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di Michele Paris
La campagna per la Casa Bianca di Donald Trump è precipitata nel caos in questi ultimi giorni in seguito all’ennesima serie di controversie che hanno coinvolto il candidato Repubblicano. L’impreparazione di Trump, sommata a tendenze fascistoidi e a un atteggiamento pericolosamente impulsivo, ha scatenato il panico nel partito, aggiungendosi ai continui attacchi da destra portati da Hillary Clinton e dai Democratici a partire dalla loro convention chiusasi settimana scorsa a Philadelphia.
Tutti i giornali americani hanno dato spazio agli sfoghi e alla manifestazione dei timori di leader ed esponenti del Partito Repubblicano per l’incapacità evidenziata da Trump di evitare polemiche che rischiano di costargli voti o, quanto meno, una copertura mediatica costantemente negativa. Le frustrazioni sono accentuate dal fatto che Hillary, grazie soprattutto a Trump, è riuscita per il momento a superare senza particolari danni varie vicende che, in condizioni normali, avrebbero penalizzato in maniera pesante qualsiasi altro candidato.
Tra i Repubblicani la preoccupazione per la condotta del loro candidato alla presidenza ha raggiunto un livello tale che mercoledì sono iniziate a circolare voci su un possibile clamoroso ritiro dalla corsa di Trump. ABC News, ad esempio, ha descritto un partito già intento a studiare, se non una rosa di sostituti, almeno le modalità per favorire un’uscita di scena di Trump.
Inutile sottolineare che un simile scenario è del tutto straordinario, visto che Trump ha incassato la nomination ufficiale alla convention Repubblicana solo due settimane fa, mentre né lui né nessun membro del suo staff ha dato il minimo segnale di un possibile abbandono della competizione.
Il Comitato Nazionale Repubblicano è dovuto intervenire mercoledì per smentire le voci su possibili piani per rimpiazzare Trump e per confermare la fiducia del partito nell’attuale candidato. La sola necessità di emettere un comunicato ufficiale sulla questione sollevata dai media è però già di per sé una prova del caos che sembra dominare in casa Repubblicana.
I nuovi problemi per Trump erano iniziati settimana scorsa con le sue critiche, anche di stampo razzista, ai genitori del capitano dell’esercito di origine pakistana, Humayun Khan, ucciso in Iraq da un attacco suicida. Khizr e Ghazala Khan avevano a loro volta attaccato il miliardario newyorchese sul palco della convention Democratica per le sue proposte dirette contro i musulmani.
Le critiche, o gli insulti, di Trump avevano scatenato una valanga di condanne da entrambi gli schieramenti, anche perché il candidato Repubblicano era tornato più volte sulla questione senza accennare a un abbassamento dei toni. La macchina dei media “mainstream” ha ovviamente cavalcato e amplificato la polemica, tralasciando qualsiasi critica del conflitto in Iraq, appoggiato in pieno nel 2003 da Hillary Clinton, e sfruttando l’occasione per celebrare ancora una volta il militarismo americano.L’apparizione dei coniugi Khan a Philadelphia era stata inoltre una manovra studiata a tavolino dai vertici Democratici, come hanno confermato le notizie apparse successivamente sui legami dello studio legale per il quale lavorava il padre del capitano ucciso in Iraq con la famiglia Clinton e il loro partito.
Nel pieno di questa controversia, Trump si è poi gettato in un altro ginepraio. Martedì, in un’intervista al Washington Post, si è cioè rifiutato di dare il proprio sostegno ufficiale a due pezzi grossi del partito impegnati nelle primarie Repubblicane nel mese di agosto, il senatore dell’Arizona, John McCain, e lo “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan. Entrambi avevano criticato Trump dopo le sue dichiarazioni sui genitori del capitano Khan.
Un commento della testata on-line Politico ha fatto notare come un affronto a Ryan da parte di Trump potrebbe avere conseguenze “devastanti” per la sua campagna. Infatti, ciò potrebbe “spezzare la fragile pace che Priebus [il segretario del Partito Repubblicano] e altri si sono adoperati per negoziare tra il partito e il suo candidato”. Quello di Ryan è d’altra parte “l’endorsement Repubblicano più prezioso ottenuto da Donald Trump”.
Ryan aveva appoggiato la candidatura di Trump dopo molte incertezze, ma la sua mossa aveva contribuito a farlo accettare, sia pure in maniera riluttante, a una buona parte del partito. Che questa tregua sia però a rischio è ora evidente da dichiarazioni come quella dell’ex deputato Repubblicano Vin Weber, già stretto collaboratore dell’ex “speaker” della Camera Newt Gingrich, il quale ha definito la nomination di Trump “un errore di proporzioni storiche”.
Lo stesso Gingrich ha parlato di tendenze “auto-distruttive” di Trump, dicendosi poi tutt’altro che certo che i problemi manifestati fin qui dalla sua campagna siano risolvibili. Proprio l’ex “speaker”, secondo la NBC, assieme all’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, e al numero uno del Comitato Nazionale Repubblicano, Reince Priebus, potrebbe essere messo a capo di un team con l’incarico di “salvare” la candidatura di Trump, cercando di modificarne il corso.
Lo staff di quest’ultimo ha smentito l’esistenza di un piano simile, ma qualche timido tentativo di riparare i danni dei giorni scorsi si è intravisto. In questo senso può essere inteso l’appoggio a Ryan nelle primarie del Wisconsin di martedì prossimo espresso dal candidato alla vice-presidenza, Mike Pence. Il governatore dell’Indiana ha anzi sostenuto di avere preso la decisione su consiglio di Trump.
Le scosse provocate nel Partito Repubblicano dalla nomination di Trump sono comunque innegabili. A poco più di tre mesi dal voto le defezioni iniziano ad assumere un ritmo preoccupante. Questa settimana, il deputato dello stato di New York, Richard Hanna, è stato il primo membro Repubblicano del Congresso a dichiarare il proprio sostegno a Hillary Clinton. Poco più tardi, anche il deputato dell’Illinois e veterano dell’aeronautica militare, Adam Kinzinger, ha dichiarato di non potere accettare la candidatura di Trump.
Hillary ha ottenuto inoltre l’appoggio di tre donne influenti negli ambienti Repubblicani: le ex consigliere di Jeb Bush e del governatore del New Jersey Chris Christie, rispettivamente Sally Bradshaw e Maria Comella, e la presidente e amministratrice delegata di Hewlett Packard, nonché candidata senza successo a governatrice della California nel 2010, Meg Whitman.
L’appoggio di quest’ultima a Hillary è solo il più recente espresso per la candidata Democratica da ricchi finanziatori Repubblicani e da ex membri di amministrazioni ugualmente Repubblicane con competenze nell’ambito della “sicurezza nazionale”. Questa tendenza conferma che l’ex segretario di Stato è considerata più affidabile per la promozione degli interessi dell’imperialismo americano rispetto a Trump.
Il candidato Repubblicano continua infatti a essere attaccato da destra da Hillary e dai suoi sostenitori per avere espresso posizioni troppo concilianti nei confronti della Russia e del presidente Putin, ma anche perplessità sul ruolo della NATO. Le posizioni di Trump in politica estera, anche se spesso confuse ed evidentemente soggette a un’inversione di rotta in caso di successo nelle presidenziali, sono una delle ragioni principali dell’ostilità che sta incontrando nel suo stesso partito.
In ogni caso, benché i sondaggi più recenti indichino un costante vantaggio di Hillary Clinton su scala nazionale, la forbice tra i due candidati alla Casa Bianca non appare eccessivamente ampia se si considera la lunga lista di gaffe commesse da Donald Trump.Il suo scontrarsi con l’establishment Repubblicano, i media ufficiali e la famiglia Clinton, assieme alla capacità di cavalcare le frustrazioni nei confronti del sistema di una parte - quella più disorientata - delle classi maggiormente colpite dal declino economico degli Stati Uniti, non è detto che rappresenti un impedimento alla sua corsa alla presidenza. Hillary è d’altra parte l’essenza stessa dello status quo di Washington e rimane una delle figure più disprezzate di tutto il panorama politico americano.
Forse proprio queste dinamiche aiutano a inquadrare l’unica notizia positiva arrivata per Trump negli ultimi giorni, quella relativa alle finanze della sua campagna. Dopo gli stenti dei mesi scorsi, a luglio l’organizzazione di Trump e il Comitato Nazionale Repubblicano hanno fatto segnare un’impennata delle donazioni, salite a 80 milioni di dollari, contro i 90 raccolti da Hillary.
I dati indicano soprattutto un’esplosione delle donazioni fatte di importi modesti, decisamente insolite per il candidato di un partito notoriamente controllato da ricchi e super-ricchi, molti dei quali, infatti, in questa tornata elettorale hanno deciso di mettere le loro risorse a disposizione dell’aspirante Democratica alla Casa Bianca.
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di Michele Paris
L’avvicendamento alla guida del governo britannico dopo il clamoroso esito del voto sulla “Brexit” sembra avere innescato un riallineamento strategico ed economico da parte di Londra che minaccia di azzerare gli sforzi dell’ex premier, David Cameron, e del suo Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, per inaugurare quella che è stata definita come “un’era dorata” nelle relazioni con la Cina.
Il segnale finora più chiaro della possibile inversione di rotta da parte del nuovo primo ministro, Theresa May, è giunto la settimana scorsa, con il rinvio dell’approvazione di un accordo per la costruzione di una nuova centrale nucleare in Gran Bretagna, da finanziare con capitali francesi e cinesi.
Il progetto del nuovo impianto era stato ideato più di un decennio fa, ma solo recentemente il governo Cameron aveva agito concretamente per accelerarne la realizzazione. I lavori per la centrale dovrebbero iniziare nel 2019 e finire nel 2025. La costruzione e il finanziamento erano stati affidati per i due terzi alla compagnia francese EDF (Électricité de France), all’84,5% di proprietà pubblica, e il resto alla cinese CGN (China General Nuclear Corporation), anch’essa di proprietà statale.
La centrale dovrebbe chiamarsi “Hinkley Point C” e sorgere nel Somerset, nel sud-ovest dell’Inghilterra, a un costo complessivo di circa 18 miliardi di sterline e con una capacità di 3.200 megawatt, pari a circa il 7% del fabbisogno energetico britannico.
Il governo May ha sospeso la decisione sulla centrale con tempismo e modalità sospetti che hanno fatto infuriare sia la Francia sia la Cina. Il ministro dell’Energia, Greg Clark, aveva annunciato nella serata di giovedì scorso la volontà di studiare nuovamente il progetto e di esprimere un parere definitivo il prossimo autunno, nonostante per la mattina successiva fosse già stata organizzata una cerimonia sulla costa del Somerset che avrebbe dovuto fare da sfondo alla firma di un contratto vincolante tra le parti coinvolte.
Non solo, poche ore prima dell’annuncio del governo Conservatore, il consiglio di amministrazione di EDF aveva approvato con una maggioranza di 10 voti a 7 il progetto della centrale, superando forti riserve su costi e possibili problematiche tecniche.
La risposta cinese alla decisione del governo di Londra è stata affidata principalmente ai media ufficiali, come l’agenzia di stampa Xinhua, sul cui sito web è apparso questa settimana un commento nel quale si prospettano complicazioni nelle relazioni bilaterali e il possibile “ripensamento” degli investimenti di Pechino in Gran Bretagna. Per il governo cinese, la centrale di Hinkley Point risulta di estrema importanza. Il progetto, anche se in compartecipazione, è stato il primo di una compagnia cinese nel settore nucleare in Occidente e un’eventuale riuscita potrebbe garantire accordi simili in altri paesi.
Per molti commentatori, la centrale ha comunque buone possibilità di essere realizzata, visto lo stato avanzato dei piani di costruzione e il numero di posti di lavoro che essa offrirebbe in Gran Bretagna. Tuttavia, il rinvio della firma sul contratto è indubbiamente un segnale molto chiaro indirizzato da Londra a Pechino, cioè che il nuovo governo potrebbe non continuare a percorrere la stessa strada di quello precedente nei rapporti con la Cina.
La compagnia cinese CGN ha altri progetti in corso in Gran Bretagna e da essi potrebbe quindi vedersi esclusa se il governo May dovesse irrigidire le proprie posizioni nei confronti della Cina. Per la costruzione della centrale nucleare “Sizewell C”, nel Suffolk, CGN prevede una partecipazione del 20%, mentre l’80% sarebbe sempre della francese EDF. Le parti sono invertite invece per il progetto, sia pure ancora nelle primissime fasi, di “Bradwell B”, nell’Essex, dove CGN intende partecipare al 66,5% e fornire tecnologia cinese.Il comportamento di Theresa May risponde ai timori di quanti, tra la classe dirigente britannica, ritengono che Cameron e Osborne siano andati troppo in là nell’offrire a un paese come la Cina il controllo di impianti e infrastrutture in settori sensibili come quello energetico.
Il precedente governo Conservatore aveva evidentemente suscitato parecchie perplessità in patria e non solo nel mettere in atto politiche che avevano fatto o ambivano a fare della Gran Bretagna il principale partner europeo di Pechino. Le frustrazioni di questi ambienti erano state in qualche modo espresse da un’insolita uscita della regina Elisabetta durante una visita a Londra del presidente cinese, Xi Jinping, nell’ottobre del 2015.
L’episodio, catturato da una telecamera e reso pubblico lo scorso maggio, era stato definito accidentale dai media britannici ma è in realtà apparso attentamente studiato per richiamare l’attenzione sia del governo Cameron sia di Pechino. La sovrana, nel corso di un ricevimento ufficiale, aveva cioè manifestato la propria insofferenza nei confronti della delegazione cinese, definendola “molto scortese” verso l’ambasciatore britannico.
Le scelte di Cameron avevano incontrato inoltre la disapprovazione anche del governo americano, risentito in particolare per la decisione di Londra nella primavera dello scorso anno di partecipare alla fondazione della Banca Asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti (AIIB) nonostante gli avvertimenti contrari di Washington. Questo organismo è stato lanciato dalla Cina principalmente per sostenere il colossale progetto di integrazione economica euro-asiatica promosso da Pechino e si pone in competizione con istituzioni come la Banca Mondiale o la Banca Asiatica per lo Sviluppo, tradizionalmente dominate dagli Stati Uniti e dai loro alleati.
La decisione sulla centrale nucleare di Hinkley Point del governo May non è sorprendente se si considera l’attitudine del nuovo primo ministro verso la Cina. Ministro dell’Interno con Cameron per sei anni, Theresa May durante le riunioni di gabinetto aveva espresso in varie occasioni le proprie riserve sull’apertura di alcuni settori strategici del mercato britannico alle compagnie cinesi.
Accordi come quello siglato da British Telecom con il gigante Huawei avevano ad esempio messo in allarme l’allora ministro, il cui capo dello staff, Nick Timothy, nel pieno della visita del presidente cinese Xi dello scorso anno scriveva su un sito filo-Conservatore dei rischi per la sicurezza britannica derivanti dal controllo di impianti strategici nel settore energetico da parte di Pechino. Timothy descriveva la Cina come un “paese ostile”, mentre “il commercio e gli investimenti” con quest’ultimo, per quanto ingenti, non potevano giustificare il “facile accesso a infrastrutture cruciali” per la Gran Bretagna.
I sospetti della May nei confronti della Cina sono dovuti probabilmente ai noti legami stabiliti con l’apparato militare e dell’intelligence britannico. In un’intervista al Sunday Telegraph, Vince Cable, ex ministro Liberal Democratico nel governo di coalizione di David Cameron tra il 2010 e il 2015, ha recentemente rivelato i “pregiudizi” di Theresa May verso la Cina e, in particolare, per gli investimenti cinesi in Gran Bretagna.
Cable racconta ad esempio di come le riserve della May sull’allentamento delle restrizioni per l’ottenimento dei visti d’ingresso in Gran Bretagna da parte di uomini d’affari cinesi fossero state superate solo con l’intervento di Cameron e Osborne. In generale, spiega Cable, l’attuale primo ministro aveva un atteggiamento più sospettoso verso la Cina, “in linea con le posizioni americane”. Di conseguenza, anche la questione della centrale di Hinkley Point fu oggetto di critiche da parte della May quando questa venne discussa all’interno del gabinetto.
Per attenuare i contraccolpi della recente decisione sulla centrale nucleare, una portavoce del primo ministro ha affermato questa settimana che Londra intende “continuare a perseguire relazioni solide con la Cina”. L’intervento potrebbe essere giunto in risposta ai malumori all’interno del gabinetto, riportati ad esempio da un articolo del Financial Times che ipotizzava possibili dimissioni di Jim O’Neill, “addetto commerciale” del Tesoro, proprio a causa dell’approccio verso Pechino di Theresa May.Le future decisioni del primo ministro in questo ambito potrebbero dunque avere conseguenze significative sulle scelte strategiche britanniche e nei rapporti tra Londra e Pechino. Il legame speciale tra i due paesi potrebbe indebolirsi, se non addirittura spezzarsi, ancora prima di essersi consolidato. Ciò risulterebbe particolarmente rilevante alla luce del peso degli affari conclusi o in fase di negoziazione con la Cina, ma anche della previsione, condivisa da molti, che la Gran Bretagna avrebbe perseguito politiche filo-cinesi in maniera più incisiva dopo essersi svincolata dall’Unione Europea con il voto a favore della “Brexit”.
Le divisioni nella classe dirigente britannica sulla vendita di industrie e infrastrutture strategiche a entità straniere si sono d’altra parte accentuate in questi anni e si sovrappongono inoltre alle scelte strategiche del paese in un frangente storico caratterizzato dall’inasprirsi della rivalità tra USA e Cina. Le iniziative dei governi Laburisti e Conservatori, secondo i dati dell’Ufficio Nazionale di Statistica, hanno fatto in modo che investitori stranieri posseggano oggi compagnie del Regno per un valore di oltre mille miliardi di sterline.
Questa quota è salita di ben dieci punti percentuali solo tra il 2010 e il 2014 e, come scriveva il Daily Telegraph qualche mese fa citando lo stesso Ufficio di Statistica, è destinata ad aumentare ancora vista “la crescente internazionalizzazione della borsa di Londra e la facilità con cui gli stranieri possono ormai investire “ nel mercato britannico.
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di Michele Paris
A pochi mesi dalla sua definitiva uscita di scena, il presidente americano Obama ha aggiunto questa settimana una nuova voce al suo già lungo elenco di guerre scatenate, ereditate o intensificate a partire dal 2009. I bombardamenti iniziati lunedì sulla città di Sirte, in Libia, per stessa ammissione del Pentagono segnano l’avvio di un’altra “campagna prolungata”, ufficialmente contro lo Stato Islamico (ISIS), e sembrano rappresentare l’esito più appropriato del dibattito interno al Partito Democratico negli Stati Uniti durante e dopo la recente convention di Philadelphia, caratterizzata da un’impronta insolitamente patriottica e guerrafondaia.
A livello formale, l’intervento americano è stato richiesto dal primo ministro libico, Fayez al-Sarraj, dopo che le fazioni armate alleate del suo “governo di accordo nazionale” stanno combattendo da mesi gli uomini del “califfato” nella città dove Gheddafi era stato barbaramente assassinato nell’autunno del 2011. A Sirte, i militanti fondamentalisti avevano fissato il proprio quartier generale in Libia a partire dallo scorso anno e le loro postazioni erano già state colpite da sporadiche incursioni americane, tra cui la più recente, almeno tra quelle riconosciute ufficialmente, nel mese di febbraio.
L’inaugurazione della nuova campagna militare americana in Libia è stata accompagnata dalle solite manovre di propaganda che avevano segnato le precedenti avventure belliche all’estero. La giustificazione per l’intervento, ad esempio, è stata ancora una volta la necessità di combattere forze terroristiche come l’ISIS.
In realtà, il caos che sta vivendo Sirte e l’intera Libia è il risultato proprio del disastroso precedente intervento occidentale nel 2011 per rovesciare il regime di Gheddafi. Gli Stati Uniti e i loro alleati appoggiarono una “rivoluzione” immaginaria nel paese nord-africano, contando su gruppi di ispirazione apertamente fondamentalista.
Alla caduta di Gheddafi, mentre la Libia precipitava nell’anarchia e nelle violenze di innumerevoli milizie armate, la CIA avrebbe poi utilizzato il paese come base di partenza per uomini e armi diretti in Siria con l’obiettivo di replicare lo stesso schema destabilizzante ai danni del regime di Bashar al-Assad.
Questo piano, assieme al contributo degli alleati americani nel Golfo Persico, ha finito per favorire l’arrivo dell’ISIS in Libia, dove gli stessi Stati Uniti intendono ora consolidare la propria presenza attraverso un nuovo rovinoso conflitto.
La sconfitta dell’ISIS non è che un obiettivo tutt’al più secondario per Washington e la profondissima crisi in cui versa la Libia non sarà in nessun modo alleviata dalle bombe americane. L’intervento sembra piuttosto doversi collegare all’evoluzione del quadro mediorientale, segnato da sviluppi ben poco favorevoli agli USA, dal cambio di rotta strategico di Erdogan in Turchia ai successi delle forze russo-siriane contro i “ribelli” sostenuti dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo.
A questi eventi, l’amministrazione Obama intende rispondere in maniera tutt’altro che rassegnata. L’assurda logica dell’apparato militare americano prevede un’escalation bellica senza fine e, in quest’ottica, la guerra bis in Libia potrebbe essere solo l’inizio di una nuova accelerazione dell’impegno militare nell’immediato futuro, soprattutto in caso di successo di Hillary Clinton nelle presidenziali di novembre.Ugualmente consolidate sono poi le modalità pseudo-legali con cui la nuova guerra è stata lanciata in seguito alla decisione del presidente Obama. Come l’intervento in Iraq e in Siria contro l’ISIS, anche i bombardamenti in Libia non sono stati autorizzati da un voto del Congresso, come previsto dalla Costituzione americana. La Casa Bianca ritiene d’altra parte che ciò non sia necessario, dal momento che ormai praticamente ogni missione di guerra sembra trovare un fondamento legale nella “Autorizzazione all’Uso della Forza” (AUMF), approvata dal Congresso nel 2001, per colpire i terroristi considerati responsabili degli attentati dell’11 settembre.
Ancora meno riguardo che per un Congresso tutto sommato compiacente, il governo americano lo ha mostrato nei confronti degli americani. I preparativi per l’offensiva su Sirte in Libia, anche se evidentemente in corso da tempo, non sono stati discussi o presentati pubblicamente, tantomeno prima, durante o dopo la convention Democratica.
Per bombardare l’ISIS in Libia, gli Stati Uniti hanno avuto inoltre bisogno di una richiesta d’aiuto proveniente dall’autorità governativa di questo paese. A livello formale ciò è avvenuto, ma il concetto di governo nella Libia odierna risulta alquanto sfumato. Il governo di unità nazionale del premier Sarraj è stato imposto dalle potenze straniere in seguito a un “accordo” mediato dalle Nazioni Unite per risolvere il conflitto tra due entità contrapposte che rivendicavano il diritto di governare e legiferare.
La stessa invenzione di un nuovo governo con pieni poteri aveva il preciso scopo di istituire un’autorità riconosciuta internazionalmente e con l’autorità di chiedere un intervento militare esterno in Libia, dapprima per far fronte all’emergenza rifugiati e più tardi alla minaccia dell’ISIS.
Dopo mesi dall’arrivo a Tripoli, il governo di Sarraj continua però a faticare a imporre la propria autorità e solo alcuni gruppi armati gli hanno assicurato il proprio sostegno. Gli stessi governi occidentali che lo hanno creato a tavolino mantengono - o hanno mantenuto fino a poco tempo fa - un atteggiamento ambiguo.
Alcune registrazioni relative al controllo del traffico aereo sulla Libia, ottenute dalla testata on-line Middle East Eye e pubblicate a inizio luglio, avevano rivelato come USA, Francia, Gran Bretagna e Italia insistevano nel garantire il loro appoggio alle forze del generale libico Khalifa Hiftar, nonostante a quest’ultimo fosse stato chiesto ufficialmente di riconoscere il nuovo governo installato a Tripoli.
Hiftar è un ex alto ufficiale dell’esercito di Gheddafi diventato dissidente e “asset” della CIA. Dopo la caduta del regime, il generale aveva lasciato l’esilio americano per tornare in Libia nel tentativo di imporsi come nuovo uomo forte nel caos provocato dall’intervento internazionale. Hiftar ha poi cominciato a svolgere un ruolo importante nel combattere le milizie islamiste nell’est del paese e proprio per questa ragione ha continuato a ottenere il supporto dei governi occidentali malgrado il suo rifiuto a sottomettersi al gabinetto guidato da Sarraj.
Secondo quanto dichiarato dai governi di Libia e Stati Uniti, infine, l’intervento militare di Washington si limiterà alle incursioni aeree, mentre non è previsto l’invio di truppe da combattimento. Lo stesso primo ministro ha assicurato che le operazioni “saranno limitate a Sirte e ai sobborghi della città” e il supporto internazionale sul campo sarà soltanto di natura “tecnica e logistica”.Queste rassicurazioni hanno tuttavia poco o nessun valore, vista anche la totale dipendenza dall’Occidente del governo Sarraj, e servono solo a contenere l’ostilità della popolazione libica verso un nuovo intervento di forze straniere. Gli USA e i loro alleati stanno studiando infatti da tempo la possibilità di inviare un contingente militare di terra in Libia e, non appena saranno create le condizioni, ciò potrebbe avvenire senza troppi impedimenti da parte delle autorità locali.
D’altra parte, anche se clandestinamente, un certo numero di militari stranieri è presente da tempo in Libia, come ha confermato la notizia dell’uccisione di tre soldati delle forze speciali francesi in questo paese, annunciata dal presidente Hollande il 21 luglio scorso.
La vicenda aveva creato un certo imbarazzo a Parigi e aveva provocato la dura condanna da parte di quello stesso primo ministro Sarraj che, meno di due settimane più tardi, ha invocato le bombe americane sulla già martoriata città di Sirte.
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di Mario Lombardo
Se l’ex primo ministro Laburista australiano, Kevin Rudd, vedrà andare in fumo i suoi sforzi per succedere a Ban Ki-moon come Segretario Generale delle Nazioni Unite sarà in buona parte proprio a causa del governo del suo stesso paese. Nonostante l’eventuale diversità di schieramento politico, la bocciatura di un candidato alla guida di un organismo internazionale da parte dei leader del proprio paese è piuttosto insolita, soprattutto alla luce del relativo prestigio che deriva dall’incarico. Se si considera il contesto strategico e la posizione internazionale dell’Australia, la vicenda di Kevin Rudd risulta tuttavia molto meno sorprendente.
L’ormai più che probabile naufragio della sua candidatura è stato decretato dal rifiuto di sostenerla in maniera ufficiale da parte del primo ministro conservatore australiano, Malcolm Turnbull. Quest’ultimo ha definito il due volte ex premier ed ex ministro degli Esteri Laburista “non qualificato” per occupare la carica di Segretario Generale dell’ONU, senza però spiegarne le ragioni, ufficialmente per non infliggere ulteriori dispiaceri allo stesso Rudd.
La decisione di Turnbull ha finito per accentuare polemiche e divisioni all’interno di una già fragile coalizione di governo, uscita dalle elezioni anticipate di inizio luglio con una risicatissima maggioranza in una sola delle due camere del parlamento australiano. All’interno anche del gabinetto le opinioni su Rudd sono infatti tutt’altro che uniformi. Il ministro degli Esteri, Julie Bishop, aveva anzi sponsorizzato il leader Laburista, la cui candidatura aveva essa stessa sottoposto all’intero gabinetto.
Kevin Rudd, da parte sua, non ha incassato passivamente la presa di posizione del governo, ma nei giorni scorsi ha reso pubbliche tre lettere che testimoniano come Turnbull avesse appoggiato verbalmente la sua candidatura a Segretario Generale almeno dal mese di novembre prima del clamoroso voltafaccia.
Discussioni sull’argomento sarebbero avvenute anche il 23 dicembre negli uffici del primo ministro a Sydney, dove quest’ultimo avrebbe comunicato a Rudd la necessità di ottenere dal governo l’appoggio alla sua candidatura. Ciò avrebbe dovuto essere però una semplice formalità, in modo da evitare l’impressione che si trattasse di una decisione unilaterale presa dal premier.
Turnbull ha smentito la versione di Rudd, ribattendo che, in tutti i loro faccia a faccia, all’ex primo ministro Laburista era stato comunicato che l’eventuale appoggio ufficiale alla sua candidatura sarebbe stato deciso all’interno del gabinetto. Malgrado le smentite, Rudd è riuscito a mettere in serio imbarazzo il premier e, come ha scritto lunedì il quotidiano australiano Sydney Morning Herald, ha “alimentato il sospetto che [Turnbull] sia stato esposto alle pressioni della destra del suo partito [Liberale] per respingere la candidatura”.
In effetti, svariati leader della coalizione “Liberale-Nazionale” avevano sparato a zero su Kevin Rudd, in particolare quelli vicini all’ex primo ministro Tony Abbott, deposto da Turnbull lo scorso settembre con un colpo di mano interno al partito. Anche membri autorevoli del governo si erano lasciati andare a dichiarazioni al limite dell’offensivo nei confronti di Rudd per evidenziarne le carenze caratteriali e i limiti nella capacità di gestire le attività connesse a un incarico così importante e delicato.
Il ministro del Bilancio, Scott Morrison, aveva ad esempio affermato di non potere nemmeno spiegare apertamente le ragioni per cui Rudd è da considerarsi inadatto a guidare le Nazioni Unite, mentre quello dell’Immigrazione, Peter Dutton, aveva definito l’ex premier una sorta di “megalomane” che farebbe impallidire “l’ego di Donald Trump”. Per l’ex ministro ed ex leader dei Liberali al Senato, Eric Abetz, Rudd sarebbe invece un “narcisista” con l’impulso a controllare maniacalmente ogni minimo dettaglio legato alle proprie mansioni.
D’altro canto, anche all’interno del “Labor” ci sono state prese di posizione contrarie a Rudd, pur prevalendo le critiche al governo per avere sacrificato gli interessi dell’Australia a calcoli politici di parte. L’opposizione e molti commentatori sui media ufficiali hanno inoltre puntato il dito contro un primo ministro e un esecutivo che, essendo finiti nella bufera per una questione apparentemente inoffensiva come la candidatura di un australiano alla carica di Segretario Generale dell’ONU, difficilmente sapranno affrontare le sfide ben più complesse che si prospettano per il paese.
Il siluramento di Kevin Rudd, a un’analisi superficiale, appare effettivamente difficile da spiegare. Due volte capo del governo, ministro degli Esteri e con una carriera diplomatica che gli ha permesso di sviluppare una profonda conoscenza soprattutto della Cina, il leader Laburista è da ritenersi a tutti gli effetti sufficientemente qualificato per l’incarico ora ricoperto da Ban Ki-moon, quanto meno per gli standard correnti.
A negargli la possibilità di correre alla successione del diplomatico sudcoreano non sono state perciò soltanto le divisioni all’interno della coalizione di governo, ingigantite dalla precaria posizione del gabinetto Turnbull dopo un’elezione finita non esattamente nel mondo auspicato dal primo ministro.
Le ragioni dell’insolita bocciatura di Rudd vanno ricercate anche e, probabilmente, soprattutto nelle sue posizioni sulla questione strategica più importante per l’Australia in questo frangente storico, vale a dire la rivalità tra Stati Uniti e Cina, nonché il conseguente posizionamento di Canberra tra il proprio principale alleato diplomatico-militare e il primo partner commerciale.
Le stesse reazioni opposte tra gli schieramenti politici in Australia all’affondamento di Rudd riflettono le divisioni esistenti nella classe dirigente di questo paese sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Washington e Pechino, ovvero quale condotta strategica garantisca maggiori benefici agli interessi rappresentati dai partiti australiani e dalle varie fazioni al loro interno.
Rudd, ben lungi dal mettere in dubbio l’alleanza strategica tra USA e Australia, in questi anni ha nondimeno sostenuto pubblicamente posizioni che si scontrano con gli interessi e le strategie di Washington in Asia sud-orientale. Per l’ex primo ministro Laburista, cioè, le aggressive politiche di accerchiamento della Cina promosse dall’amministrazione Obama per contenerne l’espansione e subordinarne gli interessi a quelli americani, rischiano di provocare una guerra tra le due potenze a cui l’Australia non potrebbe ragionevolmente sottrarsi.
Per questa ragione, Rudd promuove da tempo un processo di distensione in Estremo oriente, all’interno del quale possano conciliarsi pacificamente gli interessi della Cina, degli Stati Uniti e dei rispettivi alleati. A questo scopo, qualche anno fa Rudd aveva lanciato l’idea di una Comunità dell’Asia e del Pacifico, una sorta di piattaforma all’insegna del multilateralismo che avrebbe dovuto includere i principali attori della regione, oltre ovviamente agli USA.
Proprio questo progetto e, più in generale, le sue posizioni sulle relazioni sino-americane gli erano costate il posto di primo ministro nel 2010, quando una fazione interna al “Labor” vicina a Washington lo aveva rimosso dall’incarico con un voto interno che avrebbe portato alla guida del partito e del governo la sua vice, Julia Gillard.
A sei anni di stanza da questi fatti e con l’inasprirsi dello scontro tra USA e Cina, è più che verosimile che gli stessi fattori abbiano contribuito a mettere fine alle aspirazioni di Kevin Rudd a diventare il prossimo Segretario Generale dell’ONU.
Significativo è poi il fatto che a stroncarlo sia stato il premier Turnbull, egli stesso fino a pochi mesi fa considerato decisamente più cauto nell’allinearsi alle esigenze strategiche di Washington rispetto a due dei suoi predecessori: Gillard e Abbott. L’attuale governo australiano ha in realtà continuato ad assecondare il processo di integrazione dell’Australia nei piani di guerra contro la Cina dell’amministrazione Obama, ma ha finora evitato di prendere posizioni provocatorie come la partecipazione ai pattugliamenti americani nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale rivendicate da Pechino.
La marcia indietro di Turnbull sulla candidatura di Kevin Rudd potrebbe allora essere stata suggerita proprio da Washington, forse in seguito alla recente sentenza di un tribunale internazionale che ha accolto in buona parte la causa intentata dalle Filippine contro la Cina sulle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale.
In un’intervista ampiamente riportata dalla stampa australiana e internazionale, Rudd aveva minimizzato gli effetti del verdetto, dichiarando di preferire una soluzione diplomatica della questione tra Cina e Filippine. Parallelamente, l’ex premier Laburista aveva in qualche modo giustificato la decisione di Pechino di ignorare la sentenza con il fatto che altri paesi, come Russia e Stati Uniti, si erano in passato comportati allo stesso modo in risposta a verdetti sfavorevoli.La decisione del governo Turnbull di bocciare la candidatura di Rudd è arrivata infine poco dopo una visita in Australia del vice-presidente USA, Joe Biden, caratterizzata da toni marcatamente provocatori nei confronti della Cina. Il vice di Obama potrebbe evidentemente avere ribadito la disapprovazione del proprio governo nei confronti di Rudd nel corso delle discussioni con il primo ministro e il ministro degli Esteri Bishop.
Senza l’appoggio ufficiale del suo governo, le possibilità di Rudd di succedere a Ban Ki-moon sono dunque virtualmente svanite. Una parte del partito di Turnbull, tra cui Tony Abbott, ha finito per manifestare il proprio sostegno per l’ex primo ministro neozelandese, Helen Clark.
Della dozzina di candidati a Segretario Generale, quelli con le maggiori possibilità di successo, oltre alla Clark, sembrano essere in particolare l’ex primo ministro portoghese, António Guterres, e l’ex ministro degli Esteri della Croazia, Vesna Pusi?.
Il meccanismo di selezione prevede che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU valuti i candidati ufficiali, sui quali i cinque membri permanenti possono mettere il veto, e rimandi poi la decisione finale a un voto segreto dell’Assemblea Generale. Il mandato del nuovo Segretario Generale, della durata di cinque anni e rinnovabile, inizierà il primo gennaio del 2017.
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di Tania Careddu
Senza processo, condannate a pene detentive o di morte, torturate e maltrattate da parte dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza (NSA), principale organismo di Stato impegnato nella repressione del dissenso e dell’opposizione, e dell’intelligence militare egiziana: sono le vittime di sparizione forzata. Solo per essere sostenitrici del deposto presidente Mohamed Morsi o di altri movimenti politici opposti al governo.
Il quale, manco a dirlo, sostiene che gli abusi e le violazioni da parte delle sue forze armate non hanno fondamenta e sono il frutto di una distorta propaganda a favore della Fratellanza Musulmana. Della quale, nel 2013 e nel 2014, sono stati arrestati tremila membri insieme a quasi ventiduemila sospettati di altri movimenti; ai quali si aggiungono, nel 2015, altre dodicimila persone, compresi studenti, accademici, ingegneri, medici e operatori sanitari.
Sebbene per la stessa natura della sparizione non sia possibile avere una stima precisa, Amnesty International, nel suo rapporto “Egitto: ufficialmente, tu non esisti. Scomparsi e torturati in nome della lotta al terrorismo”, sostiene che, ogni giorno, in media, tre o quattro persone sono soggette a sparizione forzata. Tanto che, tra il 2013 e il 2016, sono state costruite e progettate dieci nuove prigioni per contenere l’elevato numero di detenuti. In genere, uomini tra i cinquanta e i quattordici anni, con l’accusa di aver violato la legge sulle manifestazioni, di aver partecipato a cortei non autorizzati, di averne programmato la partecipazione o di aver attaccato le forze dell’ordine.
Trattenute in stazioni di polizia o nei campi delle Forze centrali di Sicurezza – campi di addestramento e alloggio della polizia antisommossa – oppure in uffici dell’NSA, luoghi non ufficiali per la detenzione, le vittime vengono fatte sparire, arbitrariamente e in assenza di provvedimenti giudiziari, per periodi che vanno dai quattro giorni ai sette mesi, in incommunicado, soggetti alla falsificazione della data di arresto nelle relazioni ufficiali di indagine, con lo scopo di nascondere l’illegittimità degli arresti e il tempo di sparizione.
Durante la quale sono stati pestati, sospesi per gli arti al soffitto, ammanettati e bendati per lungo tempo, sollecitati con scosse elettriche al viso, alle labbra e ai denti e impedendo loro di dormire. Stessa sorte anche per i minori, con l’aggravante dello stupro, fermati dai sette ai cinquanta giorni senza poter contattare le famiglie o aver rapporti con un legale: torturati in isolamento per ottenere confessioni o dichiarazioni incriminanti terze persone.Nonostante il volume crescente di prove di torture e di altri trattamenti illeciti da parte delle forze di sicurezza egiziane e sebbene la legge imponga diverse responsabilità relativamente alla detenzione, nessun pubblico ministero ha preso alcuna iniziativa al fine di avviare indagini sulle accuse di tortura avanzate.
Anzi, le dichiarazioni ufficiali negano che avvengano le sparizioni forzate e che il termine sia una creazione dei leader esiliati di Fratellanza Musulmana – una delle più importanti organizzazioni islamiste internazionali - che desiderano ostacolare gli sforzi del ministero degli Interni alla lotta al terrorismo.
Invece, viene proprio da pensare che l’uso della sparizione forzata sia destinato, piuttosto, a scoraggiare l’opposizione al governo ed a veicolare un chiaro messaggio secondo cui, l’NSA in particolare, può violare i diritti umani fondamentali, incoraggiando la diffusione della tortura e di un sistema giudiziario iniquo basato su confessioni ottenute da persone sospette senza fornire loro l’opportunità di essere tutelate da qualsiasi organo di controllo indipendente. Il caso del nostro Giulio Regeni non è isolato. Purtroppo.