di Michele Paris

L’aspetto più indicativo del fallito colpo di stato contro il presidente Erdogan in Turchia è forse il momento scelto dagli ambienti ribelli delle forze armate per mettere in atto il loro piano. Il tentativo di rovesciare il governo eletto di Ankara è giunto cioè a poche settimane da quella che è sembrata essere a tutti gli effetti l’inaugurazione di un cambio di rotta strategico deciso da Erdogan dopo le drammatiche conseguenze della disastrosa politica estera degli ultimi anni e osservabile principalmente nel ritorno a rapporti cordiali con la Russia di Putin.

Tra le svariate ipotesi circolate sul web e sulla stampa internazionale attorno alle origini del tentato golpe, la più vicina alla realtà è probabilmente quella del contributo degli Stati Uniti, o quanto meno di sezioni dell’intelligence americana, al progetto di presa del potere dei militarti turchi.

Oltre alla ormai nota reazione estremamente fredda del segretario di Stato, John Kerry, nelle ore seguite alla notizia del golpe, è stata quella del governo di Ankara a dare la netta impressione dello strappo tra i due paesi alleati a causa del possibile ruolo giocato da Washington nei fatti di venerdì notte.

Il più esplicito era stato il ministro del Lavoro e della Sicurezza Sociale, Suleyman Soylu, il quale sabato scorso aveva appunto accusato gli USA di essere dietro al colpo di stato. Solo un po’ più moderate erano state invece le dichiarazioni del primo ministro, Binali Yildirim, intenzionato da subito a collegare la sollevazione all’influente predicatore turco Fehtullah Gulen, arcinemico di Erdogan, nonché uomo della CIA, in esilio negli Stati Uniti.

Il governo turco è giunto a bollare come nemico della Turchia qualsiasi paese assicuri protezione a Gulen, per il quale Ankara starebbe preparando una richiesta di estradizione da presentare a Washington. Richiesta che gli USA respingerebbero peraltro quasi certamente per non privarsi di uno strumento che garantisce una certa influenza sulle vicende interne alla Turchia.

Ancora più significative sono state le misure prese da Erdogan sul fronte militare e che hanno rappresentato un chiaro messaggio agli Stati Uniti. Il governo turco, una volta ripreso il controllo della situazione, aveva di fatto tagliato fuori gli USA dalle proprie armi atomiche, custodite nella base aerea di Incirlik nell’ambito del cosiddetto programma di “condivisione nucleare” della NATO.

Ciò è avvenuto in seguito alla decisione di imporre una no-fly zone sui cieli della Turchia e di tagliare le forniture di energia elettrica alla base, il cui comandante, generale Bekir Ercan Van, sarebbe poi finito agli arresti in quanto coinvolto nel tentato golpe.

Il risentimento di Washington, ma anche di Berlino e Bruxelles, nei confronti di Erdogan è apparso decisamente più forte rispetto alla condanna dei ribelli che hanno tentato di sovvertire gli equilibri democratici in Turchia. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, politici e commentatori hanno infatti lanciato avvertimenti al presidente turco, invitandolo al rispetto del diritto e dei principi democratici dei militari golpisti.

La cancelliera Merkel ha minacciato lo stop alle discussioni in corso sull’ingresso nell’Unione Europea se la Turchia dovesse ripristinare la pena di morte per punire i responsabili della rivolta, mentre Kerry ha addirittura ipotizzato l’espulsione dalla NATO di Ankara in caso di mancato rispetto dei principi di democrazia che sarebbero alla base dell’Alleanza.

Alla luce dello scarso interesse per il rispetto anche solo delle formalità democratiche, se esse ostacolano i loro interessi, com’è accaduto ad esempio in Ucraina, i governi occidentali, a cominciare da quello americano, hanno inteso in realtà inviare un messaggio al presidente Erdogan che ha a che fare quasi esclusivamente con questioni strategiche.

Se il golpe potrebbe essere stato un tentativo per impedire una svolta strategica che minaccia il deterioramento dei rapporti tra l’Occidente e un paese cruciale per gli equilibri euroasiatici, allo stesso modo gli avvertimenti indirizzati ad Ankara nei giorni successivi alla fallita rivolta servirebbero a far capire a Erdogan che un’eventuale riallineamento strategico del suo paese a favore di Russia, Iran e forse anche Siria, non resterebbe senza conseguenze.

I media americani in questi giorni sono letteralmente inondati da commenti e analisi sulla Turchia che manifestano forti preoccupazioni per il futuro dei rapporti tra questo paese e gli Stati Uniti. In molti hanno dunque correttamente identificato il tentato golpe come una sorta di spartiacque nelle relazioni tra Ankara e l’Occidente.

La stampa ufficiale e i governi sollevano le questioni strategiche però solo marginalmente, mentre provano a far credere che le ansie della classe politica di Washington o Berlino siano legate alle tendenze autoritarie di Erdogan, accentuate dai provvedimenti adottati o minacciati contro i rivoltosi, trascurando il fatto che la deriva autoritaria era già evidente da tempo.

Per il presidente turco, il colpo di stato rientrato nella nottata di venerdì ha rappresentato effettivamente un’occasione per accelerare il consolidamento del potere nelle sue mani, ma questo processo era già in atto e a uno stadio avanzato. Piuttosto, i fatti dello scorso fine settimana potrebbero costituire lo scenario ideale per lanciare il mutamento degli indirizzi di politica estera di cui si è parlato in precedenza.

La portata delle implicazioni di questa svolta sono tali da mandare brividi lungo la schiena dei leader politici e militari di Washington, Berlino e Bruxelles. Innanzitutto, il ristabilimento di normali relazioni diplomatico-energetico-commerciali con Mosca mettono potenzialmente a repentaglio la strategia occidentale di contenimento della Russia. I riflessi di ciò si potranno ad esempio osservare sul fronte delle forniture di gas all’Europa, facendo saltare gli sforzi di emarginazione delle compagnie energetiche russe dal mercato continentale, ma anche su quello mediorientale.

Qui, è inutile sottolineare le preoccupazioni americane per le conseguenze che potrebbero esserci sui progetti legati alla Siria, mirati in sostanza alla rimozione del regime di Assad, ovvero l’unico alleato di Mosca nella regione. D’altra parte, la serietà degli sforzi di Erdogan nel cercare la distensione con la Russia sarà testata dalla disponibilità a mettere fine ai legami a dir poco ambigui intrattenuti dalla Turchia con i gruppi fondamentalisti che combattono contro Damasco, incluso lo Stato Islamico (ISIS).

Già una settimana fa, in un’apparizione televisiva il premier Yildirim aveva affermato di essere sicuro che i rapporti con la Siria sarebbero tornati alla normalità. Le dichiarazioni sarebbero state parzialmente corrette in seguito ma difficilmente l’uscita può essere considerata casuale.

Un’evoluzione di questo genere, da parte di un paese che ha svolto un ruolo fondamentale nel finanziamento e nel supporto logistico all’opposizione armata in Siria, rappresenterebbe perciò un colpo mortale per i disegni americani in Medio Oriente.

La svolta strategica di Erdogan rischia così di trasformarsi in una nuova clamorosa sconfitta per un’amministrazione Obama che, a pochi mesi dall’uscita di scena, nel proprio fascicolo dedicato alla politica estera ha dovuto registrare una lunga serie di fallimenti e operazioni disastrose.

Le ragioni del guastarsi dei rapporti tra Washington e Ankara e la conseguente distensione tra Erdogan e Putin sono dovute non solo alla presa di coscienza da parte turca delle conseguenze rovinose delle proprie iniziative per tentare di incidere sugli equilibri regionali. A influire sono state anche e soprattutto le scelte degli Stati Uniti che hanno in sostanza generato caos e destabilizzazione, principalmente in seguito alla decisione di sostenere una finta rivoluzione in Siria per effettuare il cambio di regime attraverso il sostegno a forze di matrice jihadista.

A tutto ciò va aggiunto poi il sostegno americano alle formazioni curde siriane, di fatto le uniche in grado di combattere efficacemente l’ISIS, ma considerate dalla Turchia l’equivalente del PKK che opera sul proprio territorio. I successi dei curdi siriani sono perciò visti dal governo di Ankara come una minaccia alla sicurezza nazionale, visto che la creazione di una provincia autonoma oltre il confine meridionale potrebbe alimentare simili aspirazioni anche in Turchia.

Il possibile allontanamento di quest’ultimo paese dagli Stati Uniti e dall’Europa si preannuncia ad ogni modo come un processo tutt’altro che lineare, tanto più che Ankara resta uno dei pilastri del sistema militare della NATO. Il riallineamento strategico ai confini sud-orientali dell’Europa sembra essere però un dato di fatto e il golpe sventato sul nascere venerdì notte ne ha forse accelerato le dinamiche. Quali saranno le conseguenze è difficile prevedere, ma gli Stati Uniti, costretti a incassare l’ennesimo rovescio in Medio Oriente, difficilmente assisteranno da spettatori passivi alle vicende della regione nell’immediato futuro.

di Michele Paris

L’attesa pubblicazione di una parte finora classificata del rapporto del Congresso americano sugli eventi dell’11 settembre 2001 ha riportato in questi giorni l’attenzione sul ruolo del regime dell’Arabia Saudita negli attacchi o, per meglio dire, nel facilitarne l’organizzazione grazie al supporto materiale assicurato ad alcuni degli attentatori. Nonostante le 28 pagine messe a disposizione del pubblico venerdì scorso fossero state tenute sotto chiave da 13 anni, nella sostanza esse non fanno però che confermare ipotesi e prove concrete già note da tempo.

Per questa ragione, in molti si sono interrogati sulle vere ragioni che hanno portato alla diffusione di questa porzione del rapporto e, soprattutto, sulle responsabilità più ampie nei fatti che hanno cambiato radicalmente il corso della storia degli Stati Uniti e dell’intero pianeta.

Il primo aspetto da considerare è il tempismo della pubblicazione del documento in questione, arrivata non solo nel pomeriggio del venerdì che ha segnato l’inizio della lunga pausa estiva del Congresso, ma all’indomani della strage di Nizza, la quale ha comprensibilmente monopolizzato l’attenzione dei media. Come se non bastasse, il giorno successivo il tentato colpo di stato in Turchia ha ulteriormente emarginato la notizia sul rapporto relativo al ruolo saudita nell’11 settembre.

Singolari e per molti incomprensibili sono state poi le dichiarazioni dell’amministrazione Obama, di alcuni membri del Congresso e dello stesso governo di Riyadh. Tutti hanno affermato che le 28 pagine del rapporto finalmente accessibili alla lettura confermerebbero l’estraneità dell’Arabia Saudita agli attentati del 2001 o, quanto meno, l’assenza di prove schiaccianti a carico dei vertici della monarchia assoluta del Golfo Persico.

In realtà, anche una lettura superficiale conferma esattamente il contrario e offre, secondo la definizione offerta da vari giornali negli USA, “prove circostanziali” del coinvolgimento di uomini legati al regime saudita negli attentati dell’11 settembre. Individui facenti parte del governo saudita hanno cioè fornito assistenza logistica e finanziaria ad almeno alcuni degli attentatori, di cui 15 su 19 erano appunto cittadini del Regno.

Per il presidente della commissione Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti di Washington, Devin Nunes, le informazioni contenute nelle 28 pagine del rapporto non sarebbero comunque “conclusioni accertate”, bensì indizi non provati su cui l’intelligence USA avrebbe fatto in seguito piena luce.

Vista l’ovvia sensibilità della vicenda, è semplicemente ridicolo sostenere che gli “indizi” contenuti nella parte del rapporto sull’11 settembre dedicato all’Arabia Saudita non siano sufficienti nemmeno a far scattare un’indagine approfondita sul ruolo di questo paese. La decisione di insabbiare le responsabilità saudite, sia da parte dell’amministrazione Bush sia di quella guidata da Obama, che per oltre sette anni ha tenuto nascoste le 28 pagine del rapporto, è dunque interamente politica e dettata dalla necessità di occultare le responsabilità di un alleato fondamentale in Medio Oriente, ma anche, di riflesso, quelle dello stesso governo americano.

Per comprendere questa realtà, assieme al livello di ipocrisia della classe politica USA, è sufficiente immaginare quale sarebbe stata la reazione a Washington se nella posizione dell’Arabia Saudita ci fosse stato l’Iran o l’Iraq di Saddam Hussein. Lo stesso fatto di dedicare una parte del rapporto specificatamente al regno saudita e a nessun altro paese suggerisce dove gli Stati Uniti, che com’è noto invasero l’Afghanistan poco dopo gli attacchi dell’11 settembre, avrebbero dovuto se mai guardare per colpire i responsabili o i mandanti.

Le 28 pagine appena declassificate iniziano in maniera inequivocabile, affermando che “mentre si trovavano negli USA, alcuni dirottatori dell’11 settembre erano in contatto con, e avevano ricevuto supporto da, individui che potevano essere legati al governo dell’Arabia Saudita”. Secondo l’FBI, alcuni di questi “individui” erano agenti dell’intelligence saudita.

Tra i nomi che emergono dal rapporto vi è quello di Omar al-Bayoumi, uno degli agenti segreti del regno sunnita attivi in territorio americano. Bayoumi era in stretto contatto con due futuri attentatori, Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Midhar, fin dal loro arrivo a San Diego all’inizio del 2000.

Ai due membri di al-Qaeda di nazionalità saudita, Bayoumi fornì denaro e aiuto nel trovare un alloggio in California, dove avrebbero poi preso lezioni di volo. Bayoumi, sempre secondo il rapporto del Congresso, riceveva uno stipendio per un lavoro che non svolgeva da una compagnia collegata al ministero della Difesa saudita. La somma passata a Bayoumi era salita vertiginosamente proprio in seguito all’arrivo di Hazmi e Midhar negli USA.

Non solo, la moglie di Bayoumi riceveva 1.200 dollari ogni mese dalla consorte dell’allora ambasciatore saudita negli Stati Uniti, Bandar bin Sultan, successivamente capo dell’intelligence del Regno e talmente vicino alla famiglia Bush da conquistarsi il soprannome di “Bandar Bush”.

La moglie di Bandar elargiva un fisso mensile, questa volta attorno ai duemila dollari, anche alla moglie di un altro agente saudita citato dal rapporto, Osama Bassnan, il quale, come scriveva l’FBI, già nel 1998 aveva incassato un assegno da 15.000 dollari direttamente dall’ambasciatore saudita.

Per il governo americano, Bassnan era un “estremista e sostenitore di Osama bin Laden”, ma nel 2000 viveva nella stessa strada di San Diego dove avevano trovato un appartamento i due attentatori citati in precedenza. Bassnan sembra avesse messo in contatto questi ultimi con un pilota di aerei in California, con cui avrebbero discusso di come “imparare a pilotare un Boeing”.

Tra le notizie più interessanti contenute nel rapporto c’è anche il riferimento a una rubrica telefonica appartenuta ad Abu Zubaydah, esponente operativo di al-Qaeda tuttora detenuto a Guantanamo. In essa erano riportati i numeri di telefono, non disponibili pubblicamente, di compagnie che si occupavano del servizio di sicurezza presso la residenza in Colorado dell’ambasciatore Bandar e di una guardia del corpo dell’ambasciata saudita a Washington.

Saleh al-Hussayen è un altro cittadino saudita indagato dall’FBI e citato nel rapporto del Congresso. Hussayen lavorava per il ministero dell’Interno di Riyadh e si trovava nientemeno che nello stesso hotel della Virginia dove alloggiavano tre dei dirottatori, tra cui Hazmi e Midhar, la notte prima degli attentati dell’11 settembre. Durante un successivo interrogatorio con agenti dell’FBI, Hussayen simulò un malore e, dopo alcuni giorni in ospedale, avrebbe lasciato indisturbato gli Stati Uniti.

Le informazioni contenute nelle 28 pagine non esauriscono le indagini condotte dall’FBI e da altre agenzie federali americane sul ruolo dell’Arabia Saudita nella preparazione degli attacchi del 2001. Ad esempio, come aveva rivelato recentemente la stampa USA, lo stesso FBI sarebbe in possesso di 80 mila documenti segreti sull’argomento, attualmente al vaglio di un giudice federale in Florida che presiede a una causa intentata da tre reporter che ne chiedono la pubblicazione.

In queste carte potrebbero esserci ulteriori dettagli scottanti sul contributo di uomini legati al regime saudita ai fatti dell’11 settembre. L’aspetto decisivo della vicenda consiste però nel fatto che le 28 pagine appena pubblicate, così come l’intero rapporto sugli attentati, occultano deliberatamente le responsabilità del governo e dei servizi segreti americani.

Ciò appare evidente, ad esempio, nel caso dei dirottatori Hazmi e Midhar, in relazione ai quali si citano gli appoggi ottenuti negli USA grazie a esponenti dell’intelligence saudita. Nulla viene detto invece sulle responsabilità americane che consentirono l’ingresso negli Stati Uniti ai due uomini di al-Qaeda dopo l’atterraggio del loro volo a Los Angeles il 15 gennaio del 2000.

Hazmi e Midhar erano infatti noti alla CIA, la quale chiese alle autorità della Malaysia di tenerli sotto sorveglianza durante un meeting tra membri di al-Qaeda organizzato a Kuala Lumpur ai primi giorni del 2000. Dopo il vertice nella capitale malese, ai due futuri attentatori fu consentito di organizzare il loro viaggio in California tramite un’organizzazione yemenita che la CIA sapeva fungere da supporto logistico per al-Qaeda.

Questi e altri episodi che hanno facilitato l’ingresso negli USA degli attentatori dell’11 settembre sono stati in seguito ricondotti puntualmente a “errori” o “sviste” della CIA e delle altre agenzie che operano nell’ambito della sicurezza nazionale. Gli stessi “errori” hanno rappresentato anche in anni più recenti la giustificazione ufficiale proposta in seguito ad attentati terroristici condotti da individui ben noti all’intelligence americana, come nel caso delle bombe alla maratona di Boston nell’aprile del 2013.

A ben vedere, il moltiplicarsi di indizi e rivelazioni simili dopo il 2001 ha sollevato fortissimi dubbi sul ruolo del governo americano, non solo negli ambienti del cospirazionismo. Le ultime informazioni rese pubbliche grazie alle 28 pagine del rapporto del Congresso sull’11 settembre  descrivono ad esempio attività condotte da agenti sauditi che, visti anche i legami con Riyadh, è difficile credere avvenissero a totale insaputa dell’intelligence USA.

Queste perplessità sono alimentate anche dall’insistenza con cui vengono messe in luce le responsabilità saudite negli attentati da parte di esponenti politici negli Stati Uniti che, nonostante l’immagine propagandata dalla stampa ufficiale, a fatica possono essere considerati “outsider”.

Tra i più noti sono l’ex senatore Democratico della Florida, Bob Graham, e l’ex segretario della Marina, il Repubblicano John Lehman, entrambi già membri della commissione d’inchiesta sull’11 settembre. I due sono spesso citati da coloro che continuano a ritenere ci sia un’altra verità dietro l’11 settembre, anche se per altri la loro presenza nello schieramento di coloro che contestano la versione ufficiale sarebbe precisamente la conferma dell’esistenza di ben altre responsabilità di quelle attribuite all’Arabia Saudita.

In altre parole, l’insistenza sulla necessità di far luce sul ruolo dei sauditi potrebbe servire a sviare qualsiasi indagine proprio sul comportamento dell’apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti che avrebbe facilitato gli attentati del 2001. L’interpretazione a cui conducono le 28 pagine è esattamente quella della collaborazione nell’organizzazione degli attacchi di elementi del regime saudita, quanto meno in maniera indipendente se non sotto gli ordini dei vertici del Regno.

In questa prospettiva, gli Stati Uniti, che hanno tutt’al più mancato di vigilare a sufficienza sulla sicurezza del paese, sarebbero stati vittime di terroristi senza scrupoli e di un alleato che, nella migliore delle ipotesi, non ha saputo tenere sotto controllo alcune mele marce al proprio interno.

Se la recente pubblicazione dell’ultima parte del rapporto sull’11 settembre che era ancora segreto non ha spazzato via le nubi sui tragici fatti di quasi 15 anni fa, quel che è certo è che la verità non potrà mai venire a galla nel quadro di un sistema di potere che, sia pure non sapendo ancora in che misura, ha responsabilità dirette negli attentati e, soprattutto, grazie a essi ha potuto mettere in atto i propri piani strategici su scala globale allo studio da tempo che nulla hanno a che vedere con la “guerra al terrore”.

di Carlo Musilli

Sembrava la fine di un presidente, ma è stata la nascita di un sultano. Il fallito tentativo di golpe dello scorso 15 luglio dà a Recep Tayyp Erdogan la possibilità di realizzare il progetto della vita: trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale sul modello russo, concentrando nelle mani di un uomo solo il potere esecutivo.

Da anni Erdogan vuole cambiare la Costituzione turca per rendere legittimi i poteri di cui già dispone e l’occasione sembrava sfumata lo scorso novembre, quando alle elezioni parlamentari il suo partito (l’Akp) ha conquistato la maggioranza, ma non i due terzi dei seggi necessari a mandare in porto la riforma. A questo punto, invece, a Erdogan basterà indire un referendum per ottenere dagli elettori l’investitura finora negata.

Se ci riuscirà dovrà ringraziare proprio il colpo di Stato più ridicolo degli ultimi decenni, che gli ha consentito di presentarsi al mondo (o perlomeno ai turchi) come difensore della libertà e paladino della democrazia minacciata dall’esercito. Fino alla settimana scorsa era un leader dispotico, oscurantista e tormentato dagli scandali, ma ormai chi potrà dimenticare il video girato di notte in cui Erdogan chiedeva al popolo di scendere nelle strade per combattere contro i carri armati? Una scena madre degna di Tom Clancy.

Nel frattempo, sono stati arrestati centinaia di giudici, compresi alcuni della Suprema corte amministrativa e uno della Corte costituzionale. La strada verso la riforma è davvero in discesa.

Ma non è questo l’unico dividendo in favore del Sultano. Il golpe degli inetti consente al Presidente turco di perseguire anche altri due obiettivi fondamentali: fare piazza pulita nell’esercito e restringere ulteriormente lo spazio concesso all’opposizione.

Sul primo fronte, i numeri parlano chiaro: in sole 24 ore sono state arrestate quasi 3mila persone, di cui circa 1.700 militari che saranno processati per alto tradimento, con il vicepremier che ha già chiesto il ripristino della pena di morte. È evidente che una parte dell’esercito andrà ricostruita da zero - operazione peraltro già tentata in passato - e c’è da scommettere che i futuri ufficiali non saranno nostalgici del laico Atatürk.

Quanto agli oppositori politici, Erdogan ha già iniziato ad accanirsi contro Fethullah Gülen, predicatore ed ex alleato che vive in esilio in Pennsylvania, accusandolo di essere il regista occulto del tentativo di golpe e chiedendone l’estradizione agli Stati Uniti, che però vogliono le prove. Da parte sua, Gülen ha rispedito le insinuazioni al mittente: “C’è la possibilità - ha detto - che il colpo di stato in Turchia sia stata tutta una messa in scena”. Anche questa tesi è dietrologica, vaga e prova di riscontri, ma risulta comunque più convincente di quella sostenuta da Erdogan.

Riguardo alle relazioni con l’Ue, sembra poco probabile che i fatti del 15 aprile inducano a rivedere gli accordi commerciali fra Bruxelles e la Turchia, così come la delicatissima intesa sui migranti. Il motivo è semplice: non conviene a nessuno. Certo, l’affidabilità di Ankara agli occhi dell’Europa è diminuita ancora, perché con un esercito in queste condizioni il Paese potrebbe avere difficoltà a gestire anche la sicurezza interna, figurarsi il conflitto in Siria e il transito dei profughi. Al tempo stesso, però, la Turchia rimane un alleato strategico dal punto di vista politico ed economico: nel primo caso come cerniera fra Europa e Medio Oriente, nel secondo come hub internazionale per le vie del petrolio e del gas.

Per tutte queste ragioni i leader europei e la Casa Bianca si sono ben guardati dal prendere posizione sul colpo di Stato mentre questo era in corso, salvo poi sciogliersi in fiumi di felicitazioni per la vittoria della democrazia. Dal canto suo, Erdogan ha evitato di puntare il dito contro i suoi alleati, pur sapendo che nessuno di loro si sarebbe stracciato le vesti in caso di vittoria dei militari. E nemmeno una voce si è alzata contro la Nato, rimasta silenziosa e in disparte mentre scoppiava un conflitto militare in un Paese interno all’Alleanza. A ben vedere, i colonnelli e i generali che hanno animato il golpe erano proprio uomini della Nato, per cui anche su questo fronte gli appassionati di dietrologia avranno vita facile.

In ogni caso, cambiando l’ordine dei fattori il risultato rimane lo stesso. Che dietro al colpo di Stato turco ci siano soltanto alcune frange dell’esercito, la Nato, Gülen o Erdogan stesso, nei prossimi mesi assisteremo all’ascesa finale di un sultano.

di Michele Paris

A otto mesi dagli attacchi terroristici di Parigi, la Francia è stata nuovamente il teatro di un sanguinoso attentato che ha causato la morte di decine di persone innocenti. Anche se per molti il modus operandi dell’autore della strage è sembrato essere coerente con le strategie di “guerra” in Occidente dello Stato Islamico (ISIS), a 24 ore dai fatti non si sono avute notizie di rivendicazioni ufficiali. Inoltre, le informazioni raccolte dalla stampa francese sul 31enne tunisino alla guida del mezzo pesante abbattutosi indisturbato sulla Promenades des Anglais di Nizza, identificato venerdì come Mohamed Lahouaiej Bouhlel, non hanno evidenziato finora un suo particolare interesse per la religione né contatti con ambienti del fondamentalismo islamista.

Le indagini delle autorità di polizia e degli stessi media sono però ancora alle primissime battute ed è dunque troppo presto per avere un profilo significativo dell’attentatore, così come per escludere la presenza di eventuali complici. La città di Nizza ospita d’altra parte una folta comunità islamica, ghettizzata in larga misura nei quartieri popolari lontani dai luoghi del turismo snob, e molti futuri “combattenti” nelle file dell’ISIS sono partiti proprio da qui negli anni scorsi per unirsi agli uomini del “califfato” in Siria.

Il primo ministro francese, Manuel Valls, mercoledì in un’intervista a France 2 ha però affermato che Bouhlel “è un terrorista, senza dubbio legato all’Islam radicale in un modo o nell’altro”. Poco più tardi, il ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve, ha preso le distanze dalla tesi del capo del governo, sostenendo che è troppo presto per definire con esattezza le ragioni dell’attentato.

Di certo, malgrado gli interrogativi ancora aperti, il presidente francese Hollande non si è distinto per prudenza nelle ore seguite all’orrore, visto che in un appello al paese, dopo avere affermato il “carattere terroristico” dell’attentato, si è affrettato ad annunciare un’intensificazione delle politiche che degli atti di terrorismo sono sostanzialmente la causa principale. L’inquilino dell’Eliseo ha minacciato azioni più incisive in Siria e in Iraq, anche se l’aumento dell’impegno militare francese in Medio Oriente era con ogni probabilità in preparazione ben prima dei fatti di Nizza.

Al di là della matrice dell’attentato di giovedì, la tendenza dei governi dei paesi colpiti è invariabilmente quella di muoversi in due direzioni dopo simili eventi. Una è appunto quella dell’escalation militare contro un nemico non solo sfuggente ma che, spesso, dei governi e delle agenzie di intelligence occidentali nemico non è o non lo era fino a quando poteva essere utilizzato per obiettivi strategici ben precisi. L’altra riguarda invece il fronte interno e consiste nell’adozione di provvedimenti sempre più lesivi dei diritti civili, in modo da dare maggiori poteri di controllo sulla popolazione alle forze di sicurezza.

A questo proposito, Hollande venerdì ha subito sfruttato l’attacco di Nizza per smentire le sue stesse parole, pronunciate solo poche ore prima, quando aveva promesso la fine dello stato di emergenza che vige in Francia dalla metà di novembre del 2015. Lo stato di emergenza era stato prolungato a febbraio e ancora nel mese di maggio per garantire lo svolgimento in sicurezza dei campionati europei di calcio.

Lo stato di emergenza e la cosiddetta operazione “Sentinella” hanno portato in questi mesi 10 mila soldati nelle strade delle città francesi ma, evidentemente, a nulla sono serviti per assicurare un semplice blocco stradale nella serata di giovedì a Nizza. Il camion guidato da Bouhlel è penetrato senza difficoltà in una zona pedonale, seminando morte per ben due chilometri prima di essere fermato dalla polizia, secondo alcuni giornali francesi anche con l’aiuto di un civile.

In compenso, lo stato di emergenza imposto da Hollande e dal primo ministro Valls, è stato ampiamente usato per calpestare i diritti costituzionali di molti cittadini francesi. Grazie ai poteri straordinari accordati dal governo, nei mesi scorsi la polizia transalpina ha ad esempio operato perquisizioni arbitrarie e spesso violente ai danni di cittadini musulmani, ma anche numerosi fermi preventivi di attivisti per impedire loro di partecipare alle manifestazioni di protesta contro la “riforma” del mercato del lavoro, conosciuta come “legge Khomri”.

Le iniziative domestiche e sul fronte internazionale del governo di Parigi non sono una semplice reazione ad attentati terroristici che, a loro volta, si manifesterebbero dal nulla e al di fuori del contesto sociale, politico e militare di questi anni.

Al contrario, attentati, guerre all’estero e repressione sul fronte interno costituiscono una miscela tossica che perpetua sé stessa e si manifesta in episodi di sangue come quelli di Parigi, Bruxelles e Nizza, ma anche, è necessario ricordare, di Baghdad, dove tra l’indifferenza di media e politici in Occidente solo un paio di settimane fa sono morte più di 300 persone in una serie di attacchi rivendicati dall’ISIS.

L’assalto dei governi occidentali alle libertà democratiche, così come ai diritti del lavoro, le guerre imperialiste all’estero e la propaganda xenofoba hanno inoltre prodotto tensioni sociali esplosive che rischiano di trovare l’innesco in eventi come quello di giovedì a Nizza.

Ad avvertire del legame tra questioni ed eventi di questo genere, apparentemente scollegati, era stato recentemente il numero uno dell’intelligence francese, Patrick Calvar, il quale aveva definitivo il suo paese “sull’orlo della guerra civile”. Per Calvar, un altro attentato terroristico avrebbe potuto scatenare “la reazione della destra”.

Nello stesso intervento a porte chiuse, il cui contenuto è stato reso pubblico solo alcuni giorni fa, il capo della Direzione Generale della Sicurezza Interna francese (DGSI) aveva anche previsto un cambiamento di strategia dell’ISIS nel tentativo di colpire i paesi occidentali. I terroristi avrebbero cioè potuto agire usando esplosivi e autobombe, vista la presunta preparazione delle forze di sicurezza nell’affrontare attacchi multipli sul modello di quelli di Parigi o Bruxelles.

L’avvertimento di Calvar, cioè uno dei più influenti esponenti dell’apparato della sicurezza nazionale francese, contribuisce a sollevare ancora maggiori perplessità sull’ennesimo fallimento delle misure adottate per garantire l’incolumità di migliaia di persone che stavano partecipando a un evento pubblico popolare e politicamente sensibile come la festa del 14 luglio.

Di fronte al ripetersi di eventi di sangue e alle reazioni dei governi, in grado di promettere soltanto guerra e repressione, è perciò legittimo chiedersi fino a dove dovranno arrivare i poteri straordinari assegnati alle forze di polizia per impedire il ripetersi di altre stragi ? Oppure, fino a che punto un paese straniero, sia esso la Siria o l’Iraq, dovrà essere devastato per mettere fine agli attentati terroristici in Occidente ?

di Michele Paris

A un anno esatto dalla firma dello storico accordo sul programma nucleare iraniano (Piano d’Azione Congiunto Global o JCOPA), alla Repubblica Islamica viene riconosciuta quasi universalmente la rapida implementazione di tutti i principali obblighi imposti dai paesi del gruppo P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania). Il rispetto delle condizioni, spesso molto gravose, sottoscritte dall’Iran non è stato però ricambiato, se non in minima parte, con le concessioni previste, soprattutto a causa della resistenza degli Stati Uniti.

L’atteggiamento di Washington che, secondo alcuni, potrebbe addirittura compromettere l’intero accordo, è dovuto principalmente a due ordini di fattori, il primo da collegare alle divisioni che attraversano la classe dirigente americana sull’opportunità e lo scopo dell’accordo, il secondo alla mancata materializzazione, almeno per il momento, dei dividendi strategici che gli Stati Uniti avevano sperato e sperano di raccogliere grazie al processo di relativa distensione con Teheran.

Tra le iniziative intraprese dall’Iran per adeguarsi al piano d’azione, entrato in vigore lo scorso gennaio, ci sono la drastica riduzione della propria scorta di uranio impoverito, la conversione del reattore ad acqua pesante di Arak, la rimozione del materiale nucleare dall’impianto di Fordow e lo smantellamento dei due terzi delle 19 mila centrifughe operanti a Natanz. Inoltre, gli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) si trovano regolarmente in Iran per controllare le operazioni connesse al JCOPA.

Secondo il direttore della Arms Control Association americana, sentito sulla questione dall’agenzia di stampa McClatchy, “l’aspetto più rilevante dell’accordo con l’Iran è finora la facilità con cui è stato implementato”, quanto meno da parte del governo di Teheran. Questo risultato appare tutt’altro che trascurabile, viste le “difficoltà tecniche” previste dai protocolli.

D’altro canto, Teheran lamenta giustamente i ritardi con cui l’Occidente e, in particolare gli USA, sta procedendo nel consentire l’accesso dell’Iran ai propri fondi, pari a decine di miliardi di dollari, congelati all’estero dalle sanzioni economiche degli anni scorsi. Allo stesso modo, la maggior parte delle sanzioni finanziarie applicate dagli Stati Uniti restano in vigore, ostacolando l’accesso al credito da parte iraniana e la corsa delle aziende occidentali a fare affari in questo paese dopo anni di isolamento.

Banche e compagnie europee non hanno in realtà praticamente alcun ostacolo legale per poter operare in Iran. Tuttavia, la persistenza delle sanzioni USA le rende estremamente caute, per il timore di ripercussioni negative che, in sostanza, potrebbero tradursi nell’impossibilità di operare sul mercato americano.

In un articolo apparso mercoledì sulla pubblicazione on-line Middle East Eye, l’ex ambasciatore britannico presso l’AIEA, Peter Jenkins, ha affermato che gli Stati Uniti sono “in violazione” dell’accordo sul nucleare, avendo fatto poco o nulla per garantire all’Iran “l’accesso al commercio, alla tecnologia, alla finanza e all’energia”.

A impedire lo sblocco della situazione c’è il fatto che le sanzioni unilaterali imposte dagli USA restano tuttora al loro post, anche perché per rimuoverle servirebbe un voto del Congresso, dove l’opposizione all’accordo sul nucleare resta fortissima. L’intesa di Vienna non prevedeva la cancellazione di questi provvedimenti, i quali sono motivati dal presunto sostegno che l’Iran offrirebbe al terrorismo internazionale. Le sanzioni americane colpiscono soprattutto esponenti dei Guardiani della Rivoluzione, un’istituzione con parecchi interessi economici in Iran.

Ferma restando l’assurdità di un’accusa che gli Stati Uniti utilizzano a piacimento a seconda degli orientamenti strategici di questo o quel paese, molti a Washington fanno riferimento anche ai test missilistici condotti recentemente dall’Iran. A questo proposito va però ricordato che l’accordo siglato a Vienna il 14 luglio 2015 riguardava solo la questione del nucleare, mentre, come ha spiegato ancora l’ambasciatore Jenkins, “non esiste una proibizione globale al possesso di missili” o a test con questi armamenti, “né l’Iran risulta soggetto a divieti ad hoc del Consiglio di Sicurezza ONU” in questo ambito.

Di recente, lo stesso segretario di Stato americano, John Kerry, aveva affrontato le perplessità del business occidentale, assicurando pubblicamente che le banche europee non avevano nulla da temere nelle relazioni con l’Iran, salvo poi avvertire della necessità di essere ben consigliate per non finire impigliate nel groviglio delle sanzioni USA.

Proprio in questi giorni una vicenda ampiamente riportata dalla stampa internazionale sta dimostrando le difficoltà del processo di distensione tra Stati Uniti e Iran, assieme alle spaccature create a Washington dall’accordo sul nucleare. Essa riguarda il colosso americano dell’aeronautica Boeing, il quale, senza dubbio con il sostegno dell’amministrazione Obama, aveva annunciato un’intesa per la vendita di 80 aeromobili alla compagnia Iran Air per il valore di quasi 18 miliardi di dollari.

La possibile vendita sarebbe la prima in assoluto di questa importanza tra aziende dei due paesi rivali a partire dalla rivoluzione del 1979. La Camera dei Rappresentanti al Congresso americano a maggioranza Repubblicana ha però approvato qualche giorno fa una misura apposita per bloccare l’affare. Il presidente Obama, da parte sua, ha risposto minacciando di porre il veto sull’iniziativa di legge, in modo da salvaguardare l’accordo di vendita.

La mossa del Congresso è stata seguita dalle prevedibili recriminazioni dei vertici di Boeing. Se l’accordo di vendita dovesse essere impedito, sostiene la compagnia con sede nello stato di Washington, lo stesso divieto dovrebbe essere imposto anche alle altre aziende americane che forniscono parti di aerei a produttori stranieri in competizione con Boeing. Il riferimento è chiaramente all’europea Airbus, la quale a inizio anno aveva già siglato un accordo per la vendita di 118 velivoli in Iran.

Le relazioni con la Repubblica Islamica continuano dunque a essere estremamente controverse negli Stati Uniti. L’amministrazione Obama, che tramite il Dipartimento di Stato ha negoziato l’accordo sul nucleare, rappresenta una parte della classe dirigente americana intenzionata a percorrere per il momento la strada della diplomazia.

Ciò non comporta tuttavia il riconoscimento del diritto di Teheran a perseguire politiche indipendenti nella regione mediorientale e in Asia centrale. Se mai, l’obiettivo è quello di attirare l’Iran nell’orbita strategica degli Stati Uniti, per una volta attraverso mezzi relativamente pacifici piuttosto che con la minaccia militare, peraltro sempre percorribile in caso di necessità.

Altri negli USA, tra cui gli ambienti Repubblicani e una parte dei membri del Congresso Democratici, ritengono invece che non vi sia alcuna utilità nel dialogare con l’Iran. Gli strumenti da utilizzare per imporre la supremazia americana su questo paese e su tutto il Medio Oriente restano perciò le pressioni, le sanzioni economiche punitive e la guerra.

Che anche la strategia della “distensione” promossa dall’amministrazione Obama escluda comunque il rispetto delle legittime ambizioni iraniane e l’integrazione del paese nei circuiti economici e finanziari internazionali è confermato proprio dagli impedimenti provenienti da Washington alle concessioni previste dall’accordo sul nucleare a favore di Teheran.

La cautela con cui il governo americano sta procedendo è motivata probabilmente dal persistente atteggiamento dell’Iran in relazione alle questioni più calde in Medio Oriente. Sulla crisi siriana, i rapporti con Hezbollah in Libano, su Israele, lo Yemen e le monarchie sunnite del Golfo Persico, la Repubblica Islamica continua cioè a mantenere i propri consueti orientamenti, posizionandosi nello schieramento opposto a quello degli USA e dei loro alleati.

Fino a quanto Washington non assisterà quanto meno a segnali di un qualche mutamento strategico provenienti dall’Iran, è probabile che le concessioni che spettano a questo paese arriveranno con il contagocce. Il rischio, però, è che la rigidità degli Stati Uniti finisca per rafforzare le posizioni dei falchi iraniani, i quali, come le loro controparti dall’altra parte dell’oceano, cercano in tutti i modi di far naufragare l’accordo sul nucleare, sostenuto invece dal governo moderato del presidente Rouhani e, sia pure in maniera più cauta, dalla guida suprema, ayatollah Ali Khamenei.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy