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di Michele Paris
I governi di Giappone e Corea del Sud qualche giorno fa hanno finalmente raggiunto un accordo su una delicata questione risalente a oltre settant’anni fa e che aveva guastato i rapporti tra i due paesi, alleati fondamentali degli Stati Uniti in Asia orientale. Tokyo e Seoul hanno cioè formalmente messo fine alla disputa sulle cosiddette “donne di conforto”, chiudendo, almeno a livello ufficiale, una ferita che gravava pesantemente sui progetti asiatici di Washington in chiave anti-cinese.
Il termine inglese “comfort women”, con il quale si definisce generalmente la vicenda a livello internazionale, si riferisce a quelle che negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso erano vere e proprie schiave sessuali, rapite o reclutate con l’inganno in svariati paesi asiatici - principalmente Corea del Sud, Cina e Filippine - e costrette a lavorare come prostitute per i soldati dell’esercito imperiale giapponese.
Le stime sul numero di donne che subirono questo trattamento non sono unanimi, anche se gli studi più autorevoli sostengono che sarebbero state almeno qualche centinaia di migliaia nel periodo precedente e durante la Seconda Guerra Mondiale.
A inizio settimana a Seoul, in ogni caso, i ministri degli Esteri dei due paesi si sono incontrati per annunciare l’intesa sulla questione. Il giapponese Fumio Kishida ha presentato le scuse, sia pure limitate, del proprio governo e ha promesso il pagamento una tantum di una cifra pari a 8,3 milioni di dollari a un fondo creato dalla Corea del Sud a favore delle 46 vittime ancora in vita.
“La questione della ‘donne di conforto’, con il coinvolgimento delle autorità militari giapponesi dell’epoca - ha affermato il capo della diplomazia di Tokyo - fu un grave affronto all’onore e alla dignità di un gran numero di donne e il governo del Giappone è dolorosamente consapevole delle proprie responsabilità”.
Kishida ha poi riferito le “più sincere scuse e il rammarico” espressi dal primo ministro, Shinzo Abe, a “tutte le donne che sono passate attraverso esperienze incalcolabilmente dolorose e che sono state ferite fisicamente e psicologicamente” nel loro ruolo forzato di “donne di conforto”.
Da parte sua, il ministro degli Esteri sudcoreano, Yun Byeogn-se, ha assicurato che la diatriba sarà “finalmente e irreversibilmente risolta”, a condizione che il governo giapponese “implementi senza indugi le misure concordate”. Yun ha anche acconsentito a discutere la rimozione di una statua dedicata alle “comfort women” eretta nel 2011 di fronte all’ambasciata giapponese di Seoul.
Il ministro giapponese Kishida è stato ricevuto anche dalla presidente sudcoreana, Park Geun-hye, e, secondo i media, quest’ultima lunedì avrebbe parlato telefonicamente con Abe per suggellare l’accordo. I due leader si erano incontrati per la prima volta dall’inizio dei rispettivi mandati lo scorso novembre, quando avevano raggiunto un’intesa per risolvere la questione delle schiave sessuali coreane.
La stessa presidente Park aveva descritto quello delle “donne di conforto” come il “principale ostacolo agli sforzi per migliorare le relazioni bilaterali”. La questione aveva infatti avvelenato il clima tra i due più importanti alleati di Washington in Estremo Oriente. A ciò aveva contribuito in maniera decisiva l’arrivo al potere di due leader intenzionati a fare leva sui sentimenti nazionalisti nei rispettivi paesi. Un presidente sudcoreano e un primo ministro nipponico non si incontravano dal 2012.
Proprio il fatto di avere nutrito le frange nazionaliste interne, la presidente Park e il premier Abe potrebbero incontrare difficoltà a fare accettare l’accordo appena siglato nei rispettivi paesi. Inoltre, le “donne di conforto” sudcoreane sopravvissute hanno subito criticato l’intesa, sottolineando la modestia delle concessioni fatte dal Giappone.Particolarmente dura è stata la reazione di una delle principali organizzazioni a difesa dei diritti delle “comfort women”, il Korean Council for the Women Drafted for Military Sexual Slavery in Japan, che ha definito l’accordo “scioccante” e una “umiliazione” che ha “spazzato via 25 anni di progressi” diplomatici.
A Tokyo, invece, non sono mancate le voci che hanno espresso soddisfazione. Anche tra l’opposizione al governo sono state registrate parole di elogio per l’accordo con Seoul, a conferma dell’esiguità delle iniziative prese dalla parte giapponese per risolvere la contesa.
Anche se non riconosciuto dalle due parti, la risoluzione del conflitto sulle “comfort women” è stato in qualche modo favorito dagli Stati Uniti. Gli attriti tra Seoul e Tokyo sono da tempo motivo di preoccupazione per l’amministrazione Obama, impegnata nel tentativo di serrare i ranghi tra gli alleati americani nel quadro della cosiddetta “svolta asiatica”, ovvero l’insieme delle manovre diplomatico-economico-militari in atto per contrastare l’ascesa della Cina nel continente.
L’allineamento strategico tra Giappone e Corea del Sud è in questo scenario un requisito fondamentale per gli Stati Uniti, i quali hanno cercato di far riconciliare i due alleati fin dal 2012, quando Washington dovette incassare il mancato accordo di condivisione di informazioni di intelligence in ambito militare tra Tokyo e Seoul a un passo dalla firma.
Da allora si è assistito a numerose provocazioni da entrambe le parti, tra cui nell’agosto del 2012 il viaggio dell’ex presidente sudcoreano, Lee Myung-bak, alle isole contese con il Giappone Dokdo/Takeshima e quella del premier Abe nel dicembre dell’anno successivo al tempio Yasukuni, dedicato a svariati criminali di guerra giapponesi.
Le pressioni americane non sono comunque mai mancate, visto che l’escalation militare progettata da Washington in Asia è stata finora ostacolata almeno in parte dalle frizioni tra i due alleati. Obama stesso, ad esempio, nel corso di una visita a Seoul nel 2014 aveva definito la questione delle “donne di conforto” come una “grave violazione dei diritti umani”, insistendo poi con i leader dei due paesi per fissare un faccia a faccia al più presto.Nelle intenzioni statunitensi, l’intesa dei giorni scorsi dovrebbe spianare la strada a una maggiore integrazione non solo tra Giappone e Sud Corea ma anche tra questi e gli altri paesi allineati strategicamente a Washington in Asia orientale. Non a caso, il magazine on-line The Diplomat, dedicato alle questioni asiatiche e dell’area Pacifico, ha salutato l’accordo prospettando un possibile prossimo ingresso di Seoul nel trattato di libero scambio denominato Partnership Trans-Pacifica (TPP), promosso dagli USA.
Il TPP, di cui fa parte il Giappone, è d’altra parte il meccanismo con cui Washington intende cercare di limitare l’influenza cinese nell’area Asia-Pacifico sul fronte economico.
Nonostante gli sforzi americani, però, l’accordo sulle “comfort women” non esaurisce i motivi di scontro tra i due paesi, all’interno dei quali ha trovato inoltre sempre maggiore spazio in questi anni la destra nazionalista contraria a qualsiasi apertura o dialogo.
Le contese che possono continuare a guastare i rapporti bilaterali, a cominciare da quelle già ricordate attorno alle rivendicazioni territoriali nel Mare del Giappone, sono state e rimangono numerose tra Tokyo e Seoul e, in larga misura, discendono dall’eredità tossica dell’occupazione nipponica della penisola di Corea, terminata soltanto nel 1945.
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di Michele Paris
La giustizia americana ha per l’ennesima volta scagionato un agente di polizia responsabile dell’uccisione ingiustificata di un giovane di colore. L’episodio, interamente ripreso da telecamere, risale al novembre del 2014, quando il poliziotto Timothy Loehmann sparò al dodicenne Tamir Rice letteralmente pochi secondi dopo essere giunto assieme a un collega con la loro auto di pattuglia in un parco pubblico di Cleveland, nell’Ohio.
Il ragazzo ferito mortalmente impugnava una pistola giocattolo e poco prima aveva suscitato l’attenzione di un residente della zona che aveva avvertito la Polizia spiegando chiaramente che con ogni probabilità l’arma non era vera. Dalle immagini di una telecamera di sorveglianza disponibili su YouTube si vede come l’auto dei due agenti si fermi a pochi metri di distanza da Tamir Rice e Loehmann, subito dopo essere sceso, faccia più volte fuoco sul giovane.
Lo stesso filmato smentisce la versione fornita dall’agente dopo i fatti, cioè che a Rice sarebbe stato ordinato per ben tre volte di gettare l’arma e di alzare le mani. Loehmann e il suo collega, inoltre, sono rimasti per alcuni minuti a osservare il ragazzo ferito gravemente senza prestare soccorso, arrestando invece la sorella di quest’ultimo che cercava di raggiungerlo. Tamir Rice sarebbe deceduto in ospedale il giorno successivo.
La morte del giovane afro-americano aveva scatenato proteste a Cleveland, così come all’annuncio del proscioglimento di lunedì scorso. Anche grazie alle manifestazioni, il procuratore della contea di Cuyahoga, Timothy McGinty, aveva alla fine deciso di creare un Grand Jury per decidere l’eventuale incriminazione dell’agente responsabile. Quella della Procura era apparsa però da subito una mossa non per fare giustizia bensì per insabbiare il caso in attesa che svanisse la rabbia popolare e per consentire a Timothy Loehmann di uscire indenne dalla vicenda.
Come sostiene la maggior parte degli esperti legali americani, i Grand Jury seguono praticamente sempre le indicazioni dei procuratori che li hanno istituiti, così che questi ultimi possano manipolare il procedimento a loro piacimento, selezionando quali testimonianze o prove possono essere presentate e analizzate.
La gravità dell’esito del caso di Tamir Rice appare ancora maggiore se si considera che la decisione del Grand Jury non doveva stabilire la colpevolezza dell’agente, bensì soltanto se vi erano elementi sufficienti a garantire l’incriminazione e l’avvio di un processo in aula.Durante i mesi delle udienze, il procuratore McGinty ha fatto sfilare di fronte ai giurati una serie di esperti o presunti tali che hanno reso testimonianze a senso unico, assicurando cioè che le azioni di Loehmann erano da considerarsi giustificate o ragionevoli viste le circostanze. Alcuni di questi testimoni, tra cui ex agenti dell’FBI ed ex procuratori, erano ad esempio già noti per iniziative o dichiarazioni pubbliche a favore di poliziotti coinvolti in precedenti fatti di violenza ai danni di cittadini americani.
Al Grand Jury era stato inoltre permesso di tenere in considerazione le dichiarazioni non giurate dei due agenti della pattuglia che era intervenuta per gestire la “minaccia” di Tamir Rice e che erano in netta contraddizione con le immagini e con varie testimonianze di persone che erano presenti sul luogo dove sono avvenuti i fatti. Timothy Loehmann non solo aveva sostenuto di avere ingiunto tre volte a Tamir Rice di alzare le mani, una tesi impossibile vista la rapidità con cui aveva fatto fuoco, ma che il ragazzo sembrava un diciottenne che pesava oltre 80 kg.
Il procuratore McGinty ha parlato lunedì in una conferenza stampa per assicurare che la morte di Rice è stata una “tempesta perfetta di errori umani” e non il risultato di una condotta criminale da parte della Polizia. McGinty ha poi affermato che l’analisi di laboratorio di un filmato avrebbe mostrato come Rice stesse estraendo la pistola giocattolo dalla cintola per puntarla contro gli agenti. Poco più tardi il procuratore è sembrato però contraddirsi, quando ha ammesso che Rice aveva “probabilmente” intenzione di consegnare la finta arma o di mostrare ai poliziotti che non era una pistola vera.
Per McGinty, tuttavia, “non c’era modo che gli agenti lo potessero sapere perché gli eventi si stavano svolgendo rapidamente davanti ai loro occhi”. La legge, in questi casi, garantisce “il beneficio del dubbio ai poliziotti che devono prendere decisioni in una frazione di secondo” quando “ritengono ragionevolmente che le loro vite o quelle di passanti innocenti possano essere in pericolo”. La Polizia americana, in definitiva, ha facoltà di sparare e uccidere senza considerare troppo le circostanze, a condizione che gli agenti responsabili invochino una generica percezione di pericolo per la propria sicurezza.
Lo scagionamento dell’assassino di Tamir Rice si è inserito prevedibilmente in una nuova valanga di notizie sulla brutalità della Polizia d’oltreoceano e poco dopo la decisione di un altro Grand Jury di non procedere contro i presunti responsabili di un decesso sospetto.
Quest’ultimo caso riguarda la morte in carcere di Sandra Bland, 28enne di colore trovata impiccata in una cella in Texas nel luglio scorso dopo un arresto seguito a un fermo di Polizia nel quale un agente aveva insultato e usato violenza sulla donna. Il suicidio era stato giudicato altamente improbabile dalla famiglia della vittima e alcuni indizi seguiti alla sua morte avevano suggerito che la donna poteva essere stata presa di mira dagli agenti texani in maniera premeditata perché attiva nel movimento di protesta contro i metodi brutali della Polizia americana.Solo negli ultimi giorni, poi, svariate uccisioni sono state registrate negli Stati Uniti per mano della Polizia, tra cui a Chicago e a Biloxi, nel Mississippi, dove sono morte in totale tre persone non armate. Complessivamente, secondo il sito web killedbypolice.net, che raccoglie le statistiche sulle vittime della Polizia in base ai resoconti dei giornali, nel 2015 sono state finora uccise in questo modo ben 1.191 persone, contro le 1.108 durante l’intero 2014.
A questi dati sconvolgenti vanno aggiunti quelli altrettanto sconcertanti sulla ridicola percentuale di agenti di polizia incriminati o, ipotesi ancora più remota, condannati. Secondo un’indagine del Washington Post, solo otto agenti di Polizia sarebbero stati incriminati nel corso del 2015. Questi numeri risultano scandalosi alla luce del fatto che in moltissimi casi erano presenti prove evidenti della condotta criminale dei poliziotti, a cominciare da filmati registrati da telecamere di sicurezza o dai dispositivi montati sulle auto di pattuglia.
Da una simile realtà non si può che dedurre che i vertici di Polizia, il sistema giudiziario e quello politico americano si adoperano puntualmente per impedire che i killer in divisa siano chiamati a fare i conti con la giustizia. Ciò è d’altra parte la logica conseguenza del fatto che i poliziotti negli USA – spesso armati con equipaggiamenti militari pesanti forniti dal governo federale – agiscono sempre più come forza di repressione delle classi più disagiate, per difendere un sistema profondamente iniquo e attraversato da tensioni sociali esplosive.
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di Michele Paris
Come annunciato all’indomani degli attentati di Parigi del 13 novembre scorso, il presidente francese, François Hollande, e il primo ministro, Manuel Valls, hanno presentato questa settimana al Consiglio dei ministri una proposta di riforma della Costituzione per dare solide fondamenta legali a iniziative da stato di polizia. Il presidente potrebbe avere la facoltà di dichiarare arbitrariamente lo stato di emergenza nel paese per un periodo ancora da stabilire, durante il quale sarebbero sospese tutte le principali libertà democratiche.
La proposta era stata avanzata dopo la strage dallo stesso Hollande nel corso di un intervento straordinario di fronte a una sessione congiunta del Parlamento a Versailles. In quell’occasione, Hollande aveva anche chiesto il prolungamento di tre mesi dello stato di emergenza da poco dichiarato.
Tra i poteri che verrebbero assegnati alle forze di sicurezza grazie all’emendamento in discussione figurano quelli di sorveglianza e di arresto sulla semplice base di comportamenti sospetti o minacciosi dell’ordine pubblico. Perquisizioni e detenzioni potranno essere effettuate con questi semplici pretesti e non ci sarà possibilità di contestare le misure davanti a un giudice.
Non solo, nella proposta del presidente e del capo del governo vi è anche la possibilità di togliere la cittadinanza francese ai condannati per atti di “terrorismo”. Il provvedimento sembra essere stato modificato rispetto alle intenzioni iniziali e sarà previsto solo per coloro che hanno doppia nazionalità.
Il fatto che molti francesi di origine nordafricana mantengano la cittadinanza del loro paese di origine rende potenzialmente molto vasta la portata della misura. In ogni caso, la privazione della cittadinanza è una soluzione profondamente anti-democratica, visti anche i precedenti storici relativi proprio alla Francia.
Oltre a essere una proposta tradizionalmente sostenuta dal Fronte Nazionale (FN), la revoca della cittadinanza fu usata nei confronti di decine di migliaia di ebrei e oppositori dell’occupazione nazista e del regime di Vichy durante la seconda guerra mondiale.Come ha spiegato lo storico francese Patrick Weil nei giorni scorsi, se la proposta del governo dovesse essere adottata, si creeranno “due categorie di cittadini” di fronte alla Costituzione francese. La stessa ministra della Giustizia, Christiane Taubira, solo lunedì aveva affermato in un’intervista a una radio algerina che “la privazione della cittadinanza ai nati in Francia - i quali appartengono alla comunità nazionale fin dalla nascita - solleva problematiche sostanziali su un principio fondamentale, quello dello jus soli”, previsto appunto dalla legge transalpina.
La presa di posizione della ministra è sintomatica delle divisioni che devono essere emerse all’interno del governo e dell’establishment Socialista, vista la delicatezza della questione. Secondo il Nouvel Observateur, infatti, la proposta di emendare la Costituzione voluta da Hollande sarebbe stata modificata “dopo numerosi dibattiti” interni, mentre molti giuristi e parlamentari avrebbero criticato l’iniziativa.
Il quotidiano Le Monde, ad esempio, ha citato deputati e veterani Socialisti che hanno bocciato l’emendamento, facendo riferimento sia alle implicazioni legali sia, più frequentemente, alla sua inefficacia nella lotta al terrorismo. Mercoledì anche il sindaco di Parigi, la socialista Anne Hidalgo, si è detta “fermamente contraria” all’ipotesi avanzata dal governo sul ritiro della nazionalità francese.
Il cambio della Costituzione per codificare l’assegnazione di poteri virtualmente assoluti al presidente è solo lo sviluppo più recente del processo di spostamento verso destra del Partito Socialista francese. La rapidità di questa evoluzione, sotto la spinta non tanto della minaccia del terrorismo quanto della crisi economica e della risposta ad essa data della classe dirigente transalpina, è testimoniata dal fatto che solo alcuni anni fa i leader Socialisti, tra cui lo stesso Valls, avevano aspramente criticato l’allora presidente Sarkozy per avere ipotizzato la privazione della nazionalità per quanti minacciavano la vita di membri delle forze di sicurezza.Oltre a un certo numero di politici, anche svariati giornali francesi hanno più o meno apertamente denunciato le riforme costituzionali proposte da Hollande, principalmente per il timore che una troppo evidente deriva autoritaria e la rottura con i principi repubblicani possa provocare una crisi di legittimità per un governo e un presidente già tra i più impopolari della recente storia della Francia.
Il numero uno dell’Eliseo e il primo ministro Valls sembrano intenzionati invece a fare appello al nazionalismo e ai sentimenti xenofobi di una parte della popolazione, alimentandoli con lo spettro del terrorismo, per ritagliarsi una qualche base di consenso che legittimi la prosecuzione di politiche impopolari sia sul fronte economico sia su quello della sicurezza nazionale.
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di Mario Lombardo
A ormai quasi un anno dalla fine ufficiale delle operazioni di combattimento NATO in Afghanistan, le condizioni del paese centro-asiatico continuano a rimanere estremamente precarie, con gli “insorti” Talebani che sembrano rappresentare sempre più una seria minaccia per il governo-fantoccio di Kabul. Le forze che si battono contro l’occupazione americana hanno suggellato un 2015 caratterizzato da considerevoli progressi sul fronte militare con un attentato suicida nella giornata di lunedì che è stato il singolo episodio più grave per le truppe USA da quasi tre anni e mezzo.
L’attacco ha preso di mira un convoglio, composto da soldati americani e dell’esercito afghano, che stava attraversando un villaggio nei pressi dell’aeroporto di Bagram, a una cinquantina di chilometri dalla capitale, dove sorge la più grande base USA del paese. Le vittime sono state alla fine sei - tutte americane - e tre i feriti.
Poche ore più tardi, i Talebani hanno lanciato almeno tre razzi su Kabul, due dei quali sono esplosi rispettivamente in un quartiere che ospita ministeri e rappresentanze diplomatiche straniere e non lontanto dalla super-fortificata ambasciata americana.
Queste e altre iniziative dei Talebani hanno significativamente seguito di alcuni giorni una visita a sopresa in Afghanistan del segretario alla Difesa USA, Ashton Carter, proprio per discutere con gli alti ufficiali americani il deteriorarsi della situazione nel paese occupato dal 2001. Un paio di mesi fa, d’altra parte, il presidente Obama aveva annunciato il rinvio del ritiro delle forze armate dall’Afghanistan per lasciare quasi 10 mila uomini almeno fino alla fine del prossimo anno.
L’attentato di Bagram è avvenuto nel pieno di un’altra offensiva Talebana nella provincia meridionale di Helmand, tradizionalmente considerata una roccaforte degli “insorti”. Già da domenica scorsa i Talebani controllerebbero la città di Sangin, assieme al 65% del territorio dell’intera provincia, almeno secondo quanto affermato nei giorni scorsi dal numero uno del consiglio provinciale di Helmand, Muhammad Kareem Atal.
Il senso di panico diffuso tra le autorità locali, assieme allo stato confusionario in cui versano le debolissime istituzioni afghane, è apparso evidente da un disperato appello lanciato domenica dal vice-governatore della provincia di Helmand, Mohammad Jan Rasulyar. Quest’ultimo, sostenendo di non avere a disposizione altri mezzi di comunicazione con Kabul, ha pubblicato un messaggio su Facebook per chiedere al presidente afgano, Ashraf Ghani, di inviare rinforzi ed evitare che la provincia cada interamente nelle mani dei Talebani.
Il giorno successivo, un portavoce del ministero della Difesa di Kabul ha poi assicurato che a Helmand era arrivato un contingente delle forze speciali afgane per condurre una controffensiva contro i Talebani. Martedì, nella base di Camp Shorabak sono giunti anche alcuni soldati britannici, in aggiunta a quelli americani già presenti a Helmand da qualche settimana.
La costante presenza di forze NATO a sostegno dell’esercito afgano, com’è evidente, smentisce la versione di Washington, secondo la quale i militari stranieri rimasti nel paese svolgerebbero soltanto il ruolo di consiglieri o addestratori. In 14 anni di guerra, comunque, molti distretti della provincia di Helmand sono stati segnati da violente battaglie e le località che sfuggono per il momento al controllo Talebano sono state più volte minacciate, specialmente negli ultimi mesi. Secondo i media americani, la stessa capitale provinciale, Lashkar Gah, sarebbe ora nel mirino dei Talebani, assestati ai confini della città in previsione di un possibile assalto.
Le vicende di Helmand ricordano quelle recenti nella provincia settentrionale di Kunduz, dove i Talebani avevano per alcuni giorni occupato l’omonima capitale prima di operare una ritirata strategica di fronte al contrattacco dell’esercito di Kabul e delle forze speciali statunitensi.
Durante l’intervento, un aereo AC-130 americano aveva bombardato a lungo un ospedale di Medici Senza Frontiere a Kunduz, uccidendo 42 persone tra pazienti e staff medico, in quello che è apparso a tutti gli effetti come un crimine di guerra.
L’aggravarsi della situazione in Afghanistan è stato confermato pochi giorni fa anche dal Pentagono. Un rapporto del dipartimento della Difesa USA ha descritto come le perdite subite dalle forze di sicurezza afgane siano aumentate di quasi il 30% rispetto all’anno precedente, già considerato tra i più sanguinosi dal 2001.
Inoltre, il punto critico rimane sempre lo stato dell’esercito e della polizia indigeni, secondo il Pentagono bisognosi di “maggiore assistenza per diventare una forza capace, credibile e indipendente”. Gli “insorti”, infatti, “stanno perfezionando le loro capacità nell’individuare e sfruttare i punti deboli delle forze afgane, rendendo la situazione ancora precaria in alcune aree chiave e a rischio di deterioramento in altre”.
Nella già ricordata provincia di Helmand, ad esempio, secondo alcune stime nel corso del 2015 sarebbero morti circa duemila soldati afgani. Per le autorità locali, inoltre, l’avanzata dei Talebani sarebbe facilitata dall’elevato numero di militari che decidono di disertare e, spesso, di unirsi agli stessi “insorti”.Tutto questo accade nonostante gli Stati Uniti continuino a spendere ogni anno più di 4 miliardi di dollari per addestrare ed equipaggiare le forze di sicurezza afgane. La loro sostanziale inefficacia, causata principalmente dall’estraneità se non dall’aperta ostilità all’occupazione americana e della NATO, fornisce d’altronde la giustificazione per continuare a mantenere decine di migliaia di soldati stranieri nel paese a oltre 14 anni dall’inizio della guerra.
La situazione militare al limite del disastro, infine, non è diversa da quella economica e sociale. Come ha spiegato il rapporto di fine anno dell’ONU sull’Afghanistan diffuso questa settimana, sono i civili a pagare le conseguenze più pesanti dell’interminabile conflitto, visto che il numero di vittime continua a salire, così come quello di coloro che sono costretti ad abbandonare le proprie abitazioni.
Inevitabilmente, un simile panorama si traduce in indicatori economici sempre più allarmanti, con povertà e disoccupazione in aumento anche a causa della progressiva riduzione del flusso di aiuti internazionali dai quali l’economia dell’Afghanistan è da tempo in larga misura dipendente.
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di Michele Paris
Le elezioni di domenica scorsa per il rinnovo dei due rami del Parlamento spagnolo (Corti Generali) hanno stravolto completamente il sistema bipartitico che ha dominato il paese iberico fin dal ritorno alla democrazia nel 1977. I due principali partiti che si erano fino a oggi spartiti alternativamente il potere - Partito Popolare (PP) e Partito Socialista (PSOE) - saranno così costretti a cercare più di un partner se vorranno provare a governare per i prossimi quattro anni. Qualsiasi esecutivo dovesse nascere, scongiurando l’ipotesi di nuove elezioni, sarà tuttavia quasi certamente caratterizzato da una profonda instabilità.
La scelta degli elettori spagnoli di punire i due partiti alla guida di governi che negli ultimi otto anni hanno adottato durissime misure di rigore è tutt’altro che sorprendente ed è anzi un dato comune a molti altri paesi europei. L’esempio più simile e recente è quello del vicino Portogallo, dove qualche settimana fa è nato un governo di centro-sinistra nonostante il partito di centro-destra al governo avesse ottenuto la maggioranza relativa dei seggi in Parlamento, come ha fatto appunto il PP spagnolo.
L’altro aspetto simile tra i due scenari iberici è l’incapacità dei Partiti Socialisti all’opposizione - il PSOE spagnolo e il PS portoghese - di capitalizzare l’ostilità popolare verso i rispettivi governi e l’austerity imperante. Incapacità, appunto, legata al fatto che entrambi i partiti avevano avviato queste stesse politiche anti-sociali sotto la supervisione europea, successivamente proseguite e intensificate da governi di centro-destra.
Complessivamente, il PP e il PSOE erano soliti raccogliere circa l’80% dei consensi nelle precedenti elezioni spagnole, mentre in questa tornata hanno a malapena superato il 50%. Il PP del primo ministro, Mariano Rajoy, si è fermato al 28,7%, che si traduce in 123 seggi sui 350 totali della Camera bassa (Congresso dei Deputati), vale a dire un terzo in meno di quelli conquistati nel 2011.
Se possibile, ancora più pesante è stata la batosta patita dai socialisti, i quali sono riusciti a peggiorare la già disastrosa prestazione di quattro anni fa al termine dei due mandati di governo di José Luis Zapatero. Il moderato entusiasmo mostrato nei commenti dopo la chiusura delle urne dal leader del PS, Pedro Sánchez, non si giustifica con gli appena 90 seggi ottenuti (22%), ovvero il peggior risultato della storia elettorale socialista, ma piuttosto con la vaga possibilità di poter guidare un esecutivo di coalizione di centro-sinistra.
Come ampiamente previsto, l’emorragia di voti dal PP e dal PSOE è finita per favorire due partiti/movimenti più o meno nuovi sulla scena nazionale: Podemos (Possiamo) e Ciudadanos (Cittadini). Il primo, nato pochi anni fa dal movimento degli “Indignados” e con un orientamento anti-austerity e di sinistra - peraltro attenuato considerevolmente negli ultimi mesi - assieme ad alcuni alleati a livello regionale ha ottenuto 69 seggi (20,7%).
Ciudadanos era sorto invece con un’agenda pro-business negli ambienti anti-separatisti catalani ed è diventato oggi il quarto partito spagnolo con 40 seggi e il 13,9% dei consensi. Questo risultato è decisamente al di sotto di quello che veniva attribuito al partito dai sondaggi prima del voto e l’incapacità di ottenere il successo previsto è dovuta probabilmente allo scarso appeal di un programma economicamente di destra in un paese profondamente segnato da anni di austerity.
Il risultato inferiore alle aspettative di Ciudadanos ha fatto in ogni caso svanire la possibilità di un governo di centro-destra formato da questo partito e dal PP. Il leader di Ciudadanos, Albert Rivera, aveva mostrato di essere disponibile a valutare una simile eventualità, sempre che il premier Rajoy venisse rimosso dal suo incarico visti gli scandali in cui è stata coinvolta la sua leadership.
Salvo complicate intese o alleanze, l’unica possibilità per Rajoy e il PP di rimanere al potere sembra essere un governo di minoranza con il consenso almeno del PS. Questa ipotesi sarebbe però difficilmente digeribili per i residui elettori socialisti, così che i vertici del partito lunedì hanno garantito che il partito voterà contro un eventuale governo guidato dal PP.
A sua volta, il numero uno di Podemos, Pablo Iglesias, sempre lunedì ha lasciato intendere di poter valutare una qualche collaborazione con il PSOE, essendo il primo obiettivo del partito/movimento quello di impedire al PP di rimanere alla guida del paese e di intraprendere un percorso di “transizione” per cambiare la Spagna. Teoricamente, il PSOE e Podemos potrebbero dar vita a una coalizione di governo con una maggioranza in Parlamento se ai loro seggi dovessero aggiungersi i 2 di Unità Popolare (UP) - l’alleanza in cui è confluita Sinistra Unita (IU) - e almeno una parte dei 26 andati a vari partiti su base regionale.
Albert Rivera di Ciudadanos, invece, ha invitato il PSOE all’astensione in un prossimo voto di fiducia al nuovo governo di minoranza PP. Secondo la Costituzione spagnola, se un esecutivo non ottiene al primo voto la maggioranza assoluta del Parlamento, 48 ore più tardi è prevista una nuova votazione nella quale è sufficiente conquistare la maggioranza dei deputati presenti.A complicare ulteriormente la situazione c’è stata infine la conquista da parte del PP della maggioranza assoluta dei seggi al Senato. Alla Camera alta del Parlamento spagnolo non viene richiesto il voto di fiducia ai governi ma, in caso di nascita di un gabinetto di centro-sinistra, potrebbe rappresentare un ostacolo all’approvazione delle leggi avanzate da quest’ultimo.
Le trattative per arrivare a un accordo di governo dureranno comunque alcune settimane ma il dato più importante emerso dalla consultazione elettorale appena terminata è senza dubbio la crisi del sistema di governo bipartitico post-franchista.
I nuovi scenari spagnoli sono emersi come altrove in Europa in seguito al tracollo economico iniziato nel 2008. Soprattutto, le politiche implementate indistintamente dai governi di destra e di “sinistra” per salvare i sistemi capitalistici nazionali hanno prodotto una crisi di legittimità delle classi dirigenti tradizionali, chiamate dai centri del potere economico-finanziario ad adottate politiche di impoverimento di massa.
In un paese relativamente stabile dal punto di vista politico negli ultimi quattro decenni come la Spagna, questa situazione ha portato a un’insolita frammentazione che un movimento come Podemos, nonostante si fosse proposto come alternativa all’austerity, agli scandali di corruzione, allo strapotere delle banche, è riuscito a capitalizzare solo in parte.
Anzi, poco prima del voto, il partito di Iglesias era precipitato nel gradimento dei potenziali elettori, in conseguenza forse del brusco risveglio seguito alla sostanziale accettazione dei diktat di Bruxelles da parte del governo di Syriza in Grecia, che Podemos ha sempre sostenuto in maniera decisa. Podemos, inoltre, nell’ultimo anno aveva fatto una parziale marcia indietro rispetto a molte proposte con un’impronta di sinistra, anche se non propriamente rivoluzionarie, presentate nel manifesto del gennaio 2014.Per darsi probabilmente un’immagine più accettabile agli occhi dei centri di potere in Spagna e in Europa, nell’ultimo periodo Podemos aveva sostanzialmente abbandonato alcune proposte “radicali”, come ad esempio la nazionalizzazione delle banche e delle principali aziende spagnole, la revisione del debito pubblico, l’uscita dalla NATO, l’abbassamento dell’età pensionabile e l’aumento degli assegni erogati ai pensionati.
Allo stesso modo, erano apparsi appelli al patriottismo, all’unità della Spagna e ai valori cattolici che hanno permesso a Podemos di ricevere una qualche copertura positiva sui principali media.
La natura e la residua attitudine al cambiamento di Podemos sarà testata in ogni caso nelle prossime settimane, visto l’innegabile peso della rappresentanza parlamentare conquistata. Nel frattempo, le procedure del dopo voto prevedono l’insediamento del nuovo Parlamento il prossimo 13 gennaio, in seguito al quale il sovrano, Felipe VI, chiederà al leader del partito con il maggior numero di seggi - Rajoy del PP - di provare a formare il nuovo governo.
In caso di fallimento, ogni scenario appare ad oggi percorribile, inclusa la possibilità di nuove elezioni già nei primi mesi del nuovo anno.