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di Michele Paris
Tra le cause delle tensioni latenti all’interno dell’Unione Europea e tra la prima economia del continente la Germania - e gli Stati Uniti, figura il progetto di costruzione di un’aggiunta al gasdotto Nord Stream che da qualche anno collega già in maniera diretta la Russia con il territorio tedesco attraverso il Mar Baltico. Quello che è stato battezzato come Nord Stream 2 consiste in un raddoppio dell’infrastruttura esistente e della quantità di gas naturale russo trasportato verso il mercato europeo, con conseguenze economiche e strategiche facilmente immaginabili.
Il piano sta provocando un’accesa disputa nell’UE, soprattutto in seguito a una recente visita a Mosca del vice-cancelliere e ministro dell’Economia tedesco, il Socialdemocratico Sigmar Gabriel, durante la quale ha sostenuto che la nascita del Nord Stream 2 è “nell’interesse” del suo paese e che sulle procedure per la realizzazione non dovranno esserci “interferenze politiche”.
Il Nord Stream 2 dovrebbe aggiungere 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno agli altrettanti già forniti dalla Russia alla Germania attraverso l’impianto esistente. Il colosso pubblico russo dell’energia Gazprom detiene il 50% del nuovo progetto, mentre una fetta del 10% è attribuita a ognuna di queste cinque compagnie europee: l’anglo-olandese Royal Dutch Shell, le tedesche E.ON e BASF/Wintershall, l’austriaca OMV e la francese Engie (ex GDF Suez).
A partire dall’annuncio fatto qualche mese fa da Gazprom circa il lancio della joint venture, sono emerse subito posizioni contrastanti in Europa e oltreoceano. Il progetto è caldamente sostenuto da Mosca, da dove si scorgono vantaggi politici, strategici ed economici nella sua realizzazione. La Russia, innanzitutto, nonostante i proclami, gli sforzi e i progressi effettivi per espandere i legami energetici con l’Asia, resta tuttora vincolata all’Europa per le proprie esportazioni di gas e petrolio.
Il Nord Stream 2 garantirebbe così uno sbocco importante ed entrate sicure nei prossimi anni, annullando virtualmente le varie criticità venutesi a creare con l’esplosione della crisi in Ucraina e il raffreddamento dei rapporti con l’Occidente.
In particolare, sul finire del 2014 Bruxelles aveva bocciato il progetto South Stream, cioè il gasdotto che doveva collegare la Russia all’Italia attraverso i Balcani, ufficialmente perché contrario alla normativa energetica europea che prevede il divieto fatto a un unico operatore di possedere sia il gas sia gli impianti con cui viene trasportato. In questo caso, l’operatore in questione era sempre la russa Gazprom.
Il presidente Putin aveva poi deciso di sostituire il South Stream con un altro progetto di gasdotto per raggiungere l’Europa meridionale, questa volta attraverso la Turchia. Il recente scontro tra Mosca e Ankara sulla Siria dopo l’abbattimento di un jet russo da parte turca ha però sospeso anche questa iniziativa.Il governo tedesco, da parte sua, non ha ancora annunciato la propria posizione ufficiale in merito al Nord Stream 2, anche se il già ricordato Gabriel e il ministro degli Esteri, Frank-Walter Steinmeier, si sono detti favorevoli o, più in generale, hanno parlato pubblicamente della necessità di collaborare con la Russia in ambito energetico.
La classe dirigente tedesca è comunque divisa sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Mosca, con ad esempio gran parte dei media che sostengono da tempo la necessità della linea dura, mentre il mondo degli affari auspica al contrario la fine delle sanzioni.
In molti chiedono ora alla cancelliera Merkel di far conoscere gli orientamenti della Germania in questo senso e la questione dell’allargamento del gasdotto è con ogni probabilità all’ordine del giorno del vertice UE in programma tra giovedì e venerdì a Bruxelles.
Quella del Nord Stream 2 è una vera e propria patata bollente in mano a Berlino, dove il governo si ritrova a doversi districare tra una selva di interessi contrastanti e scelte strategiche estremamente delicate. Le tensioni maggiori sono legate appunto al fatto che alcune delle più influenti multinazionali europee spingono per la realizzazione del nuovo gasdotto malgrado i loro governi appoggino ufficialmente le sanzioni economiche applicate contro la Russia.
La questione s’intreccia ovviamente anche con la crisi ucraina. La quantità di gas trasportato annualmente dal Nord Stream 2 sarebbe simile a quella che dalla Russia transita attraverso l’Ucraina per giungere in Europa. Kiev verrebbe così tagliata fuori da un traffico redditizio che, per un’economia già in stato comatoso, frutta circa due miliardi di dollari l’anno in diritti di transito.
Inoltre, se la Germania e l’Unione Europea dovessero avallare il nuovo progetto, si rischierebbe di mettere la parola fine sulla politica unitaria nei confronti del regime ucraino, ufficialmente sostenuto contro la presunta “aggressione” russa e allo stesso tempo colpito duramente nei suoi interessi economico-strategici con il via libera a un progetto favorevole a Mosca. Il presidente ucraino, Petro Poroshenko, e il primo ministro, Arsenyi Yatseniuk, hanno infatti inviato messaggi molto chiari a Bruxelles per invitare l’Unione a boicottare il progetto Nord Stream 2.
Le contraddizioni relative all’Ucraina sono state citate anche in una recente lettera inviata da alcuni paesi UE alla Commissione Europa per sollecitare la bocciatura del nuovo gasdotto nel Mar Baltico. Paesi come Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Slovacchia si sono detti preoccupati per la minaccia alla “realizzazione di una politica europea unitaria con alleati e partner tradizionali”. Inoltre, prosegue la lettera, “è nell’interesse strategico dell’UE conservare il transito [di gas russo] dall’Ucraina, non solo dal punto di vista della sicurezza energetica, ma anche per il mantenimento della stabilità in Europa orientale”.
Secondo quanto riportato martedì dal Financial Times, anche il premier italiano Renzi si sarebbe aggiunto al coro dei contrari al Nord Stream 2 nell’UE durante un vertice della settimana scorsa, evidenziando il doppiogiochismo di Berlino in relazione alla Russia e, soprattutto, la disparità di trattamento tra questo progetto e l’ormai naufragato South Stream.
Secondo alcuni commentatori, l’iniziativa di questi governi sarebbe stata quanto meno coordinata con Washington. Gli Stati Uniti hanno espresso finora riserve nei confronti del Nord Stream 2 solo attraverso dichiarazioni di diplomatici che occupano posizioni relativamente minori.
L’ostilità dell’amministrazione Obama a questo progetto, tuttavia, si può agevolmente dedurre, poiché la sua realizzazione rinsalderebbe ancor più i legami energetici tra l’Europa - in particolare la Germania - e la Russia nel quadro di un’integrazione economico-strategica che gli USA vedono come una delle minacce in assoluto più gravi ai propri interessi.
L’ambiguità mostrata fin qui da Bruxelles sul Nord Stream 2 è ad ogni modo rivelatrice delle tensioni e delle incertezze che attraversano la classe dirigente europea, divisa tra l’abbraccio a un progetto economicamente e strategicamente sensato e la necessità di salvare un’apparenza di armonia all’interno dell’Unione e di non danneggiare i rapporti con gli Stati Uniti.Il commissario UE per il clima e l’energia, Miguel Arias Cañete, ha da parte sua assicurato che il Nord Stream 2 verrà approvato solo se sarà in linea con la legislazione europea. Un’eventuale decisione finale da parte di Bruxelles sarà però prettamente politica, tenendo anche in considerazione che la già citata norma che impedisce il possesso da parte di un unico soggetto del gas e dei gasdotti è in questo caso non facilmente applicabile a Gazprom vista la joint venture che dovrebbe lavorare al progetto.
A complicare la decisione dell’UE vi è poi la perentoria presa di posizione di Berlino per voce del ministro Gabriel, il quale ha garantito a Putin che, “in merito alle questioni legali”, la Germania si adopererà affinché “il tutto rimanga di competenza delle autorità tedesche”.
L’apparente unità dell’Unione Europea e di questa con l’alleato americano, insomma, rischia di andare clamorosamente in frantumi sulla spinta di forze centrifughe prodotte da interessi divergenti e da scelte di politica estera irrazionali sempre meno sostenibili.
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di Michele Paris
Le prime settimane del nuovo governo conservatore in carica in Polonia stanno creando accesissime polemiche sulle tendenze autoritarie già mostrate dal partito al potere, protagonista in questi giorni anche di una crisi costituzionale che nello scorso fine settimana ha portato nelle piazze delle principali città del paese decine di migliaia di manifestanti.
Le proteste sono state organizzate da un’organizzazione indipendente e dai due principali partiti di opposizione. L’obiettivo delle manifestazioni è stato appunto il governo del Partito Diritto e Giustizia (PiS) della premier, Beata Szydlo, e il presidente e compagno di partito di quest’ultima, Andrzej Duda, al centro di uno scontro frontale con il Tribunale Costituzionale polacco.
Subito dopo essersi insediato lo scorso mese di novembre, il nuovo governo di destra si era mosso per annullare le precedenti nomine di tre giudici del Tribunale Costituzionale, procedendo invece con la scelta di candidati più graditi alla nuova maggioranza. La decisione aveva subito provocato uno scontro istituzionale, aggravatosi dopo che l’esecutivo venerdì scorso aveva bloccato la pubblicazione sulla versione polacca della Gazzetta Ufficiale di due sentenze dello stesso Tribunale, che dichiaravano legali le nomine del precedente governo e incostituzionali quelle più recenti favorevoli al PiS. La mancata pubblicazione ha reso le sentenze di fatto inapplicabili.
In seguito, un esponente del nuovo governo aveva assicurato che esse sarebbero state pubblicate ma, nella serata di venerdì, il leader del PiS, l’ex primo ministro Jaroslaw Kaczynski, ha escluso del tutto questa possibilità, dal momento che le sentenze non sarebbero valide perché emesse senza il quorum necessario di giudici votanti previsto dalla legge. Kaczynski ha poi aggiunto che il suo partito sta preparando una riforma complessiva del Tribunale Costituzionale, senza fornire ulteriori dettagli.
Martedì sera, il primo ministro è a sua volta apparsa in diretta televisiva per difendere la posizione del governo. La Szydlo ha fatto appello all’unità del paese e ha attribuito la responsabilità della disputa in atto allo stesso Tribunale Costituzionale e al partito europeista di centro-destra Piattaforma Civica (PO), al potere fino alla vigilia delle elezioni di ottobre, colpevoli entrambi di volere bloccare una “buona riforma” della giustizia polacca.
La determinatezza con cui il governo di Varsavia sta affrontando la questione dei giudici costituzionali è dovuta all’importanza della posta in gioco. Infatti, la scelta di giudici compiacenti risulta fondamentale per evitare che il più alto tribunale polacco possa bloccare la riorganizzazione dello Stato in senso autoritario nei piani del PiS, tramite, tra l’altro, modifiche alla Costituzione.
I leader dei partiti di centro-destra all’opposizione - Piattaforma Civica (PO) e Polonia Moderna – hanno fatto riferimento a questa evoluzione nel corso della manifestazione tenuta a Varsavia sabato scorso. Tomasz Siemoniak di PO ha parlato di “guerra allo stato di diritto”, mentre il numero uno di Polonia Moderna, Ryszard Petru, ha puntato il dito contro il leader incontrastato del PiS, Jaroslaw Kaczynski, accusandolo di aspirare a “imporre la propria volontà sulla Polonia”.
Quest’ultimo, fratello del defunto presidente polacco Lech Kaczynski, vittima di un incidente aereo in Russia nel 2010, è considerato la massima autorità nel suo partito, pur non ricoprendo alcun incarico di governo a causa di un’immagine pubblica non esattamente immacolata visti gli scandali e la deriva autoritaria che avevano segnato l’esecutivo da lui stesso guidato tra il 2006 e il 2007.La stessa tendenza all’erosione dei principi democratici è apparsa evidente fin dall’inizio del nuovo mandato di governo del PiS. Sul modello del governo del premier Viktor Orbán in Ungheria, Kaczynski e il suo partito intendono sostanzialmente adottare una serie di misure per ridurre lo spazio del dissenso interno e accentrare nelle mani dell’esecutivo tutti i poteri dello Stato, indebolendo il principio di separazione fissato dalla Costituzione.
Solo un paio di giorno dopo l’insediamento del nuovo governo, ad esempio, era stato convocato un vertice tra la premier Szydlo, Kaczynski e i direttori delle quattro agenzie di intelligence del paese. Poco dopo la riunione, questi ultimi hanno rassegnato le proprie dimissioni, ufficialmente in maniera “volontaria”.
Le nomine dei sostituti hanno beneficiato personalità vicine al PiS, mentre come capo dei servizi segreti polacchi è stato scelto Mariusz Kaminski, ex numero uno dell’agenzia anti-corruzione. Kaminski era stato condannato a tre anni di carcere e all’interdizione dagli incarichi pubblici per dieci anni per abuso di potere lo scorso mese di marzo, ma il presidente Duda, secondo molti andando al di là dei suoi poteri, gli ha concesso la grazia subito dopo essere stato eletto, spianando la strada per la sua successiva nomina.
Il Pis ha poi limitato le facoltà di controllo sui servizi segreti assegnate ai partiti di opposizione, riducendo il numero dei membri dell’apposita commissione parlamentare e abolendo la regola che prevede la rotazione della presidenza tra esponenti della maggioranza e della minoranza.
La sovrapposizione tra Stato e Chiesa è un altro dei tradizionali obiettivi del PiS, assieme alla censura dei media e della cultura polacca. Una recente iniziativa del ministro della Cultura, Piotr Glinski, aveva avuto qualche eco anche al di fuori dei confini del paese dell’Europa orientale. L’esponente del governo aveva cercato cioè di impedire la rappresentazione di una commedia della drammaturga premio Nobel austriaca, Elfriede Jelinek, presso il teatro di Breslavia a causa della natura considerata “pornografica” di alcune scene.
Quando, in un’intervista televisiva, una giornalista della rete pubblica TVP aveva poi chiesto al ministro se la sua decisione fosse contraria alla libertà di espressione, quest’ultima era stata sospesa dalla conduzione, verosimilmente dietro pressioni del governo. Lo stesso ministro Glinski avrebbe poi dichiarato che la libertà di espressione artistica non va applicata alle pubblicazioni e alle istituzioni culturali finanziate dallo stato.
Preoccupazioni per i tentativi del governo di Varsavia di restringere la libertà di stampa sono state manifestate in questi giorni anche dalla Federazione Europea dei Giornalisti. Per questa organizzazione, il PiS sarebbe intenzionato a propagandare i valori tradizionali cattolici in Polonia, nonché a esercitare maggiore controllo sui servizi pubblici di informazione.
Per l’Associazione dei Giornalisti Polacchi sarebbe già iniziata una sorta di “caccia alle streghe” nella televisione pubblica. Citando l’esempio della reporter televisiva protagonista dello scontro verbale con il ministro della Cultura, l’associazione ha denunciato il governo per avere già deciso i nomi dei giornalisti che “dovrebbero sparire dallo schermo”.
Il nuovo governo intende anche modificare le modalità di stanziamento dei fondi per la cultura. Ciò che si prospetta è una serie di iniziative all’insegna della promozione del nazionalismo più spinto e dei valori tradizionali basati sulla storia e l’identità polacche.
Il ritorno al potere del PiS a Varsavia ha segnato infine anche una svolta in politica estera. Il nuovo governo e la nuova maggioranza parlamentare hanno fatto subito registrare toni ancora più aggressivi nei confronti di Mosca rispetto alle posizioni già sufficientemente estreme in questo senso del precedente gabinetto di centro-destra.
Questo partito, al contrario di PO, è attestato su posizioni critiche verso l’Unione Europea, come ha chiarito il recente tentativo di respingere il programma di accoglienza di profughi e immigrati stabilito da Bruxelles. Il PiS auspica invece una maggiore integrazione della Polonia nella NATO e una partnership più solida con gli Stati Uniti.
Questo orientamento è apparso chiaro un paio di settimane fa quando il vice-ministro della Difesa, Tomasz Szatkowski, aveva lasciato intendere che il suo governo potrebbe essere interessato a ospitare ordigni nucleari NATO in territorio polacco. L’auspicio di Varsavia sarebbe dettato dai timori per la presunta crescente aggressività russa, anche se il giorno successivo una nota ufficiale del ministero ha negato che il governo intenda muoversi in questo senso.Al di là delle smentite, però, è innegabile che la classe dirigente polacca stia manovrando per ottenere il dispiegamento di un numero maggiore di armi e di uomini dell’Alleanza entro i propri confini. Questa tendenza era emersa già durante il precedente governo e, prevedibilmente, sarà ancora più evidente con il nuovo esecutivo guidato dal PiS. Allo stesso tempo, il carattere anti-europeista del partito lascia intravedere crescenti frizioni con l’Unione.
Nonostante la larga maggioranza con cui il PiS ha vinto le elezioni di ottobre, i suoi vertici sono consapevoli di come in Polonia esista ben poco sostegno per le politiche autoritarie che stanno perseguendo. Il successo alle urne dopo la disastrosa esperienza di governo del 2006/2007 è dovuto in gran parte all’insofferenza per le politiche di austerity dei governi di Piattforma Civica che Kaczynski e i suoi fedelissimi hanno promesso di attenuare, se non di invertire del tutto.
Una volta scemato il credito elettorale conquistato, è perciò probabile che le tensioni sociali e l’opposizione all’esecutivo di Beata Szydlo aumenteranno rapidamente. Anche per questa ragione, e visto il precedente che vide protagonista Jaroslaw Kaczynski quasi un decennio fa, il partito di governo a Varsavia intende procedere al consolidamento del potere in tempi brevi.
Per quanto riguarda le forze di opposizione, la loro credibilità nella difesa della democrazia in Polonia è vicina allo zero. Le formazioni nominalmente di sinistra sono ampiamente screditate e non sono riuscite a conquistare un solo seggio in Parlamento.
L’opposizione “moderata” è composta invece dai già ricordati PO e Polonia Moderna. Il primo è stato appunto punito dagli elettori nelle ultime elezioni per le sue politiche liberiste e anti-sociali, mentre il secondo ha un’agenda totalmente pro-business. Tutti, infine, manifestanto la propria opposizione al nuovo governo facendo appello all’Unione Europea, ovvero all’istituzione che ha sostenuto e continua a sostenere quelle stesse politiche anti-democratiche che hanno favorito l’ascesa di una forza ultra-conservatrice e con inclinazioni dittatoriali nella Polonia odierna.
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di Mario Lombardo
Il discorso di lunedì del presidente americano Obama al Pentagono ha preceduto di poche ore l’arrivo a Mosca del segretario di Stato, John Kerry, per una visita, a detta del Cremlino, voluta dalla stessa Casa Bianca allo scopo di testare la possibilità di proseguire i negoziati per una soluzione politica della crisi in Siria. I toni usati da Obama sono stati però tutt’altro che pacifici e la sua apparizione presso il centro nevralgico della macchina da guerra USA è apparso a molti come un tentativo di placare gli animi dei “falchi” che all’interno della classe dirigente americana chiedono un intervento più incisivo in Medio Oriente, ufficialmente per sconfiggere lo Stato Islamico (ISIS/Daesh).
La presunta efficacia dei bombardamenti dei jet americani e degli alleati di Washington contro l’ISIS/Daesh nelle ultime settimane è stata al centro del discorso del presidente, assieme alla promessa di colpire ancora più duramente i fondamentalisti che continuano a controllare una porzione significativa di territorio tra la Siria e l’Iraq.
I media ufficiali hanno descritto l’intervento di Obama come una sorta di nuova dichiarazione di guerra all’ISIS/Daesh, senza interrogarsi sugli oltre dodici mesi di conflitto già trascorsi con risultati oggettivamente trascurabili.
Il discorso di Obama ha comunque suggellato un’escalation interventista iniziata almeno dall’attentato di Parigi del 13 novembre scorso e che ha avuto un’ulteriore impennata dopo la strage di San Bernardino, in California, a inizio dicembre. Dopo la decisione presa dalla Casa Bianca di inviare nella regione altre truppe delle Forze Speciali, attualmente attive in territorio siriano, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno approvato l’intervento delle rispettive forze aeree nel paese sconvolto dalla guerra contro il regime di Assad.
L’intensificazione del conflitto annunciata sinistramente da Obama questa settimana mette dunque di fronte sempre più nel teatro di guerra in Siria un numero crescente di potenze con interessi contrastanti, rendendo complicato anche solo l’avvio di un percorso diplomatico.
La questione più scottante riguarda sempre il futuro del presidente siriano Assad e il ruolo che dovrebbe svolgere nel potenziale processo di transizione che si sta cercando di negoziare. Lo scontro sulla posizione del leader alauita (sciita) consiste in realtà nell’orientamento strategico che la nuova Siria dovrà avere, se rimarrà cioè allineata all’Iran e alla Russia o diventerà invece un altro fantoccio filo-americano.
Washington e i regimi sunniti mediorientali intendono ovviamente liquidare Assad, anche se soprattutto gli Stati Uniti sembrano avere ammorbidito la loro posizione in proposito, lasciando intendere che il presidente siriano potrebbe rimanere al suo posto durante il periodo iniziale della transizione politica.
Molto meno concilianti sono al contrario la Turchia, l’Arabia Saudita e le altre monarchie ultra-reazionarie del Golfo Persico, le quali gradirebbero un’uscita di scena immediata di Assad, preferibilmente in maniera volontaria oppure attraverso la forza delle armi dei gruppi fondamentalisti che esse stesse appoggiano.Questa identica posizione è stata assunta recentemente anche da svariate formazioni dell’opposizione siriana, riunitesi a Riyadh per trovare un accordo su una linea comune in vista dell’avvio delle trattative con i rappresentanti del governo di Damasco. Nonostante la dichiarazione congiunta emessa al termine dei lavori, il summit è stato caratterizzato da aspre divisioni interne all’opposizione, a conferma della sostanziale impossibilità di creare un fronte unito che possa presentarsi come interlocutore credibile nel processo di pace.
Questa difficoltà deriva dal fatto che praticamente nessuno dei gruppi che combattono contro Assad dispone di una reale base popolare in Siria, essendo piuttosto e in larga misura guerriglieri e mercenari al servizio di potenze straniere o fondamentalisti ugualmente sovvenzionati da Ankara, Abu Dhabi, Doha o Riyadh. Non a caso, infatti, sia il governo russo che quello iraniano hanno condannato il meeting nella capitale saudita, dove a loro dire erano presenti anche i rappresentanti di organizzazioni terroristiche.
Il futuro di Assad è stato in ogni caso discusso martedì a Mosca tra Kerry e il suo omolgo russo, Sergey Lavrov, e tra il numero uno della diplomazia USA e il presidente russo Putin. Sia Kerry che Lavrov hanno auspicato il raggiungimento di un compromesso tra Stati Uniti e Russia, visto che almeno a livello ufficiale entrambe le potenze considerano l’ISIS/Daesh come una minaccia globale.
Per il Cremlino, inoltre, l’attitudine dell’amministrazione Obama sarebbe cambiata negli ultimi tempi e risulterebbe evidente una minore ostilità nei confronti della Russia, con implicazioni potenzialmente positive riguardo la situazione in Siria.
In realtà, la relativa moderazione della Casa Bianca, a fronte delle spinte per scatenare una nuova guerra totale provenienti dal Partito Repubblicano e da molti anche tra quello Democratico, nasconde l’intenzione di giungere tramite il negoziato allo stesso obiettivo finora mancato con la forza. E questo obiettivo – la rimozione di Assad – continua a essere diametralmente opposto a quello perseguito dalla Russia.
I tentennamenti di Obama e le oscillazioni del suo governo tra gli sforzi diplomatici e una strisciante escalation militare vanno letti probabilmente secondo un’ottica interna. Se, da un lato, l’attenzione della Casa Bianca sembra essersi posata in gran parte sulla competizione con la Cina in Asia orientale e l’appetito per trascinare gli Stati Uniti in un nuovo conflitto rovinoso in Medio Oriente con decine di migliaia di soldati sul campo è decisamente scarso, dall’altro Obama deve far fronte in qualche modo alle pressioni interne e mostrare il proprio impegno a risolvere la crisi siriana senza sacrificare gli interessi americani.
Ad ogni modo, la fluidità della situazione è confermata dal fatto che fino a martedì non era ancora chiaro se il prossimo round di negoziati sulla Siria, previsto per il fine settimana a New York, avrebbe avuto luogo. La decisione di procedere in questo senso è giunta solo in seguito al vertice di Mosca, anche se già la prima questione sulla quale servirà un’intesa per fare qualche passo avanti rischia di mandare in crisi l’intero processo.Come stabilito nel precedente incontro di Vienna, i governi coinvolti nelle discussioni dovranno accordarsi su una lista comune di formazioni terroriste operanti in Siria che saranno escluse dai negoziati. Il compito di stilare questo elenco è stato assegnato alla Giordania, sul cui governo in molti stanno esercitando forti pressioni per includere i gruppi preferiti o escludere quelli sgraditi.
Anche tra USA e Russia sembra esserci poco accordo su questo punto. Una delle critiche che Washington rivolge puntualmente a Mosca è infatti quella di bombardare forze anti-Assad diverse dall’ISIS/Daesh, tra le quali spiccano però formazioni integraliste violente come il Fronte al-Nusra - filiale ufficiale di al-Qaeda in Siria - Ahrar al-Sham e altre di importanza relativamente minore, ovvero una galassia jihadista, spesso propaganda come “moderata”, utilizzata più o meno apertamente dagli Stati Uniti e dai loro alleati come forza d’urto per abbattere il regime di Assad a Damasco.
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di Michele Paris
Sebbene il Fronte Nazionale (FN) di Marine Le Pen non sia alla fine riuscito a conquistare nessuna delle regioni francesi dopo il secondo turno del voto amministrativo di domenica, i risultati hanno nondimeno fatto registrare una nuova solidissima prestazione del partito di estrema destra, largamente favorito dalla deriva reazionaria dell’intero quadro politico “repubblicano” d’oltralpe.
Il mancato successo del FN è apparso relativamente sorprendente in particolare in due regioni - Nord-Pas de Calais-Picardie e Provence-Alpes-Côte d’Azur - dove al primo turno, rispettivamente, la stessa Marine Le Pen e la giovanissima nipote, Marion Maréchal-Le Pen, avevano superato il 40%, staccando in modo molto netto i rispettivi rivali.
I candidati del FN erano inoltre finiti al ballottaggio in tutte e dodici le regioni nelle quali dal 2010 è suddivisa la Francia continentale, così che in molti si aspettavano la conquista di una o più presidenze da parte dei neo-fascisti.
A determinare il risultato di domenica sono stati principalmente due fattori. Il primo e più confortante è la difesa dei valori repubblicani da parte della maggioranza degli elettori francesi, recatisi alle urne in numero maggiore rispetto al primo turno chiaramente con l’obiettivo di negare anche solo una vittoria parziale a un partito razzista, xenofobo, negazionista, anti-repubblicano e discendente del collaborazionismo nazista di Vichy.
L’altro aspetto cruciale è stato l’invito ai propri elettori da parte del Partito Socialista (PS) a votare per il candidato del principale partito di opposizione di centro-destra - I Repubblicani (LR) - in seguito al ritiro dei propri candidati che avevano diritto a presentarsi al secondo turno nelle tre regioni dove il FN sembrava avere concrete possibilità di vittoria: Nord-Pas de Calais-Picardie, Provence-Alpes-Côte d’Azur e Alsace-Champagne-Ardenne-Lorraine. In qust’ultima regione, la decisione dei vertici del PS era stata respinta dal candidato locale, Jean-Pierre Masseret, il cui nome era rimasto sulle schede elettorali.
I Repubblicani dell’ex presidente, Nicolas Sarkozy, hanno alla fine conquistato sette regioni. Solo cinque sono andate invece ai Socialisti. L’esito finale è stato così sostanzialmente simile a quello visto in varie occasioni negli anni scorsi in risposta all’avanzata elettorale del FN, ostacolato al momento decisivo dal cosiddetto “Fronte Repubblicano”.
Questa strategia, messa in atto dalle forze politiche che dominano tradizionalmente il panorama politico francese, in questa tornata elettorale ha dato però segnali di cedimento, se non è addirittura sembrata crollare in maniera clamorosa. Il primo ministro Socialista, Manuel Valls, aveva innanzitutto limitato il ritiro dei candidati del suo partito a tre regioni, mentre Sarkozy, con una scelta che ha peraltro incontrato resistenze interne a LR, aveva invece confermato tutti i propri candidati nel secondo turno.
La fine del “Fronte Repubblicano” segnala un ulteriore preoccupante passo avanti nel processo di integrazione del FN, considerato sempre più come una forza politica legittima, nonostante la retorica di Socialisti e gollisti nelle ultime settimane. D’altra parte, questa evoluzione è quanto meno sintomatica, poiché sia i precedenti governi sotto la presidenza Sarkozy sia, ancor più, quelli seguiti all’elezione del Socialista Hollande hanno essi stessi mostrato un totale disprezzo per quei valori repubblicani che avevano motivato una sorta di fronte comune contro l’ascesa dell’estrema destra.Le parole del premier Valls prima del voto su una Francia di fronte a una scelta tra il FN, “che promuove le divisioni e può portare a una guerra civile”, e “la Repubblica con i suoi valori” suonano vuote per milioni di francesi. Ugualmente, gli appelli a fare il possibile per evitare che il prossimo appuntamento con le urne si trasformi in un nuovo trionfo per il Fronte rappresentano un tentativo da parte del governo di sottrarsi alle proprie enormi responsabilità.
Al di là dei proclami pubblici, c’è da chiedersi come i Socialisti o gli stessi gollisti, nel caso dovessero tornare al potere, intendano contrastare il FN, visto che sono state precisamente le loro politiche anti-sociali e guerrafondaie a gettare le basi per la crescita esponenziale della destra estrema in Francia.
Se, indubbiamente, il FN è una forza con tendenze profondamente anti-democratiche, malgrado il processo cosmetico di cambiamento portato avanti dall’attuale leader dopo l’espulsione dal partito del padre, Jean-Marie Le Pen, lo stesso Partito Socialista al governo è gravemente responsabile del sostanziale calpestamento dei principi democratici e dello smantellamento dei diritti sociali in Francia.
Le invocazioni da parte dei leader Socialisti dei valori repubblicani e della difesa della democrazia contro l’abisso in cui il FN minaccia di trascinare il paese sono giunte significativamente nel pieno di un’offensiva contro le libertà civili in nome della “guerra al terrorismo” che prospetta, senza esagerazioni, la trasformazione della Francia in uno stato di polizia o in una dittatura presidenziale.
Dopo avere fatto approvare una nuova legge che assegna alle forze di sicurezza poteri di sorveglianza sulla popolazione praticamente assoluti, il presidente Hollande e il governo Valls hanno ottenuto l’imposizione per tre mesi di uno stato di emergenza in seguito agli attentati di Parigi del 13 novembre scorso. Non solo, l’Eliseo intende implementare una modifica costituzionale che consenta al presidente di dichiarare unilateralmente lo stato di emergenza e, quindi, la sospensione dei basilari principi democratici senza nemmeno l’autorizzazione del Parlamento.
Queste iniziative, assieme alle avventure belliche all’estero e soprattutto gli attacchi allo stato sociale e ai diritti dei lavoratori, hanno creato una profonda disillusione tra gli elettori francesi di cui continua a beneficiare il Fronte Nazionale. Non a caso, una delle regioni dove il partito di Marine Le Pen ha fatto registrare i risultati migliori è stata il Nord-Pas de Calais-Picardie, tradizionale roccaforte Socialista duramente colpita dal devastante processo di deindustrializzazione degli ultimi decenni.Se il FN è stato in parte fermato in questa occasione, a impedirne l’ulteriore avanzata non saranno in nessun modo le iniziative dei Socialisti o del LR. Anzi, quella che dopo il ballottaggio di domenica appare a molti come un’eventualità più lontata, cioè la vittoria nelle presidenziali del 2017 di Marine Le Pen, rischia di diventare un pericolo reale nei prossimi mesi se, com’è probabile, proseguirà lo spostamento verso destra del baricentro politico nazionale. Il suo partito, a fronte dell’incapacità di conquistare una sola regione, ha infatti appena ottenuto il maggior numero di voti della sua storia.
Una realtà, quella del FN, che i vertici del PS e del LR hanno riconosciuto dopo la chiusura delle urne. Evitando opportunamente i toni trionfalistici, Valls e Sarkozy hanno entrambi ricordato come la minaccia dell’estrema destra sia ben lontana dall’essere sparita dopo il provvisorio sospiro di sollievo tirato al termine delle elezioni di domenica scorsa.
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di Mario Lombardo
I recenti episodi di terrorismo in Francia e negli Stati Uniti hanno rianimato un dibattito di cui non si sentiva la necessità sui rischi presumibilmente connessi alle comunicazioni criptate degli utenti privati che utilizzano dispositivi elettronici. Negli USA, in particolare, esponenti politici e dell’apparato della sicurezza nazionale stanno in questi giorni chiedendo a gran voce iniziative legali che consentano alle autorità di penetrare questi sistemi utilizzati da molte aziende tecnologiche per garantire la sicurezza e la privacy dei loro clienti.
Già dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi, qualche voce all’interno del governo americano aveva preso di mira i sistemi di crittografia, accusati di facilitare le comunicazioni tra terroristi pur senza alcuna prova concreta in relazione agli autori della strage nella capitale francese.
Il direttore dell’FBI, James Comey, era stato in quell’occasione tra i più fermi sostenitori della necessità di dotare l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) degli strumenti legali per accedere alle comunicazioni criptate degli utenti privati.
Il sistema definito in inglese “End-to-end encryption” (E2EE) garantisce la sicurezza delle comunicazioni attraverso la rete internet tra due dispositivi, impedendo che i dati scambiati vengano intercettati da terzi. In questo modo, i dati inviati da un utente vengono appunto criptati e possono essere decodificati solo dal dispositivo che li riceve.
La chiave per accedere alle comunicazioni è normalmente sconosciuta anche ai provider dei servizi di rete e ai realizzatori delle applicazioni. I sistemi di crittografia sono previsti su molti modelli di smartphone ormai da qualche tempo, in particolare dopo le rivelazioni sugli abusi della NSA da parte di Edward Snowden, e garantiscono livelli di privacy variabile.
Il numero uno dell’FBI ha comunque sfruttato anche il recente attentato di San Bernardino, in California, per tornare all’attacco della crittografia. Nel corso di un’audizione davanti alla commissione Giustizia del Senato USA, mercoledì Comey ha definito “utile” un intervento del Congresso di Washington su tale questione.
Per il capo del “Bureau”, sarebbe vitale nella guerra al terrore avere accesso alle comunicazioni codificate, sia pure dietro mandato di un tribunale. Comey ha citato poi discussioni che egli stesso avrebbe avuto con i vertici di alcune compagnie tecnologiche, giungendo alla conclusione che la scelta di queste ultime di dotare i propri dispositivi con questi sistemi non risponde a uno scrupolo per la privacy degli utenti ma ha a che fare piuttosto con ragioni di “business”. Per l’FBI, insomma, le aziende dovrebbero accogliere le richieste provenienti dal governo e convincersi dell’opportunità di realizzare sistemi di crittografia accessibili.
Comey ha ricordato infatti che molte compagnie operano già secondo le indicazioni delle autorità, con sistemi cioè penetrabili in presenza di un mandato emesso da un giudice. Significativamente, lo stesso direttore dell’FBI ha aggiunto che fino a dodici mesi fa non vi era particolare interesse tra gli acquirenti a scegliere un dispositivo che garantisse la privacy totale. Il cambiamento di attitudine di molti è avvenuto proprio in seguito alle rivelazioni di Snowden sui rischi per la privacy nelle comunicazioni elettroniche.L’insistenza con cui viene chiesto un giro di vite sulla crittografia è la conseguenza del fatto che questo sistema è uno degli ultimi baluardi rimasti, e facilmente ottenibile, per la difesa del diritto alla riservatezza dei cittadini. L’esistenza di un buco nero nel quale agenzie governative come la NSA non possono penetrare per controllare le comunicazioni risulta perciò intollerabile.
Nel tentativo di creare un clima di emergenza, come se la presenza dei sistemi E2EE sui dispositivi elettronici assicurasse l’organizzazione continua di trame terroristiche al di fuori dei radar delle autorità, pur senza presentare alcuna prova Comey ha citato un esempio concreto della possibile interferenza della crittografia su un’indagine dell’FBI.
Il caso sarebbe stato quello dello scorso maggio a Garland, nel Texas, quando due uomini armati attaccarono un sito espositivo dove era in corso una provocatoria mostra con immagini del profeta Muhammad. Secondo Comey, poco prima dei fatti uno dei due attentatori aveva “scambiato 109 messaggi con un terrorista all’estero”, il cui contenuto rimase off-limit per le forze di polizia.
Come ha ricordato la testata on-line The Intercept, in realtà, l’FBI teneva sotto sorveglianza da tempo uno dei due uomini e, anche con gli strumenti a disposizione, era venuto a conoscenza dei piani terroristici. L’FBI sostenne di avere avvertito la polizia della città di Garland circa la minaccia imminente, anche se quest’ultima avrebbe poi negato di essere stata allertata dai federali.
Nel recente attacco di San Bernardino non è in ogni caso chiaro se i due attentatori abbiano utilizzato un sistema di codifica sui propri dispositivi per organizzare la strage. Ciò non ha però impedito a Comey di indicare la crittografia come un ostacolo nella lotta al terrorismo.
Prevedibilmente, nemmeno i senatori della commissione Giustizia hanno mostrato qualche scrupolo per il diritto alla privacy dei cittadini. Anzi, molti di essi hanno riconosciuto la presunta minaccia e prospettato iniziative di legge per il prossimo futuro.
La ex presidente della commissione del Senato per i Servizi Segreti, la democratica Dianne Feinstein, ha affermato che, “se c’è un complotto in atto tra sospetti terroristi che usano dispositivi criptati”, le loro comunicazioni codificate “devono poter essere penetrate”. Per il falco repubblicano John McCain, invece, dopo i fatti di Parigi - nei quali, come già spiegato, non è stata raccolta nessuna prova sull’uso da parte degli attentatori di sistemi di comunicazione criptati - “lo status quo non è più sostenibile”.Alla Casa Bianca, per il momento, sembra prevalere una certa prudenza, anche se dal Dipartimento di Giustizia già qualche mese fa si era detto che, in qualche modo, sarebbe stato “necessario” costringere le compagnie tecnologiche a piegarsi sulla questione della crittografia.
L’atteggiamento dell’amministrazione Obama potrebbe riflettere lo scarso entusiasmo diffuso tra queste aziende per una modifica dell’attuale sistema. Dopo le rivelazioni di Snowden c’è infatti maggiore consapevolezza tra gli utenti americani circa i rischi per la loro privacy e un passo indietro da parte delle maggiori compagnie su pressioni del governo potrebbe provocare contraccolpi negativi per gli affari.
Molti esperti, infine, fanno notare come un allentamento della sicurezza per consentire al governo di intercettare le comunicazioni criptate potrebbe far aumentare il rischio che queste stesse comunicazioni possano essere esposte ad attacchi non autorizzati, favorendo il rischio del furto di dati o di violazione della privacy.