di Michele Paris

La fragilissima tregua negoziata per la Siria a febbraio da Russia e Stati Uniti appare sempre più sul punto di crollare dopo l’impennata di violenze registrata negli ultimi giorni, in particolare nella battaglia in corso per la conquista della (ex) capitale economica del paese, Aleppo. Soltanto qui, in meno di due settimane si sono contate almeno 200 vittime, cadute sia sotto i colpi dell’artiglieria e degli aerei da  guerra del regime di Assad e della Russia, sia per mano dei “ribelli”.

Gli episodi di cui sono responsabili questi ultimi continuano però a suscitare un livello di indignazione decisamente minore tra governi e stampa occidentali rispetto a quelli attribuiti alle forze di Damasco.

I segnali del nuovo aggravamento della situazione nel paese mediorientale sono evidenti da tempo e questa settimana l’inviato speciale dell’ONU per la Siria, Staffan de Mistura, è sembrato prenderne atto nonostante il cauto ottimismo ostentato in precedenza.

Il diplomatico italo-svedese ha espresso estrema preoccupazione per quanto sta accadendo ad Aleppo e giovedì ha rivolto un appello disperato ai governi di Russia e Stati Uniti per prendere “iniziative ai più alti livelli” e cercare di salvare il cessate il fuoco, condizione necessaria per far segnare un minimo progresso sul fronte diplomatico.

Anche i negoziati di pace di Ginevra sono inevitabilmente a un punto morto, dopo che i leader del cosiddetto Alto Comitato per i Negoziati (HNC), che dovrebbe rappresentare i gruppi di opposizione al regime di Damasco, la settimana scorsa hanno abbandonato il tavolo delle trattative in segno di protesta per il mancato accoglimento di alcune richieste preliminari.

Secondo de Mistura non ci sarebbe motivo per cui Mosca e Washington non debbano mostrare la volontà di rimettere in piedi un processo diplomatico per il quale “hanno investito un così ingente capitale politico”. In realtà, le ragioni del sostanziale stallo delle trattative sulla Siria e della ripresa delle ostilità sul campo non sono per nulla risolte e hanno a che fare con il persistere di interessi totalmente divergenti tra USA e Russia sul futuro di questo paese.

L’intesa sul cessate il fuoco era stata accettata dall’amministrazione Obama principalmente per testare la disponibilità degli alleati della Siria a favorire un’uscita di scena pacifica del presidente Assad, sia pure facendo qualche concessione, come la presenza di uomini legati al regime in un eventuale governo di transizione. In questo modo, Washington intendeva provare a raggiungere per via diplomatica l’obiettivo perseguito militarmente per cinque anni, cioè installare, quanto meno nel medio periodo, un regime con un orientamento strategico opposto a quello di Assad.

Se la Russia ha più volte segnalato di essere disposta a valutare un cambio alla guida della nuova Siria, ciò da cui non intende transigere è però il mantenimento della propria influenza nel paese. La fermezza con cui da Damasco si continua inoltre a respingere qualsiasi ipotesi di esclusione di Assad da un futuro governo sembra limitare le opzioni di Mosca, dove si è ben consapevoli della doppiezza degli Stati Uniti e dei loro alleati, pronti a sfruttare qualsiasi concessione per avanzare la propria agenda.

De Mistura, dopo avere chiuso mercoledì la sessione di due settimane di colloqui indiretti a Ginevra, ha fatto sapere che il prossimo round di negoziati dovrebbe essere convocato a maggio, anche se l’assenza di una data precisa lascia intendere che si stia valutando un nuovo rinvio.

Il capo della delegazione siriana a Ginevra, Bashar Ja’afari, qualche giorno fa aveva comunque definito “utili e costruttivi” i colloqui. Da parte sua, de Mistura avrebbe fatto una proposta che prevede la permanenza di Assad alla guida nominale della Siria ma con alcuni suoi poteri trasferiti a tre o quattro vice-presidenti graditi a entrambe le parti. Sia il regime sia le opposizioni hanno tuttavia respinto l’ipotesi. Il che, secondo la stampa occidentale, potrebbe avere contribuito all’abbandono dei negoziati da parte di queste ultime.

Giovedì, intanto, i giornali occidentali hanno dato ampio rilievo alla distruzione di un ospedale di Aleppo in un’area della città controllata dai “ribelli”. I bombardamenti, attribuiti alle forze governative dai negoziatori dell’opposizione, avrebbero fatto decine di morti, tra cui medici e bambini. Decisamente meno spazio viene invece dato alle atrocità commesse nella città siriana dai gruppi armati anti-Assad e, soprattutto, alla composizione di questi ultimi contro cui il governo e le forze aeree russe stanno combattendo.

Ad Aleppo vi è una forte presenza di formazioni legate ad al-Qaeda, a cominciare dalla filiale dell’organizzazione jihadista in Siria, il Fronte al-Nusra. Non solo, anche i gruppi ritenuti “moderati” dall’Occidente si mescolano o collaborano in maniera più o meno intensa con quello qaedista.

A confermare questo quadro non è solo la propaganda di Mosca o Damasco, ma anche le dichiarazioni di svariati esponenti del governo e delle forze armate americane. Qualche giorno fa, il segretario di Stato, John Kerry, aveva affermato in un’intervista al New York Times che la Russia si stava “muovendo ad Aleppo” perché membri del Fronte al-Nusra operano assieme ad altri gruppi sostenuti dai governi occidentali.

Lo stesso concetto lo ha ribadito mercoledì anche il portavoce delle forze USA in Iraq, colonnello Steve Warren, il quale ha definito “complicati” gli scenari di Aleppo, visto che in questa città opera il Fronte al-Nusra che non è incluso nell’accordo sulla tregua in Siria.

Le richieste presentate dall’opposizione a Ginevra appaiono dunque difficilmente accettabili, sia per la situazione sul campo sia per la natura di questi gruppi e il ruolo destabilizzante che continuano a svolgere in Siria senza avere nessuna base di consenso tra la popolazione.

In maniera legittima, il governo di Mosca martedì ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di aggiungere due gruppi armati alla lista di quelli considerati terroristi attivi in Siria. Le due formazioni sono Jaish al-Islam e Ahrar al-Sham, entrambe rappresentate nei colloqui di Ginevra. Addirittura, il negoziatore capo dell’HNC, Mohammed Alloush, è uno dei leader di Jaish al-Islam.

L’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, si è detto certo che le due organizzazioni hanno “stretti legami” con al-Qaeda, ma anche con lo Stato Islamico (ISIS). Da Washington, la richiesta è stata accolta con irritazione. Il portavoce del dipartimento di Stato, Mark Toner, ha sostenuto che la proposta di Mosca rischia di mettere ancora più a rischio la tregua in Siria, senza però discuterne il merito.

Dietro a queste formazioni ci sono paesi come Turchia e Arabia Saudita e la loro presenza al tavolo dei negoziati rappresenta uno dei principali ostacoli a una risoluzione pacifica del conflitto. D’altra parte, anche gli Stati Uniti continuano a mantenere un atteggiamento per lo meno ambiguo nei confronti dei gruppi fondamentalisti che combattono in Siria, poiché, malgrado le preoccupazioni che possono suscitare, sono le uniche forze che operano con una certa efficacia per il cambio di regime a Damasco.

La malafede dei governi che auspicano il rovesciamento di Assad è evidente anche dai piani che l’amministrazione Obama sta valutando in previsione del definitivo fallimento dei negoziati di Ginevra. In tal caso, come hanno riportato di recente i media, scatterebbe l’implementazione di un “piano B” che consiste nell’aumento delle spedizioni di armi letali ai “ribelli”, a cui vanno aggiunti i 250 uomini delle forze speciali USA che il Pentagono ha da poco annunciato di volere inviare in Siria a sostegno dei 50 già presenti sul campo.

Preoccupante è infine un’altra iniziativa avallata dagli Stati Uniti su richiesta della Turchia. Proprio qualche giorno fa il regime di Erdogan ha dato notizia del dispiegamento di batterie missilistiche americane lungo il confine con la Siria. La decisione è motivata ufficialmente da ragioni difensive dopo un bombardamento attribuito all’ISIS contro la città turca di Kilis che ha fatto cinque morti lo scorso fine settimana.

Il sistema missilistico sarebbe però anche a poche decine di chilometri da Aleppo, possibile obiettivo turco nel caso la situazione per le formazioni jihadiste sostenute da Ankara dovesse precipitare e mettere a rischio gli ingenti investimenti fatti da Erdogan, ma anche da Washington e
dagli altri partner nella regione, per abbattere il regime di Damasco.

di Michele Paris

Sull’onda dei risultati delle primarie di New York della settimana scorsa, gli stati del nord-est americano che si sono recati alle urne martedì hanno consegnato vittorie piuttosto nette sia a Donald Trump che a Hillary Clinton, consolidando le rispettive posizioni nella corsa a una nomination ormai a portata di mano di entrambi.

Viste anche le modalità di assegnazione dei delegati in palio previste dal Partito Repubblicano, in prevalenza con il metodo maggioritario, l’affermazione in cinque stati su cinque ha permesso a Trump di fare un passo quasi decisivo verso l’obiettivo finale. Trump ha superato la soglia del 50% dei consensi in Connecticut (58%), Delaware (61%), Maryland (54%), Pennsylvania (57%) e Rhode Island (64%), mentre nella prima fase delle primarie aveva quasi sempre vinto solo con la maggioranza relativa dei voti.

Un dato, quest’ultimo, particolarmente significativo e legato in parte a condizioni elettorali e demografiche a lui più favorevoli nel nord-est degli Stati Uniti, ma dovuto probabilmente anche ai riflessi delle recenti polemiche con i vertici del partito e degli attacchi che gli sono stati rivolti nel tentativo di ostacolare la sua corsa alla nomination. Una dinamica solo apparentemente insolita e che conferma invece il forte sentimento anti-sistema che anima anche gli elettori Repubblicani.

Del tutto deludente è stata ancora una volta la prestazione dell’unico vero sfidante di Trump rimasto in gara, il senatore del Texas di estrema destra, Ted Cruz, in grado di superare il 20% solo in Pennsylvania. A parte questo stato, Cruz è finito alle spalle anche del governatore dell’Ohio, John Kasich, in tutte le competizioni di martedì.

Il saldo di Trump dopo il più recente appuntamento elettorale è ormai di oltre 950 delegati. Per assicurarsi automaticamente la nomination Repubblicana ne sono necessari 1.237 e, secondo gli osservatori americani, a Trump sarebbe sufficiente ottenere successi anche modesti in due stati a questo punto decisivi: Indiana e California.

Una manciata di altri stati che ancora mancano all’appello in queste primarie sembrano già orientati piuttosto nettamente a favore di Trump o di Cruz, mentre Indiana e California - al voto rispettivamente martedì prossimo e il 7 giugno - risultano a tutt’oggi in bilico, anche se i sondaggi più recenti assegnano un leggero margine a Trump.

L’unica ambizione di Cruz, e ancor più di Kasich, resta in ogni caso quella di impedire al miliardario newyorchese di raggiungere la maggioranza assoluta dei delegati alla chiusura del calendario delle primarie. In questo caso, nella convention Repubblicana di Cleveland a luglio i delegati avranno facoltà di scegliere il candidato preferito alla Casa Bianca senza essere vincolati ai risultati del voto nei vari stati.

In Indiana, Cruz si giocherà così il tutto per tutto e, per impedire la vittoria di Trump, nei giorni scorsi aveva annunciato il raggiungimento di un accordo con Kasich. I termini di questa intesa già traballante prevedono che quest’ultimo rinunci a correre in Indiana, in modo da favorire Cruz, il quale, a sua volta, sospenderebbe di fatto la campagna elettorale in Oregon e New Mexico in modo da spingere i suoi sostenitori a votare per Kasich.

Il cammino di Trump continua ad ogni modo a disorientare sia l’establishment Repubblicano sia i media ufficiali. Nelle ultime settimane, l’imprenditore e showman è passato da probabile vittima delle macchinazioni del partito a super-favorito inarrestabile, come lo era stato già a inizio anno, da “outsider” con propensione alle gaffes a candidato sulla via del politicamente corretto dopo un rimpasto del suo staff.

Al di là di tutto, Trump rimane un candidato difficilmente inquadrabile per la politica di Washington, vista la ovvia mancanza di esperienza in questo ambito. A una prima analisi, è chiarissimo il suo tentativo di capitalizzare le frustrazioni dell’elettorato di destra - quasi sempre decisivo nelle primarie Repubblicane - con una retorica populista e in odore di fascismo.

Soprattutto il relativo successo tra la “working-class” bianca si spiega però in maniera differente, a meno di non volere etichettare quest’ultima come un blocco demografico e sociale con tendenze prevalentemente razziste e fasciste.

Assieme alle sparate contro gli immigrati, Trump ha saputo comunicare un messaggio che ha fatto presa su una parte considerevole, ancorché disorientata, delle classi più colpite dal degrado economico e sociale che affligge gli Stati Uniti, grazie principalmente alla completa trasformazione del Partito Repubblicano nella casa dei ricchi e potenti e al drastico spostamento a destra di quello Democratico.

Come ha commentato mercoledì il Washington Post, Trump “ha dato voce alle frustrazioni che sono state in incubazione per anni tra molti elettori, promettendo di trasformare Washington e agire in maniera ferma per smantellare i trattati di libero scambio e rilanciare le città industriali che hanno visto sparire posti di lavoro ben pagati”. Che, poi, queste aspettative siano destinate a essere deluse su tutti i fronti appare evidente, ma nella dinamica delle primarie di questi mesi hanno indubbiamente giocato un ruolo fondamentale nell’affermazione di Trump.

Sul fronte Democratico, la sfida era apparsa già segnata dopo il successo di Hillary Clinton a New York settimana scorsa. Con tutti i giornali “liberal” impegnati a proclamare la sostanziale fine della corsa alla nomination, molti potenziali sostenitori di Bernie Sanders hanno probabilmente deciso di disertare le urne. Ciò sembra essere almeno in parte confermato dal sensibile calo della percentuale degli elettori più giovani che hanno votato martedì rispetto a quasi tutte le primarie precedenti.

Sanders ha comunque vinto in maniera netta in Rhode Island, non a caso l’unico stato tra i cinque chiamati a esprimersi questa settimana che prevedeva primarie aperte, cioè non limitate ai soli elettori registrati come Democratici. Il senatore del Vermont ha fatto segnare fin qui numeri migliori rispetto all’ex segretario di Stato tra gli “indipendenti”, una fetta di elettorato solitamente considerata cruciale nelle elezioni presidenziali vere e proprie.

La strada di Sanders verso la nomination è dunque ormai di fatto chiusa, visto che dovrebbe conquistare circa il 70% dei delegati ancora in palio per superare Hillary, cosa impossibile se non altro per il fatto che nelle primarie Democratiche vige il sistema proporzionale. Un numero consistente di delegati sarà comunque in gioco soprattutto il 7 giugno prossimo, quando voteranno sei stati, tra cui California e New Jersey, ma la matematica e soprattutto la campagna a favore di Hillary dell’apparato del partito e della stampa avranno probabilmente già decretato la fine sostanziale della competizione con Sanders.

Dopo il voto di martedì, Hillary si è dedicata in gran parte al prossimo sfidante Repubblicano per la Casa Bianca, ignorando Sanders sia pure senza giungere a chiederne il ritiro dalle primarie. Il faccia a faccia che sembra ormai profilarsi con Trump farà dell’elezione di novembre la prima negli Stati Uniti tra due candidati visti con sfavore dalla maggioranza degli americani.

Per quanto riguarda la Clinton, la macchina del Partito Democratico si è già attivata non solo per convincere Sanders ad abbassare i toni e a sostenere senza riserve la beneficiaria della nomination, ma anche per ripulire l’immagine di una candidata ampiamente screditata agli occhi di decine di milioni di elettori.

Le manovre in questo senso stanno procedendo in due direzioni. Da un lato sono chiari gli sforzi di minimizzare gli strettissimi legami della famiglia Clinton con Wall Street e i poteri forti americani, da cui dipende interamente la fortuna politica e la ricchezza dell’ex presidente e della candidata alla presidenza. Dall’altro, visto il successo di Sanders e il desiderio di buona parte dell’elettorato di politiche veramente progressiste, c’è invece il ricorso a una retorica “liberal” da parte di Hillary, sia sui temi domestici sia, almeno a giudicare dalle ultimissime uscite, su quelli relativi alla politica estera.

L’uscita di scena di Bernie Sanders sembra quindi sempre più vicina. Il candidato auto-definitosi “democratico-socialista” ha per ora promesso di rimanere in corsa fino al termine del calendario delle primarie, anche se martedì ha lasciato intendere che le speranze di conquistare la nomination sono ormai svanite. In un comizio in West Virginia davanti a migliaia di sostenitori, Sanders si è impegnato a presentarsi alla convention Democratica della prossima estate “con il maggior numero possibile di delegati” e soltanto “per battersi per una piattaforma progressista” del Partito Democratico.

Con la fine delle ambizioni di nomination, insomma, Sanders e il suo team mostrano di essere pronti a tornare a svolgere il ruolo che i vertici del partito auspicavano oltre un anno fa, cioè quello di intercettare e dare sfogo alle frustrazioni degli elettori potenzialmente di sinistra, per poi convogliarle in maniera inoffensiva verso il candidato alla Casa Bianca preferito dall’establishment Democratico.

di Michele Paris

Il vertice di lunedì a Hannover tra il presidente americano Obama e i leader di Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia, ha contribuito a fare maggiore luce sui progetti occidentali per un nuovo intervento militare in Libia a cinque anni dalla campagna di bombardamenti risoltasi con la devastazione dell’economia e della società del paese nord-africano. Le preoccupazioni dei governi che stanno predisponendo i piani di intervento questa volta riguarderebbero principalmente il flusso di migranti provenienti dal territorio libico e diretti verso l’Europa.

Finora, l’Unione Europea si è occupata di monitorare le acque internazionali del Mediterraneo centrale attraverso la cosiddetta Operazione Sofia, ma l’obiettivo è quello di avere accesso anche alle acque libiche, in modo da rendere più efficace la guerra ai trafficanti di disperati. La “missione” prevista in Libia dovrebbe avere però contorni anche più ampi, con il possibile impiego di soldati occidentali nel paese, e sarà approvata nel corso del summit NATO in programma il 7 luglio prossimo a Varsavia.

Il ministro della Difesa italiano, Roberta Pinotti, ha assicurato che la proposta di coordinare il pattugliamento del Mediterraneo tra l’UE e la NATO, attualmente impegnata più a est, nel Mar Egeo, in funzione anti-migranti, sarà finalizzata nella capitale polacca.

L’Operazione Sofia è limitata alla raccolta di informazioni sulle rotte dei trafficanti di esseri umani e al soccorso delle imbarcazioni in difficoltà. I vincoli a un intervento più incisivo e che copra le acque territoriali libiche, se non addirittura le coste di questo paese, sono rappresentati dall’assenza sia di una risoluzione ONU che lo autorizzi sia di una richiesta formale del governo di Tripoli.

La prima condizione risulta complicata a causa dell’opposizione quanto meno della Russia, la quale intende evitare una ripetizione della vicenda del 2011, quando gli USA e i loro alleati manipolarono una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per avviare una campagna di bombardamenti sulla Libia e facilitare la rimozione del regime di Gheddafi.

Un “invito” all’intervento da parte del governo libico appare invece possibile, visto che i governi occidentali sono riusciti a creare un governo riconosciuto dall’ONU, sia pure senza alcuna base di potere nel paese, al preciso scopo di indurlo a richiedere assistenza militare esterna e legittimare così una nuova “missione” nel paese.

Tuttavia, il gabinetto, guidato dal “tecnico” Fayez al-Sarraj, come ha spiegato il Guardian usando un evidente eufemismo, “fatica a conquistarsi una qualche autorità politica”, ma ha comunque già chiesto aiuto all’Occidente per proteggere i pozzi petroliferi libici dallo Stato Islamico (ISIS). Sarraj ha ottenuto l’approvazione formale di uno dei due governi che hanno autorità sulla Libia, quello con sede a Tripoli e appoggiato, tra gli altri, dalle milizie islamiste, mentre quello teoricamente filo-occidentale di Tobruk non ha ancora proceduto in questo senso.

Le difficoltà con cui il governo sostenuto dall’ONU deve fare i conti dipendono in sostanza dal pochissimo entusiasmo di una parte della classe dirigente libica e della maggioranza della popolazione del paese per un nuovo intervento militare occidentale.

Una nuova avventura per “stabilizzare” il paese che fu di Gheddafi avrebbe d’altra parte come reale obiettivo il controllo delle risorse energetiche libiche. A livello ufficiale, però, le ragioni di un eventuale intervento devono essere presentate in forma differente.

Principalmente, gli obiettivi dovrebbero essere la già ricordata campagna contro il traffico di clandestini diretto verso l’Europa e, facendo ricorso a una strategia ampiamente utilizzata dagli USA per giustificare la presenza di loro uomini sul territorio di paesi sovrani, l’addestramento di un esercito indigeno impreparato.

Per quanto riguarda lo stop ai barconi degli immigrati, i timori sarebbero legati al possibile riversarsi verso le coste nordafricane dei flussi attraverso la Turchia ostacolati dal vergognoso, e con ogni probabilità illegale, accordo siglato dall’UE con il regime di Ankara al prezzo di 3 miliardi di euro.

Dopo il summit di Hannover sono circolate notizie circa l’impegno dei governi coinvolti nella nuova missione libica. Roma ha smentito l’ipotesi di inviare 900 uomini in Libia, anche se, come ha scritto La Repubblica, “di sicuro nei piani della Difesa sono stati previsti impegni anche superiori” a questo numero, “ma non in questa fase”. L’Italia sarebbe per ora pronta a “guidare 250 uomini delle Nazioni Unite, fornendo un contingente di 50 militari fra Esercito e Carabinieri”.

Gli altri partner europei hanno poi a loro volta confermato la disponibilità a inviare propri soldati in Libia. La Cancelliera Merkel, dopo l’incontro con Obama, ha lasciato intendere che la Germania è pronta a fare la propria parte all’interno di una missione patrocinata dalla NATO.

Lo stesso governo americano non intende restare fuori dalla nuova corsa alla Libia, nonostante abbia tutto l’interesse a delegare le principali responsabilità delle operazioni ai partner NATO. Lunedì è apparsa infatti la notizia che le navi da guerra americane potrebbero far parte delle pattuglie al largo delle coste libiche che verrebbero dispiegate di qui a pochi mesi.

Domenica, inoltre, il ministro degli Esteri britannico, Philip Hammond, ha detto di non potere escludere l’invio di “forze da combattimento” nel paese nordafricano per combattere la crescente minaccia dell’ISIS. Per il ministro, la richiesta dovrebbe giungere dal nuovo governo “di unità nazionale” da poco installatosi a Tripoli e la questione sarebbe comunque vincolata all’approvazione del Parlamento di Londra.

A completare l’elenco di dichiarazioni di solidarietà ben poco disinteressate alla Libia è stato il ministro della Difesa francese, Jean-Yves le Drian, il quale in un’intervista alla radio Europe 1 ha garantito che il governo Socialista di Parigi è “pronto” ad aiutare quello di Tripoli e a impegnarsi per la “sicurezza marittima” della Libia.

Retorica a parte, ciò che appare evidente è l’esistenza di piani di intervento su larga scala pronti da tempo, nonché dalla portata decisamente maggiore rispetto a poche centinaia di uomini con incarichi limitati all’addestramento, che attendono solo una qualche sanzione pseudo-legale per essere implementati.

In definitiva, il processo a cui si sta assistendo, in teoria per il bene della Libia, continua a essere modellato unicamente dagli interessi dei governi occidentali e non certo da quelli di una popolazione che ha già sperimentato sulla propria pelle le conseguenze disastrose dell’intervento “umanitario” del 2011.

di Michele Paris

Il tema dominante della visita di questi giorni in Europa del presidente americano Obama è senza dubbio rappresentato dai timori di Washington per le rivalità, le divisioni e la grave crisi che stanno attraversando i paesi dell’Unione sotto le pressioni di un’economia in affanno. I tre giorni in Gran Bretagna sono stati caratterizzati dalla questione della possibile uscita di Londra dall’UE (“Brexit”), mentre gli incontri tra domenica e lunedì con i leader di Germania, Francia e Italia hanno al centro, tra l’altro, il trattato di libero scambio transatlantico (TTIP), la lotta al terrorismo e il tentativo di mantenere un fronte unito contro la Russia di Putin.

In un’intervista a un quotidiano tedesco alla vigilia dell’arrivo in Germania, Obama ha ribadito che, pur non essendo suo compito “dire all’Europa come gestire l’Europa”, di un’Unione “forte, unita e democratica” finisce per beneficiarne anche gli Stati Uniti.

Se le preoccupazioni per la democrazia europea non sono in realtà in cima alla lista delle priorità dell’inquilino della Casa Bianca, visto anche che l’UE è stata in questi anni lo strumento per l’implementazione di durissime misure anti-democratiche in molti paesi membri, la necessità di mantenere una certa coesione all’interno dell’Unione ed evitare la sua disintegrazione corrisponde di certo agli interessi americani.

L’importanza di questo punto è apparso chiarissimo dalle parole pronunciate sulla “Brexit” negli interventi pubblici di Obama in Gran Bretagna settimana scorsa. La sua visione sulla questione, che sarà sottoposta a referendum popolare il 23 giugno prossimo, era stata esposta anche in un insolito articolo scritto dallo stesso presidente USA per il giornale filo-Conservatore Daily Telegraph.

L’invasione così palese di un leader americano negli affari politici interni alla Gran Bretagna ha ben pochi precedenti e ha confermato appunto le ansie che sta vivendo la classe dirigente di Washington in previsione delle conseguenze di un possibile abbandono dell’Unione Europa da parte dell’alleato.

Nell’articolo pubblicato venerdì, Obama ha ricordato la lunga amicizia e l’alleanza tra USA e Regno Unito, per poi collegare significativamente la creazione dell’UE a quella delle altre istituzioni internazionali post-belliche che per decenni hanno garantito la stabilità dell’Occidente sotto la guida del capitalismo americano.

In seguito, Obama ha portato un attacco frontale ai sostenitori della “Brexit”, ricordando come “l’influente voce della Gran Bretagna assicuri la forza dell’Europa nel mondo” e che il vecchio continente rimanga “aperto… e strettamente legato ai propri alleati dall’altra parte dell’Atlantico”. Solo il mantenimento di questa alleanza, ha spiegato Obama, consente di far fronte alle sfide del “terrorismo”, alla minaccia di “aggressioni”, presumibilmente da parte della Russia, e alla crisi “economica e dei migranti”.

Gli interessi americani sono risultati poi evidenti nel riferimento alla NATO, dal momento che la forza dell’Alleanza, secondo il presidente Democratico, può essere garantita solo da una solida partnership con il Regno Unito e, di conseguenza, con il resto dell’Europa. In sostanza, la conservazione della NATO come strumento della proiezione degli interessi statunitensi sarebbe messa a rischio da un’eventuale spaccatura nel fronte degli alleati occidentali di Washington.

Lo stesso discorso vale in definitiva anche per la questione economica, essendo gli interessi economici dei poteri forti negli Stati Uniti indissolubilmente legati a quelli promossi dall’apparato militare. Da qui, l’impegno di Obama per ridare slancio a un trattato commerciale transatlantico, i cui scopi sono principalmente la subordinazione del mercato europeo al capitalismo americano e il tentativo di impedire la piena integrazione delle economie dei paesi UE – a cominciare dalla Germania – con la Russia, la Cina e il continente asiatico in genere.

In questa prospettiva, appare chiaro l’obiettivo dell’impegno di Obama per sventare il pericolo “Brexit”. Dall’uscita della Gran Bretagna dall’Unione potrebbero infatti innescarsi minacciose forze centrifughe, peraltro già latenti e a tratti manifeste fin dall’esplosione della crisi economico-finanziaria del 2008, che potrebbero spaccare l’Europa e riportare nel continente rivalità sopite dopo il secondo conflitto mondiale.

Un simile scenario comporterebbe quasi certamente un certo allontanamento di alcuni paesi dagli Stati Uniti, soprattutto sul fronte economico e commerciale, mettendo a repentaglio i sogni “egemonici” di Washington e i progetti di marginalizzazione di una potenza come la Russia.

Il pensiero americano in questo senso va indubbiamente alla Germania, già tra i paesi più scettici, almeno a livello non ufficiale, verso le politiche di confronto con Mosca, se non altro per i profondi legami che caratterizza(va)no le rispettive economie.

La visita di Obama, e soprattutto il suo intervento in Gran Bretagna, si è comunque innestata su un dibattito interno particolarmente acceso a meno di due mesi dal referendum sulla “Brexit”. Contro il presidente Obama si è scagliato ad esempio duramente e in maniera strumentale il sindaco di Londra, nonché pretendente alla leadership del Partito Conservatore, Boris Johnson. Quest’ultimo ha definito “ipocriti” gli inviti del presidente USA a sacrificare la “sovranità” britannica in una maniera che gli USA “non si sognerebbero mai di fare”.

I toni di Johnson, uno degli esponenti di maggiore spicco della fazione dei Conservatori favorevole alla “Brexit”, sono stati particolarmente accesi e con accenti razzisti, quando in un commento apparso sul Sun di Rupert Murdoch ha definito Obama “mezzo kenyano” e, dunque, ostile alla Gran Bretagna per il suo passato di potenza coloniale.

Ugualmente pesanti sono state le parole del numero due del ministero della Difesa di Londra, Penny Mordaunt, la quale sempre al Telegraph ha affermato che le opinioni di Obama circa “l’impatto dei legami con l’UE sulla nostra sicurezza e sugli interessi del Regno Unito e degli Stati Uniti tradiscono una dolorosa ignoranza”.

A testimonianza dei sentimenti contrastanti suscitati dalla visita di Obama e, più in generale, dal rapporto degli USA con l’Europa, il presidente americano ha trovato un clima tutt’altro che disteso anche in Germania. Il suo arrivo ad Hannover per la tradizionale fiera dedicata alla tecnologia industriale, è stato preceduto dalla mobilitazione di gruppi di protesta contro la ratifica del TTIP (Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti), già oggetto di imponenti manifestazioni in Germania nei mesi scorsi.

Nonostante le parole di elogio avute da Obama per la cancelliera Merkel, anche alcuni esponenti del governo di Berlino sono apparsi tutt’altro che ben disposti sulla questione del TTIP, quanto meno nella sua forma attuale. Il vice-cancelliere e ministro dell’Economia Socialdemocratico, Sigmar Gabriel, ha ad esempio ricordato le condizioni che favoriscono il capitale USA a discapito di quello tedesco, così che, se non dovessero esserci concessioni da parte americana, il trattato di libero scambio potrebbe essere destinato a un clamoroso fallimento.

di Carlo Musilli

Un’onda nera sconvolge l’assetto politico dell’Austria e mette in allarme l’Italia sul fronte migranti. Per la prima volta dal dopoguerra, a Vienna non siederà un presidente socialdemocratico o conservatore. In base alle proiezioni, ieri al primo turno delle presidenziali ha trionfato Norbert Hofer, candidato della formazione di estrema destra Fpoe (“Partito della Libertà”), la più votata del Paese con il 36,7% delle preferenze. Al secondo turno Hofer si scontrerà con il verde Alexander van der Bellen, che è arrivato secondo con circa il 19,7%.

Dal punto di vista austriaco, il dato politico più rilevante è la disfatta dei due grandi partiti tradizionali, socialdemocratici e popolari, protagonisti della grande coalizione che governa l’Austria dal 2007. Dopo essersi scontrate in tutti i ballottaggi per le presidenziali dal 1945 in poi, le due formazioni storiche hanno ceduto di schianto e all’unisono, non riuscendo a portare i rispettivi candidati oltre l’11%.

È vero, in Austria il presidente della Repubblica ha pochi poteri effettivi e svolge prevalentemente un ruolo di rappresentanza (è il capo delle forze armate, nomina il cancelliere e, in alcune circostanze, può sciogliere il Parlamento), per cui nell’immediato non dovrebbero arrivare cambiamenti di rotta drastici da parte di Vienna. Ma le elezioni politiche si terranno nel 2018 e sarebbe folle sottovalutare l’ascesa del Fpoe, partito dichiaratamente xenofobo e anti-immigrati che domenica ha raggiunto il suo miglior risultato di sempre a livello nazionale.

Se fra due anni la formazione di Hofer si imporrà nuovamente (al momento, secondo i sondaggi, è al 30%), l’Austria si aggiungerà alla lista dei Paesi europei che Bruxelles ha spinto nelle braccia del populismo di destra, un club di cui già fanno parte l’Ungheria neofascista del dispotico Viktor Orban e la Polonia guidata dal partito reazionario “Diritto e Giustizia”.

L’avanzata della demagogia fascistoide, del resto, è dimostrata anche dalle impennate del Front National lepenista in Francia e dai risultati ottenuti in Gran Bretagna dall’Ukip di Nigel Farage, promotore del referendum con cui a giugno il Regno Unito potrebbe decidere di abbandonare l’Unione europea.

Il successo di questi partiti è dovuto anche al fallimento di Bruxelles nella gestione dei flussi migratori in arrivo. Non a caso Hofer, un 45enne che ha la simpatica abitudine di girare armato di pistola, ha definito “fatale” l’accordo sui migranti fra Ue e Turchia e ha fatto sapere che il suo primo obiettivo è impedire che l’Austria diventi una “terra d’immigrazione”. Non solo: per far capire che non scherza ha assicurato che - se sarà eletto - sfiducerà il governo a meno che non vengano adottate misure più restrittive sui migranti.

Una minaccia particolarmente preoccupante per l’Italia, visto che Vienna ha già iniziato la costruzione di una barriera di 250 metri alla frontiera del Brennero, dove ieri si sono verificati nuovi scontri fra polizia austriaca e manifestanti italiani “no border”. Il ministro degli Esteri Sebastian Kurz ha spiegato che per l’Austria la priorità è proteggere i confini esterni dell’Ue, sottolineando che Vienna “sarà costretta a introdurre i controlli al Brennero” se non si riuscirà a ridurre il numero degli irregolari dalla rotta mediterranea. L’Italia protesta, Bruxelles rimane a guardare.

Del resto, nemmeno il primo Paese d’Europa è estraneo a queste dinamiche. Lo scorso marzo, in Germania, alle elezioni regionali la destra populista anti-migranti dell'Afd (Alternativa per la Germania) è riuscita per la prima volta a entrare nei parlamenti regionali di tre lander. La Cdu di Angela Merkel, invece, ha perso in due lander su tre e continua a veder calare i consensi dopo la decisione di aprire le frontiere tedesche a tutti i richiedenti asilo provenienti dalla Siria.

Il calo nei sondaggi sembra aver già avuto effetto sulla cancelleira, che, secondo Der Spiegel, “confiderebbe” nella chiusura del Brennero da parte dell'Austria qualora centinaia di migranti intendessero raggiungere la Germania dall'Italia. Purtroppo, milioni di elettori austriaci sono d’accordo con lei.


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