di Mario Lombardo

Il risultato delle elezioni presidenziali di lunedì nelle Filippine è stato probabilmente accolto negli Stati Uniti con una certa apprensione per il futuro delle relazioni bilaterali con l’alleato asiatico e del disegno strategico in atto per cercare di contenere l’espansionismo cinese. Se il presidente eletto, Rodrigo Duterte, non è certo un nemico di Washington, né intende rinnegare gli accordi sottoscritti tra i due paesi negli ultimi anni sotto la presidenza di Benigno Aquino, i suoi precedenti e la condotta tenuta in campagna elettorale rendono però complicata qualsiasi previsione circa gli orientamenti della sua nascente amministrazione.

Duterte è stato sindaco per più di vent’anni della città di Davao, nelle Filippine meridionali, durante i quali si sono accumulate nei suoi confronti accuse di violazioni dei diritti umani. Il neo-presidente filippino è stato ad esempio indicato come il facilitatore di squadre della morte, responsabili, secondo stime di alcune organizzazioni non governative, dell’assassinio extra-giudiziario di oltre mille presunti criminali, minori inclusi.

La sua campagna elettorale è stata segnata da numerose uscite offensive nei riguardi di molti, dalle vittime di stupri ai governi di paesi come USA, Australia e Cina. Duterte, inoltre, non ha mai rinnegato il proprio passato da “poliziotto” a Davao, anzi, per convincere gli elettori ha puntato precisamente sulla lotta al crimine con ogni mezzo, arrivando addirittura a minacciare di gettare 100 mila cadaveri di criminali nella Baia di Manila o di uccidere i lavoratori che dovessero provare a creare un sindacato nelle zone franche che intende creare per favorire le esportazioni e attirare capitali dall’estero.

Nonostante le Filippine vengano dipinte dalla stampa e dagli ambienti finanziari internazionali come un modello, grazie a una crescita economica attestata a una media del 6,2% nei sei anni di presidenza Aquino, la realtà per decine di milioni di persone continua a essere ben poco incoraggiante. Duterte, da abile populista di destra, ha saputo cavalcare il malumore degli elettori verso una classe dirigente incompetente e ultra-corrotta, presentandosi come un outsider in grado di risolvere i problemi del paese, se necessario con il pugno di ferro.

La sua candidatura è per certi versi paragonabile a quella di Donald Trump negli Stati Uniti e, come quello del miliardario newyorchese, anche il successo dell’ex sindaco di Davao ed ex procuratore è in sostanza il risultato dello spostamento a destra e del progressivo ricorso a politiche anti-democratiche da parte della classe dirigente del suo paese in un clima di crescenti tensioni sociali.

Rodrigo Duterte ha in ogni caso raccolto quasi il 39% dei consensi nelle elezioni di lunedì, beneficiando della legge elettorale filippina a turno unico che premia il candidato presidente in grado di ottenere la maggioranza semplice dei voti espressi. Come già anticipato, Duterte è una sorta di incognita per Washington, da dove le presidenziali nelle Filippine devono essere state seguite con particolare interesse.

I candidati preferiti dagli USA erano il favorito del presidente Aquino, l’ex ministro dell’Interno Mar Roxas, e, in seconda battuta, la ex cittadina americana, Grace Poe. Questi due candidati si sono fermati rispettivamente al 23% e al 22%, davanti al vice-presidente uscente, Jejomar Binay (13%). Tra gli aspiranti alla presidenza, quest’ultimo era quello che maggiormente auspicava un approccio più equilibrato nei confronti della Cina e, dopo essere stato a lungo in vantaggio nei sondaggi, la sua candidatura è stata di fatto affondata da una serie di scandali in cui è stato opportunamente coinvolto.

Lunedì si è votato anche per la carica di vice-presidente che, nelle Filippine, viene assegnata separatamente da quella di presidente. I dati non ancora definitivi indicano un testa a testa tra la candidata del Partito Liberale di Aquino, Leni Robredo, data in leggero vantaggio, e Ferdinand “Bongbong” Marcos, senatore e figlio dell’omonimo ex dittatore filippino.

L’interesse per il voto nelle Filippine deriva principalmente dal fatto che il governo di questo paese negli ultimi anni ha rappresentato uno dei punti di riferimento della politica asiatica dell’amministrazione Obama. Durante la presidenza Aquino, Manila è stata in prima linea nel confronto con Pechino, focalizzato sulle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale, alimentate proprio da Washington.

Oltre a svariati episodi che hanno messo di fronte le flotte commerciali e militari dei due paesi, la disputa ha registrato una grave escalation da parte delle Filippine con la presentazione di un esposto presso il tribunale dell’ONU a L’Aia, in Olanda, per dichiarare nulle le rivendicazioni cinesi in base alla Convenzione sul Diritto del Mare (UNCLOS). La denuncia è stata sollecitata direttamente dagli USA, i quali non hanno peraltro mai sottoscritto la Convenzione, e un eventuale verdetto contrario alla Cina sarà utilizzato per esercitare ulteriori pressioni e provocazioni nei confronti di Pechino.

Proprio l’atteggiamento che Duterte terrà verso la Cina dopo il verdetto del tribunale ONU, atteso nelle prossime settimane, servirà agli Stati Uniti per giudicare l’amministrazione entrante a Manila. Non solo, il governo del nuovo presidente dovrà di fatto implementare anche l’accordo di cooperazione militare stipulato da Aquino con Washington e che prevede l’accesso a un certo numero di basi nelle Filippine da parte delle forze navali della ex potenza coloniale.

Il trattato aveva sollevato seri dubbi di costituzionalità ma la Corte Suprema filippina ha alla fine dato la propria approvazione, anche grazie alla presenza al proprio interno di giudici nominati dal presidente Aquino. L’amministrazione Obama considera questo accordo fondamentale nel quadro della propria strategia di accerchiamento militare della Cina.

Le riserve americane nei confronti di Rodrigo Duterte non riguardano dunque le sue inclinazioni tendenti al fascismo o i precedenti crimini commessi dal neo-presidente. Piuttosto, a sollevare più di una perplessità a Washington sono le dichiarazioni contrastanti rilasciate negli ultimi mesi e che al momento non lasciano intravedere una chiara idea dell’atteggiamento che Duterte prediligerà in ambito strategico.

Oltre che a una personalità vulcanica e imprevedibile, l’ambivalenza mostrata dal presidente eletto delle Filippine dipende anche e soprattutto da fattori oggettivi che hanno a che fare con l’importanza per il suo paese sia della partnership con gli Stati Uniti sia, e forse ancor più, dei legami economici con la Cina. Questo dilemma assilla in definitiva le classi dirigenti di tutti i paesi asiatici coinvolti in qualche modo nei meccanismi della rivalità tra USA e Cina.

Per queste ragioni, Duterte ha oscillato spesso in campagna elettorale tra posizioni filo-americane e altre molto più concilianti verso Pechino. Ad esempio, in varie occasioni si è mostrato pronto a prendere iniziative per favorire gli investimenti cinesi nelle Filippine, mentre sul fronte delle dispute territoriali è sembrato appoggiare alternativamente entrambi gli estremi del dibattito in corso.

Soltanto settimana scorsa aveva sposato un’ipotesi sgradita a Washington, mostrando la sua disponibilità a condurre colloqui bilaterali con Pechino per risolvere la crisi riguardante il Mar Cinese Meridionale. Subito dopo il voto, invece, Duterte ha operato una svolta di 180 gradi, optando per una soluzione questa volta invisa alla Cina, appoggiando cioè negoziati multilaterali che dovrebbero includere, oltre ai due paesi direttamente interessati, anche gli USA, il Giappone e l’Australia.

di Michele Paris

Il presidente americano Obama è finito qualche giorno fa al centro di una causa legale con implicazioni che toccano in maniera diretta i limiti costituzionali e di legge del potere esecutivo negli Stati Uniti. Il procedimento è stato insolitamente avviato da un giovane capitano dell’Esercito USA, preoccupato per la palese illegalità della guerra scatenata dalla Casa Bianca nel 2014 contro lo Stato Islamico (ISIS) in territorio iracheno e siriano.

Il 28enne ufficiale, Nathan Michael Smith, lavora per l’intelligence militare in Kuwait e, come egli stesso ha spiegato, accetta in pieno la logica della “guerra al terrore”, così come considera necessaria la guerra all’ISIS. Tuttavia, la sua iniziativa è motivata dal fatto che il presidente non ha alcuna autorizzazione a condurla, visto che il Congresso di Washington non ha mai approvato con un voto l’impegno americano su questo fronte.

Per Smith, decidendo i bombardamenti in Iraq e in Siria, ma anche inviando in questi paesi soldati e membri delle Forze Speciali, Obama avrebbe violato la Costituzione, secondo la quale solo il Congresso detiene il potere di dichiarare guerra, e la legge del 1973 che regolamenta questa stessa materia (“War Powers Resolution”).

Quest’ultima legge era stata approvata nel corso della guerra in Vietnam e stabilisce che il presidente degli Stati Uniti, entro 48 ore dall’inizio di una qualsiasi azione militare, deve renderne conto al Congresso. Inoltre, il presidente deve richiedere e ottenere l’approvazione del Congresso entro 60 giorni dall’inizio delle ostilità. In assenza di una simile autorizzazione, entro i successivi 30 giorni deve essere posta fine alla guerra stessa.

Se le ragioni del capitano Smith possono essere discutibili, la sua denuncia ha l’indubbio merito di riportare all’ordine del giorno il dibattito sulla legittimità legale dalla più recente guerra lanciata dagli USA in Medio Oriente e, ancor più, sulla trasformazione dell’esecutivo in questo paese, da anni ormai dotato di poteri virtualmente illimitati, quanto meno sul fronte dell’azione militare.

Il presidente degli Stati Uniti è il “comandante in capo” durante i conflitti ma è il Congresso a dichiarare guerra e a concludere i trattati di pace, nel rispetto della separazione dei poteri e per impedire l’accumulo di eccessiva autorità da parte di un’unica carica o istituzione.

Come probabilmente mai accaduto nella storia americana, l’amministrazione Obama ha tenuto una condotta straordinariamente contraria ai principi legali e costituzionali nel perseguire gli interessi della classe dirigente USA all’estero. Il presidente Democratico, in questo ambito, è andato ben al di là dell’amministrazione Bush, la quale aveva per lo meno fatto approvare specifiche autorizzazioni del Congresso, in modo da ottenere un mandato formale per scatenare guerre all’estero.

L’attitudine dell’attuale inquilino della Casa Bianca, ironicamente anche ex docente di diritto costituzionale, è d’altronde la logica evoluzione di un processo segnato dalla crescente ostilità per le forme democratiche di governo, inclusa la “War Powers Resolution”, in parallelo alla “guerra al terrore” e, di conseguenza, all’emergere di altre caratterizzate da una chiara tendenza all’autoritarismo.

La legge sui poteri di guerra era stata violata dall’amministrazione Obama già nel 2011 con l’aggressione della Libia per forzare il rovesciamento del regime di Gheddafi. In quell’occasione, il presidente non aveva nemmeno provato a cercare un’autorizzazione del Congresso e svariati deputati e senatori Repubblicani avevano criticato anche aspramente la decisione della Casa Bianca.

Con l’emergere nel 2014 di un nuovo nemico in Medio Oriente - l’ISIS - Obama aveva nuovamente avviato una guerra in maniera unilaterale. In questo caso, la giustificazione legale per l’intervento era stata indicata nell’Autorizzazione all’Uso della Forza Militare (AUMF), ovvero la legge votata a larga maggioranza dal Congresso di Washington all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001 e che aveva permesso all’amministrazione Bush di utilizzare tutti i mezzi necessari a perseguire i responsabili degli attentati.

Queste fondamenta legali appaiono però estremamente fragili e controverse. La guerra lanciata nel 2014 è infatti contro un’organizzazione fondamentalista che nemmeno esisteva al momento dell’approvazione dell’AUMF e che nulla ha a che fare con l’Afghanistan, paese dove secondo gli USA avevano trovato rifugio i pianificatori degli attentati del 2001.

Inoltre, la filiale di al-Qaeda in Siria, il Fronte al-Nusra, ha da tempo sconfessato l’ISIS. Per Washington, tuttavia, la nascita dell’ISIS è da collegare alle operazioni di al-Qaeda durante il conflitto in Iraq e, dunque, la giustificazione legale fondata sulla legge del 2001, che intendeva punire l’organizzazione che fu di bin Laden, sarebbe del tutto legittima.

Il Dipartimento di Giustizia di Washington fa notare poi come la guerra all’ISIS sia giustificata legalmente anche da un'altra autorizzazione, quella che il Congresso garantì all’amministrazione Bush nel 2002 per invadere l’Iraq. Su questa misura, Obama ha però affermato di non voler basare la guerra all’ISIS, dal momento che tale “autorizzazione” è ancora meno difendibile di quella del 2001 e che diede il via libera alla distruzione di un intero paese.

Se l’amministrazione Obama sostiene pubblicamente di agire in Iraq e in Siria nel pieno rispetto dei poteri costituzionali, più di un dubbio deve però attraversare i pensieri del presidente. Infatti, lo scorso anno la Casa Bianca aveva richiesto formalmente al Congresso un’autorizzazione a combattere l’ISIS, sia pure senza vincolare la continuazione delle operazioni militari al voto di Camera e Senato.

Il Congresso non ha mai agito, visto che a prevalere sembrano essere le divisioni tra quanti vogliono riaffermare i limiti legali del presidente in ambito bellico e coloro che, al contrario, auspicano l’attribuzione di poteri ancora più vasti al capo dell’esecutivo.

Secondo il New York Times, la causa avviata contro Obama la settimana scorsa potrebbe sfociare proprio in un provvedimento che amplia le facoltà del presidente di condurre guerre. Se cioè la richiesta del capitano Smith trovasse accoglimento in tribunale, il Congresso potrebbe agire per evitare lo stop alla guerra, finendo anche per attribuire maggiori poteri al presidente.

L’ufficiale americano si troverà comunque di fronte ostacoli enormi. Tra di essi vi è il comportamento dello stesso Congresso, il quale, secondo molti, ha dato il proprio implicito appoggio alla guerra all’ISIS attraverso lo stanziamento del denaro necessario a finanziarne le operazioni.

Oltre alla causa in sé, è infine significativo che a sollevare in un’aula di tribunale la questione della legalità e costituzionalità dell’ultima incarnazione della “guerra al terrore” degli Stati Uniti sia l’iniziativa individuale di un ufficiale dell’Esercito. Il silenzio o il disinteresse dei politici e dei media per una questione vitale come questa testimonia dell’avanzato stato di degrado delle istituzioni democratiche americane.

Tutti le parti in causa, dal governo al Congresso alla stampa, hanno d’altra parte svolto il loro compito per favorire la promozione degli interessi nascosti dietro la “guerra al terrore”, contribuendo così al processo di accentramento di poteri nelle mani del presidente e a trasformare in un dato di fatto praticamente indiscutibile lo smantellamento di alcuni dei più fondamentali principi democratici fissati dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti.

di Michele Paris

Il momento della conquista della nomination Repubblicana per le elezioni presidenziali americane da parte di Donald Trump, previsto da pochissimi fino a qualche mese fa, è arrivato nella serata di martedì al termine delle primarie nello stato dell’Indiana. La vittoria molto netta e il ritiro del suo unico vero rivale, il senatore del Texas, Ted Cruz, lo hanno rispettivamente avvicinato alla maggioranza assoluta dei delegati del partito conquistati e messo al riparo da colpi di mano alla convention di luglio per ribaltare i risultati elettorali di questi mesi.

In Indiana, Trump ha ancora una volta superato il 50% dei consensi, attestandosi al 53%, così da intascare tutti e 57 i delegati in palio nello stato. A Trump servirebbero teoricamente meno di 230 dei 445 delegati che restano da assegnare nelle primarie ancora in calendario, quasi tutte con il sistema maggioritario. L’addio anche del governatore “centrista” dell’Ohio, John Kasich, annunciato mercoledì rende però ormai il prosieguo della corsa in casa Repubblicana una pura formalità.

Se tra i leader e i finanziatori Repubblicani rimangono forti riserve nei confronti di Trump, da qualche settimana sono giunti vari segnali di un probabile accomodamento del partito all’ormai quasi certo candidato alla Casa Bianca. Dopo gli scontri verbali dei mesi scorsi, ad esempio, il presidente del Comitato Nazionale Repubblicano, Reince Preibus, ha affermato martedì che Trump è ora il “probabile” candidato del partito ed esso deve unirsi attorno al suo nome.

I giornali americani hanno sottolineato l’eccezionalità della corsa e del successo di Trump, il primo candidato alla Casa Bianca di uno dei due principali partiti dai tempi di Eisenhower a non avere mai ricoperto cariche elettive. Trump, inoltre, ha aderito ufficialmente al Partito Repubblicano solo nel 2012, mentre in precedenza aveva donato centinaia di migliaia di dollari a politici Democratici, inclusi i Clinton.

Per trionfare nelle primarie, inoltre, Trump non ha avuto bisogno di ricorrere all’appoggio finanziario di ricchi donatori, avendo in buona parte pagato di tasca propria le spese della campagna elettorale, mentre ha condotto le operazioni nei vari stati non con un’organizzazione imponente ma con un team ridotto all’osso, trasgredendo così a due condizioni che sembravano imprescindibili fino a pochi mesi fa.

La singolarità della sua più che probabile vittoria è legata però soprattutto alla natura del candidato Trump, un populista di destra che non ha avuto scrupoli a offrire proposte apertamente fasciste, e al travolgente sentimento anti-establishment che sta caratterizzando questa stagione elettorale negli Stati Uniti. Uno scenario di certo sgradito a molti Repubblicani ma che è in definitiva il risultato della promozione di forze reazionarie da parte del loro partito e, più in generale, di tutto il panorama politico americano.

La corsa alla nomination Repubblicana è stata segnata dall’emergere, in maniera decisamente fugace, dei candidati sostenuti dall’apparato di potere del partito e, una volta incassato questo sostegno, dal loro puntuale crollo. Ciò è accaduto per Jeb Bush, poi per Marco Rubio e, infine, per Ted Cruz.

Proprio il senatore ultra-conservatore del Texas aveva provato in tutti i modi a fermare Trump, da ultimo attraverso un patto con Kasich, peraltro mai decollato, per ottenere i voti dei sostenitori di quest’ultimo in Indiana e con l’annuncio insolito della scelta del suo candidato alla vice-presidenza, l’ex amministratore delegato di HP, Carly Fiorina.

Cruz ha alla fine pagato un calendario delle primarie che, dopo il suo momento migliore in Wisconsin un mese fa, ha proposto il voto in una serie di stati favorevoli a Trump. Cruz aveva però già perso molte sfide sul suo terreno all’inizio della competizione, cioè nel sud degli Stati Uniti, e soprattutto le sue posizioni di estrema destra e ispirate al fondamentalismo cristiano sono risultate troppo estreme anche per gli elettori Repubblicani.

A fare il resto sono stati i sentimenti non esattamente benevoli dei leader del partito nei suoi confronti e il conseguente sostegno troppo tiepido ottenuto da questi ultimi per costruire una strategia sufficiente a impensierire Trump.

Molti commentatori negli USA, in particolare sulla stampa “liberal”, già da mercoledì hanno rilevato come Trump parta ora da una posizione di netto svantaggio nella sfida di novembre con Hillary Clinton. I sondaggi indicano un distacco in media di dieci punti percentuali dall’ex segretario di Stato e addirittura in alcuni stati tradizionalmente Repubblicani Trump sarebbe in difficoltà.

Alle presidenziali mancano però parecchi mesi e la storia delle elezioni americane non è priva di rimonte in un periodo di tempo così lungo. Soprattutto, poi, Hillary resta una candidata estremamente debole, disprezzata in misura solo leggermente inferiore rispetto a Trump dagli americani e con un lungo elenco di vulnerabilità, determinate in sostanza dai suoi legami inestricabili con i grandi interessi economico-finanziari e dalle tendenze marcatamente guerrafondaie mostrate in decenni di carriera politica.

Ponendo la questione in altri termini, inoltre, pur avendo entrambi livelli negativi di gradimento tra i potenziali elettori, la sfida di novembre potrebbe assumere i contorni dell’outsider contro la quintessenza stessa dell’establishment di Washington, vale a dire una posizione non invidiabile per Hillary alla luce della disposizione degli americani.

Del genere di candidato che il Partito Democratico presenterà a novembre se ne è avuta un’idea ancora martedì. Dopo i successi in cinque delle ultime sei primarie, tra cui a New York, e almeno due settimane di incessante campagna mediatica incentrata su una nomination ormai in tasca, Hillary è riuscita a farsi battere in Indiana da un Bernie Sanders ormai quasi in modalità post-elettorale.

Ai fini della nomination, la sconfitta non avrà ripercussioni, visto che il senatore del Vermont recupererà solo una manciata di delegati senza intaccare l’ampio margine di vantaggio di Hillary. Tuttavia, la favorita Democratica potrebbe giungere all’incoronazione nella convention di Philadelphia a luglio sull’onda di una serie di sconfitte imbarazzanti, rese ancora più gravi dal fatto che arriverebbero insolitamente dopo essersi di fatto garantita la nomination.

Come ha fatto notare lo stesso Sanders recentemente, è possibile poi che Hillary ottenga la maggioranza assoluta dei delegati solo grazie all’appoggio dei cosiddetti “super-delegati”, ovvero quei membri del partito che hanno diritto di voto alla convention ma senza essere vincolati al risultato delle primarie nei loro stati di origine. Se ciò si verificasse, sarebbe un ulteriore segnale del debole consenso popolare per la candidata alla Casa Bianca, in grado di raggiungere questo status solo grazie al massiccio sostegno dell’apparato del partito.

Sanders, da parte sua, appare deciso a rimanere in corsa, nonostante abbia ridimensionato il suo team in maniera drastica e le donazioni a suo favore abbiano fatto segnare una brusca discesa. Il suo obiettivo sembrerebbe essere diventato però quello di coltivare l’illusione che il Partito Democratico possa essere spinto ad adottare una piattaforma “progressista” in vista del voto di novembre.

Il candidato “perdente”, in ogni caso, martedì sera ha salutato il successo nelle primarie dell’Indiana tenendo un comizio in Kentucky, dove si voterà il 17 maggio. Qui, Sanders è dato per favorito su Hillary Clinton, così come almeno negli altri due stati chiamati alle urne nei prossimi quindici giorni: l’Oregon e il West Virginia.

di Michele Paris

A giudicare dalle polemiche che da qualche giorno stanno animando il panorama politico della Gran Bretagna, il Partito Laburista si sarebbe improvvisamente rivelato un covo di irriducibili anti-semiti, contro i quali la leadership di Jeremy Corbyn viene ora chiamata ad agire senza troppi riguardi. Ciò che sta accadendo a Londra è in realtà una campagna attentamente studiata per attaccare lo stesso numero uno del principale partito di opposizione, sotto il fuoco della destra del Labour fin dalla sua elezione lo scorso settembre a causa delle sue posizioni eccessivamente di “sinistra”.

Il dibattito in corso ha assunto ben presto toni da farsa, scivolando involontariamente nel ridicolo, soprattutto sui giornali filo-Conservatori. La nuova grana per Corbyn, fin troppo disponibile a piegarsi ai ricatti della galassia Laburista fedele all’ex primo ministro Tony Blair, era iniziata settimana scorsa in seguito alla pubblicazione, da parte del blogger di destra Guido Fawkes (Paul De Laire Staines), di un post apparso nell’agosto del 2014 sulla pagina Facebook della deputata Laburista Naz Shah, nel quale suggeriva come soluzione al conflitto israelo-palestinese il trasferimento dello stato di Israele negli Stati Uniti.

La parlamentare di origine pakistana si era subito scusata, giustificandosi con il fatto che il post risaliva all’ultima aggressione israeliana di Gaza, periodo in cui il “livello emozionale” era estremamente alto, soprattutto per i musulmani. Poco più tardi è stato inoltre reso pubblico un altro post di Naz Shah, questa volta relativo a un’iniziativa che invitava i suoi “followers” a esprimersi in un sondaggio on-line sulla domanda se Israele avesse commesso o meno crimini di guerra a Gaza.

Le scuse della deputata non sono valse a nulla, visto che la leadership del Partito Laburista ha deciso di sospenderla e di sottoporla a un’indagine del comitato esecutivo nazionale. Tutt’altro che casualmente, Naz Shah è vicina a Jeremy Corbyn, il quale le aveva assegnato l’incarico di segretaria parlamentare di John McDonnell, ovvero il più stretto alleato del leader del partito e Cancelliere dello Scacchiere nel governo-ombra Laburista.

La polemica sul presunto anti-semitismo di Naz Shah non si è però chiusa in questo modo, anzi ha finito per coinvolgere un pezzo grosso del Partito Laburista alleato di Corbyn, l’ex sindaco di Londra Ken Livingstone, vittima di una vera e propria caccia alle streghe. Livingstone è stato messo sotto accusa per un’intervista rilasciata a BBC Radio nella quale aveva sostanzialmente difeso la parlamentare Laburista dalle accuse di anti-semitismo.

Inoltre e soprattutto, Livingstone aveva accostato Adolf Hitler al Sionismo. “Non dimentichiamo”, aveva affermato, “che, quando Hitler vinse le elezioni nel 1932, la sua intenzione era allora quella di trasferire gli ebrei in Israele. [Hitler] sosteneva perciò il Sionismo… solo in seguito è impazzito e ha finito con l’uccidere sei milioni di ebrei”.

L’ex primo cittadino della capitale britannica era infine andato al cuore della polemica, sostenendo correttamente che essa fa parte del “tentativo di screditare Jeremy Corbyn e i suoi alleati”, bollandoli come “anti-semiti fin dal momento in cui è diventato il leader” del partito. Semplicemente, ha aggiunto Livingstone, “abbiamo il diritto di criticare” il brutale trattamento del popolo palestinese.

Queste dichiarazioni hanno subito scatenato la destra Laburista, con molti esponenti di primo piano impegnati a chiedere l’espulsione di Ken Livingstone, tra cui i candidati battuti da Corbyn per la leadership del partito - Andy Burnham, Yvette Cooper, Liz Kendall - e il candidato a sindaco di Londra nelle elezioni di giovedì, Sadiq Khan.

L’assalto a Livingstone e, indirettamente, a Corbyn, ha assunto poi contorni grotteschi quando l’ex sindaco di Londra è stato pesantemente insultato per strada dal deputato Laburista John Mann. Lo sfogo di quest’ultimo è stato debitamente filmato e reso pubblico, mentre Livingstone è stato anch’egli sospeso dal partito.

Le accuse di anti-semitismo rivolte a Ken Livingstone sono a dir poco assurde, non solo per le posizioni assunte in quarant’anni di carriera dal veterano della politica Laburista. Infatti, se pure le sue dichiarazioni su Hitler peccano di una certa superficialità, visto anche il contesto in cui sono state rilasciate, esse non mancano di fondamenta storiche e fanno riferimento ai tentativi ben documentati da parte di sezioni del movimento sionista tedesco per trovare un compromesso con il regime nazista.

Con ogni probabilità Livingstone si riferiva soprattutto al cosiddetto Accordo di Haavara, o del Trasferimento, siglato nell’agosto del 1933 tra il ministero dell’Economia nazista e la Federazione Sionista della Germania per facilitare l’emigrazione degli ebrei tedeschi in Palestina.

In maniera purtroppo poco sorprendente, però, gli ambienti sionisti e altre forze reazionarie continuano a rivolgere accuse di anti-semitismo verso chiunque manifesti anche una parvenza di critica ai metodi repressivi e al limite del genocidio utilizzati quotidianamente dal governo israeliano nei confronti dei palestinesi.

Nel caso della diatriba attorno al Labour britannico, quella in atto è un’aperta provocazione delle forze di destra - interne ed esterne al partito - volta a colpire Jeremy Corbyn. La sospensione di Naz Shah e Ken Livingstone non ha arrestato la polemica, tanto che la stampa d’oltremanica ha scritto mercoledì di come i vertici Laburisti abbiano preso provvedimenti nei confronti di almeno una cinquantina di membri, colpevoli di avere espresso opinioni anti-semite.

Articoli come quello pubblicato martedì dal filo-Conservatore Daily Telegraph hanno elencato una interminabile sequenza di dichiarazioni, post e battute varie di politici Laburisti in odore di anti-semitismo. La commissione interna al partito incaricata di fare luce su accuse di questo genere avrebbe addirittura per le mani un numero tale di segnalazioni da non essere in grado di svolgere il proprio lavoro per mancanza di fondi.

Se sentimenti simili possono essere presenti in questo come in altri partiti in Gran Bretagna e non solo, le finalità politiche dell’operazione in atto sono evidenti, tanto più che le presunte frasi anti-semite riportate sono spesso sfoghi o dichiarazioni legittime contro i crimini di Israele e a difesa del popolo palestinese.

Lo stesso Telegraph ha peraltro ammesso come ci sia in ballo ben altro. Per il quotidiano londinese, i vertici del Partito Laburista temono un possibile golpe ai danni di Corbyn in caso di risultato negativo nelle elezioni amministrative di questa settimana. A sostituirlo alla guida del partito sarebbe già pronto nientemeno che il suo alleato, John McDonnell.

Quello a cui si sta assistendo in questi giorni è dunque il tentativo di danneggiare il Labour nel voto di giovedì, in modo da utilizzare un eventuale esito deludente e le stesse vicende legate ai casi di presunto anti-semitismo per fare pressioni sulla leadership del partito e giungere possibilmente a un colpo di mano che deponga Jeremy Corbyn.

Se si dovesse giungere a tanto, quest’ultimo dovrebbe in ogni caso ricercare le responsabilità in primo luogo nella sua gestione del partito in questi mesi. Dopo avere conquistato la leadership Laburista grazie al vastissimo sostegno popolare per la sua agenda progressista in seguito alla deriva reazionaria sotto la guida di Blair e Gordon Brown, Corbyn ha sostanzialmente sprecato il suo capitale politico, finendo da subito per accettare una serie di compromessi con una rinvigorita destra del partito che, pur essendo ampiamente screditata nel paese, non ha mai smesso di tramare per rimuoverlo dal suo incarico alla prima occasione favorevole.

di Mario Lombardo

L’abbandono in maniera pacifica della cosiddetta Zona Verde di Baghdad da parte dei manifestanti guidati dal leader religioso sciita, Moqtada al-Sadr, ha soltanto messo in pausa la grave crisi in cui si dibatte da mesi il governo iracheno del primo ministro, Haider al-Abadi. Praticamente senza incontrare opposizione nelle forze di sicurezza, nel fine settimana migliaia di dimostranti erano entrati nell’area della capitale off-limits per la popolazione dell’Iraq e che ospita, tra l’altro, le principali istituzioni governative e le rappresentanze diplomatiche straniere.

La protesta, un evento senza precedenti nell’Iraq del dopo Saddam Hussein, è stata il culmine di settimane di scontri politici che stanno paralizzando il governo di Baghdad e che, come temono soprattutto gli Stati Uniti, rischiano di mettere a repentaglio la guerra allo Stato Islamico (ISIS) che controlla ancora circa un terzo del territorio del paese mediorientale.

E’dal mese di febbraio che il premier Abadi sta cercando di ottenere dal Parlamento l’approvazione di un nuovo gabinetto, composto principalmente da “tecnici”, nel quadro di un piano di riforme volte a limitare la suddivisione settaria del potere. L’iniziativa si è però scontrata con la forte opposizione di molte formazioni politiche, tra cui la fazione del suo partito guidata dall’ex premier, Nouri al-Maliki, che temono di veder svanire la rete fatta di favoritismi e clientelismo su cui basano il proprio potere e le ricchezze dei loro affiliati.

La mossa di Abadi, peraltro, riflette il tentativo disperato di stabilizzare il proprio governo, esposto alle pressioni dovute non solo alla sempre più precaria situazione della sicurezza interna, ma anche al rallentamento della crescita economica e al crollo delle quotazione del petrolio.

Nella disputa in atto a Baghdad si è comunque inserito con la consueta astuzia politica al-Sadr, mobilitando i suoi sostenitori nella comunità sciita e chiedendo al governo di portare a termine le riforme promesse da Abadi. All’inizio della scorsa settimana il Parlamento aveva approvato alcune nomine di nuovi membri del governo proposti dal primo ministro, ma il processo si è nuovamente arenato di fronte alle cariche più importanti.

Al-Sadr ha così “ordinato” la marcia sulla Zona Verde della capitale, dove i manifestanti hanno occupato la sede del governo e del Parlamento. Ufficialmente per rispettare un pellegrinaggio sciita che si tiene in questi giorni, al-Sadr ha alla fine richiamato i propri sostenitori, anche se ha minacciato nuove proteste per venerdì prossimo, assieme al possibile ritiro dei parlamentari che fanno capo al suo movimento.

Moqtada al-Sadr e il suo Esercito del Mahdi - successivamente ribattezzato Brigate della Pace - si erano conquistati un certo seguito e prestigio in Iraq grazie alla lotta armata condotta contro l’occupazione americana seguita all’invasione del 2003, nonostante molti leader sciiti avessero all’epoca optato per la collaborazione con le forze di Washington.

Come hanno spiegato vari ritratti di Al-Sadr proposti dai media in questi giorni, quest’ultimo, pur respingendo ideologie politiche ben definite, fa riferimento allo Sciismo e al nazionalismo iracheno. Frequentemente si è scagliato contro l’ingerenza in Iraq di potenze straniere e i suoi sostenitori hanno spesso un atteggiamento critico anche nei confronti dell’Iran. Con esponenti del governo di Teheran, al-Sadr si è scontrato più volte in passato, ma mantiene allo stesso tempo forti legami con la Repubblica Islamica, dove ha vissuto per anni e del cui appoggio politico ha indubbiamente beneficiato.

Le sue fortune politiche in Iraq sono state alterne in questi anni. Il crescente malcontento popolare verso il governo ha permesso però a al-Sadr di tornare a svolgere un ruolo di spicco nelle vicende del suo paese. Nelle ultime settimane ha cavalcato il desiderio ampiamente diffuso tra gli iracheni di mettere fine alle divisioni settarie, utilizzate dalla classe dirigente come sistema di controllo del potere, per chiedere un’amministrazione più efficiente e meno corrotta.

In ultima analisi, tuttavia, è fuori discussione che l’opposizione dei sadristi sia motivata da questioni di opportunismo politico, legate oltretutto agli interessi settari di un movimento che è anch’esso ancorato a sezioni dell’establishment sciita iracheno. La stampa americana, in maniera tutt’altro che sorprendente, non ha mancato di rilevare le motivazioni non sempre così nobili di al-Sadr.

Per il New York Times, ad esempio, quello in atto sarebbe un tentativo di fare pressioni sui “politici che si oppongono agli sforzi [riformisti] di Abadi” e di “ricollocare [al-Sadr] nel quadro politico iracheno”. Altri commentatori hanno poi fatto notare come l’agenda di al-Sadr e del premier non sia molto diversa. Abadi, infatti, avrebbe tutto l’interesse a utilizzare il sostegno popolare dei sadristi per far approvare le proprie riforme politiche.

In molti ritengono d’altra parte che il capo del governo e Moqtada al-Sadr siano impegnati in trattative dietro le quinte. Ciò spiegherebbe la facilità con cui i manifestanti hanno avuto accesso alla Zona Verde di Baghdad, teoricamente super-protetta, e la maniera pressoché indisturbata con cui se ne sono andati domenica malgrado lo stato d’assedio proclamato e Abadi avesse ordinato l’arresto di quanti si fossero resi responsabili di atti di vandalismo.

Le vicende di questi giorni rischiano di innescare nuove pericolose tensioni in Iraq. La crisi alimentata dai sadristi minaccia, per cominciare, l’allargamento della spaccatura che attraversa il fronte sciita, con evidenti conseguenze sulla stessa stabilità di un paese nel pieno della guerra con una forza fondamentalista che, quanto meno fino a pochi mesi fa, ne minacciava addirittura l’esistenza.

Proprio i timori relativi all’efficacia della guerra all’ISIS e alla perdita della residua legittimità della classe politica irachena ha motivato le recenti visite a Baghdad di importanti esponenti dell’amministrazione Obama. Il segretario di Stato, John Kerry, e il numero uno del Pentagono, Ashton Carter, erano stati in Iraq nel mese di marzo, seguiti settimana scorsa dal vice-presidente USA, Joe Biden.

I vertici di queste settimane hanno avuto con ogni probabilità come oggetto di discussione, oltre alla crisi politica, anche i preparativi della prevista offensiva militare per strappare la città di Mosul al controllo dell’ISIS, dopo i successi nella riconquista di Ramadi e Tikrit. Lo stesso governo americano è di nuovo impegnato massicciamente in Iraq, dopo il ritiro ufficiale delle forze di combattimento nel 2011. A tutt’oggi, si contano in questo paese più di 5.000 soldati USA, tutti o quasi impegnati a “sostegno” delle forze indigene contro l’ISIS.

A livello generale, la causa principale della crisi dell’Iraq rimane ad ogni modo l’invasione americana del 2003 che ha letteralmente devastato la società di questo paese. Tra le conseguenze più nefaste di un’impresa che può essere considerata come uno dei più gravi crimini di guerra da oltre mezzo secolo a questa parte sono proprio le lacerazioni su base settaria che continuano a tormentare l’Iraq e il suo popolo.

L’amministrazione Bush, di fronte alla resistenza all’occupazione delle proprie forze armate, alimentò deliberatamente il conflitto interno tra sunniti e sciiti, provocando un bagno di sangue nella seconda metà del decennio scorso e favorendo la nascita di formazioni jihadiste in precedenza mai esistite in Iraq e che sarebbero sfociate nello Stato Islamico.

La divisione dell’Iraq lungo linee settarie è tuttora sull’agenda di quanti a Washington vedono in essa l’unico modo per stabilizzare il paese e mantenerlo nell’orbita strategica americana o, quanto meno, per evitare che esso, come entità unitaria, finisca in maniera definitiva all’interno di quella iraniana.

Lo stesso vice-presidente Biden, ancora prima di essere reclutato da Obama, un decennio fa aveva ipotizzato la suddivisione dell’Iraq in tre parti indipendenti o semi-indipendenti: una a maggioranza sciita, una sunnita e una curda. Con il persistere della crisi in Iraq e nell’intera regione mediorientale, è indiscutibile che simili piani siano ancora allo studio a Washington, ma anche a Baghdad, e la loro implementazione non farebbe altro che portare a compimento, a oltre tredici anni dall’invasione USA, la completa distruzione del paese che fu di Saddam Hussein.


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