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di Michele Paris
Il giorno dell’assegnazione ufficiale della nomination alla convention Democratica di Philadelphia è stato contrassegnato dal tentativo di definire la candidatura di Hillary Clinton come una sorta di successo di portata storica per il solo fatto che una donna correrà per la prima volta alla presidenza degli Stati Uniti per uno dei due principali partiti americani. Le stesse personalità politiche e - tristemente - dello spettacolo che hanno parlato ai delegati Democratici sono state in larga misura donne o di colore, al preciso scopo di promuovere le consuete politiche di genere che servono a nascondere la vera natura di un partito, e di una candidata, ancorati agli interessi del business e dell’industria militare americana.
Nonostante la presenza di sostenitori animati probabilmente da un genuino spirito progressista, lo spettacolo organizzato a Philadelphia ha avuto per certi versi un carattere ancora più sinistro rispetto alla convention del Partito Repubblicano. La sfilata di nomi che hanno animato quella Democratica, così come il dibattito che l’ha preceduta e le deliberazioni dei vertici del partito, hanno lasciato infatti un’impressione inequivocabile di disonestà e cinismo.
Questo perché, mentre il Partito Repubblicano ha in gran parte abbandonato anche la pretesa esteriore di battersi per gli americani comuni e consente quasi sempre ai propri esponenti di dare sfogo alle tendenze più retrograde che lo caratterizzano, quello Democratico continua a mascherare l’orientamento reazionario con una messinscena e una retorica da baluardo dei valori “liberal”.
Tanto più il Partito Democratico si sposta a destra, maggiori devono essere gli sforzi per cercare di conservare la sua tradizionale base elettorale, infinitamente più a sinistra dei vertici, a rischio però di fare esplodere in maniera clamorosa tensioni e divisioni che, vista anche la profondissima crisi economica e sociale che attraversa l’America, sempre più difficilmente possono essere contenute all’interno dell’attuale sistema politico.
Ai primi segnali di un’esplosione di questo genere si è forse assistito questa settimana a Philadelphia, dove, dietro alla celebrazione delle fallimentari politiche identitarie del finto progressismo americano, una parte dei delegati Democratici ha clamorosamente respinto la nomination di Hillary Clinton.
Più di un centinaio di sostenitori di Bernie Sanders ha lasciato la convention dopo la proclamazione dell’ex segretario di Stato a candidata alla presidenza nella giornata di martedì. In maniera ancora più significativa, i delegati fedeli a Sanders hanno protestato contro la scelta di Hillary malgrado il senatore del Vermont li avesse implorati in più occasioni di adeguarsi alla decisione del partito. Nella prima giornata della convention, Sanders aveva espresso il proprio “endorsement” ufficiale alla ex rivale, ricevendo fischi da una parte della platea, mentre martedì ne ha proposto addirittura la nomina per acclamazione.I suoi sostenitori hanno evidentemente preso atto della decisione di Sanders di appoggiare una candidata che rappresenta tutto ciò contro cui egli stesso si era scagliato durante le primarie, consentendogli di creare un vero e proprio “movimento”, dirottato ora invece nel vicolo cieco del Partito Democratico.
L’entusiasmo propagandato dai media per la nomination di Hillary, esemplificato dalla patetica immagine della rottura del “soffitto di vetro”, per spiegare che mai una donna è stata così vicina alla Casa Bianca, implica in sostanza il silenzio su ciò che rappresenta realmente la ex first lady.
Il fatto di avere una donna alla guida degli Stati Uniti dovrebbe essere cioè una conquista più importante rispetto al fatto che la candidata e la sua famiglia hanno un rapporto simbiotico con i super-ricchi d’America e in particolare con le grandi banche di Wall Street, grazie alle quali Bill e Hillary hanno incassato decine di milioni di dollari come compenso per i servizi resi durante la loro carriera politica.
Proprio il discorso dell’ex presidente Democratico è risultato centrale nel promuovere la consorte come l’unica tra i due candidati alla presidenza in grado di battersi per gli americani più deboli. La presentazione di Hillary in questa luce ha obbligato naturalmente Bill Clinton a tralasciare svariati dettagli del passato di entrambi, come il fatto che durante la presidenza di quest’ultimo erano stati adottati provvedimenti che, da un lato, hanno distrutto il welfare americano e, dall’altro, hanno spazzato via le rimanenti regolamentazioni dell’industria finanziaria.
Il momento più nauseante della giornata che ha visto l’incoronazione di Hillary è coinciso tuttavia con lo sfruttamento da parte del Partito Democratico delle tragedie dei famigliari di alcune vittime di colore della violenza della polizia, invitati sul palco di Philadelphia. Le storie delle madri degli assassinati per mano di agenti di polizia sono state usate per ingigantire ancora una volta la questione razziale negli Stati Uniti, come se essa fosse disgiunta dalle problematiche sociali e, fondamentalmente, di classe che sono alla base delle violenze delle forze dell’ordine.
La promozione di politiche identitarie da parte dei partiti di orientamento “liberal”, negli USA come altrove, riflettono d’altra parte il tentativo di raccogliere consensi elettorali per un’azione politica che, in realtà, è caratterizzata principalmente dal rigore e dalla guerra. Allo stesso tempo, la fissazione sulle questioni di razza o di genere produce divisioni e impedisce una mobilitazione dal basso fondata su rivendicazioni di natura economica e sociale, al di là del sesso e del colore della pelle.
Fuori da ogni discussione alla convention, come anche durante le primarie, è rimasta poi la politica estera, sia quella perseguita dall’amministrazione Obama sia quella dell’eventuale amministrazione Clinton. Hillary è considerata universalmente la candidata con le maggiori credenziali in ambito militare, conquistate grazie all’instancabile promozione della forza nella difesa degli interessi americani durante gli anni trascorsi alla guida del Dipartimento di Stato.
Proprio il ruolo da protagonista svolto nella distruzione di un paese come la Libia o le pressioni sulla Casa Bianca per intensificare l’impegno militare in Siria è valso a Hillary il sostegno di numerosi “falchi” e “neo-con” Repubblicani, alcuni dei quali potenziali criminali di guerra, preoccupati per le tendenze isolazioniste di Donald Trump.
Il pedigree guerrafondaio della candidata Democratica o i preparativi già in atto per lanciare nuove guerre dopo le elezioni non sono stati però toccati durante la convention, tantomeno da un Bernie Sanders impegnato a soffocare in tutti i modi la “rivoluzione” da lui stesso alimentata e poi cavalcata nei mesi scorsi.Lo stesso Sanders ha ritenuto di non dover sollevare nemmeno le questioni emerse dopo la pubblicazione settimana scorsa da parte di WikiLeaks di migliaia di e-mail del Comitato Nazionale Democratico (DNC). Questi documenti hanno evidenziato le manovre dell’establishment del partito per fare in modo che Sanders non avesse alcuna possibilità di conquistare la nomination. Le rivelazioni, che chiaramente hanno moltiplicato le frustrazioni dei sostenitori del senatore, non hanno scalfito la sua determinazione nel cercare di convincerli ad appoggiare Hillary Clinton.
Le e-mail del DNC hanno anche fatto luce sulle pratiche discutibili, se non palesemente illegali, adottate per raccogliere fondi elettorali. Il partito ha ad esempio convogliato ingenti donazioni verso l’organizzazione che gestisce la campagna elettorale di Hillary, aggirando la legge americana che limita rigorosamente il finanziamento diretto dei singoli candidati.
Inoltre, i documenti hanno mostrato le modalità con cui gli uomini del DNC sollecitano donazioni ai ricchi sostenitori del partito, ai quali offrono spesso incentivi in cambio del loro denaro, come ad esempio la possibilità di partecipare a eventi esclusivi con accesso diretto talvolta anche al presidente Obama e al vice-presidente Biden.
Anche queste pratiche sono ovviamente passate sotto silenzio alla convention di Philadelphia. Esse hanno però contribuito a delineare ancora una volta la natura e i punti di riferimento del Partito Democratico, intento a celebrare, con la stretta collaborazione dei media ufficiali, la presunta storica conquista della prima donna seriamente candidata alla Casa Bianca nella storia degli Stati Uniti.
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di Michele Paris
A giudicare dalla stampa ufficiale negli Stati Uniti, il principale responsabile per il caos e le divisioni che sta attraversando il Partito Democratico mentre è in corso di svolgimento la convention nazionale a Philadelphia non sarebbe altri che il presidente russo, Vladimir Putin. Le trame del capo del Cremlino per “distruggere la democrazia americana” favorirebbero intenzionalmente il candidato Repubblicano alla presidenza, Donald Trump, a sua volta definito dai media come una sorta di fantoccio pronto a fare il gioco di Mosca.
Il livello di isteria anti-russa raggiunto dai media d’oltreoceano, impegnati a propagandare l’agenda del governo di Washington, sarebbe giornalisticamente di scarso interesse se non per il fatto che si inserisce in una delicatissima campagna elettorale per la presidenza e, soprattutto, nel pieno di una rivalità tra le due potenze nucleari che rischia seriamente di sfociare in un conflitto rovinoso.
Com’è noto, Putin è stato trascinato nel dibattito politico statunitense dopo la pubblicazione la settimana scorsa da parte di WikiLeaks di circa 20 mila e-mail scambiate durante le primarie dai membri del Comitato Nazionale del Partito Democratico (DNC). Da molti di questi messaggi si comprende, tra l’altro, come i vertici del partito abbiano manovrato dietro le spalle degli elettori per favorire la candidatura di Hillary Clinton e far naufragare quella di Bernie Sanders.
Già una prima serie di documenti del DNC era apparsa in rete nel mese di giugno e i leader Democratici, così come la stampa allineata al partito di Obama e Hillary, avevano puntato il dito contro hacker al servizio del governo russo. In quell’occasione, un hacker indipendente che opera sotto il nome di Guccifer 2.0 aveva però rivendicato la responsabilità unica della violazione dei server del Partito Democratico. Le accuse contro la Russia non erano inoltre sorrette da nessuna prova concreta, ma si basavano per lo più su presunte ricerche di esperti informatici di compagnie spesso legate ad ambienti Democratici di Washington.
Le accuse a Mosca sono così tornate prevedibilmente a occupare le prime pagine dei giornali americani anche dopo le più recenti rivelazioni di WikiLeaks. Anzi, la ferocia con cui giornali come il Washington Post o il New York Times hanno attaccato Putin per le interferenze nella campagna per la Casa Bianca è apparsa ancora più accentuata visti gli affanni di Hillary e la pessima figura fatta dal Partito Democratico nelle fasi di apertura della convention.
Un durissimo editoriale contro la Russia, pubblicato martedì proprio dal Washington Post, ha dato l’idea di quanto sia ritenuta essenziale la vittoria dell’ex segretario di Stato nelle elezioni di novembre da una parte consistente della classe dirigente americana, quella cioè legata all’apparato militare e dell’intelligence che non vede altra soluzione al declino degli Stati Uniti se non in una politica estera sempre più aggressiva.
Il delirio del giornalismo “mainstream” negli USA, riassunto nella presa di posizione del Post, non fa dunque che giustapporre una serie di fatti non provati all’interno di una ricostruzione della realtà del tutto capovolta, così da sostenere una tesi preconfezionata a sostegno di un preciso obiettivo politico. Ovvero la promozione della candidatura di Hillary Clinton.L’editoriale si apre con una frase che lascia poco spazio ai dubbi. A Vladimir Putin, cioè, “dovrebbe andare la responsabilità del caos fratricida che ha agitato il Partito Democratico alla vigilia della convention”. “Esperti di cyber sicurezza - continua l’articolo - ritengono probabile che l’intelligence russa sia penetrata nei server del DNC”. Quindi, le rivelazioni di WikiLeaks sono giunte perfettamente a tempo per alimentare le tensioni in casa Democratica, in particolare tra i sostenitori di Sanders e quelli di Hillary, con il preciso intento di penalizzare quest’ultima.
Putin, d’altronde, per i vertici del Washington Post ha cercato in molte occasioni di “intervenire nelle vicende politiche interne di numerosi paesi europei”, come l’Ucraina o la Moldavia, ma anche la Francia e l’Italia. Eventuali interferenze russe, se pure esistono, sono peraltro trascurabili in confronto a quelle degli Stati Uniti, di cui non è possibile rendere conto in maniera anche solo superficiale per ragioni di spazio.
Ancor più, queste tesi cercano deliberatamente di occultare i veri motivi di tensioni e divisioni emerse alla convention di Philadelphia. Non sono infatti Trump, Putin o WikiLeaks a infiammare gli animi tra i Democratici, quanto piuttosto la realtà di un partito che vede su posizioni opposte da una parte i vertici e una candidata guerrafondaia e al servizio di Wall Street e, dall’altra, una base animata in gran parte dal desiderio di vedere attuata un’agenda progressista e che alle primarie aveva illusoriamente appoggiato Sanders.
In ogni caso, secondo la versione ufficiale, cyber-agenti russi avrebbero ottenuto l’accesso alle e-mail dei dirigenti del Partito Democratico per colpire Hillary Clinton e favorire l’ascesa alla presidenza di Trump, notoriamente ammiratore di Putin e del suo regime.
L’equazione Putin-Trump è sostenuta in questi giorni da quasi tutti i principali giornali americani e, al di là delle considerazione insensate su una teorica alleanza tra i due, essa aiuta a comprendere la natura dei timori nutriti da molti verso il candidato Repubblicano negli ambienti di potere di Washington.
Non solo Trump in questi mesi ha espresso varie volte una certa ammirazione per il presidente russo, ma ha anche manifestato l’intenzione di ristabilire relazioni distese con Mosca. Inoltre, in un’intervista rilasciata al New York Times durante la convention Repubblicana di Cleveland, Trump aveva fatto rabbrividire la galassia “neo-con” al servizio dell’imperialismo americano, prospettando un relativo disimpegno degli Stati Uniti dalla NATO e dai vincoli che li legano agli alleati.
Ciò comporterebbe un arretramento dalle politiche egemoniche perseguite in maniera aggressiva dagli USA in ogni angolo del pianeta e, in particolare, nei confronti di potenze rivali come Russia e Cina. Che poi un eventuale presidente Trump farebbe una rapida marcia indietro a causa delle pressioni dell’establishment, è più che probabile. Tuttavia, in un’atmosfera dominata dalla demonizzazione di Mosca, sentire un candidato alla Casa Bianca mettere ad esempio in dubbio l’appoggio della NATO ai paesi baltici in caso di aggressione russa deve avere turbato seriamente molti anche all’interno del Partito Repubblicano.
Gli attacchi contro il Cremlino e le critiche a Trump per le sue tendenze isolazioniste servono così anche alla strategia del clan Clinton di consolidare l’immagine della ex first lady come la candidata più idonea a proseguire e, anzi, intensificare le aggressive politiche anti-russe dell’amministrazione Obama.
Sempre con lo stesso obiettivo, lunedì la testata on-line americana The Daily Beast ha poi dato la notizia del sospetto da parte dell’FBI che l’hackeraggio ai danni del DNC, presumibilmente in corso da un anno, e la consegna del materiale così ottenuto a WikiLeaks sarebbero opera dell’intelligence russa.
Come se l’intervento della polizia federale USA fosse prova della veridicità delle accuse, lo stesso sito cerca poi di convincere i suoi lettori circa l’esistenza di un piano del Cremlino per “sottrarre a Hillary Clinton la possibilità di diventare il prossimo presidente”, poiché il “candidato preferito [di Putin] è Donald Trump”. A questo scopo vengono inutilmente elencate una serie di manovre messe in atto durante la Guerra Fredda dal KGB per screditare la “democrazia” americana.Se è con ogni probabilità vero che il presidente russo vedrebbe con minore preoccupazione una vittoria di Trump, ciò non costituisce prova che ci sia un intervento clandestino nelle vicende politiche interne degli USA da parte del suo governo, cosa che invece ha fatto e continua a fare proprio quello americano in moltissimi paesi.
La campagna in atto per collegare Putin a Trump sta sfruttando infine anche gli interessi economici di quest’ultimo in Russia che risalirebbero addirittura agli ultimi anni dell’era sovietica. Precedenti incarichi del numero uno della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort, vengono poi citati come ulteriore prova dei suoi legami con il Cremlino. Manafort aveva infatti lavorato come consulente per l’ex presidente ucraino filo-russo, Viktor Yanukovych, deposto nel 2014 da un golpe di estrema destra organizzato e appoggiato dall’amministrazione Obama.
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di Michele Paris
Con una parziale vittoria diplomatica sugli Stati Uniti, la Cina ha ottenuto lunedì lo stralcio di qualsiasi riferimento esplicito alla recente sentenza della Corte Arbitrale Permanente de L’Aja sulle contese nel Mar Cinese Meridionale dal tradizionale comunicato congiunto emesso durante il summit dei dieci membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), in corso questa settimana in Laos.
Questo gruppo di paesi, le cui economie sommate costituirebbero la settima potenza del pianeta, è da tempo esposto alle pressioni di Washington e Pechino per orientarne le deliberazioni secondo i rispettivi interessi strategici. L’ASEAN è diventata in sostanza uno dei terreni di scontro tra USA e Cina, con i primi che cercano di portare le dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale al centro delle discussioni di un forum multilaterale, mentre la seconda continua a prediligere la soluzione delle controversie su un piano esclusivamente bilaterale.
Come già era accaduto nei vertici ASEAN degli ultimi anni, anche in questa occasione le sedute sono state caratterizzate da accese trattative che hanno visto gli inviati di Washington e Pechino impegnati a convincere i delegati dei paesi membri a sostenere le loro posizioni.
L’incontro di Vientiane, la capitale del Laos, ha assunto un’importanza diplomatica particolare, essendo il primo di questa organizzazione a tenersi dopo la già citata opinione del tribunale internazionale che, in base alla Convenzione ONU sul Diritto del Mare (UNCLOS), ha accolto in buona parte la causa intentata dalle Filippine contro la Cina.
Proprio il governo di Manila, assieme al Vietnam, cioè l’altro paese maggiormente disposto a seguire la linea provocatoria degli Stati Uniti nel sud-est asiatico, aveva spinto per convincere gli altri membri dell’ASEAN a produrre un comunicato ufficiale che facesse riferimento alla sentenza, fermamente respinta dalla Cina, e alla necessità di rispettarne il contenuto
Gli alleati di Pechino - il Laos e, ancor più, la Cambogia - hanno però sostenuto le posizioni della Cina e, visto che il comunicato ufficiale del vertice deve essere approvato all’unanimità, da quest’ultimo è alla fine rimasto fuori ogni riferimento diretto alla sentenza del Tribunale ONU.
La dichiarazione dell’ASEAN ha soltanto espresso preoccupazione per le attività in corso nel Mar Cinese Meridionale, senza tuttavia condannare la Cina, come volevano gli Stati Uniti. I dieci membri hanno poi riaffermato l’impegno nel “mantenere e promuovere la pace, la stabilità, la sicurezza e la libertà di navigazione e sorvolo nel Mar Cinese Meridionale”, assieme all’auspicio di migliorare la “fiducia reciproca”, nonché l’invito ad agire con moderazione ed “evitare azioni che possano complicare ulteriormente la situazione”.
Nel comunicato si chiede infine l’implementazione del cosiddetto “Codice di comportamento”, ovvero un meccanismo, condiviso dalla Cina, per gestire e risolvere in maniera pacifica le emergenze e i disaccordi derivanti dalle dispute territoriali e marittime nel Mar Cinese Meridionale.
L’amministrazione Obama non è dunque riuscita nemmeno in questa circostanza a ottenere una presa di posizione netta contro la Cina da parte dell’ASEAN. Washington intendeva utilizzare un’eventuale condanna per mostrare alla comunità internazionale che le proprie politiche di contenimento e accerchiamento della Cina non rispondono a una logica unilaterale, ma sarebbero la naturale risposta alle aspirazioni di pace e stabilità dei paesi della regione.In realtà, è precisamente l’inserimento degli USA nelle annose dispute territoriali che caratterizzano il Mar Cinese Meridionale, così come quello Orientale, ad avere infiammato una situazione che per decenni non aveva fatto segnare particolari problemi. Dopo avere lanciato ufficialmente la propria “svolta” asiatica, gli Stati Uniti hanno da un lato sollecitato i loro alleati ad assumere atteggiamenti sempre più aggressivi nei confronti di Pechino, mentre dall’altro hanno intrapreso la strada dell’escalation militare, sia siglando accordi per il posizionamento di forze aeree e navali in pianta più o meno stabile in vari paesi sia conducendo pattugliamenti altamente provocatori all’interno delle acque o degli spazi aerei reclamati dalla Cina.
Le ripetute condanne da parte americana sono rivolte inoltre alla militarizzazione e alle costruzioni cinesi nelle isole e atolli contesi nel Mar Cinese Meridionale, mentre attività simili, sia pure su scala ridotta, da parte di altri paesi, come il Vietnam o le Filippine, vengono puntualmente ignorate, nonostante la dichiarata imparzialità di Washington sulle dispute territoriali.
L’intenzione degli Stati Uniti è comunque quella di dividere i paesi del sud-est asiatico dalla Cina, a costo, come si è visto questa settimana in Laos, di compromettere la stabilità dell’area e lo stesso funzionamento di un organo caratterizzato tradizionalmente dal pacifico consenso interno come l’ASEAN.
Clamoroso fu ad esempio l’esito del summit in Cambogia nel 2012, quando, soprattutto a causa dell’intervento americano, per la prima volta dalla nascita dell’organizzazione nel 1967, i paesi membri non furono in grado di accordarsi su un comunicato ufficiale congiunto.
Malgrado l’impossibilità di ottenere una condanna aperta della condotta cinese in Laos, gli sforzi degli Stati Uniti per umiliare Pechino non cesseranno. Il segretario di Stato, John Kerry, è giunto in Laos lunedì, dove ha avuto discussioni con vari leader dei paesi ASEAN per fare pressioni a seguire le indicazioni americane nel prossimo futuro.
Ancora più chiaro era stato settimana scorsa il vice-presidente, Joe Biden, nel corso di una visita in Australia e Nuova Zelanda. Il numero due della Casa Bianca era stato protagonista di discorsi minacciosi, ribadendo la volontà di Washington di continuare a mantenere una massiccia presenza in Estremo Oriente, al di là del prossimo occupante della Casa Bianca, e invitando i due alleati a partecipare più attivamente alle provocazioni anti-cinesi messe in atto dalle forze navali e aeree americane.La portata destabilizzante delle attività diplomatiche e militari in quest’area del pianeta sta mettendo in seria difficoltà molti paesi, soprattutto quelli che intendono attuare una politica estera equilibrata e mantenere relazioni cordiali con USA e Cina. La crescente rivalità tra le due potenze e il costante declino della posizione internazionale degli Stati Uniti renderanno però sempre più complicato il mantenimento di posizioni caute, viste le pressioni esercitate da Washington.
Un esempio delle conseguenze si potrebbe osservare proprio all’interno dell’ASEAN, le cui divisioni già esistenti rischiano di trasformarsi in vere e proprie spaccature. Come ha spiegato una recente analisi del Wall Street Journal, le frustrazioni degli USA e dei loro alleati per non essere riusciti a ottenere una dichiarazione di condanna della Cina hanno fatto circolare la proposta di cambiare le modalità di voto, abbandonando l’unanimità a favore di una semplice maggioranza per l’approvazione di risoluzioni e comunicati ufficiali.
Ciò potrebbe indebolire in maniera seria un’associazione che, inevitabilmente, sulla spinta delle rivalità tra Washington e Pechino, finirebbe per vedere la formazione di blocchi contrapposti, favorevoli all’una o all’altra delle prime due potenze economiche del pianeta.
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di Michele Paris
Ormai da parecchi anni, la scelta del candidato alla vice-presidenza negli Stati Uniti è sempre meno legata al bisogno di facilitare la conquista di un determinato stato nelle elezioni di novembre o di intercettare il consenso di un determinato gruppo sociale e razziale. Il senso delle decisioni degli aspiranti alla Casa Bianca di entrambi i principali partiti americani, come conferma la scelta del senatore della Virginia, Tim Kaine, da parte di Hillary Clinton, ha a che fare piuttosto con la necessità di consolidare le loro ambizioni alla guida del paese di fronte a determinate sezioni dei rispettivi partiti o, nel caso della ex first lady, all’apparato della sicurezza nazionale e al mondo degli affari.
Già governatore del suo stato e sostenitore della prima ora della campagna di Hillary, Kaine fa parte a tutti gli effetti della destra del Partito Democratico. La sua scelta rappresenta perciò uno schiaffo all’ex rivale Bernie Sanders e, soprattutto, ai sostenitori di quest’ultimo, illusi di ricevere una qualche concessione in senso progressista, ancorché soltanto esteriore, in cambio dell’appoggio ufficiale del senatore del Vermont alla sua rivale nelle primarie.
Scorrendo il curriculum politico di Tim Kaine, si deve faticare per intravedere un voto al Congresso, un’iniziativa o una posizione che ricordi anche lontanamente qualcosa di “sinistra”. L’etichetta di “progressista” applicata al suo nuovo “running mate” da Hillary in un comizio sabato sera a Miami non ha perciò alcun riscontro nella realtà dei fatti.
Al di là delle considerazioni dei media ufficiali negli USA a proposito di una decisione basata sulle presunte garanzie di affidabilità o sulla capacità di raccogliere il voto degli elettori bianchi e di quelli indipendenti, il ruolo di Kaine è principalmente quello di mandare un ulteriore messaggio ai poteri forti americani circa l’orientamento di un’eventuale presidenza Clinton.
Non che la disposizione dell’ex segretario di Stato sia mai stata in discussione. Tuttavia, le pressioni di Sanders e la necessità di assicurarsi il voto dei milioni di elettori Democratici che nelle primarie lo avevano preferito a Hillary poteva lasciare teoricamente aperta la possibilità di un’agenda non del tutto appiattita a destra.
Un segnale alla sinistra del partito in questo senso avrebbe potuto arrivare dalla scelta di un candidato “liberal”, come la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren. Invece, Hillary ha optato per un solido “centrista” i cui precedenti non lasciano molti dubbi. La candidata Democratica alla Casa Bianca aveva addirittura considerato un vice-presidente ancora più gradito all’establishment militare e dell’intelligence, come l’ex comandante supremo della NATO in Europa, generale James Stavridis.
Il nome di quest’ultimo era circolato nei giorni scorsi ma la sua scelta sarebbe stata probabilmente interpretata come un aperto affronto a Sanders e alla maggior parte degli elettori Democratici. La situazione tra la leadership del partito pro-Clinton e la base è oltrettutto già sufficientemente tesa, in particolare dopo la pubblicazione settimana scorsa di circa 20 mila e-mail del Comitato Nazionale Democratico da parte di WikiLeaks, in molte delle quali veniva discusso di come indebolire Bernie Sanders durante le primarie e favorire Hillary.Le inclinazioni di Tim Kaine sono in ogni caso inequivocabili e rivelano gli indirizzi di una possibile amministrazione Clinton. Molto vicino e ben visto da Wall Street, il senatore della Virginia ha presieduto da governatore in questo stato a tagli alla spesa pubblica per svariati miliardi di dollari tra il 2006 e il 2010.
Kaine è poi un fermo sostenitore della deregolamentazione dell’industria finanziaria. Solo qualche giorno prima di essere nominato ufficialmente candidato alla vice-presidenza, Kaine, assieme ad altri senatori, aveva indirizzato due lettere - una alla numero uno della Fed americana, Janet Yellen, e l’altra all’agenzia federale deputata alla protezione dei clienti del settore finanziario - per chiedere un’implementazione meno stringente delle regolamentazioni previste per le banche medio-piccole.
Nemmeno in materia di politica estera vi sono particolari differenze tra Kaine e Hillary. Anche il primo chiede da tempo un impegno militare ancora maggiore degli Stati Uniti in Medio Oriente, mentre appoggia in pieno le provocazioni nei confronti di Russia e Cina, rispettivamente in Europa orientale e in Estremo Oriente. Come Hillary, Kaine aveva appoggiato la cosiddetta Partnership Trans Pacifica (TPP), il controverso trattato di libero scambio che intende promuovere il capitale USA tra una decina di paesi asiatici e del continente americano, prima di dichiarasi contrario vista l’avversione ad esso degli elettori Democratici.
Anche sui temi sociali Kaine può essere considerato oggettivamente conservatore, se non reazionario. Di fede cattolica, l’ex governatore della Virginia è contrario all’aborto, anche se assicura di voler difenderne il diritto previsto dalla legge. Al contrario, della pena capitale si dice oppositore ma, essendo essa prevista nel suo stato, da governatore ha ratificato numerose condanne a morte.
Molti sostenitori “liberal” di Hillary Clinton temono che la scelta di Kaine possa alienare ancor più gli elettori Democratici che si erano mobilitati nelle primarie per Bernie Sanders. Inoltre, i malumori di questi ultimi potrebbero essere sfruttati dal candidato Repubblicano alla presidenza.Donald Trump ha infatti già attaccato la coppia di rivali, ricordando anche i guai legali di Kaine, in passato finito sotto accusa per avere accettato “regali” del valore di 160 mila dollari da aziende e ricchi uomini d’affari con interessi in Virginia, stato dove era stato non solo governatore ma in precedenza anche vice-governatore.
A Kaine era stato in realtà riconosciuto di non avere violato alcuna legge, ma questi precedenti potrebbero comunque fornire ai Repubblicani l’occasione per attaccare il “ticket” presidenziale Democratico, già gravato dalla percezione degli elettori, del tutto corretta, della scarsa integrità morale di Hillary Clinton.
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di Mario Lombardo
L’assegnazione ufficiale della nomination Repubblicana per le elezioni presidenziali di novembre a Donald Trump è avvenuta martedì sera a Cleveland nell’atmosfera quanto mai appropriata di una convention che ha dato libero sfogo alle tendenze più retrograde e reazionarie di una politica e di una società americane in stato di profondissima crisi.
Il miliardario di New York è riuscito alla fine a scongiurare tutti i tentativi di quanti all’interno del partito intendevano ostacolare la sua nomina a candidato alla Casa Bianca, nonostante il record di consensi ottenuto durante le primarie. Il conteggio dei voti espressi dai delegati riuniti nella città dell’Ohio ha però mostrato le forti resistenze alla scelta di Trump. Il numero dei contrari alla nomination del candidato Repubblicano che correrà quest’anno per la presidenza degli Stati Uniti è stato infatti il più alto dal 1976, quando a Kansas City Gerald Ford sconfisse di misura Ronald Reagan.
Anche per coloro che hanno una qualche esperienza nelle convention dei due principali partiti americani, cioè notoriamente eventi che offrono spesso uno spettacolo degradante, il livello toccato da quella Repubblicana in corso è oggettivamente difficile da commentare.
Non solo i delegati del partito hanno consegnato la nomination per la prima volta a un candidato dalle inclinazioni apertamente fasciste, ma praticamente tutti gli interventi sul palco della convention sono stati all’insegna della celebrazione dell’autoritarismo, dell’ultra-liberismo, del razzismo e del presunto “eccezionalismo” statunitense.
Se la desolazione di Cleveland è la manifestazione di un processo che ha visto da almeno tre decenni lo spostamento a destra della classe politica americana, è opportuno domandarsi, visti gli scenari odierni, cosa ne sarà, anche a livello soltanto formale, dei rimanenti principi democratici negli USA in caso di una presidenza Trump o che spazio resterà per questi ultimi tra quattro o otto anni.
Visti i discorsi dei vari leader Repubblicani e il clima della convention, dunque, è apparso meno sorprendente che a correre per la presidenza sia un individuo come Donald Trump. In un panorama segnato dalle esplosive tensioni sociali, generate da un sistema che tende ad ampliare sempre più la forbice tra i super-ricchi e il resto della popolazione, e dalla crescente indifferenza della classe dirigente americana per i meccanismi della democrazia rappresentativa, il degno rappresentante del Partito Repubblicano non può che essere un uomo d’affari miliardario che incarna la natura corrotta e fondamentalmente criminale del capitalismo a stelle e strisce.
La stagione elettorale 2016 e l’epilogo della competizione interna tra i Repubblicani segnano insomma una tappa cruciale nella degenerazione della “democrazia” negli Stati Uniti. Con buona pace di quanti, soprattutto a destra, vedono l’emergere di Trump come un’anomalia transitoria in un sistema tutto sommato sano.I suoi successi nelle primarie non sono stati peraltro casuali né dovuti alla sua notorietà derivata dall’ampia esposizione mediatica di cui gode da decenni. Di fronte a una schiera di candidati che erano l’emanazione dell’establishment Repubblicano, Trump ha saputo intercettare un malessere radicato tra gli elettori americani, in buona parte bianchi e di reddito medio-basso.
Trump ha in definitiva riconosciuto la situazione di crisi dell’economia e della posizione internazionale degli Stati Uniti, prospettando una visione populista che contrasta, almeno a parole, con il sistema di governo consolidato e promettendo la salvaguardia dei programmi di assistenza sociale, la creazione di posti lavoro nell’industria, lo stop all’immigrazione clandestina e il relativo ridimensionamento degli impegni militari all’estero.
Le problematiche sollevate da Trump sono effettivamente sentite dagli americani e gli hanno permesso di trionfare contro un partito che ha abbandonato da tempo ogni pretesa anche esteriore di difendere interessi che vadano al di là di quelli dei super-ricchi. Le frustrazioni raccolte da Trump vengono in ogni caso convogliate in una direzione completamente reazionaria, evidente da alcune delle proposte avanzate in campagna elettorale. Tristemente nota è ad esempio la costruzione di un muro lungo tutto il confine con il Messico, ma anche l’espulsione dagli USA di 11 milioni di immigrati clandestini, lo stop all’ingresso nel paese di chiunque professi la fede islamica e l’autorizzazione alle torture negli interrogatori di presunti terroristi.
Alcune delle proposte di Trump sono finite per entrare nella piattaforma del Partito Repubblicano approvata dalla convention a inizio settimana. Nel documento spiccano iniziative come l’abbattimento del carico fiscale che grava sulle aziende, il sostanziale smantellamento delle rimanenti regolamentazioni al business statunitense, la drastica riduzione del programma pubblico di assistenza sanitaria per i redditi più bassi, Medicaid, e la trasformazione di quello riservato agli anziani, Medicare, in semplici sussidi per l’acquisto di polizze private.
Ancora, il programma Repubblicano include la costruzione del muro per ostacolare l’immigrazione da sud, teoricamente a spese del governo messicano, mentre minaccia di rendere illegale l’aborto, respinge la legalizzazione dei matrimoni gay, definisce la pornografia come una “crisi sanitaria pubblica” e il carbone come una fonte di “energia pulita”.
Dalle implicazioni inquietanti è inoltre la sezione dedicata alla politica estera degli Stati Uniti. In sostanza, tutto il mondo dovrebbe sottomettersi agli interessi del capitalismo americano e, in particolare, vengono enunciate posizioni estremamente rigide nei confronti di Cina, Russia, Iran e Siria, nonostante in varie occasioni Trump abbia prospettato rapporti più distesi, ad esempio, con Mosca.
Come già anticipato, il Partito Repubblicano è ben lontano dall’essere integralmente allineato al proprio candidato alla Casa Bianca. Alcune personalità invitate a parlare alla convention hanno lasciato trasparire le differenze con Trump e gli imbarazzi provocati dalla presenza di quest’ultimo alla guida del “ticket” presidenziale.
Uno degli esempi più evidenti delle divisioni interne al partito è stato il discorso dello “speaker” della Camera del Rappresentanti di Washington, Paul Ryan. Il candidato alla vice-presidenza con Mitt Romney nel 2012 ha parlato più che altro della propria visione per il futuro degli Stati Uniti, praticamente senza nessun riferimento a Trump. I due leader Repubblicani hanno opinioni parzialmente diverse su varie questioni, con Trump che, soprattutto per ragioni elettorali, non ha finora sposato le idee “riformistiche” di Ryan in materia di spesa pubblica.Trump, in ogni caso, ha cercato di placare gli animi attorno alla sua candidatura scegliendo settimana scorsa come candidato alla vice-presidenza un politico legato all’ala conservatrice del partito. Il governatore dell’Indiana ed ex deputato, Mike Pence, ha messo in atto nel suo stato misure discriminatorie nei confronti degli omosessuali e ha reso più complicato l’accesso all’aborto, mentre durante la sua permanenza al Congresso ha appoggiato le guerre degli Stati Uniti all’estero e svariati provvedimenti anti-immigrazione.
La qualità principale di Pence è però quella di avere stretti legami con la rete dei ricchi finanziatori del partito, a cominciare dai multi-miliardari ultra-conservatori fratelli Koch, finora decisamente cauti nell’elargire fondi proprio a causa della presenza di Donald Trump.