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di Michele Paris
Una serie di dichiarazioni e prese di posizione da parte di importanti esponenti di alcuni governi europei sembrano avere assestato in questi ultimi giorni un colpo forse mortale alle residue speranze di vedere sottoscritto a breve il famigerato trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, noto con il nome di Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti (TTIP).
A far tornare i riflettori sui negoziati tra Bruxelles e Washington, da tempo in fase di stallo, era stato nel fine settimana il ministro dell’Economia tedesco, nonché vice-cancelliere, Sigmar Gabriel. Il leader Social Democratico aveva preso atto nel corso di un’intervista alla TV pubblica ZDF del fallimento delle trattative, dovuto all’impossibilità da parte europea di “accettare le richieste americane”.
Gabriel aveva fatto riferimento ai 14 round di negoziati tenuti a partire dal giugno del 2013, durante i quali le due parti non sono state in grado di raggiungere un accordo su nessuna delle 27 sezioni che compongono il trattato transatlantico.
La posizione espressa dal vice-cancelliere tedesco è condivisa da molti all’interno della classe dirigente europea. Il governo Socialista francese è ad esempio tra i più critici del TTIP. Già nel mese di maggio, il presidente Hollande aveva di fatto bocciato il trattato, sull’onda anche di svariate manifestazioni di protesta seguite alla pubblicazione di documenti segreti relativi ai contenuti dei negoziati.
Sempre questa settimana, poi, il ministro per il Commercio Estero di Parigi, Matthias Fekl, ha scritto in un tweet che il suo governo intende chiedere la fine delle trattative sul TTIP. Lo stesso ministro francese qualche mese fa aveva previsto il tracollo dei negoziati, assegnandone la responsabilità alle posizioni troppo rigide degli Stati Uniti.
Il trattato in fase di discussione punta non solo all’eliminazione delle barriere doganali da entrambe le sponde dell’Atlantico, ma anche e soprattutto allo smantellamento delle regolamentazioni previste in vari ambiti e che limitano l’attività e i profitti delle grandi aziende.
I timori maggiori riguardano possibili nuovi attacchi all’assistenza sanitaria pubblica, al welfare in generale, ai livelli delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e alla sicurezza ambientale e alimentare.
Particolare allarme suscita inoltre una clausola consueta per i trattati di libero scambio e che è inclusa anche nel TTIP, quella cioè che consente alle corporation di fare causa ai paesi in cui operano se questi ultimi mettono in atto leggi o adottano provvedimenti che minacciano i loro livelli di profitto.
Le dichiarazioni di Gabriel sono state in ogni caso criticate da altri esponenti della politica tedesca e a livello europeo. La cancelliera Merkel solo qualche settimana fa aveva definito il TTIP “assolutamente nell’interesse dell’Europa”.
Il portavoce del governo di Berlino, Steffen Seibert, ha risposto infatti questa settimana alle parole del ministro dell’Economia sostenendo che le trattative devono continuare, mentre in precedenza, dopo la diffusione di un recente rapporto dello stesso dicastero che prevedeva scarse possibilità di intesa sul TTIP, aveva ribadito che l’intero gabinetto appoggiava gli sforzi per la firma dell’accordo in tempi brevi.Pubblicamente, i vertici europei appaiono anch’essi convinti della possibilità di mandare in porto il TTIP. Il capo dei negoziatori UE, lo spagnolo Ignacio Garcia Becerra ha escluso lunedì che il trattato sia da considerarsi morto. Il portavoce della Commissione Europea, Margaritis Schinas, ha addirittura assicurato che quest’ultima è tuttora “pronta a finalizzare l’accordo entro il 31 dicembre 2016”.
L’ex politico greco ha tuttavia ammesso indirettamente che le possibilità di un simile esito sono quasi inesistenti, poiché Bruxelles non è disposta a sacrificare “la sicurezza, la salute, le protezioni sociali e dei dati personali o la diversità culturale” dell’Europa per raggiungere un accordo con gli Stati Uniti. Le voci contrarie tra i governi del continente emerse negli ultimi mesi minacciano comunque il naufragio dell’accordo, visto che, anche in caso di successo dei negoziati, esso dovrebbe essere ratificato da ognuno dei 27 paesi dell’Unione.
Da Washington, infine, il rappresentate del governo americano per il commercio estero, Michael Froman, si è comprensibilmente mostrato ottimista sui negoziati, i quali a suo dire avrebbero anzi fatto alcuni progressi.
A influire in parte sul clima di sfiducia che avvolge il TTIP è però anche lo scenario politico americano, segnato in questa fase pre-elettorale dallo scetticismo di entrambi i candidati alla presidenza. Hillary Clinton, in particolare, da qualche tempo ha fatto marcia indietro sul trattato transatlantico, dicendosi ufficialmente contraria, vista la predisposizione degli elettori Democratici nei confronti di accordi di libero scambio che, in passato, hanno contribuito all’emorragia di posti di lavoro nel settore manifatturiero americano.
Se le rivelazioni sui contenuti del TTIP, assieme alla segretezza con cui vengono condotti i negoziati, hanno prodotto una vasta quanto legittima opposizione popolare al trattato in Europa, le prese di posizione di politici come il ministro tedesco Sigmar Gabriel hanno poco a che fare con scrupoli per la democrazia o per le residue protezioni sociali garantite dai paesi europei.
Lo stesso Gabriel ha d’altra parte manifestato il suo sostegno per il trattato di libero scambio tra UE e Canada che contiene alcune clausole simili a quelle previste dal TTIP. I negoziati sul cosiddetto CETA (Accordo Economico e Commerciale Globale) si erano conclusi nell’agosto del 2014 e il trattato euro-canadese è ora in attesa di essere approvato dai 27 paesi UE e dal parlamento europeo.
Le sezioni del governo tedesco, così come di quello francese o di altri paesi, che si oppongono al TTIP non sono cioè contrarie al libero scambio di merci e servizi, né al prevalere degli interessi delle grandi corporation su quelli di lavoratori e cittadini comuni. La loro opposizione all’accordo con il governo di Washington, alla luce dell’insistenza di quest’ultimo per l’inclusione di condizioni in larga misura vantaggiose per il capitalismo USA, è dovuta piuttosto all’impossibilità di garantire posizioni favorevoli alle proprie aziende nei confronti delle concorrenti americane.Una parte del business tedesco, rappresentato soprattutto dal partito della cancelliera Merkel, spinge dunque per l’approvazione del TTIP, in modo da massimizzare i profitti derivanti dai rapporti commerciali già molto solidi del loro paese con gli Stati Uniti. Altri, al contrario, auspicano un riorientamento del business tedesco verso il continente asiatico, se non la stessa Russia, dove promette di concretizzarsi buona parte della crescita economica futura.
Questi ultimi vedono di conseguenza il consolidamento della partnership economica con gli Stati Uniti come un ostacolo e le loro istanze si intrecciano inevitabilmente con delicate questioni di natura strategica che, in un clima internazionale caratterizzato da crescenti rivalità, hanno già prodotto pericolose frizioni tra Berlino e Washington su questioni legate, ad esempio, ai rapporti da tenere con paesi come Russia e Cina.
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di Carlo Musilli
Il primo ministro britannico Theresa May vuole iniziare le procedure per la Brexit senza passare per il voto del Parlamento. Lo scrive il quotidiano The Telegraph, citando fonti anonime. Secondo il giornale conservatore, da sempre schierato in favore dell’addio a Bruxelles, l’obiettivo di May è evitare che i suoi avversari possano fermare l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Del resto, subito dopo l’insediamento al posto di David Cameron, il nuovo Premier aveva ricordato a tutti con cipiglio lapalissiano che “Brexit significa Brexit”.
Ma i politici europeisti fanno notare che il referendum dello scorso 23 giugno era soltanto consultivo e che perciò, in teoria, il Parlamento non è tenuto a ratificarne l’esito favorevole alla Brexit. Negli ultimi mesi l'ex premier Tony Blair e il candidato alla leadership laburista Owen Smith hanno parlato dell’eventualità che il fronte pro-Ue possa bloccare la Brexit proprio nella Camera dei Comuni. Forse avrebbero anche i numeri per farlo, visto che nei mesi scorsi la maggioranza dei deputati ha partecipato alla campagna per il Remain.
Eppure, a questo punto, fare la conta dei voti sembra davvero inutile. Al di là dell’orientamento personale, è ovvio che i parlamentari britannici non potranno sconfessare in modo così clamoroso il proprio elettorato. Sarebbe un suicidio politico. Piuttosto, Blair e compagnia sembrano voler lucrare qualche concessione dal nuovo leader conservatore, avanzando il più possibile la trincea laburista. Insomma, un bluff. Non una minaccia credibile.
Ma ci sono comunque degli equilibri politici da preservare. Pur non temendo per l’avvio della Brexit, ormai inevitabile, May non accetta d’iniziare la sua permanenza a Downing Street combattendo contro i ricatti. Per questo vuole scaricare la pistola in mano ai suoi oppositori, aggirando quel voto parlamentare che rischierebbe di rallentare enormemente le operazioni e comporterebbe in ogni caso trattative e imbarazzi.
Perché il suo progetto si realizzi, la numero uno dell’Esecutivo ha bisogno di un piccolo aiuto da parte del potere giudiziario. Il prossimo mese di ottobre, infatti, l'Alta corte di Giustizia di Londra deciderà se il Premier potrà attivare l'articolo 50 del Trattato di Lisbona per uscire dall'Unione senza chiedere il voto del Parlamento. Ma i consulenti legali del governo sono già sicuri: notificare la richiesta a Bruxelles rientra nei poteri di primo ministro. May potrà avviare la pratica in autonomia.Una volta aperte le danze, però, le servirà tutto l’aiuto possibile. Dal punto di vista di Bruxelles, l’obiettivo numero uno è evitare che il risultato della trattativa induca altri Paesi comunitari a seguire le orme del Regno Unito. L’Ue non può permettere che Brexit si riveli un affare per Londra: al contrario, deve dimostrare ai i suoi membri quanto sia sbagliato e controproducente abbandonare la famiglia europea. Non si tratta di vendetta, ma di puro spirito di conservazione.
Le minacce più chiare in questo senso arrivano tutte dalla Germania. Nei giorni scorsi il vice ministro degli Esteri tedesco, Michael Roth, ha avvertito Londra che i negoziati per lasciare l’Ue “saranno molto difficili”, sottolineando che ai britannici non sarà concesso un approccio “cherry picking” (letteralmente, “raccolta di ciliegie”): non potranno cioè cancellare gli svantaggi e conservare solo il meglio che l’Europa può offrire.
Insomma, lo scenario non è dei più rassicuranti. May dovrà valutare se, prima di sedersi a un tavolo del genere, le convenga davvero dare uno strappo netto ai rapporti con il Parlamento.
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di Fabrizio Casari
L’utilizzo di basi iraniane da parte dei caccia russi per gli attacchi alle postazioni del califfato e di Al-Nusra, ovvero Al-quaeda in Siria, certifica il raggiungimento di un ulteriore stadio delle relazioni tra Mosca e Teheran. La collaborazione militare tra i due paesi, che segue una serie di accordi strategici commerciali ed energetici, preoccupa gli Stranamore della Nato, per i quali la Russia continua ad essere il nemico di sempre. Anche in assenza dello scontro ideologico e sistemico che vide la contrapposizione dei due blocchi dal dopoguerra al 1989, Mosca continua infatti a generare allarme nei palazzi occidentali, primo fra tutti il Pentagono.
Il che si deve non tanto e non solo alla forza politica e militare russa, pure oltremodo considerevole, quanto al suo disegno di ricostruzione politica e strategica, che intende recuperare il ruolo che storicamente gli è appartenuto e che prevede un peso importante nello scacchiere internazionale.
La sua forza militare, economica e politica, l’influenza che esercita e la sua collocazione geografica nel crocevia di tre continenti, fa sì che il Cremlino ritenga giusto, prima che opportuno, partecipare attivamente alla governance mondiale, opponendosi alla riaffermazione inerziale del comando unipolare a guida statunitense.
Anche in questa chiave va letto il patto militare con la Cina, che interrompe decenni di ostilità reciproca e sancisce una nuova fase per gli equilibri militari e politici destinata a sovvertire l’ordine di grandezza precedentemente acquisito.
Questo progetto, così come l’alleanza con l’Iran, vuole difendere anche la stessa integrità della Russia, minacciata ormai da batterie di missili e migliaia di soldati NATO presso le sue frontiere (in aperta violazione degli accordi tra USA e Russia). Ciò viene raccontato dalla pubblicistica occidentale come l’evidenza del disegno egemonico di Putin, mentre provocare e minacciare la Russia viene definito uno schema difensivo.
La NATO tenta di schiacciare Mosca in una posizione puramente difensiva, erodendone costantemente l'area-cuscinetto che dovrebbe salvaguardare la giusta distanza tra le rispettive zone d'influenza, considerando soprattutto che per la Russia si tratta di territori confinanti. A questo scopo la NATO utilizza per un verso il sentimento revanscista di repubbliche con governi nazistoidi (Ungheria e Polonia e Ucraina fra tutte, affiancate da Lettonia, Estonia e Lituania) e per l’altro verso la subrdinazione cieca di Bruxelles verso Washington.
Il risultato è che Mosca viene minacciata militarmente e limitata economicamente con missili, soldati e sanzioni destinate ad accrescerne l’accerchiamento e l’isolamento. Il tutto, sebbene privo di sostegno giuridico, è utile alla strategia NATO di nuova guerra fredda, così necessaria per gli interessi economici statunitensi.
Non tutto funziona però nel dispositivo occidentale. Nella complicata partita a scacchi avvelenati che Washington ha deciso di aprire contro Mosca, Putin appare un giocatore abile, freddo e determinato, difficilissimo da battere. Ha umiliato Obama due volte sulla Siria: in un primo momento quando nel 2015 gli impedì di entrare direttamente nel conflitto contro Assad; successivamente, quando capì che la NATO aveva deciso di sferrare il colpo finale sulla Siria, decidendo di entrare in guerra direttamente. Ribaltando, in pochi mesi, le sorti del conflitto.
Per Putin non si trattava solo di difendere le basi russe in territorio siriano, pure obiettivo fondamentale per Mosca; l’intenzione era quella di dimostrare che la Russia non gioca quando ci sono in ballo i suoi interessi e che nessuna intesa sui nuovi equilibri mediorientali può essere raggiunta senza il suo coinvolgimento, men che mai ai suoi danni, che l’Occidente lo voglia o meno.
Mosca, d’altra parte, nei confronti del radicalismo islamista nutre assoluto interesse anche per i possibili risvolti interni. Proprio dal Caucaso, così come da alcuni territori asiatici, può venire la minaccia islamica di fede sunnita alla sua integrità. Non sfugge al Cremlino come numerosi siano stati i mercenari caucasici arruolatisi nell’Isis e tutto vuole meno che vederseli rientrare con l’intenzione di portare la guerra in Russia. E così come fece in Afghanistan prima ed in Cecenia poi, la Russia - giusto o sbagliato che sia - ritiene di dover affrontare il radicalismo islamico con determinazione militare identica a quella politica. Anche in considerazione di questo aspetto, oltre che degli equilibri internazionali in un’area di prossimità, Putin è consapevole del ruolo ispiratore di Ryad nei confronti del terrorismo islamico e non ha dunque nessuna intenzione di veder consegnare alla monarchia saudita l’egemonia religiosa, politica e militare dal Golfo Persico fino a Gibilterra.
Dunque, approfittando delle relazioni storicamente positive con l’Iran e il mondo sciita, lavora ormai alacremente alla costituzione di un polo energetico e militare alternativo a quello a guida saudita, in modo da esercitare una pesante ipoteca sugli equilibri di tutto il Medio Oriente.
Dal canto suo, l’Iran ha tutto l’interesse ad una alleanza con Mosca, soprattutto in chiave commerciale. Cessato l’embargo occidentale e in attesa di un netto miglioramento delle relazioni con l’Europa, ha contribuito sensibilmente alla cacciata dell’Isis dall’Irak e si muove ora sullo scacchiere contando sul silenzio americano, che ne riconosce i meriti e contemporaneamente, fa in qualche modo pagare a Netanyahu il conto delle pessime relazioni tra Washington e Tel Aviv.
L’Iran non solo è nemico irriducibile delle monarchie sunnite e wahabite del Golfo, ma per la crisi economica che lo attraversa ha bisogno di recuperare la sua capacità di export petrolifero. Vede però il suo ritorno sul mercato internazionale del greggio limitato proprio dalla politica di sovrapproduzione decisa da Ryad, che agisce con il chiaro intento di avvantaggiare gli emirati e ridurre l’influenza energetica di Russia, Iran, Venezuela ed Ecuador fra gli altri.
Anche per quanto riguarda l’impegno militare iraniano in Siria non si tratta solo di una questione religiosa, ovvero dell’aiuto agli alawiti, che sono parte del mondo sciita. L’intenzione principale è quella di riaffermare il suo ruolo di potenza regionale e di riferimento del mondo sciita, quindi di contrastare il crescente peso dell’Arabia Saudita e delle altre monarchie nel Golfo, che si può vedere delineato anche nella vicenda yemenita.
In questo senso una Siria alawuita, o comunque laica, per Teheran è meglio, molto meglio che una Siria sunnita. Significa, tra le altre cose, il proseguire del sostegno ad Hezbollah in Libano e ad Hamas a Gaza e, oggettivamente, aumentare le difficoltà di Israele e degli Stati Uniti nel controllo della regione.
In questo riposizionamento dei principali attori è semmai inedito il percorso di avvicinamento di Russia e Iran con la Turchia. Sunnita e sponsor dell’Isis, Ankara è il paese che, insieme all’Arabia Saudita, più si è speso per la cacciata di Assad. Oggi il panorama è però sensibilmente mutato.
La certezza del coinvolgimento statunitense ed europeo nel fallito colpo di Stato a Luglio (sembrava la fotocopia di quello contro Chavez in Venezuela altrettanto fallito diversi anni prima ndr) ha avvertito Erdogan circa l’isolamento del suo governo. Del resto, il sultano repressore non ha lesinato ricatti alla UE attraverso i migranti e alla NATO attraverso il sostegno all’Isis (anche quando la NATO aveva deciso di ritirarlo). Gli ammiccamenti di Washington ai curdi, poi, hanno avuto l’effetto di agitare il classico drappo rosso davanti agli occhi del toro del Bosforo e la tensione con Washington è salita alle stelle.
Il destino dei curdi avrà un peso determinante nell’accelerazione o nel rallentamento dei rapporti tra Mosca, Teheran e Ankara ma è quest’ultima che ha fretta di raggiungere un accordo con loro e con l’Occidente sulla questione. Ankara vuole scongiurare una conferenza di pace sulla Siria che preveda la nascita di uno stato curdo o anche solo di un territorio curdo con le caratteristiche giuridiche ed amministrative magari sul modello di quelle esistenti a Gaza. In conseguenza di ciò il sultano si muoverà, avendo però già deciso di giocare in proprio, di trattare da posizioni di forza e di sfidare sul piano dell’imprevedibilità e della spregiudicatezza politica l’Occidente tutto.E’ presto per capire se l’asse tra Mosca e Teheran potrà contare sull’appoggio di Ankara e, tutto sommato, appare difficile che ciò avvenga per la non trascurabile ragione che la Turchia è il terzo paese NATO per numero di militari e che quindi l’Alleanza, prima di perdere il suo ruolo nel Bosforo e nello stretto dei Dardanelli, ci penserà un milione di volte.
In fondo questo pare l’obiettivo del sultano: dimostrare forza e spregiudicatezza per trattare con UE e USA. Al momento le opzioni di Erdogan sembrano essere due: o l’ingresso in Europa o l’Europa come avversario. Entrambe complesse e irte di ostacoli e compromessi.
Nulla verrà deciso prima dell’avvento della nuova Amministrazione USA, ma nel frattempo Mosca e Teheran (con Pechino sullo sfondo) lavorano compiaciuti all’ultimo fallimento dell’Occidente, che per assegnare ai satrapi medievali delle monarchie del Golfo il ruolo di superpotenza, ne hanno creata un’altra molto più grande e decisamente ostile ai suoi interessi.
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di Michele Paris
Il bombardamento dell’ospedale di Medici Senza Frontiere (MSF) in Yemen il giorno di Ferragosto è stato l’ennesimo crimine di guerra commesso dalla “coalizione” militare guidata dall’Arabia Saudita in questo paese. Come ha spiegato l’organizzazione umanitaria francese, le coordinate GPS della struttura erano state comunicate chiaramente a tutte le parti impegnate nel conflitto, così che la strage che ha fatto almeno 11 vittime e una ventina di feriti è quasi certamente da considerarsi deliberata.
Le forze armate saudite e i loro alleati sono invischiati da quasi un anno e mezzo in una guerra sanguinosa per reinstallare il presidente-fantoccio dello Yemen Abd Rabbu Mansour Hadi. Quest’ultimo e il suo governo erano stati costretti alla fuga in seguito all’avanzata dei “ribelli” Houthi sciiti che chiedevano una maggiore partecipazione dei rappresentanti della loro etnia nel governo del paese.
Quella che era stata lanciata come una guerra di breve durata si è trasformata ben preso in un pantano segnato da migliaia di vittime civili, ma anche da perdite talvolta pesanti per i sauditi. Riyadh considera di importanza fondamentale la presenza di un regime favorevole ai propri interessi nel vicino Yemen. La presa del potere da parte degli Houthi, collegati da Riyadh in maniera sbrigativa all’Iran, ovvero l’arcinemico regionale dell’Arabia Saudita, era stata vista perciò con estremo allarme nel regno sunnita, dove è oltretutto presente una forte e inquieta minoranza sciita.
La guerra in Yemen ha finora causato, secondo le stime ufficiali, quasi 7 mila morti tra la popolazione civile, mentre i bombardamenti della “coalizione” internazionale hanno distrutto gran parte delle infrastrutture civili - inclusi ospedali e scuole - di quello che già in tempo di pace era il più povero dei paesi arabi.
Le bombe saudite hanno spesso preso di mira in maniera deliberata obiettivi di nessuna importanza militare, al preciso scopo di terrorizzare e piegare la resistenza della popolazione e, in particolare, degli appartenenti alla minoranza sciita.
Portavoce di MSF hanno ricordato come la distruzione lunedì dell’ospedale situato nella provincia settentrionale di Hajjah abbia seguito altri tre episodi di questo genere che avevano interessato strutture gestite dalla loro organizzazione in Yemen dall’inizio della guerra. Solo due giorni prima, le forze saudite avevano inoltre ucciso dieci studenti di una scuola nella provincia settentrionale di Saada, controllata dagli Houthi.
Le immagini delle macerie e delle vittime del più recente bombardamento sono state riportate dai media di tutto il mondo e hanno spinto il regime saudita ad aprire un’indagine per fare luce sull’accaduto. Come nei casi precedenti, tuttavia, l’iniziativa non darà alcun esito. La distruzione di un altro ospedale di Medici Senza Frontiere lo scorso mese di ottobre venne ad esempio giustificata dai sauditi con l’utilizzo della struttura come base militare da parte dei “ribelli” Houthi.
Mentre le vere o presunte operazioni contro i civili da parte delle forze russe o del regime di Damasco in Siria vengono duramente condannate da governi e media in Occidente, i crimini ben documentati dell’Arabia Saudita in Yemen sono tutt’al più oggetto di blandi comunicati che invitano alla cessazione delle ostilità e a cercare di risparmiare gli obiettivi civili.
Organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch hanno peraltro condannato più volte i crimini commessi da entrambe le parti in guerra. Secondo le Nazioni Unite, però, le forze guidate dall’Arabia Saudita sono responsabili della maggior parte delle vittime civili in Yemen, tra cui più del 60% dei bambini uccisi dall’inizio del conflitto.
Se le responsabilità del massacro di lunedì in Yemen sono da attribuire interamente al regime saudita, non vanno dimenticate quelle degli Stati Uniti e degli altri governi che appoggiano sostanzialmente la guerra in questo paese. L’amministrazione Obama è con ogni probabilità preoccupata per i riflessi destabilizzanti del protrarsi delle operazioni militari saudite in Yemen. Tuttavia, Washington continua quanto meno a garantire appoggio logistico e assistenza a Riyadh nell’individuare i bersagli da colpire in territorio yemenita, senza contare le massicce forniture di armi.Gli Stati Uniti operano inoltre da anni un programma di bombardamenti con i droni in Yemen, ufficialmente per eliminare affiliati ad Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), che ha fatto anch’esso un numero imprecisato di vittime civili.
La posizione americana spiega dunque il comunicato estremamente cauto emesso dal Dipartimento di Stato dopo la distruzione dell’ospedale di MSF. Non solo, la mancata condanna della strage del regime saudita dipende anche dal fatto che le stesse forze USA hanno commesso alcuni mesi fa un identico crimine a quello dell’alleato saudita.
A ottobre, cioè, un aereo da guerra americano aveva colpito una struttura dell’organizzazione umanitaria francese a Kunduz, in Afghanistan, uccidendo 42 civili innocenti. L’incursione era durata più di un’ora nonostante membri di MSF avessero contattato immediatamente il comando americano per chiedere di fermare i bombardamenti.
Anche in quell’occasione, l’indagine interna del Pentagono servì fondamentalmente a impedire che fosse fatta luce sulla verità e, come nel caso dei sauditi in Yemen, a sottrarre i responsabili da una più che legittima accusa per crimini di guerra.
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di Michele Paris
La visita di questa settimana del presidente turco Erdogan in Russia ha segnato simbolicamente il riavvicinamento tra due paesi le cui relazioni erano precipitate solo pochi mesi fa a causa dei diversi obiettivi nel conflitto siriano. Quello di Erdogan è anche il primo viaggio all’estero dal fallito colpo di stato del 15 luglio scorso e si inserisce appunto in una fase di riallineamento strategico del proprio paese che sta mettendo in serio allarme gli alleati occidentali.
L’incontro tra Putin e Erdogan a San Pietroburgo è stato seguito dalle parole di entrambi i leader con le quali hanno tenuto a sottolineare la “normalizzazione” in corso dei rapporti bilaterali. Russia e Turchia avevano toccato probabilmente il punto più basso nelle loro relazioni dopo l’abbattimento nel novembre scorso di un velivolo da combattimento di Mosca al confine con la Siria da parte di un jet di Ankara.
Quell’episodio aveva spinto il Cremlino ad adottare provvedimenti economici punitivi contro la Turchia, così che gli scambi commerciali erano crollati di oltre il 60% nei primi mesi del 2016, mentre lo stop dei turisti russi si era concretizzato in un altro danno da centinaia di milioni di dollari per Ankara.
Già dal mese di giugno era apparsa però evidente la volontà di Erdogan di ristabilire relazioni amichevoli con la Russia. Ciò era dovuto in larga misura al deteriorarsi dei rapporti con l’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti. Tra Turchia e USA persistono differenti vedute circa le modalità con cui giungere al rovesciamento del regime siriano.
Washington, ad esempio, continua a considerare i curdi siriani come alleati, mentre per Ankara il rafforzamento delle milizie appartenenti a questa etnia che operano oltre il confine meridionale rappresenta una minaccia esistenziale all’unità del paese, dal momento che esse sono considerate tutt’uno con il PKK, attivo sul fronte interno.
L’amministrazione Obama, che pure non si fa scrupoli nell’appoggiare formazioni armate jihadiste in Siria, ha inoltre espresso ripetutamente il proprio malcontento per il sostegno più o meno aperto garantito dalla Turchia all’ISIS.
In questo scenario, il tentato golpe del luglio scorso ha impresso un’accelerazione alla riconciliazione tra Russia e Turchia. Le vicende seguite al tentativo di rimuovere e, probabilmente, assassinare Erdogan da parte di alcune sezioni dell’esercito turco hanno chiarito come gli Stati Uniti abbiano avuto un ruolo nella rivolta o, quanto meno, l’abbiano vista con favore e come un’occasione per installare ad Ankara un regime più affidabile e disposto ad abbandonare il percorso di riavvicinamento a Mosca.
Se la visita di Erdogan a San Pietroburgo era programmata da prima del tentato colpo di stato, è difficile non accostare l’immagine dei due presidenti a colloquio con le rivelazioni emerse dopo il 15 luglio sulle informazioni trasmesse da Mosca al governo legittimo di Ankara circa l’imminenza di una sollevazione tra le file dell’esercito.
Ad ogni modo, i segnali di Erdogan agli Stati Uniti e all’Europa sullo stato delle loro relazioni sono stati abbastanza chiari nelle ultime settimane, soprattutto in merito alla richiesta di estradizione del leader islamico moderato, Fethullah Gulen, in esilio volontario negli USA e accusato da Ankara di avere organizzato il golpe.
In un’intervista concessa alla televisione pubblica russa, Erdogan nei giorni scorsi ha parlato della necessità di aprire una “nuova pagina” nelle relazioni bilaterali e, in maniera cruciale, ha sottolineato il ruolo decisivo di Mosca nella risoluzione della crisi in Siria. Proprio in quest’ultimo scenario verrà messa alla prova la solidità dell’impegno dei due presidenti, assieme alla risposta occidentale alla svolta strategica di Ankara.Il governo turco ha già lasciato intendere di essere pronto a ristabilire contatti con Damasco e, ancora una volta, se questo è il reale intento di Erdogan si vedrà probabilmente a breve, visto lo stato della battaglia per Aleppo che sta portando le forze russe sempre più vicino ai confini con la Turchia.
L’evolversi della situazione in Medio Oriente crea ovviamente parecchi grattacapi agli Stati Uniti, dove i media e il governo stanno cercando, a livello ufficiale, di minimizzare la pace ritrovata tra Putin e Erdogan o di collocarla in un contesto segnato dal presunto isolamento dei due leader. Isolamento, peraltro, poco evidente nel caso di Erdogan, come ha dimostrato ad esempio la recente manifestazione oceanica tenuta in Turchia per condannare il tentato golpe del 15 luglio.
Lo scivolamento di Ankara verso Mosca infliggerebbe danni incalcolabili agli USA e alla NATO principalmente su due fronti: quello relativo allo sforzo per accerchiare e ridurre il peso internazionale della Russia e alla guerra orchestrata in Siria per rovesciare il regime di Assad. La prima preoccupazione, ovvero la più importante in prospettiva futura, ha trovato conferma martedì a San Pietroburgo con l’annuncio della ripresa dei progetti di costruzione del gasdotto “Turkish Stream” che dovrebbe portare il gas russo in Europa meridionale attraverso il Mar Nero e la Turchia.
Lo stop a questo piano, deciso da Putin in alternativa al naufragio del “South Stream”, era arrivato con il gelo dei rapporti tra Mosca e Ankara ed era stato salutato da molti in Occidente come un passo decisivo nel ridurre l’importanza della Russia per il mercato energetico europeo.
La ritrovata sintonia tra Putin e Erdogan ha incontrato generalmente l’ostilità della stampa e degli ambienti di potere in Occidente, i quali peraltro già dopo il golpe mancato avevano attaccato il governo turco per le epurazioni e il consolidamento del potere nelle mani del presidente. Non tutte le reazioni sono state però su questi toni.
Il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, è stato tra quelli che hanno valutato positivamente l’incontro di San Pietroburgo, nonostante la conferma del ruolo della Turchia come partner fondamentale per la NATO. Il leader Social Democratico ha poi riconosciuto che la pace in Siria non potrà essere raggiunta senza il contributo della Russia.
La presa di posizione di Steinmeier rappresenta il punto di vista di quanti in Europa, malgrado l’allineamento ufficiale alle posizione americane, auspicano il ritorno a relazioni cordiali con la Russia, anche se ciò dovesse comportare un relativo ridimensionamento del rapporto con gli USA o la stessa NATO. Il capo della diplomazia di Berlino, d’altra parte, nel mese di giugno aveva criticato pubblicamente le provocazioni contro la Russia da parte dei membri dell’Alleanza nei paesi dell’est europeo.Le nuove scelte strategiche di Erdogan, in definitiva, non nascono dal nulla o da una sua attitudine all’imprevedibilità e allo scontro, ma sono piuttosto il riflesso della sconsiderata politica estera americana in Medio Oriente, oltre che del ripensamento della fallimentare strategia del governo dell’AKP nella regione.
Quel che è certo, come ha dimostrato il tentato colpo di stato, è che Washington non intende stare a guardare passivamente gli sviluppi che riguardano un partner indispensabile come la Turchia. E la risposta americana al riallineamento strategico in atto non potrà che essere fatta, come sempre, di nuove provocazioni, maggiore destabilizzazione degli scenari mediorientali e un rinnovato impegno militare, soprattutto dopo che saranno mandate in archivio le elezioni presidenziali del prossimo mese di novembre.