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di Mario Lombardo
La vista di questa settimana in Russia del presidente iraniano, Hassan Rouhani, ha rappresentato un significativo passo avanti nel consolidamento di una partnership che sembra dover resistere anche alle scosse che attraversano gli scenari mediorientali e al possibile rimescolamento strategico prospettato dall’amministrazione Trump. Il primo viaggio a Mosca di Rouhani ha anche rafforzato l’immagine di Putin e del suo governo, soprattutto in relazione al Medio Oriente.
Il faccia a faccia tra i due presidenti ha seguito le visite del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, in quella che è sembrata una sorta di sfilata per conferire e ottenere concessioni o garanzie dal leader della potenza con la maggiore influenza nella regione o, quanto meno, sulla crisi più urgente in atto, vale a dire quella siriana.
I tre vertici che hanno visto protagonista Putin nel mese di marzo sono dunque avvenuti con altrettanti leader di paesi che hanno punti di vista divergenti in Siria e che proprio con Mosca devono fare i conti per la promozione dei rispettivi interessi.
Il rapporto con l’Iran sembra ad ogni modo quello più importante per la Russia in questo momento, se non altro per il fatto che Mosca e Teheran combattono sullo stesso fronte in Siria a salvaguardia di interessi strategici cruciali per entrambi i governi.
Svariati analisti hanno fatto notare come Rouhani fosse alla ricerca di rassicurazioni nella sua trasferta a Mosca. I buoni rapporti della Russia con Israele e la recente incursione dei jet di quest’ultimo paese in Siria per colpire Hezbollah, anche se condannata più o meno esplicitamente dal Cremlino, devono avere infatti messo in allarme i leader della Repubblica Islamica.
Su un altro fronte, l’Iran vede con una certa apprensione anche le voci di un possibile accordo tra Mosca e Washington che preveda la relativa normalizzazione delle relazioni bilaterali tra le due potenze nucleari, come ipotizzato da Trump, in cambio di un raffreddamento dell’attitudine russa nei confronti di Teheran.
Di una simile prospettiva non vi è tuttavia alcun segnale, visto anche il sempre più probabile ripiegamento del presidente americano sulla spinta della campagna anti-russa in atto a Washington. Quasi a sottolineare la fermezza di Mosca sulla questione della partnership con l’Iran, inoltre, il documento finale seguito al vertice Putin-Rouhani ha ribadito la contrarietà di entrambi all’applicazione di “sanzioni unilaterali” contro qualsiasi paese, in un chiaro riferimento alle nuove misure punitive rivolte a Teheran allo studio al Congresso di Washington.
La scarsissima lungimiranza della politica estera americana, soprattutto quella dettata dalla galassia “neo-con”, è in ogni caso la prima ragione del progressivo irrobustimento delle relazioni tra Russia e Iran. Di ciò si è avuta ulteriore conferma proprio nei giorni scorsi, quando il numero uno del Comando Centrale americano, generale Joseph Votel, responsabile delle operazioni militari in Medio Oriente, ha definito Teheran come “la più grande minaccia a lungo termine della stabilità” della regione.
Senza insistere sulla colossale ipocrisia del rappresentante di una potenza che ha seminato e continua a seminare distruzione nel mondo arabo, le dichiarazioni di Votel hanno prospettato apertamente il possibile ricorso a “mezzi militari” per neutralizzare la presunta minaccia iraniana. Nei pensieri del generale americano vi era con ogni probabilità anche la collaborazione sul fronte militare tra Mosca e Teheran, sottolineata dallo sblocco della consegna del sistema di difesa anti-aereo russo nella primavera del 2016 in conseguenza della rimozione delle sanzioni internazionali dopo l’accordo sul nucleare iraniano.L’intenzione di Rouhani è comunque quella di ottenere dalla Russia un qualche impegno a impedire il consolidarsi di un’alleanza anti-iraniana tra i paesi arabi, di cui si osservano da tempo i segnali nella guerra dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi in Yemen contro i ribelli Houthi sciiti e nella costante campagna mediatica che vorrebbe la Repubblica Islamica impegnata ad allargare illegittimamente la propria influenza nel mondo arabo.
Visto il ricorso, soprattutto da parte delle monarchie del Golfo Persico, al fondamentalismo sunnita per la proiezione dei propri interessi, è evidente che Russia e Iran sono interamente sulla stessa lunghezza d’onda nella battaglia contro questa minaccia.
In prospettiva futura, tuttavia, sono in molti a rilevare come Mosca, per varie ragioni, non abbia alcun interesse ad alienarsi i regimi del Golfo né tantomeno a schierarsi da una parte della barricata nel conflitto tra sunniti e sciiti. Un impegno in questo senso destabilizzerebbe ancor più un Medio Oriente nel quale la Russia intende piuttosto agire come forza stabilizzatrice in grado di esercitare la propria influenza e difendere i propri interessi.
Questa realtà sembra essere forse il limite attuale nell’evoluzione dei rapporti tra Russia e Iran, malgrado i progressi innegabili su numerosi fronti. Allo stesso tempo, le tendenze che si registrano in Medio Oriente, dalla promozione del settarismo sunnita del regime saudita alla rinnovata aggressività statunitense, appaiono propizie all’ulteriore rafforzamento dei legami nel prossimo futuro.
Questa convergenza d’interessi è d’altra parte supportata da un’intensificazione delle relazioni in ambito commerciale, energetico, militare e degli investimenti, confermata dal numero di importanti accordi bilaterali e “memorandum d’intesa” siglati durante la visita di Rouhani a Mosca.
Il Cremlino ha ad esempio approvato una linea di credito da oltre due miliardi di dollari per la costruzione di infrastrutture in Iran che coinvolgeranno compagnie russe. Inoltre, in programma vi è l’aggiunta di due reattori per una centrale nucleare iraniana già esistente e la realizzazione di altri due nuove impianti, sempre con tecnologia russa.Su un piano più ampio, Putin e Rouhani hanno discusso poi di una possibile intesa su un’area di libero scambio tra l’Iran e l’Unione Economica Euroasiatica (EEU), promossa da Mosca e che comprende anche Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan.
Una spinta importante alla partnership russo-iraniana potrebbe arrivare infine dalla decisione, prevista per il prossimo mese di giugno e di cui i due leader avranno discusso questa settimana a Mosca, di accogliere la Repubblica Islamica come membro a tutti gli effetti dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO).
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di Fabrizio Casari
Il premier britannico Theresa May ha dunque firmato la lettera con la quale Londra comunica all’Europa la sua uscita dall’Unione Europea. Seppur con un discorso dai toni visibilmente propagandistici, la Premier britannica non ha voluto comunque disegnare un profilo isolazionista sul modello di Trump; anzi, ha ribadito che la Gran Bretagna vuole decidere in solitudine il suo destino proprio perché prefigura maggiore apertura al mondo e un ruolo più importante nel consesso internazionale quale condizione per una maggiore prosperità interna.
Difficile biasimare i passaggi nei quali la May critica l’eurocrazia e la bulimia legislativa europea, ma comunque, sebbene il discorso ha utilizzato richiami patriottici obiettivamente fuori luogo (Londra non era sotto occupazione europea) la Premier ha voluto in qualche misura attutire il livello dello scontro con Bruxelles che nei mesi passati aveva conosciuto momenti più aspri.
La retorica della May nasconde però il timore per le ripercussioni negative della scelta, dal momento che le trattative per stabilire termini e condizioni degli accordi commerciali che interverranno tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna si annuncia lunga (almeno un paio d’anni, si presume) e niente affatto semplice, con un rischio di ricadute sulla stabilità economico-finanziaria inglese non trascurabili.
Non si tratta solo dell’abbandono di agenzie europee importanti, la principale quella sui farmaci (che il governo italiano vorrebbe portare a Milano), quanto piuttosto di poter continuare ad ospitare decine di sedi di multinazionali europee che godevano di priorità procedurali e quant’altro e che, ora, vedrebbero venir meno. E' uno degli interrogativi che si aprono circa l’impatto - al momento difficile da prevedere con precisione - che l’uscita dalla Ue avrà sulla City.
D’altra parte Bruxelles non ha intenzioni di fare sconti di fronte a quello che ritiene in fondo un tradimento e, comunque, non può e non dare l’impressione di essere disposta a cedere su scambi commerciali e accordi economici, giacché questo aprirebbe la strada ad un effetto emulativo che certo non si vuole innescare. Dal canto suo Londra non potrà certo contare sul sostegno statunitense nelle trattative con Bruxelles, visto che le relazioni tra USA e UE attraversano la fase peggiore della loro storia.
La May si è detta fiduciosa e piena di speranze, ma l’ottimismo appare un modo per coprire le incognite che, anche sul piano politico interno alla GB, sono rilevanti. C’é tensione con Edimburgo, il cui Parlamento ha votato a favore dell’indizione del referendum per la secessione (parziale) dalla Gran Bretagna.
Pur con le dovute differenze con la Brexit - principalmente sotto il profilo dell’integrità territoriale del Regno Unito - per quanto la May abbia ribadito il NO di Londra al voto scozzese, non sarà semplice sostenere due punti di vista opposti circa la libertà e la sovranità di un popolo a seconda degli interessi in gioco. E il secessionismo scozzese, da sempre spina nel fianco dell’impero, amplierà simpatie e consensi ovunque e potrebbero verificarsi ripercussioni anche in Irlanda del Nord, dove il conflitto sembrerebbe potersi riaccendere. Questi fattori finirebbero per generare un problema non trascurabile di tenuta politica complessiva della Gran Bretagna.Dal canto suo Bruxelles perde relativamente con l'addio di Londra. Certo, si tratta di un indebolimento politico, ma sotto l’aspetto militare Londra non ha mai nemmeno preso in considerazione l’idea di distanziarsi dagli Stati Uniti, ovvero nell’interrompere la catena di comando di Washington sulla sua politica estera e di difesa. Per quanto attiene alla moneta, Londra ha scelto di non aderire all’Euro e, anche sotto il profilo bancario, ha voluto mantenere il ruolo della prestigiosa Banca d’Inghilterra a sostegno della Sterlina (che pure appare un po' più cagionevole dopo l'esito del referendum che ha deciso la Brexit).
Ma tuttavia la Gran Bretagna resta un paese leader a livello globale e, da ieri, l’Unione Europea non è più quella che fu. La Brexit, oltretutto, viene ufficializzata proprio in un momento delicatissimo per l’Unione Europea. Le tensioni con i paesi dell’Est che, sostenuti dall’Austria, si sfilano dagli impegni europei sui flussi migratori (ma pretendono di continuare ad avere gli aiuti economici dell’Unione) e le prossime delicatissime elezioni francesi, che nel caso di una vittoria di Marie Le Pen scriverebbero il sostanziale epitaffio sull’Unione Europea, aprono la fase più difficile e più incerta della vita dell’istituzione continentale.
Le aperture timidissime sulla flessibilità dei bilanci emerse a denti stretti dal vertice di Roma sono un pannicello caldo a fronte della crisi di credibilità ed autorevolezza di un progetto come quello della UE nato sotto i migliori auspici e condotto dalle mani più sbagliate nella direzione peggiore. Invece di rappresentare la "terza via", d’imporre un suo modello socio-economico e culturale, l’Europa è divenuta soprattutto un cartello di banche che hanno scaricato i loro fallimenti sui bilanci pubblici dei diversi stati membri.
E’ stata incapace di leggere il contesto sociopolitico continentale e di riformarsi. Non è stata in grado di decifrare ed affrontare le sfide e i rischi della globalizzazione per governarli ed indirizzarli, rivelandosi inutile nel prefigurare scenari a medio e lungo termine di governance mondiale. Invece di cercare un dialogo e una partnership con la Russia per la costruzione di un mercato unico continentale in grado di dialogare con l'Asia e la gestione delle crisi europee e mediorientali, ha preferito la rottura politica e le sanzioni economiche come Washington chiedeva.
Politicamente inconsistente e militarmente superflua, non ha saputo e voluto darsi una politica estera e di difesa comune e, di conseguenza, non è stata capace di assumere un ruolo sullo scenario internazionale, preferendo continuare a seguire pedissequamente gli Stati Uniti in ogni guerra e il turbo liberismo in politica economica, anche quando gli stessi USA hanno innestato un parziale cambio di rotta.
Il risultato finale è stato non far fatto nascere un continente politicamente all’altezza del suo peso economico, commerciale, culturale e demografico. Ha visto crescere invece una egemonia tedesca assoluta e pericolosa, quando proprio per arginare l’egemonismo ed espansionismo tedesco, tra le altre cose, l’Unione Europea era nata. Il sogno di una Europa unita, a oggi, si è rivelato un incubo per gli europei e l’inizio della Brexit potrebbe non essere altro che il primo capitolo del libro di memorie della UE.
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di Michele Paris
La caccia alle streghe in corso negli Stati Uniti sui rapporti tra il presidente Trump ed esponenti del governo russo e sulle presunte interferenze di quest’ultimo nelle elezioni americane dello scorso novembre ha registrato un ulteriore capitolo in questo inizio di settimana che sembra prefigurare il precoce arenarsi dei progetti distensivi con Mosca della nuova amministrazione Repubblicana.
Un nuovo fronte di polemiche è subito scoppiato in seguito alla notizia di un’iniziativa piuttosto insolita presa recentemente dal presidente della commissione Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti di Washington, Devin Nunes. Il deputato Repubblicano della California aveva cioè incontrato alla Casa Bianca fonti presumibilmente dell’intelligence americana che gli avevano fornito documenti attestanti l’intercettazione dello stesso Trump e di membri del suo staff da parte dell’apparato della sicurezza nazionale.
L’incontro segreto nella sede della presidenza degli Stati Uniti era avvenuto il giorno prima di un’altra visita alla Casa Bianca di Nunes. In questa seconda occasione, però, il numero uno della commissione Servizi Segreti della Camera aveva dato egli stesso notizia del suo incontro con Trump, al quale aveva appunto comunicato l’esistenza di un piano di sorveglianza nei suoi confronti.
Quest’ultima notizia faceva seguito al “tweet” del presidente del 4 marzo in cui sosteneva che Obama aveva dato ordine di mettere sotto controllo i telefoni e i dispostivi elettronici della Trump Tower a New York. In un’audizione proprio alla commissione Servizi Segreti della Camera la settimana scorsa, il direttore dell’FBI, James Comey, aveva però affermato di non avere informazioni sulla possibile sorveglianza del quartier generale di Trump.
Nunes, da parte sua, aveva informato Trump dell’esistenza di intercettazioni “casuali”, cioè le comunicazioni dell’allora presidente eletto e di membri del suo staff erano finite “accidentalmente” nella rete della NSA o dell’FBI nel corso delle normali attività di sorveglianza che riguardano cittadini stranieri.
Il caos attorno a Nunes è poi aumentato nella giornata di martedì, quando è circolata la notizia che la sua visita segreta alla Casa Bianca rientrava in un piano, appoggiato dall’amministrazione Trump, per impedire all’ex ministro della Giustizia pro tempore nominata da Obama, Sally Yates, di testimoniare contro il presidente davanti alla commissione Servizi Segreti della Camera.
La questione delle intercettazioni ai danni di Trump avrebbe cioè permesso a Nunes di rimandare l’audizione della Yates, licenziata a fine gennaio per essersi rifiutata di sostenere in tribunale il bando anti-musulmani del nuovo presidente e già protagonista dell’indagine del dipartimento di Giustizia contro l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn. Quest’ultimo era stato costretto a dimettersi poco dopo la sua nomina a causa di una serie di incontri con l’ambasciatore russo a Washington nei quali avrebbe discusso della possibile cancellazione delle sanzioni contro Mosca all’insaputa della Casa Bianca.
La questione centrale che ha ad ogni modo scatenato un polverone sullo stesso Nunes in questi giorni è legata al fatto che il deputato della California avrebbe compromesso l’imparzialità dell’indagine che la commissione da lui guidata sta conducendo sul “Russiagate”. Il suo incontro con Trump per discutere delle intercettazioni all’insaputa dei membri della commissione e, ora, il precedente blitz alla Casa Bianca hanno spinto i leader Democratici a chiedere che Nunes si chiami fuori dall’indagine o presenti le proprie dimissioni.
Nunes è visto da tempo con sospetto dai protagonisti della crociata anti-russa al Congresso di Washington, poiché viene considerato un fedelissimo di Trump, con il quale aveva tra l’altro collaborato nella transizione che lo avrebbe portato alla Casa Bianca.
L’esclusione di Nunes dall’indagine della commissione Servizi Segreti della Camera favorirebbe così le inclinazioni anti-russe di molti suoi membri, non solo Democratici. Oppure, se anche l’attuale presidente della commissione dovesse rimanere al suo posto, l’indagine della Camera risulterebbe comunque screditata dopo gli eventi delle ultime ore.
Ciò non significherebbe un passo indietro nella campagna contro Trump e Mosca, visto che altre due indagini sono tuttora in corso, una condotta dall’FBI e l’altra dalla commissione Servizi Segreti del Senato, la quale inaugurerà le proprie audizioni nella giornata di giovedì.
Al di là delle motivazioni di carattere reazionario degli oppositori di Trump, la doppia visita di Devin Nunes alla Casa Bianca indica l’esistenza di una probabile azione coordinata con la nuova amministrazione per contrastare l’offensiva di coloro che a Washington intendono ostacolare la relativa distensione con la Russia voluta dal presidente Repubblicano.Le perplessità sulla condotta di Nunes sono poi favorite dalla quasi incredibile affermazione del portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, sul fatto che lo staff del presidente non era al corrente della prima visita del deputato della California. Nunes, inoltre, si è rifiutato categoricamente di rivelare quali siano le sue fonti delle informazioni sulla sorveglianza ai danni di Trump, alimentando gli interrogativi sul conflitto in corso all’interno dei vari organi dello stato.
L’altra vicenda emersa questa settimana riguarda invece il genero di Trump, Jared Kushner, nominato consigliere presidenziale dopo l’insediamento alla Casa Bianca. Il marito della figlia primogenita di Trump, Ivanka, è finito nella disputa in corso a Washington per avere incontrato lo scorso anno alti dirigenti della banca pubblica russa VEB, sottoposta alle sanzioni americane.
Kushner ha già acconsentito a rispondere alle domande della commissione Servizi Segreti del Senato sulla questione, anche se gli stessi media americani che stanno propagandando la campagna anti-russa hanno dovuto ammettere che incontri tra esponenti del governo USA e manager stranieri sottoposti a sanzioni non sono insoliti né illegali.
Kushner, oltretutto, avrebbe discusso con il numero uno di VEB, Sergey Gorkov, non in qualità di futuro consigliere del presidente ma come proprietario dell’omonima compagnia di famiglia che opera nel settore della speculazione immobiliare.
La rivelazione è stata immediatamente sfruttata dalla stampa ufficiale per mantenere alta la pressione su Trump in relazione ai rapporti con la Russia. Tutt’al più, però, gli incontri di Kushner dimostrano l’inclinazione del clan Trump a utilizzare i pubblici uffici per promuovere i propri interessi privati, anche se questo aspetto della nuova amministrazione ha ricevuto decisamente meno attenzione dei presunti legami con il governo di Mosca.
Nonostante le prove dell’eventuale ingerenza del Cremlino nelle dinamiche elettorali e politiche americane continuino a essere di fatto inesistenti, la campagna orchestrata dalle sezioni dello stato che considerano la Russia come il principale ostacolo al dispiegamento degli interessi USA nel mondo sembra dare i primi frutti. Da qualche tempo, la retorica dell’amministrazione Trump ha assunto infatti toni difficilmente conciliabili con la promessa del presidente di ristabilire relazioni cordiali con Mosca.
Significativa è stata la dichiarazione con cui il capo ufficio stampa della Casa Bianca ha aperto lunedì il suo briefing quotidiano. Spicer ha espresso la “ferma condanna” del presidente americano degli arresti di centinaia di manifestanti anti-governativi in Russia nel fine settimana, tra cui figura Alexei Navalny, oppositore di Putin tra i più glorificati in Occidente.
Alcuni giornali americani hanno fatto notare come il presidente russo sia particolarmente sensibile alle critiche dirette contro la situazione politica interna, così da rendere difficile pensare a un gesto non studiato con attenzione dalla Casa Bianca.
Il sito web Politico, sia pure in maniera tutt’altro che disinteressata, è giunto a ipotizzare la “fine della luna di miele tra Putin e Trump”, anche se ha ricordato che la politica ufficiale della nuova amministrazione nei confronti di Mosca sarà formulata in maniera compiuta solo dopo la ratifica delle nomine ancora sospese dei diplomatici addetti agli uffici che si occupano della Russia al Pentagono e al dipartimento di Stato.
Un altro segnale del possibile ripiegamento di Trump sulle relazioni con Mosca potrebbe essere il recente invito fatto dal presidente alla commissione Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti ad aprire un’indagine anche sugli interessi della famiglia Clinton in Russia.
Questo argomento sta rimbalzando su vari giornali e siti web conservatori, come ad esempio la National Review, che ha equiparato gli affari con la Russia del clan Trump a quelli della Fondazione Clinton nello stesso paese. Anche Trump e i suoi sostenitori, insomma, sembrano essere intenzionati a dare credito alla tesi che rapporti o legami economico-finanziari con entità russe siano illegittimi e degni di una qualche indagine ufficiale.Anche da Mosca sembra trapelare peraltro una certa impazienza nei confronti degli Stati Uniti. Sabato scorso, la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha criticato duramente le sanzioni da poco adottate da Washington contro compagnie che fanno affari con la Corea del Nord, tra le quali se ne contano otto con sede in Russia.
Il ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, ha poi condannato apertamente le recenti stragi di civili causate dai bombardamenti americani a Mosul nel corso dell’offensiva per liberare la città irachena dallo Stato Islamico (ISIS).
In definitiva, il relativo ottimismo per una possibile distensione tra Mosca e Washington con l’approdo di Trump alla Casa Bianca, dopo le tensioni alimentate dall’amministrazione Obama, sta rapidamente sfumando. Se molte delle questioni in sospeso tra le due potenze nucleari restano ancora da sciogliere, la caccia alle streghe in atto a Washington sembra tuttavia avere raggiunto almeno parzialmente il proprio scopo, quello cioè di avvelenare i rapporti bilaterali, complicando i piani strategici moderatamente filo-russi della nuova amministrazione.
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di Michele Paris
A due anni esatti dall’inizio dell’aggressione militare saudita contro lo Yemen, il governo americano di Donald Trump starebbe valutando la concreta possibilità di aumentare il proprio impegno a fianco degli alleati del Golfo Persico in un conflitto che ha già ridotto al disastro il paese più povero del mondo arabo.
La stampa americana ha infatti rivelato l’esistenza di un piano allo studio del Pentagono per cancellare le restrizioni stabilite dall’amministrazione Obama all’uso della forza militare in Yemen a sostegno dello sforzo bellico dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti.
La precedente amministrazione Democratica aveva comunque avallato un’impresa criminale condotta principalmente dai propri alleati, partecipando al conflitto tramite la fornitura di armi alle forze armate saudite e degli Emirati. Allo stesso tempo, Washington ha assicurato a queste ultime informazioni di intelligence per facilitare l’individuazione di obiettivi da colpire durante incursioni aeree che interessano frequentemente edifici e strutture civili.
Ciò che intende fare ora l’amministrazione Trump è andare oltre le iniziative di Obama, assegnando maggiore libertà ai militari americani nella conduzione di un conflitto nel quale fino a pochi mesi fa il governo USA aveva cercato di limitare il proprio impegno, visto il potenziale destabilizzante per la regione e il continuo ripetersi di episodi cruenti facilmente identificabili come crimini di guerra.
Oltre a garantire il sostegno logistico e di intelligence ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi, gli Stati Uniti erano intervenuti finora in Yemen anche nel quadro delle operazioni “anti-terrorismo”, colpendo prevalentemente con i droni presunti membri dell’organizzazione fondamentalista “Al-Qaeda nella Penisola Arabica “ (AQAP).
Anche su questo fronte, peraltro, l’accelerazione imposta dall’amministrazione Trump ha già lasciato il segno, come conferma un’operazione condotta alla fine di gennaio dalle forze speciali USA che aveva provocato una trentina di morti, tra cui un numero imprecisato di donne e bambini.
Il maggiore coinvolgimento americano nella guerra in Yemen rientrerebbe nel processo di revisione della strategia USA in questo paese e che sarà ultimato solo nelle prossime settimane. La notizia di questi giorni riguarda per il momento una proposta che il segretario alla Difesa, generale James Mattis, avrebbe presentato alla Casa Bianca per dare il via libera alla partecipazione dei militari statunitensi a un’operazione guidata dagli Emirati Arabi e destinata alla conquista della città portuale di Hodeida, attualmente controllata dai ribelli sciiti Houthi.
Questa località si affaccia sul Mar Rosso ed è il principale punto d’ingresso nel paese sia degli aiuti umanitari sia delle forniture destinate agli Houthi. Hodeida è da tempo al centro delle mire degli Emirati, poiché soprattutto da qui gli Houthi metterebbero in pericolo la “libertà di navigazione” nella via d’acqua che separa la penisola arabica dal continente africano.
Già lo scorso mese di ottobre, gli Stati Uniti erano stati protagonisti di una rara operazione militare direttamente contro gli Houthi. Questi ultimi erano stati accusati di avere lanciato missili contro la nave da guerra americana “Mason”, di cui almeno uno proveniente proprio da Hodeida.Il fatto che il primo passo verso un possibile allargamento dell’impegno militare USA abbia come teatro quest’area dello Yemen testimonia dell’importanza strategica del tratto di mare che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden e quest’ultimo con l’Oceano Indiano. Da qui transita infatti una quota consistente dei traffici mondiali, in particolare quelli relativi ai prodotti petroliferi.
L’interesse delle potenze regionali e di Washington per un paese impoverito come Yemen dipende in generale proprio da questo fatto e ciò si intreccia con il ruolo che viene attribuito all’Iran nel sostenere la ribellione degli Houthi.
Gli Stati Uniti e le monarchie assolute del Golfo continuano a puntare il dito contro la Repubblica Islamica, responsabile di volere estendere la propria influenza sullo Yemen, alimentando parallelamente il sentimento anti-sunnita. Con ogni probabilità, il ruolo di Teheran in Yemen descritto da Riyadh è però decisamente esagerato, ma l’amministrazione Trump ha da subito sposato la versione saudita, nel quadro della promessa di annullare i timidi passi fatti dall’amministrazione Obama verso una relativa distensione dei rapporti tra USA e Iran.
Gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita avevano più volte chiesto un maggiore impegno agli Stati Uniti nell’aggressione contro lo Yemen, ma Obama aveva sempre limitato il contributo del proprio paese. Le motivazioni dell’ex presidente non erano dovute a scrupoli umanitari, viste anche le numerose stragi commesse negli ultimi due anni e mai condannate da Washington, ma al tentativo di limitare al minimo il coinvolgimento americano in un conflitto visto con orrore dall’opinione pubblica internazionale, malgrado il sostanziale disinteresse dei media.
Questi timori, e la possibilità sia pure remota di un’imputazione per crimini di guerra, sembrano dividere anche l’amministrazione Trump, nonostante l’allentamento delle restrizioni ai militari americani in Yemen sarebbe coerente con iniziative simili già prese dalla Casa Bianca in altri teatri di guerra internazionali. Fonti governative citate dal Washington Post sostengono infatti che all’interno dell’amministrazione Repubblicana ci sia “certamente un ampio disaccordo” sulla nuova strategia yemenita.
Il conflitto in Yemen era stato scatenato nel marzo del 2015 dall’Arabia Saudita per fermare l’avanzata dei ribelli Houthi che nel settembre precedente avevano preso possesso della capitale, Sana’a, costringendo alla fuga il presidente, Abd Rabbuh Mansour Hadi. Gli Houthi denunciavano da tempo la loro esclusione dal quadro politico del paese, creato grazie a un accordo negoziato da Washington e Riyadh per mettere fine all’instabilità seguita alle proteste popolari di massa del 2011.
Alle questioni settarie, evidenti dalle rivendicazioni degli Houthi, si sono poi sovrapposte le lotte di potere all’interno della classe politica indigena. La rivolta degli Houthi aveva costretto alla fuga in Arabia Saudita il presidente Hadi e il suo gabinetto, mentre a fianco dei nuovi padroni dello Yemen si era schierato il deposto presidente, Ali Abdullah Saleh, anch’egli ex burattino di Washington e Riyadh.
Dopo due anni di guerra segnati da disparità apparentemente enormi tra le parti in conflitto, gli Houthi continuano a conservare il controllo di ampie parti del paese arabo. Non solo, l’aggressione saudita e i numerosi massacri di civili che sono seguiti hanno consentito ai ribelli sciiti di raccogliere consensi in fasce più ampie della popolazione yemenita.
Proprio in coincidenza con il secondo anniversario dell’inizio delle operazioni militari, domenica centinaia di migliaia di manifestanti anti-sauditi si sono riversati nelle strade della capitale per chiedere la fine dei bombardamenti. A conferma poi che il processo di pace promosso dalle Nazioni Unite è ormai in uno stato comatoso, un tribunale istituito dai ribelli Houthi ha decretato la condanna a morte in absentia per alto tradimento del presidente Hadi in esilio e di altri sei membri del suo governo.La guerra in Yemen continua anche a suscitare l’allarme di numerose organizzazioni umanitarie, sia per i crimini commessi da entrambe le parti sia per le condizioni di una popolazione allo stremo. Senza dubbio, gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e i loro alleati che partecipano alle operazioni militari hanno le responsabilità maggiori delle stragi registrate in questi due anni e della situazione interna di crisi assoluta. Washington, soprattutto, fornendo sostegno alle monarchie del Golfo impedisce di fatto l’avvio di un serio negoziato di pace, così come una qualche de-escalation delle violenze e l’accesso nel paese di quantità adeguate di cibo, medicinali e aiuti umanitari.
Le Nazioni Unite hanno definito l’emergenza in Yemen come la più grave tra quelle odierne nel mondo, con milioni di persone senza accesso a beni di prima necessità. Per l’organizzazione umanitaria Oxfam, una carestia di massa è più che probabile nei prossimi mesi, dovuta soprattutto al blocco navale imposto dall’Arabia Saudita, ufficialmente per impedire che forniture di equipaggiamenti militari giungano agli Houthi.
Un recente rapporto di UNICEF ha evidenziato infine come già oggi 2,2 milioni di bambini soffrano di “malnutrizione acuta” in Yemen e abbiano perciò bisogno di urgente assistenza, mentre il numero di minori uccisi nel conflitto è aumentato del 70% nell’ultimo anno. I dati ufficiali parlano di oltre 1.500 bambini uccisi a causa della guerra, cui vanno aggiunti 2.450 feriti o mutilati, 235 vittime di rapimento e più di 1.570 reclutati come combattenti.
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di Michele Paris
La progressiva implementazione delle decisioni sulla Siria della nuova amministrazione Trump sembra avere impresso una svolta a un conflitto entrato ormai nel settimo anno. Gli effetti delle iniziative già più o meno adottate e di quelle che si prospettano nel prossimo futuro si sono tradotti in un’impennata delle vittime civili in Medio Oriente, proprio mentre i colloqui di pace stanno per riaprirsi quasi senza aspettative a Ginevra e la cosiddetta coalizione anti-ISIS si è riunita a Washington senza i rappresentanti delle forze che i fondamentalisti islamici stanno realmente combattendo sul campo.
Il summit nella capitale americana ha avuto un qualche rilievo soprattutto per le dichiarazioni del segretario di Stato, Rex Tillerson. L’ex amministratore delegato di ExxonMobil ha chiarito come gli Stati Uniti non intendano abbandonare il proprio ruolo in Medio Oriente e, con buona pace di coloro che si attendevano una de-escalation della guerra in Siria dopo l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, come siano allo studio manovre che rischiano seriamente di aggravare il conflitto in corso.
Tillerson è tornato a ipotizzare la creazione di “zone di sicurezza” in territorio siriano, controllate dai militari americani o dalle milizie armate che si battono contro il regime di Damasco, ufficialmente per facilitare il ritorno dei rifugiati nelle loro abitazioni.
Questa misura circola da tempo tra gli ambienti USA che da più di sei anni cercano di rovesciare il governo di Assad. La fazione del governo americano che faceva capo all’ex segretario di Stato, Hillary Clinton, aveva promosso negli anni scorsi l’istituzione di aree off-limits alle forze del regime o all’ISIS, così come il presidente turco Erdogan aveva a lungo cercato di ottenere il via libera dall’amministrazione Obama per questo stesso progetto.
Tillerson, riprendendo una promessa che lo stesso Trump aveva fatto subito dopo il suo insediamento, è ora tornato sull’argomento, tralasciando di far notare come una misura simile sia del tutto illegale e rischi di innescare un confronto militare diretto con le forze russe o di Damasco, dal momento che, come minimo, sarebbe necessario creare e far rispettare una “no-fly zone” nei cieli siriani.
Nel comunicato finale seguito al vertice della coalizione anti-ISIS non è stata comunque citata la possibile creazione di queste “zone di sicurezza”. Tuttavia, a Washington se ne continua a discutere seriamente. In queste aree, dopo avere cancellato la presenza dell’ISIS, le forze “ribelli” – curde o sunnite – potrebbero riorganizzarsi grazie ai propri sponsor internazionali e lanciarsi una nuova fase della guerra, diretta esclusivamente contro il regime di Assad.
Al di là delle forme che prenderà a breve il rilancio dell’impegno degli USA nel conflitto in Siria, il segretario di Stato di Trump ha assicurato che la presenza militare americana in questo paese e in Iraq, ma anche ovunque il “califfato” dovesse radicarsi, resterà una realtà non solo fino alla sconfitta di quest’ultimo ma anche in seguito per contribuire ai processi di “ricostruzione” che si renderanno necessari.
Delle conseguenze della nuova attitudine della Casa Bianca si è avuta un’anticipazione proprio mentre andava in scena la riunione di Washington. La stampa americana ha raccontato di come gli USA abbiano avviato a partire da martedì un’operazione militare che non ha precedenti in Siria, inviando uomini dei reparti speciali a sostegno delle Forze Democratiche della Siria, all’interno delle quali prevalgono le milizie curde, “al di là delle linee dell’ISIS”.
L’operazione rientra nel quadro del progettato assalto alla capitale dell’ISIS in Siria, Raqqa, e si sta concentrando in questa fase iniziale su una diga sul fiume Eufrate nelle mani degli uomini del “califfato”, allo scopo di aprire una via di penetrazione da occidente verso la città. L’attacco sembra essere condotto con un imponente dispiegamento di forze, tanto che gli stessi vertici militari hanno faticato a ribadire la solita versione ufficiale, cioè che i soldati americani impegnati sul campo hanno un semplice ruolo di “consiglieri” in appoggio delle milizie curde e sunnite.Il New York Times ha spiegato che la strategia USA in Siria assomiglia sempre più a quella in Iraq, dove da mesi è in corso una durissima battaglia per la liberazione della città di Mosul dalle forze dell’ISIS. Anche in Siria, cioè, gli Stati Uniti stanno sempre più facendo ricorso a forze convenzionali con incarichi di combattimento a fianco delle milizie locali che, almeno ufficialmente, dovrebbero condurre la gran parte delle operazioni.
Il dibattito sull’intensificazione dell’impegno americano in Siria continua in ogni caso a evitare il punto più importante della questione, vale a dire la totale illegalità delle operazioni militari in corso. L’amministrazione Trump sta in sostanza accelerando un’offensiva iniziata da Obama e che già non aveva alcuna base legale legittima, se non quella creata appositamente dallo stesso governo americano.
È importante inoltre sottolineare come il rinnovato sforzo militare USA sia già drammaticamente visibile nonostante Trump non abbia ancora formulato in modo ufficiale la nuova politica relativa al conflitto in Siria. Gli sviluppi di questi giorni sarebbero infatti solo la conseguenza dell’allentamento delle regole a cui devono sottostare i militari nel condurre le operazioni sul campo.
La Casa Bianca ha cioè cancellato le limitazioni decise da Obama e che intendevano limitare le vittime civili, anche se spesso in maniera del tutto inefficace. Il Pentagono ha ora la facoltà di agire senza ricevere l’autorizzazione dell’autorità civile e senza la necessità di adoperarsi affinché le operazioni non si risolvano in stragi di innocenti.
Il bilancio dei civili massacrati in Siria dalle bombe americane nelle ultime settimane è perciò salito vertiginosamente. L’episodio più recente è stato registrato martedì, quando i jet americani hanno distrutto una scuola nell’area della città di Raqqa che ospitava un centinaio di rifugiati. Le prime notizie davano più di 30 morti, ma il numero delle vittime potrebbe essere in realtà molto più alto.
Solo qualche giorno prima, un’altra incursione nella provincia di Idlib aveva ucciso più di 40 civili dopo che era stata colpita una moschea. I militari americani avevano sostenuto che il bombardamento aveva interessato un edificio vicino, dove si trovavano miliziani qaedisti, ma le testimonianze dei residenti e delle organizzazioni umanitarie hanno smentito questa versione, costringendo il Pentagono ad aprire un’indagine sull’accaduto.
Oltre alle conseguenze per la popolazione civile, il maggiore coinvolgimento americano in Siria, destinato a crescere ulteriormente nelle prossime settimane, rischia anche di allargare un conflitto già complicatissimo. La nuova strategia di Trump dovrà fare i conti ad esempio con le resistenze della Turchia ad accettare come legittime le forze curde, a cui gli Stati Uniti sembrano essere intenzionati ad assegnare un ruolo ancora più importante nel conflitto.Soprattutto, però, la maggiore presenza e intraprendenza americana in Siria minaccia di scontrarsi con le operazioni militari della Russia in difesa del regime di Assad. Nonostante Trump avesse prospettato una qualche collaborazione con Mosca nella lotta all’ISIS anche in Siria, finora su questo fronte non sembrano esserci stati particolari progressi.
Anzi, gli sviluppi degli ultimi due mesi indicano piuttosto l’aggravamento del rischio di un confronto militare diretto tra le due principali potenze coinvolte in una guerra che continua a martoriare il paese mediorientale.