivi in territorio russo.

di Michele Paris

Appena pochi giorni dopo l’attivazione ufficiale della procedura che porterà il Regno Unito fuori dall’Unione Europea, un acceso scontro diplomatico attorno allo status di Gibilterra ha spinto in superficie le tensioni crescenti tra i governi del vecchio continente che caratterizzeranno con ogni probabilità le trattative tra Londra e Bruxelles nei prossimi due anni.

La disputa che sta coinvolgendo il governo britannico, quello spagnolo e i vertici europei è scaturita dal contenuto di una bozza di documento UE sulla strategia da tenere in relazione alla “Brexit”. In esso si afferma che i termini di qualsiasi accordo con la Gran Bretagna verranno applicati al territorio di Gibilterra solo con il consenso della Spagna. Madrid avrebbe fatto cioè pressioni su Bruxelles per ottenere una sorta di veto sulla questione, provocando immediatamente le proteste di Londra.

Una parte della classe dirigente britannica non ha esitato a evocare la possibilità anche di un intervento militare per evitare quello che in molti hanno considerato un tentativo di annessione più o meno mascherata da parte spagnola.

Il possesso britannico del territorio di Gibilterra venne ratificato dal trattato di Utrecht del 1713 che precedette la fine della Guerra di Successione Spagnola, dopo che una forza anglo-olandese lo aveva occupato già nel 1704. Madrid ha sempre contestato lo status quo, nonostante in anni recenti gli abitanti di Gibilterra avessero respinto nettamente in due referendum (1967 e 2002) il ritorno alla sovranità spagnola.

Il ministro della Difesa britannico, Michael Fallon, nel fine settimana ha assicurato che il suo paese è pronto a fare qualsiasi cosa per proteggere Gibilterra, poiché i suoi abitanti “hanno espresso chiaramente la volontà di non essere governati dalla Spagna”.

Le parole più pesanti sono state però pronunciate poco più tardi in un’intervista televisiva dall’ex leader Conservatore, Lord Michael Howard. Quest’ultimo si è detto certo che il primo ministro, Theresa May, per salvaguardare la sovranità britannica su Gibilterra non avrebbe esitazioni nel mostrare la stessa risolutezza che Margaret Thatcher ebbe per “difendere la libertà di un altro piccolo gruppo di cittadini britannici da un altro paese di lingua spagnola”. Il riferimento è andato evidentemente alla guerra delle Falkland del 1982 contro l’Argentina, un conflitto che provocò oltre 900 morti, tra cui più di 250 soldati britannici.

Le parole di Lord Howard sono state condannate in maniera inequivocabile da un numero relativamente ristretto di esponenti politici a Londra. Tra i Conservatori, in molti, pur esprimendo cautela per quanto riguarda possibili conseguenze militari con la Spagna, hanno ribadito sostanzialmente l’intenzione del governo di fare di tutto per conservare il controllo su un’enclave di meno di sei km quadrati dove vivono circa 30 mila abitanti.

La premier May ha escluso che la sovranità di Londra su Gibilterra sia sul tavolo nei negoziati con l’UE, mentre ha garantito tutto l’impegno della Gran Bretagna per il proprio Territorio d’Oltremare. In una conferenza stampa nella mattinata di lunedì, inoltre, Downing Street ha escluso l’ipotesi di inviare una spedizione militare a Gibilterra, rifiutandosi però ancora una volta di condannare le dichiarazioni inquietanti di Lord Howard.

Anche il ministro degli Esteri di Londra, Boris Johnson, si è espresso con toni simili a quelli del primo ministro dopo che venerdì aveva incontrato il capo del governo locale di Gibilterra, Fabian Picardo. Quest’ultimo, da parte sua, non ha fatto molto per allentare le tensioni, ma si è detto certo che Gibilterra non sarà “merce di scambio” nei negoziati sulla “Brexit”. Picardo ha poi accusato il governo spagnolo di volere discriminare il territorio da lui governato in maniera “non necessaria, ingiusta e inaccettabile”.

Dall’opposizione in Gran Bretagna sono giunte invece critiche alle minacce di guerra contro la Spagna provenienti dagli ambienti Conservatori, malgrado la questione della sovranità di Londra abbia trovato ampio spazio anche tra Laburisti e Liberal Democratici. Se il leader Laburista, Jeremy Corbyn, non ha finora rilasciato commenti sulla vicenda, molti giornali d’oltremanica hanno dato spazio alle parole dell’ex ministro degli Esteri, Jack Straw, che ha definito l’idea di uno scontro armato per Gibilterra “assurda” e “in odore di nazionalismo da 19esimo secolo”.

Come dimostra anche il curriculum di Straw nel governo Blair e i precedenti dello stesso Partito Laburista, è però evidente che le prese di posizione più caute su Gibilterra non rappresentano tanto una ferma opposizione alla guerra, ma riflettono piuttosto le diverse posizioni sulla “Brexit” che stanno lacerando la classe dirigente britannica.

Soprattutto, le dinamiche innescate dal referendum sull’uscita dall’UE dello scorso mese di giugno hanno aggravato a dismisura le rivalità e i conflitti nel continente, già riemersi dopo la crisi finanziaria globale del 2008-2009 e contenuti a fatica dalla fragile impalcatura europea.

Un semplice assaggio del clima ostile che accompagnerà i negoziati sulla “Brexit” si è avuto settimana scorsa in seguito all’invio a Bruxelles, da parte del governo di Londra, della comunicazione ufficiale dell’attivazione delle procedure per l’uscita dall’Unione.

Il documento del governo May è stato subito bocciato dalla cancelliera tedesca Merkel nella parte in cui Londra chiede che le discussioni sulla “Brexit” procedano di pari passo con le trattative su un possibile futuro accordo commerciale tra Regno Unito e Unione Europea. Altri leader europei hanno poi sollevato la questione del rimborso da circa 60 miliardi di sterline che Londra dovrebbe versare nelle casse UE in seguito alla “Brexit”.

In questo scenario di rapido deterioramento dei rapporti continentali si inserisce dunque anche la vicenda di Gibilterra, tanto più che il territorio a poche miglia dalle coste africane risulta fondamentale per Londra da un punto di vista strategico, visto che qui si trova un’importante base militare britannica, e finanziario, essendo di fatto un paradiso fiscale.

Al di là delle motivazioni del governo spagnolo nello spingere la questione del veto su Gibilterra e la “Brexit”, anche la sola evocazione dello spettro di un conflitto militare tra due paesi dell’Europa occidentale, oltretutto entrambi membri della NATO, testimonia dell’approssimarsi del naufragio del progetto unitario europeo, le cui conseguenze destabilizzanti per le relazioni nel vecchio continente saranno sempre più evidenti nel corso delle trattative appena iniziate tra Londra e Bruxelles.

di Carlo Musilli

Con l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, la premier britannica Theresa May non ha solo avviato l’uscita dell’UK dall’Ue. Ha anche aperto due contese interne che minacciano l’unità della stessa Gran Bretagna e che Londra dovrà gestire in contemporanea alle trattative con Bruxelles.

Il primo fronte è quello scozzese. Il 28 marzo, 24 ore prima che May avviasse la procedura per la Brexit, il Parlamento di Edimburgo ha approvato la richiesta del proprio governo di indire un nuovo referendum sulla secessione dal Regno Unito. 

Nel settembre 2014 la prima consultazione sull’indipendenza da Londra si concluse con la vittoria degli unionisti (55 a 45 per cento). Ma oggi una riedizione del voto avrebbe probabilmente esito opposto, perché una delle ragioni che due anni e mezzo fa indusse la Scozia a non uscire dall’UK  fu proprio la volontà di rimanere nell’Ue. Un proposito confermato al referendum sulla Brexit dello scorso 23 giugno, che a livello nazionale si concluse con un’affermazione di misura del “Leave” (52 a 48 per cento), ma fra i soli scozzesi vide una netta affermazione del “Remain” (62 a 38 per cento).

La nuova consultazione scozzese potrebbe essere usata da Bruxelles come strumento di pressione su Londra nelle trattative per la Brexit. May lo sa, per questo ha già lasciato intendere che il voto non si potrà tenere prima della conclusione del negoziato con l’Europa. In teoria, il governo britannico avrebbe anche il potere di proibire la consultazione. In pratica, se lo facesse, sconfesserebbe il principio della devolution che negli ultimi decenni ha contribuito a tenere insieme il paese.

Ma anche se riuscisse finalmente a votare in favore della secessione, per la Scozia i problemi non sarebbero finiti. L’uscita dal Regno Unito non comporterebbe automaticamente la permanenza nell’Ue, perciò il nuovo Stato dovrebbe avviare una procedura di adesione ex novo. Purtroppo per gli scozzesi, questo significa che sarebbe necessario il consenso tutti i 27 Stati membri dell’Unione, alcuni dei quali voterebbero certamente contro pur di non incoraggiare le spinte indipendentiste all’interno dei propri confini. Per la Spagna, ad esempio, sarebbe un suicidio consegnare un argomento di propaganda così potente nelle mani dei secessionisti catalani e baschi.

Molto diversa è invece la situazione sull’altro fronte interno aperto dalla Brexit. All’Irlanda del Nord, May ha assicurato che non intende revocare il diritto di spostarsi liberamente tra Sud e Nord dell’isola e che “non ci sarà un ritorno ai confini del passato”. Il problema è che la stessa Premier ha detto più volte di volere una “Hard Brexit”, opzione che prevede, fra l’altro, il controllo dell’immigrazione dall’Ue.

Ora, se la frontiera fra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord rimanesse aperta, qualsiasi cittadino europeo potrebbe prendere un volo per Dublino e da lì un autobus per Belfast, ritrovandosi senza problemi sul suolo di Sua Maestà. Perciò, se la Gran Bretagna vuole davvero controllare i flussi migratori in entrata, non ha altra scelta se non chiudere il confine irlandese come al tempo della guerra civile.

Una decisione che avrebbe conseguenze pesantissime. Secondo i dati del governo irlandese, più di 10 mila persone vivono sul lato opposto della frontiera, che ogni mese viene attraversata da quasi due milioni di automobili. Il ripristino della dogana sarebbe un disastro per l’economia dell’isola, che si ritroverebbe in parte all’interno del mercato unico europeo e in parte fuori. Senza contare che la chiusura del confine potrebbe riaccendere le ostilità fra gli irlandesi fedeli al Regno e quelli che vorrebbero unirsi alla Repubblica.

Ma non basta: proprio in questi giorni l’Irlanda del Nord sta attraversando la crisi politica più grave della sua storia recente. Dopo le elezioni del 2 marzo, che hanno portato i repubblicani dello Sinn Fein a un solo seggio dagli unionisti del Dup, i due partiti non sono riusciti a trovare un accordo per la costituzione di un nuovo governo locale d’unità nazionale.

La ragione dello scontro è la stessa che ha fatto cadere il precedente governo: lo Sinn Fein non vuole che a ricoprire il ruolo di premier (destinato al partito che ha ottenuto più voti) sia la numero uno del Dup, Arlene Foster, coinvolta in uno scandalo di malversazione sulle energie rinnovabili. Questa era la posizione dell’ex leader repubblicano, Martin McGuinness, venuto a mancare pochi giorni fa. E la nuova leader dello Sinn Fein, Michelle O’Neill, non ha intenzione di cambiare linea.

Il caso politico però ha tutta l’aria di essere un pretesto. I due partiti hanno opinioni lontanissime sul programma di governo da adottare e soprattutto sulla gestione della Brexit. In scia agli scozzesi, anche i repubblicani nordirlandesi vorrebbero organizzare un referendum per chiedere agli elettori di abbandonare Londra e abbracciare Dublino. Come gli scozzesi, anche i nordirlandesi 9 mesi fa votarono per rimanere nell’Ue (56 a 44 per cento). Ma al contrario degli scozzesi, i nordirlandesi avrebbero davvero l’occasione di riuscirci, perché la Repubblica d’Irlanda fa già parte dell’Unione (e dell’Eurozona). Se cambiassero bandiera, rimarrebbero automaticamente nella famiglia europea. A quel punto la famiglia sarebbe al completo: mamma Brexit con le sue due figlie, Scoxit e Irexit.


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