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di Michele Paris
Il fascismo strisciante che pervade la classe dirigente americana continua a trovare sfogo nelle uscite pubbliche del candidato alla presidenza per il Partito Repubblicano, Donald Trump. La più recente “proposta” dell’attuale favorito per la nomination, cioè lo stop pressoché totale all’ingresso dei musulmani negli Stati Uniti, è stata condannata da molti a Washington, anche se essa si inserisce in un clima di isteria anti-islamica che la politica e i media ufficiali sembrano alimentare in maniera deliberata.
L’imprenditore miliardario aveva affermato lunedì nel corso di un comizio in South Carolina che la misura sarebbe di natura temporanea, in attesa che il governo elabori una strategia adatta contro la minaccia del terrorismo jihadista. Per giustificare il divieto di ingresso negli USA per coloro che professano la fede musulmana, Trump ha fatto riferimento alla decisione presa dall’amministrazione Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale di chiudere in campi di detenzione gli immigrati di origine giapponese, tedesca e italiana, vale a dire a uno degli episodi più gravemente lesivi delle libertà individuali nella storia americana.
Trump è stato subito investito da un’ondata di polemiche ma il giorno successivo ha rilasciato una serie di interviste televisive nelle quali ha soltanto parzialmente rettificato le precedenti dichiarazioni, sostenendo che i musulmani con cittadinanza americana sarebbero esclusi dal bando nel caso tornassero negli USA dopo essersi recati all’estero, per poi confermare sostanzialmente i concetti già espressi.
Simili “sparate” di Donald Trump non sono una novità per la campagna elettorale in corso e in molti continuano a minimizzarne la portata, giudicandole come l’espressione di un candidato imprevedibile e fin troppo schietto, sebbene attestato su posizioni decisamente estreme rispetto al baricentro politico Repubblicano.
Se le affermazioni di Trump appaiono per contenuto e forma effettivamente al di là di quanto i suoi colleghi repubblicani hanno proposto in questi mesi, la sostanza delle sue parole è tuttavia di fatto coerente con la linea avanzata dal partito e dagli altri candidati alla Casa Bianca.
Il secondo favorito alla nomination repubblicana nei sondaggi, il senatore del Texas Ted Cruz, aveva ad esempio già chiesto di vincolare l’accoglimento dei profughi siriani alla loro fede, ammettendo i cristiani ed escludendo invece i musulmani. Più di un’aspirante alla presidenza, tra cui lo stesso Trump, si era detto inoltre favorevole a mettere sotto sorveglianza tutte le moschee sul suolo americano.
Almeno anche un politico Democratico, il sindaco di Roanoke, in Virginia, qualche settimana fa aveva citato favorevolmente l’internamento degli americani di origine giapponese durante il secondo conflitto mondiale, lasciando intendere che quel provvedimento adottato in piena guerra contro il nazi-fascismo potrebbe essere ipotizzabile anche oggi, essendo in atto una guerra contro il fondamentalismo islamista.
La deriva autoritaria che lasciano intravedere simili dichiarazioni conferma la disposizione anti-democratica della classe dirigente borghese negli Stati Uniti e non solo. A ricordare la disponibilità a calpestare senza troppi scrupoli gli stessi principi democratici fissati da quest’ultima era stato quasi due anni fa il giudice ultra-reazionario della Corte Suprema, Antonin Scalia, il quale in un discorso pubblico aveva invitato i suoi ascoltatori a non illudersi circa la possibilità che l’istituzione di campi di detenzione per gli oppositori dello stato non possa tornare a essere una realtà anche oggi nell’eventualità di una qualche crisi nazionale.Il ritorno nel dibattito politico di richieste e proposte più adatte a uno stato totalitario che non a una democrazia liberale non è ovviamente un’esclusiva degli Stati Uniti. L’istigazione di sentimenti anti-musulmani e xenofobi, assieme all’ingigantimento di una minaccia terroristica che è peraltro la conseguenza delle politiche occidentali di aggressione dei paesi arabi, è alla base di recenti leggi e disegni di legge per aumentare a dismisura i poteri di sorveglianza delle forze di sicurezza - come in Francia e in Gran Bretagna - o ha già favorito il via libera parlamentare all’autorizzazione ad allargare le operazioni di guerra contro l’ISIS/Daesh dall’Iraq alla Siria, com’è accaduto ancora a Londra.
Tornando agli Stati Uniti, anche gli stessi critici di Donald Trump sono responabili del clima di eccitazione anti-musulmana, a cominciare dall’amministrazione Obama. Il presidente Democratico ha tenuto un discorso al paese sul terrorismo domenica scorsa, nel quale ha tra l’altro attaccato i Repubblicani per le loro proposte anti-islamiche, tralasciando però di ricordare come la politica estera da egli stesso promossa continui a risolversi in guerre devastanti e occupazioni militari di paesi musulmani.
Sul fronte Repubblicano, poi, sono state molteplici le voci di coloro che hanno sostanzialmente approvato la più recente proposta di Trump. Il già citato senatore Cruz, considerato in ascesa dai sondaggi più recenti, ha formalmente respinto lo stop indiscriminato agli ingressi dei musulmani negli USA ma ha elogiato il suo collega/rivale per avere sollevato la questione della sicurezza dei confini americani.
Altri ancora hanno cercato di giustificare le loro simpatie per le tirate fascistoidi di Trump con la presunta sintonia di quest’ultimo con la popolazione statunitense. Trump, cioè, starebbe soltanto dando voce a sentimenti razzisti diffusi nel paese, quando in realtà, a parte alcune frange estreme e l’elettorato Repubblicano facente capo al fondamentalismo cristiano, sembra esserci ben poco entusiasmo per le posizioni di estrema destra della classe dirigente di Washington tra lavoratori e classe media. Politici e media agitano piuttosto lo spettro dell’islamismo integralista per avanzare la propria agenda reazionaria e dividere la popolazione lungo linee razziali e religiose, oscurando deliberatamente le implicazioni di classe alla base della crisi della società americana.
Il più recente prodotto legislativo di questo clima avvelenato è stata l’approvazione questa settimana da parte della Camera dei Rappresentanti di una serie di restrizioni al programma trentennale di ingresso negli Stati Uniti senza la necessità di un visto per i cittadini di 38 paesi. La misura, che dovrebbe servire a rendere più sicuro il paese, ha ottenuto il sostegno di ogni singolo deputato Repubblicano e della larghissima maggioranza di quelli Democratici.La nuova legge, appoggiata anche dalla Casa Bianca, dovrà ora superare l’ostacolo del Senato e potrebbe imporre controlli più severi su coloro che intendono entrare negli USA dopo avere visitato negli ultimi cinque anni almeno uno di questi quattro paesi: Iran, Iraq, Siria e Sudan.
La preoccupazione principale che avrebbe guidato la stesura del provvedimento è legata al numero relativamente elevato di cittadini europei recatisi in Siria per combattere nei ranghi dell’ISIS/Daesh, poi tornati in patria e quindi potenzialmente in grado di entrare in America senza la necessità di ottenere un visto.
Anche sorvolando sul fatto che, almeno inizialmente, i musulmani con passaporto di un paese occidentale che hanno raggiunto la Siria sono stati spesso incoraggiati dai loro governi, visto l’identico obiettivo dell’abbattimento del regime di Assad, la misura in discussione al Congresso di Washington va considerata come un altro dei tentativi di alimentare i sentimenti anti-islamici e di ampliare i poteri di controllo sui singoli cittadini.
Infatti, le restrizioni al regime “visa-free” sarebbero implementate principalmente in risposta alla strage della scorsa settimana a San Bernardino, in California, dove hanno perso la vita 13 persone.
Questa legge, però, non avrebbe contribuito a evitare il massacro, visto che Tashfeen Malik, una dei due responsabili dell’attacco assieme al marito di passaporto USA, Syed Farook, non era giunta negli Stati Uniti dal Pakistan grazie a questo programma, bensì a un altro lasciato inalterato dal provvedimento, quello ciè che consente di evitare le pratiche per l’ottenimento di un visto ai futuri coniugi di un cittadino americano.
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di Michele Paris
Attraverso operazioni clandestine dirette dalla CIA, il governo americano continua a mantenere in vita almeno una forza speciale in territorio afghano, composta da soldati indigeni che combattono ufficialmente i Talebani pur macchiandosi di svariati crimini contro i civili con la benedizione di Washington. Se l’esistenza della cosiddetta Forza di Protezione di Khost (KPF), attiva nell’omonima provincia dell’Afghanistan orientale al confine con le aree tribali del Pakistan, è ben nota, una recente indagine del Washington Post ha spiegato il suo modus operandi, nonché i legami con la principale agenzia di intelligence USA e una serie di episodi cruenti mai documentati in precedenza e seguiti praticamente da nessuna conseguenza legale.
Le testimonianze raccolte dall’autore dell’articolo riguardano sei blitz della KPF avvenuti solo negli ultimi dodici mesi, durante i quali gli obiettivi delle operazioni hanno puntualmente sentito parlare in lingua inglese uomini armati con interpreti al seguito. Secondo il Post, i membri di questa forza speciale “raramente vengono incriminati per le morti indiscriminate” che provocano ed essa risulta “talmente potente e clandestina che le sue vittime di rado sono in grado di ottenere risarcimenti” per i danni subiti.
Formalmente, la KPF opera sotto il comando della Direzione Nazionale per la Sicurezza di Kabul - ovvero il servizio segreto afgano - ma in realtà a dirigere e finanziare le sue azioni è di fatto la CIA. Questo modello di gestione delle operazioni contro “insorti” e “terroristi” appare sempre più caratteristico dell’amministrazione Obama, intenzionata a ridurre al minimo indispensabile la presenza militare USA in paesi stranieri dopo la rovinosa esperienza dell’Iraq e, appunto, dell’Afghanistan.
La presenza della CIA dietro la KPF rappresenta però una palese contraddizione della politica ufficiale della Casa Bianca in relazione all’occupazione dell’Afghanistan. Solo lo scorso mese di ottobre, il presidente Obama aveva annunciato il prolungamento della permanenza di oltre cinquemila soldati americani nel paese centro-asiatico, fondamentalmente con due incarichi: addestrare le forze armate locali e combattere al-Qaeda.
Com’è noto, invece, le truppe di occupazione USA e quelle afgane conducono la propria guerra pressoché esclusivamente contro i Talebani, vista anche la quasi totale assenza del fondamentalismo qaedista in questo paese. Ciò conferma la natura dell’occupazione americana, ben lontana dall’essere un’impresa contro il terrorismo internazionale, quanto piuttosto uno sforzo per sostenere il governo-fantoccio di Kabul contro l’avanzata di una forza locale che, per quanto reazionaria e oscurantista, non ha altro che un’agenda domestica.La KPF opera così in maniera congiunta con la CIA dalla base americana di Camp Chapman, nella stessa provincia di Khost. Come spiega il Washington Post, quest’ultima sarebbe molto probabilmente già nelle mani dei Talebani o dei loro alleati del clan Haqqani senza la presenza della KPF, portando quindi una minaccia molto seria nei confronti della non lontana capitale afgana.
Alcune voci apparse sui giornali americani lo scorso anno avevano descritto come la CIA stesse smantellando le proprie unità paramilitari in Afghanistan, tra cui la stessa KPF, nell’ambito del relativo disimpegno militare USA nel paese. Per il Washington Post, invece, una recente visita nella provincia di Khost ha confermato come la CIA continui a “dirigere le operazioni dell’unità speciale”, così come a “pagare gli stipendi dei suoi membri, ad addestrarli e a fornire gli equipaggiamenti” necessari.
Se l’impiego di forze clandestine afgane è sufficiente a generare preoccupazioni per il mancato rispetto dei diritti umani, i dubbi sono amplificati proprio dalla costante presenza della CIA. L’agenzia di Langley non è infatti tenuta al rispetto dell’Accordo Bilaterale sulla Sicurezza siglato tra Kabul e Washington per garantire la presenza militare americana in Afghanistan.
Questa intesa prevede tra l’altro restrizioni alla facoltà delle forze USA di fare irruzione nelle abitazioni civili afgane, ovvero di condurre i cosiddetti “raid notturni”, portati a termine ufficialmente a scopi anti-terroristici ma che provocano spesso vittime civili innocenti ed estremo risentimento tra la popolazione. L’ex presidente afgano, Hamid Karzai, era stato costretto a vietare queste incursioni nel 2013, anche se in base all’accordo bilaterale il suo più docile successore, Ashraf Ghani, le ha in seguito nuovamente consentite se condotte sotto la direzione dei propri militari.
La CIA non è inoltre soggetta alle procedure previste dalla Legge Leahy che obbligano gli Stati Uniti a valutare il rispetto dei diritti umani delle forze armate straniere sostenute finanziariamente o logisticamente. Questa eccezione, d’altra parte, serve tradizionalmente agli USA per appoggiare forze criminali per i propri fini strategici pur nel formale rispetto dei diritti umani.
Tra i casi narrati dal Washington Post vi è quello relativo a un raid notturno condotto lo scorso settembre nella località di Tor Ghar. A ricordare l’episodio è il cittadino afgano Darwar Khan, il quale sostiene che gli uomini della KPF spararono al padre non appena quest’ultimo aprì la porta della sua abitazione durante il blitz. Subito dopo una granata venne gettata all’interno, provocando la morte della madre.
L’obiettivo presunto dell’operazione doveva essere uno zio di Darwar Khan che viveva in un edificio vicino ed era colpevole di avere acquistato e rivenduto Kalashnikov, secondo il Post “non esattamente il tipo di sospetto di alto profilo solitamente perseguito dalla CIA”. Alcuni giorni dopo, i vertici della KPF avrebbero riconosciuto l’errore e consegnato al figlio delle due vittime 11 mila dollari di risarcimento.
Altre testimonianze parlano di detenzioni presso la base americana di Camp Chapman e di relativi maltrattamenti e torture. Un recente rapporto ONU ha poi rivelato come cinque persone arrestate tra il 2013 e il 2014 dagli uomini della KPF e della CIA fossero stati sottoposti a “maltrattamenti” e due di essi a quelle che potevano essere classificate come “torture”.Quando le operazioni della KPF provocano dei morti, molto difficilmente i responsabili sono chiamati a fare i conti con la giustizia. Sei mesi fa, ad esempio, uno studente di 17 anni che stava attraversando un posto di blocco della KPF mentre ascoltava musica dalle cuffie è stato ucciso perché non aveva sentito l’ordine di fermarsi. L’assassinio non è stato seguito da nessuna indagine e il governo ha offerto alla famiglia del ragazzo cinquemila dollari come risarcimento.
L’unico episodio che ha registrato incriminazioni e un processo risale al dicembre del 2014, quando 14 membri della KPF aprirono il fuoco contro un edifico, all’interno del quale venne ucciso un 14enne. Il padre, che nulla aveva a che fare con i Talebani, riuscì ad avere una qualche forma di giustizia solo perché era un ex comandante mujahedeen con amicizie nel governo di Kabul.
La KPF fu costretta a consegnare alle autorità di polizia tre suoi combattenti e durante il processo emerse come il team protagonista del raid avesse piazzato un fucile AK-47 vicino al corpo del giovane ucciso per farlo apparire armato. Alla fine, uno degli accusati venne assolto mentre gli altri due ricevettero condanne a dieci anni di carcere.
Gli abusi delle forze speciali attive a Khost con il pieno appoggio della CIA contribuiscono inevitabilmente ad accrescere il risentimento degli afgani nei confronti dell’occupazione statunitense. L’anti-americanismo a Khost si traduce così frequentemente in marce di protesta dirette alla base di Camp Chapman ogniqualvolta si verifichi una o più vittime della missione “liberatrice” USA contro la minaccia talebana.
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di Fabrizio Casari
Le elezioni parlamentari in Venezuela hanno confermato quanto i sondaggi andavano indicando da tempo circa la crisi di consenso del governo Maduro. A guardare i numeri non lo si può negare, ma sarebbe sbagliato leggerli come se rappresentassero solo uno scontro interno. In realtà, in Venezuela lo scontro è stato tra il governo di Caracas e l’intera destra internazionale.
Il MUD, coalizione dai mille volti e nessuno dei quali accettabile, ha vinto ben oltre le sue specifiche capacità di attrarre consenso. Il dato dell’astensione, infatti, elemento tipico di un elettorato stanco e di un Paese in gravi difficoltà, ha castigato oltre ogni previsione l’operato del governo.
Nel menù della vittoria elettorale della destra venezuelana c’è di tutto. La campagna mediatica internazionale, la violenza, l’appoggio dei centri finanziari occidentali e l’aggressione diplomatica e politica statunitense che, solo pochi mesi orsono, facevano dire alla Casa Bianca che “Il Venezuela è una crescente minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Per l’America Latina, per la sua storia e per il discorso politico continentale, una tale affermazione non mai solo è una boutade propagandistica; comporta una serie di conseguenze gravide di pericoli sul piano del rapporto tra USA e singoli paesi del continente.
Il petrolio venezuelano fa gola, l’ha sempre fatta. Per toglierlo dalle mani del Paese e rimetterlo in quelle delle sette sorelle, la battaglia politica della destra venezuelana è stata combattuta, negli ultimi 16 mesi, in tutti i modi (soprattutto illegali) e su tutti i fronti (soprattutto all’estero). Non è passato giorno senza che il MUD non corresse ai quattro lati del pianeta a mobilitare la destra contro il governo di Caracas e gli appelli sono stati ricevuti e fatti propri. La veemenza di una destra che somiglia più ad un organizzazione criminogena che non ad un’alleanza politica, ha ricevuto tutto il sostegno internazionale che poteva ottenere.
Ciò non solo e non tanto per la disponibilità di un gruppo dirigente pronto ad ammainare il prima possibile la bandiera della sovranità nazionale e riportare così il Paese nelle mani dei suoi colonizzatori statunitensi, quanto perché in Venezuela si sono misurate le aspettative di una destra internazionale che, sulla sconfitta del chavismo, ha puntato tutte le fiches a disposizione.
Per questo, sin dalla morte di Hugo Chavez, i centri di potere finanziario e la destra internazionale hanno intravisto la possibilità di fermare la rivoluzione bolivariana, convinti che il retrocedere del processo rivoluzionario possa in qualche modo, nei suoi riflessi, comportare un generale indietreggiamento per l’integrazione latinoamericana. In questo senso la vittoria in Argentina di Macrì ha costituito un’importante ancoraggio per la spallata al Venezuela e per quella che si spera tocchi al Brasile.
Ma l’appoggio internazionale non è stato il solo elemento capace di ribaltare i rapporti di forza all’interno del Paese. Caos, violenze, assassinii politici, delegittimazione internazionale, boicottaggio economico, sabotaggi interni: questa è stata l’essenza della linea politica del MUD, pensata a Washington e Madrid e realizzata tra Miami e Caracas. Nulla di nuovo per l’America Latina: uno schema storicamente utilizzato dalla destra latinoamericana agli ordini della Casa Bianca che, dal Cile del 1973 ad oggi, ha sempre prodotto i suoi risultati.
Per questo il MUD, con la partecipazione attiva della borghesia speculatrice, non ha solo prodotto violenze ed instabilità politica, ma si è dedicato in forma diretta anche all’accaparramento economico dei beni di prima necessità, rivenduti al confine con la Colombia ad un prezzo decine di volte superiore a quello imposto dal governo.
Lo stoccaggio e l’imboscamento di merci di ogni genere, destinato a procurare la penuria crescente delle stesse nel mercato della distribuzione interna, ha raggiunto l’obiettivo sperato: il mancato funzionamento della catena distributiva, la conseguente stanchezza popolare nel procedere quotidiano delle attività, la crescita esorbitante del mercato nero e, dunque, dell’inflazione. Tutti elementi che hanno prodotto la consapevolezza indotta di un sistema di organizzazione sociale ed economica ormai non più in grado di garantire il suo ordinato svolgersi nella vita quotidiana di milioni di venezuelani.
Su questo singolo aspetto, decisivo per l’esito del voto, si è potuta misurare la sinergia tra operazioni politiche - quali l’accaparramento e il contrabbando di generi alimentari - e la campagna mediatica internazionale contro il governo Maduro.
Un parziale riscontro di questo lo si è potuto apprezzare nelle giaculatorie grondanti entusiasmo dei giornali italiani, La Repubblica in testa. Dove venivano descritte le code e l’assenza di prodotti ma, coerentemente con l’obiettività del quotidiano di Largo Fochetti, nemmeno un rigo veniva dedicato a spiegare come tutto questo era possibile, da dove traeva origine una simile situazione; men che mai veniva offerto spazio al punto di vista del governo.
Inutile, se non fuorviante, addossare la responsabilità della sconfitta elettorale alla presunta incapacità del governo di porre in essere politiche di maggior restringimento del commercio interno ed internazionale. Imputare al governo un cambio di direzione economica del Paese nel senso di un restringimento del libero mercato, così come di non aver dato vita ad una maggiore repressione nei confronti di una destra criminale, significa non comprendere i postulati generali del progetto politico bolivariano.
Certo, errori sono stati commessi e le contraddizioni di un gruppo dirigente non sempre all’altezza della sfida storica possono essere, con il senno di poi, sottolineate. Ma sarebbe un esercizio inutile prima che ingeneroso, anche in considerazione del fatto che il PSUV non dispone di quadri di livello superiore su cui investire ora per la rincorsa verso le presidenziali.
Si può anche ritenere che la prematura scomparsa di Hugo Chavez abbia indebolito inesorabilmente il progetto bolivariano, orfano di un carisma e di una leadership cui l’insieme del gruppo dirigente del PSUV non è riuscito a sopperire. Certo, la personalità del Comandante non era possibile ricrearla per decreto, ma forse la verità è molto più semplice. La sconfitta elettorale racconta la difficoltà di un progetto politico che vede nella redistribuzione dei proventi petroliferi il solo veicolo possibile per una politica economica inclusiva.
In questo senso la destinazione di una quota straordinaria del PIL allo stato sociale, che ha permesso al Venezuela di diventare paese tra i più equilibrati sul piano dell’accesso alle risorse da parte della popolazione, ha avuto un suo indiscutibile declino con la caduta verticale del prezzo del petrolio. Dal barile a oltre cento dollari a quello valutato proprio ieri dal Brent, a 38 dollari, vi sono 62 ragioni di una difficoltà crescente a finanziare le necessità di un paese.
Si può insomma ritenere che non si sia riuscito a creare un percorso alternativo nella generazione di ricchezza, ma non si può dimenticare la necessità di utilizzare ogni energia nel contrasto ad una povertà drammatica che, fino all’arrivo del Comandante Chavez a Miraflores, rendeva il Paese una autentica officina delle disegueglianze.
L’esito elettorale assegna così, dopo 17 anni, la maggioranza assoluta all’opposizione al governo centrale e l’assegnazione dei 22 seggi ancora vacanti stabilirà le percentuali esatte della rappresentanza parlamentare. Il dato ha una sua importanza, in un Paese dove la maggioranza qualificata può oggettivamente rendere difficilissimo governare. Per la destra le difficoltà cominciano ora, dal momento che dovrà dimostrare di possedere ricette alternative che non siano la pura cessione a titolo gratuito del Paese agli Stati Uniti.
E’ prevedibile che utilizzeranno gli strumenti costituzionali (referendum) e politici per accelerare l’uscita di Maduro da Miraflores. Ma è tutto da valutare, dal momento che spingere sull’acceleratore dello scontro frontale potrebbe rivelarsi un boomerang a seguito di un risultato comunque reso possibile grazie ad una astensione mai vista prima. Tra il cosiddetto “voto di castigo” e un cambio di regime c’è una enorme differenza nella percezione degli elettori. Il MUD non lo sa, ma i suoi assessori statunitensi ed europei sì.
Per il PSUV, la battaglia persa non significherà necessariamente aver perso la guerra. La riconquista dell’elettorato di riferimento che in questa occasione si è astenuto dovrà essere l’obiettivo per guardare alle prossime presidenziali. Difficile pensare che sia andato definitivamente perso quel sentimento nazionale che, in diciassette anni di democrazia socialista, è riuscito a trasformare un paese da simbolo della spaccatura sociale a sinonimo d’integrazione.
Se, nonostante la crisi e le difficoltà patite, uno zoccolo duro di circa la metà della nazione dimostra di voler comunque confermare una scelta irreversibile per una società più giusta, significa che non tutto ciò che è stato fatto è perso. Si tratta di rimboccarsi le maniche e andare oltre la ripetizione di formule ideologizzate e rigide, di ripensare una nuova strategia politica. Salvare e valorizzare la parte più moderna dell’eredità di Chavez e relazionarla con i mutamenti intervenuti, in Venezuela e nell’intero Cono Sud, è la sfida che attende il PSUV. Mai come in questo caso, ricominciare da capo non significa tornare indietro.
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di Fabrizio Casari
La rivendicazione dell’Isis della strage in California apre un altro capitolo nello scontro tra Stati Uniti e fondamentalismo religioso, ma ciò non impedisce ad Obama di continuare a mettere sullo stesso piano la lotta contro il terrorismo del Califfato e quella per la cacciata di Assad, che del Califfato è il nemico principale, oltre ad essere l’unico che può sconfiggerlo sul terreno.
All'iniziativa militare di Parigi si è sommata Londra e anche Berlino annuncia un suo impegno, ma ad oggi, se si deve misurare l'efficacia militare, la Russia di Putin rimane l’unico autentico avversario militare dello stato islamico. Ma nel caso dei russi l'essere nemici dell’Isis pare non basti a non essere nemici della Casa Bianca. A giudicare dalla Turchia, invece, sembra piuttosto che essere amici dell’Isis e della Casa Bianca nello stesso tempo sia più semplice.
La Turchia, che continua ad immaginare un suo ingresso nella Ue, resta ad oggi il più importante membro della Nato nell'area e di questo ruolo si fa scudo a protezione della sua ambiguità politica, che vede come sommamente pericolosa la ripresa del dialogo tra Washington e Mosca.
Eppure, alcuni analisti ritengono che l’intemerata politico-militare turca contro la Russia non avrebbe avuto luogo senza una previa consultazione di Ankara con Washington. Altre letture suggeriscono invece l’ipotesi che sia stata l’arroganza del Sultano Erdogan a mettere il mondo a rischio di una guerra ben più ampia di quella siriana. Ma è evidente come Ankara tenti di trascinare l'intero blocco militare Nato nel conflitto siriano, per poter utilizzarlo in funzione dei suoi interessi politici.
E’ verosimile che, comunque, Erdogan sia subito corso a chiedere l’aiuto statunitense dopo essersi reso conto di averla fatta grossa. Non è un caso che Obama abbia definito “legittima” la difesa da parte della Turchia del suo spazio aereo, mentre tace, imbarazzato, sulle prove che Mosca ha consegnato al mondo sui traffici che Ankara - e, significativamente, la rapace famiglia presidenziale - tiene in piedi con l’Isis. Con il quale condivide almeno due obiettivi (la cacciata di Assad e dei kurdi) ed una identità religiosa (quella sunnita).
Appare chiaro come il Sukoy russo sia stato abbattuto perché colpiva i raparti turcomanni che Ankara utilizza per sorvegliare il confine da dove passano armi, denaro, petrolio ed opere d’arte, e i cui proventi sono destinati ad arricchire la famiglia Erdogan.
Il tentativo di Ankara di spostare in ambito Nato il conflitto in Siria, assumendo così anche formalmente un ruolo decisivo, per ora è fallito, ma non è detto che non ci saranno altri strappi. Dall’ottica di Erdogan se la Nato decidesse d’intervenire il ruolo di Mosca sarebbe limitato alla difesa delle sue basi e, conseguentemente, il dopoguerra vedrebbe Mosca in una situazione più defilata di quanto al momento si stima. Per questo Ankara ha tutto l’interesse ad inasprire il conflitto e ad evitare un coordinamento politico, oltre che militare, tra Russia e Occidente.
Una soluzione politica della guerra in Siria che vedesse invece il governo di Damasco, Mosca e Teheran al tavolo delle trattative, potrebbe portare anche ad affrontar, anche solo come "effetto collaterale", la questione della riunificazione della diaspora kurda nel quadro di un accordo internazionale sul riassetto della regione. Cosa che, letteralmente, fa impazzire Ankara, che per i kurdi prevede la stessa sorte degli armeni.Quale che sarà l’evoluzione del conflitto (pero ora economico e commerciale oltre che politico) con Mosca, è evidente che la già scarsa credibilità del regime turco è stata ulteriormente menomata, così che l’abbattimento del Sukoy russo si è rivelato un pessimo affare, economicamente e politicamente. Mosca invece (su cui si può scommettere che cercherà la vendetta nel momento più propizio) per ora ha dimostrato freddezza e abilità politica, proseguendo nella sua attività militare e diplomatica.
Ma, parallelamente, continuando nel suo percorso di comunicazione che salta di pari passo le catene dell’intermediazione insite nel dialogo tra stati, rivolgendosi in modo diretto all’opinione pubblica mondiale, come già fece un anno fa, per stoppare l’attacco USA alla Siria.
A questa nuova strategia di comunicazione il Cremlino sembra voler ora ricorrere sistematicamente. Un fatto inedito nella storia della comunicazione politica, a maggior ragione per un paese come la Russia e che procura all’Occidente inediti problemi. A cominciare dalla capacità di contribuire alla ormai diffusa certezza nell’opinione pubblica internazionale che Usa e alleati non hanno nessuna intenzione d combattere l’Isis finché gli serve ai suoi scopi.
Ma quello tra Russia e Turchia è solo un aspetto, pur pericoloso, del conflitto in Siria. Il risiko che abbiamo sotto gli occhi è la conseguenza di un disordine generalizzato causato dalle scelte folli della politica statunitense nella regione, con interventi diretti e sostegni militari e politici utili alle sue necessità energetiche e di controllo della movimentazione del greggio, come a sostenere il nuovo protagonismo politico-religioso dei paesi del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in testa. Quali che siano le opinioni circa la fondatezza o meno delle politiche della Casa Bianca, una cosa è certa: se Washington decidesse di chiudere il conflitto, esso finirebbe nel volgere di poche settimane, politicamente o militarmente.
Le capitali occidentali continuano a recitare la litanìa della cacciata di Assad. Si dovrebbe poter pensare che c’è una strategia dietro la proposta. E’ così? Non sembra. Perché omettono di dire chi dovrebbe prendere il suo posto. Ovvero: chi governerebbe la Siria se domattina Assad si dimettesse e, per esempio, chiedesse asilo politico a Mosca?
Tre sono i soggetti siriani in campo: il regime di Assad, l’Isis e Al-Nusra. E allora? Chi dovrebbe governare a Damasco? Il Califfo Al-Baghdadi? O i fantomatici ed inesistenti jahidisti moderati? Cominciamo col dire che quelli che chiamano “moderati” sono Al-Nusra, ovvero la costola siriana e libica di Al-queda. Si possono considerare moderati? E comunque sono ininfluenti, non arrivano nemmeno a cento unità. Di nuovo: e allora? E’ il vuoto di potere totale l’obiettivo? Ovvero la riduzione della Siria ad una nuova Libia o a una nuova Somalia?
Alcuni opinionisti ritengono che gli USA siano eccessivamente defilati ed imputano alla debolezza politica di Obama l'assenza di un'iniziativa militare più decisa; ma non considerano che, vista da Washington, la priorità è più spostata in funzione degli interessi della Nato. Anche Obama conclude ogni dichiarazione di guerra all’Isis ricordando che Assad deve lasciare. Dal momento che sono due soggetti in guerra tra loro, le dichiarazioni del presidente USA ad un esame superficiale potrebbero apparire un controsenso o un equilibrismo, a seconda dei punti di vista. In realtà, però, rappresentano una linea politica: mentre la guerra all’Isis è divenuta una necessità inderogabile (a parole, però), la cacciata di Assad è stata e continua ad essere il centro della vera strategia statunitense. Che nella fine di Assad vede sì un aiuto ai suoi alleati storici (Ryadh e Tel Aviv) contro alcuni nemici storici (Iran e sciiti) ma soprattutto vede la fine dell’alleanza militare storica con la Russia. E Mosca, più che Damasco, l’obiettivo nel mirino politico di Washington.Mosca, infatti, ove la Siria cadesse in mano ai sunniti guidati dagli Emirati, perderebbe le sue uniche basi nel Mediterraneo e vedrebbe ridursi senz’appello la sua capacità d’influenza internazionale.
In una tenaglia continua che propone l’ingresso nella Nato a tutti i paesi dei Balcani, dopo aver già inserito nei suoi ranghi alcune ex repubbliche sovietiche come Estonia, Lettonia e Lituania, e in attesa di aggiungervi l’Ucraina, oltre ai paesi ex appartenenti al Patto di Varsavia, priva delle basi siriane la Russia verrebbe di fatto circondata e Mosca vedrebbe ridursi alla sua esclusiva dimensione nazionale o poco più il suo posizionamento nella scacchiera geostrategica.
Qui, e non altrove, sta l’interesse statunitense per la caduta di Assad. Che continua, in Europa come nel mondo arabo, a ritenere la Russia come un suo nemico strategico, come l’unica minaccia alla sua leadership politica e supremazia militare assoluta. Per questo sostiene, come la Turchia e l’Arabia Saudita, sia l’Isis che tutti coloro che si battono per la caduta di Assad. La guerra per procura fatta dai jiahidisti è lo stumento scelto per mandare in porto l’operazione.
Del resto, se questo è il core business dell’impegno USA in Siria, anche il sostegno ad Arabia Saudita e Israele, storici alleati di Washington, ha un peso determinante. Tel Aviv, come Ryadh, ritiene che la rottura dell’alleanza militare di Damasco con Teheran sia in principio un obiettivo strategico generale di riferimento e, oltre a ciò, sa che la fine di Assad comporterebbe una serissima difficoltà per Hezbollah in Libano ed Hamas nei Territori Occupati.
C’è da ricordare che Hezbollah ha duramente sconfitto l’esercito israeliano nell’invasione del Libano di qualche anno addietro e che ha garantito con il suo aiuto militare la sopravvivenza dell’esercito siriano; e sa anche che il legame di Hezbollah con Hamas ha permesso ai palestinesi di ridurre l’impatto del blocco operato da Israele verso Gaza.
La caduta di Assad, quindi, produrrebbe un effetto a catena di proporzioni decisive per tutto il riassetto della regione e, da solo, porterebbe a risultati impensabili da ottenere scegliendo invece uno ad uno gli obiettivi contro i quali, di volta in vota, Ryadh e Tel Aviv dovrebbero misurarsi.Se per i turchi la Siria rappresenta la possibilità di estendere il suo territorio e la sua influenza fino al confine con Israele, oltre che di eliminare sul nascere l’ipotesi della riunificazione della diaspora kurda, per l’Arabia Saudita e gli altri Emirati la caduta di Assad rappresenta la fine dell’asse militare, politico e religioso con l’Iran, che impedirebbe in prospettiva immediata anche la presa di controllo di Teheran sull’Irak, e la definitiva affermazione del wahabismo e dei salafiti sui sunniti siriani, maggioranza nel Paese.
Nel frattempo, mentre la Siria è ormai un supermarket di guerra, dove si può trovare di tutto, oltre tremila uomini del Califfo Al Baghdadi sono entrati in Libia per farne la seconda capitale del Califfato dopo Raqa. Così, mentre non riesce a chiudere quella in Siria, l’Occidente ne vede una nuova che sta per scatenarsi: la guerra di Libia.
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di Michele Paris
La parabola di Donald Trump a circa due mesi dall’inizio delle primarie Repubblicane per la Casa Bianca non sembra essere ancora in declino nonostante le previsioni e le speranze di molti dentro e fuori il suo partito. Anzi, dopo un momento di flessione, in questi giorni il miliardario imprenditore newyorchese è tornato nettamente in testa ai sondaggi, capitalizzando la persistente inconsistenza evidenziata da quasi tutti i suoi rivali alla ricerca della nomination.
La competizione interna al Partito Repubblicano in questa tornata elettorale ha già di gran lunga superato i limiti della decenza, con i candidati che stanno facendo a gara nel sollecitare i sentimenti più retrogradi di una fetta di elettorato molto ristretta, e dominata dal fondamentalismo cristiano, com’è appunto quella che partecipa solitamente alle primarie del “Grand Old Party”.
Inoltre, in un clima di fortissime tensioni sociali e con le sempre più evidenti conseguenze del militarismo americano - tra cui l’aumento della minaccia terrorista percepita - le sezioni più reazionarie della classe dirigente USA hanno rispolverato l’arma della retorica populista, così come della demagogia e del nazionalismo, favorendo la concentrazione da parte dei candidati Repubblicani su una manciata di temi apparentemente cruciali per la salute della società, primo fra tutti quello del presunto pericolo di un’immigrazione denunciata come fuori controllo.
L’altra questione che sta modellando queste prime fasi della corsa alla nomination in casa Repubblicana è poi la generale freddezza, per non dire ostilità, nei confronti dei politici legati all’establishment di Washington. In questo quadro, la fortuna raccolta almeno per ora da individui come Donald Trump risulta perciò un po’ meno sconcertante.
Il successo di Trump sta comunque preoccupando non poco i vertici del Partito Repubblicano, in ansia non tanto per le sue posizioni ultra-reazionarie se non esplicitamente fasciste, quanto per l’impossibilità a farsi eleggere per un candidato che mostri in manierà così aperta tutto il suo disprezzo per le minoranze etniche, per le donne e, in fin dei conti, per tutti coloro che guadagnano meno di lui.
Che quello Repubbicano sia il partito dei ricchi reazionari, in prevalenza bianchi, è ampiamente risaputo, ma le inclinazioni ideologiche che lo contraddistinguono non devono essere proclamate troppo apertamente per conservare quel poco di legittimità che rimane agli occhi degli elettori.
Come ha confermato un articolo apparso questa settimana sul New York Times, i leader repubblicani si trovano ad affrontare un dilemma per quanto riguarda l’approccio a Trump. Da un lato appare evidente il nervosismo per il possibile successo nelle primarie di un candidato che, nel caso dovesse correre per la Casa Bianca nelle elezioni del prossimo novembre, protrebbe causare una pesantissima sconfitta per il partito. Le conseguenze negative dell’effetto Trump potrebbero farsi sentire non solo sulle presidenziali ma anche sul voto per il Congresso e a livello locale, annullando i progressi fatti segnare dai repubblicani in questi anni.
D’altro canto, però, in pochi sembrano disposti ad assumersi il rischio di condurre un attacco frontale contro Trump, vista la sua predisposizione allo scontro, nonché all’insulto puro e semplice, che gli ha portato finora evidenti benefici invece di metterlo in difficoltà. Non solo, un’eventuale campagna anti-Trump dall’interno del partito rischierebbe di alienare ancor più l’elettorato Repubblicano e accentuare la corsa già in atto verso candidati ritenuti “outsider”.L’analisi del Times ha rivelato come un vero e proprio senso di panico sia ormai diffuso soprattutto tra i senatori che dovranno difendere i propri seggi in stati tradizionalmente in equilibrio tra Repubblicani e Democratici. Questo è il caso, ad esempio, dell’Illinois, del New Hampshire, della Pennsylvania, del Wisconsin e dell’Ohio.
In quest’ultimo stato, uno “stratega” del partito ha ricordato il precedente delle elezioni del 1964, quando a correre per la Casa Bianca per i Repubblicani fu l’ultra-conservatore Barry Goldwater, considerato su posizioni troppo estreme per attrarre un numero sufficiente di consensi. In quell’anno, infatti, Lyndon Johnson vinse con una maggioranza schiacciante e i Repubblicani furono trascinati nel baratro da Goldwater, perdendo ad esempio ben 36 seggi alla Camera dei Rappresentanti.
Il timore che la nomination possa andare a Trump fa correre brividi lungo la schiena a molti tra i vertici Repubblicani soprattutto per le potenziali ripercussioni sul fronte dei finanziamenti. Il senatore della South Carolina, Lindsey Graham, anch’egli candidato alla Casa Bianca, ha spiegato come un paio di sostenitori molto generosi gli abbiano manifestato recentemente la loro preoccupazione per la resistenza mostrata da Trump nei sondaggi, sollecitando il partito ad agire e lasciando probabilmente intendere che una sua vittoria nelle primarie potrebbe determinare uno stop alle donazioni per i candidati ad altre cariche.
Uno dei punti di forza di Trump sembra essere d’altra parte la possiblità da parte sua di sostenere il costo della campagna elettorale grazie alle proprie ingenti finanze e alle donazioni degli elettori normali. Ciò ha permesso al 69enne magnate di attaccare i suoi rivali nella corsa alla nomination su un punto molto delicato, vale a dire la loro dipendenza da finanziatori miliardari che esercitano un’influenza eccessiva sulla politica di Washington.
Ad ogni modo, in un recentissimo sondaggio diffusamente citato negli Stati Uniti, il gradimento di Trump è passato dal 24% al 27% nell’ultimo mese. A fare le spese della sua risalita è stato soprattutto l’ex neurochirurgo di colore, Ben Carson, altro “estraneo” della politica che fino a poche settimane fa era appaiato con Trump al primo posto nelle intenzioni di voto dei potenziali elettori delle primarie.
Carson sembra avere pagato non tanto una serie di commenti denigratori nei confronti degli immigrati, sostanzialmente ribaditi in forma più blanda durante una sua recente visita ai rifugiati siriani in Giordania, quanto la totale estraneità alle questioni di politica estera in un momento in cui le crisi internazionali sono tornate a trovare ampio spazio nel dibattito politico USA.
Per i giornali d’oltreoceano, ciò avrebbe favorito i due senatori di estrema destra, Marco Rubio della Florida e Ted Cruz del Texas, attestati secondo la stessa recente indagine attorno al 16-17%. Pur facendo parte del circolo più esclusivo dell’élite politica americana - il Senato di Washington, appunto - entrambi sono riusciti a costruirsi un’immagine artefatta di candidati anti-establishment, cavalcando la tendenza che sembra caratterizzare l’attuale ciclo elettorale.
Più che altro, comunque, la competizione Repubblicana indica il persistere di una certa volatilità, determinata indubbiamente dal fatto che l’inizio delle primarie resta ancora relativamente lontano, ma anche dalla sostanziale assenza di una vera e propria base elettorale su cui possono contare i vari candidati.Visto anche il carattere reazionario e talvolta apertamente razzista delle loro posizioni, nessuno degli aspiranti alla Casa Bianca può vantare un seguito popolare consistente. Gli eventuali progressi evidenziati nei sondaggi, ancorché riferiti a campioni ristretti di un bacino elettorale altrettanto limitato, sono dovuti così a pochi ricchissimi finanziatori e allo spazio decisamente sproporzionato rispetto al loro spessore che trovano sui media “mainstream”.
Il dato forse più significativo riscontrato finora, e che smentisce almeno in parte la tendenza appena descritta, è infine il flop della campagna di Jeb Bush. Considerato precocemente come il favorito d’obbligo per la nomination, l’ultimo rampollo di una delle famiglie più screditate d’America a correre per la Casa Bianca secondo gli ultimi dati raccoglierebbe un misero 5% tra gli elettori Repubblicani.
Pur essendo il candidato meglio finanziato tra quelli in corsa, almeno per ora l’ex governatore della Florida sembra scontare non solo il peso del suo cognome ma, anche e soprattutto, la fondamentale incapacità di rendere esteriormente accettabile un progetto politico ormai logoro e un passato non esattamente trascorso a combattere i poteri forti che decidono le sorti della “democrazia” americana.