di Michele Paris

Nelle ultime settimane, i leader di tre delle principali economie europee sono stati protagonisti di incontri ad altissimo livello con esponenti del governo cinese a riprova dei crescenti legami economico-finanziari tra Pechino e il vecchio continente. Questo processo di avvicinamento si sta evolvendo singolarmente in parallelo all’inasprirsi delle tensioni tra la Cina e gli Stati Uniti, tornate di recente al di sopra dei livelli di guardia in seguito a una nuova provocazione di Washington nel Mar Cinese Meridionale.

L’ultimo in ordine di tempo a visitare la Cina è stato il presidente francese, François Hollande, preceduto di alcuni giorni dalla cancelliera tedesca, Angela Merkel. Ancora prima, era stato il presidente cinese, Xi Jinping, a recarsi in Gran Bretagna, dove aveva ricevuto una caldissima accoglienza come quella riservata poco più tardi ai suoi ospiti europei.

La visita di Hollande ha seguito il tradizionale schema delle missioni occidentali di questi anni in Cina. Il leader socialista si è cioè presentato con una schiera di rappresentanti del business transalpino e ha presieduto alla firma di sostanziosi accordi commerciali e di altro genere per il valore di svariate decine di miliardi di euro. Soltanto una singola intesa nell’ambito dei rifiuti delle centrali nucleari ha superato i 20 miliardi di euro.

La delegazione tedesca aveva a sua volta sottoscritto accordi economici per una ventina di miliardi di euro, mentre a Londra il presidente Xi e il governo conservatore avevano concordato investimenti cinesi nell’economia britannica per oltre 100 miliardi. Sia con la Gran Bretagna sia con la Francia, inoltre, sono state gettate le basi per una più solida collaborazione in ambito finanziario, nel quadro dei tentativi di Pechino di creare mercati off-shore su cui scambiare la propria valuta.

In tutti i casi, le relazioni commerciali e finanziarie tra la Cina da una parte e, dall’altra, Francia, Germania e Gran Bretagna, hanno fatto segnare aumenti spesso esponenziali nell’ultimo decennio. La Germania resta il principale partner commerciale europeo della Cina, anche se, come fanno notare molti osservatori, il modello di sviluppo meno impetuoso che Pechino intende perseguire e la necessità di accedere ai mercati finanziari internazionali prefigurano un intensificarsi dei rapporti soprattutto con la Gran Bretagna nel prossimo futuro.

La questione dell’atteggiamento da tenere nei confronti della Cina indica dunque divisioni sempre più evidenti tra gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa. Quest’anno, proprio il governo britannico aveva preso una decisione che ha in qualche modo inaugurato in maniera ufficiale il convergere degli interessi economici europei con la strategia di espansione cinese.

Nel mese di marzo, Londra aveva per prima annunciato l’adesione come membro fondatore alla Banca Asiatica per gli Investimenti nelle Infrastrutture (AIIB) promossa da Pechino. Dopo la Gran Bretagna erano arrivate le adesioni di svariati altri paesi alleati degli Stati Uniti, nonostante le pressioni e il parere contrario dell’amministrazione Obama.

Emblematico di questi nuovi scenari è anche il caso della Francia. Oltre alla visita di Hollande in Cina, va rilevato il mancato appoggio pubblico da parte dell’Eliseo agli USA nell’ambito del recente scontro diplomatico tra Washington e Pechino, scaturito dalla decisione americana di inviare una propria nave da guerra all’interno dei limiti territoriali stabiliti dalla Cina al largo di un atollo rivendicato anche da altri paesi nel Mar Cinese Meridionale.

Più in generale, Parigi appare sempre più impaziente nei confronti degli Stati Uniti, la cui politica estera all’insegna del confronto con Cina e Russia si scontra con gli interessi strategici ed economici francesi. Significative in questo senso sono state le recenti dichiarazioni dell’ex presidente Sarkozy, il quale, dando probabilmente voce alle preoccupazioni non sempre espresse pubblicamente dal governo Socialista, ha condannato le sanzioni economiche applicate alla Russia dall’Europa - dietro pressioni americane - per la vicenda ucraina.

Com’è ovvio, a spingere verso una progressiva integrazione eurasiatica è anche e soprattutto Pechino, principalmente sotto forma della cosiddetta “Nuova Via della Seta”. Denominata anche “One Belt, One Road”, quest’ultima è una colossale iniziativa che include tra l’altro progetti per infrastrutture destinate a favorire la creazione di rotte commerciali che colleghino i mercati cinesi e quelli europei passando attraverso l’Asia centrale e il Medio Oriente.

Questo ambiziosissimo disegno cinese è da sempre osteggiato in maniera ferma dagli Stati Uniti, impegnati a impedire l’integrazione economica del continente europeo con una potenza rivale - come Cina o Russia - che possa esercitare la propria influenza sugli sconfinati e strategicamente cruciali territori centro-asiatici.

Queste dinamiche sono però in buona parte favorite proprio dagli Stati Uniti e dal loro riallineamento strategico verso l’Asia. Da qualche anno, la dottrina della “svolta asiatica” ha determinato un’offensiva economica, diplomatica e militare da parte di Washington che si traduce in una concreta minaccia nei confronti delle rotte commerciali marittime vitali per la Cina che attraversano l’Oceano Indiano.

Ciò ha spinto quindi Pechino o, quanto meno, una parte della classe dirigente del regime a guardare con estremo interesse alle rotte terrestri verso occidente e, di conseguenza, a cercare di costruire rapporti più profondi con i paesi europei.

Se la propaganda cinese non manca di sottolineare il livello qualitativo raggiunto dai rapporti con l’Europa, a Pechino vi sono allo stesso tempo ben poche illusioni circa gli ostacoli sulla strada verso la creazione di una vera e propria alleanza con il vecchio continente, nonostante gli enormi interessi economici in gioco.

I legami diplomatici ed economico-finanziari tra UE e USA restano ovviamente molto solidi, così come i vincoli militari assicurati dalla NATO. Inoltre, è altrettanto evidente che l’evoluzione dei rapporti internazionali che vedono la Cina protagonista difficilmente lasceranno indifferenti gli Stati Uniti.

Anzi, l’intensificarsi dei contatti tra la Cina e i paesi europei contribuisce all’irrigidimento delle posizioni americane nei confronti di Pechino, come risulta chiaro dagli eventi di questi ultimi giorni, con effetti destabilizzanti su scala globale.

La già ricordata provocazione americana nel Mar Cinese Meridionale della scorsa settimana ha suscitato la dura risposta da parte del regime cinese e ha avuto riflessi tutt’altro che rassicuranti anche sul biennale summit dei ministri della Difesa dell’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (ASEAN), in corso questa settimana a Kuala Lumpur, in Malaysia.

I paesi di quest’area vivono in maniera diretta le conseguenze della crescente rivalità tra la Cina e gli USA, in molti casi rispettivamente il loro principale partner commerciale e l’alleato strategico e militare più importante. All’interno dell’ASEAN, perciò, si manifestano tradizionalmente le tensioni tra le due superpotenze.

Come già accaduto nel recente passato, così, sullo sfondo delle persistenti provocazioni di Washington, della reazione di Pechino e delle divergenze circa i rapporti con Cina e USA tra i paesi membri, mercoledì i ministri ASEAN non sono riusciti ad accordarsi sul contenuto della consueta dichiarazione congiunta che suggella la fine dei lavori.

Il punto del contendere è stato l’inclusione nel comunicato di un riferimento alla situazione nel Mar Cinese Meridionale. Per la delegazione americana all’ASEAN, Pechino avrebbe insistito per omettere qualsiasi riferimento all’area contesa, mentre la Cina ha accusato indirettamente gli USA - e il Giappone - di voler forzare la mano ai paesi del sud-est asiatico per includere una dichiarazione che manifestasse preoccupazione per l’escalation della crisi nelle aree marittime contese.

La disputa ha visto alcuni paesi schierarsi a fianco di Washington in maniera chiara, come le Filippine e il Vietnam, mentre altri, come la Malaysia, hanno assunto un atteggiamento più cauto, ben attenti a valutare possibili impatti negativi sui loro rapporti economici con Pechino.

 

di Michele Paris

A meno di cinque mesi dalla peggiore performance elettorale da oltre un decennio, il partito islamista turco per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) del presidente, Recep Tayyip Erdogan, ha riconquistato la maggioranza assoluta nel Parlamento di Ankara grazie a una nettissima vittoria nel voto anticipato di domenica. I nuovi risultati sono dovuti in primo luogo al clima di tensione e paura alimentato ad arte dagli stessi vertici del partito al potere e, per quanto decretino la prosecuzione del governo monocolore in Turchia, difficilmente contribuiranno alla stabilizzazione di un paese diviso e segnato a fondo dalle scelte di politica estera dei suoi leader.

La nuova tornata elettorale era stata decisa dopo il voto del 7 giugno in seguito all’impossibilità di raggiungere un accordo tra l’AKP e almeno uno degli altri partiti per la formazione di un nuovo esecutivo di coalizione. A spartirsi ora i 550 seggi a disposizione saranno ancora quattro partiti, come nel giugno scorso, ma a cambiare sono gli equilibri tra queste formazioni. L’AKP ha recuperato qualcosa come quattro milioni di voti e più di otto punti percentuali, assestandosi a un 49,4% che si traduce in ben 316 seggi.

I risultati degli altri tre partiti spiegano alla perfezione il significativo recupero dell’AKP. Il Partito Popolare Repubblicano (CHP), di ispirazione laica e kemalista, non è riuscito a intercettare i consensi di coloro che sembravano dover voltare le spalle a Erdogan e al primo ministro, Ahmet Davutoglu. Il CHP si è fermato a poco più del 25%, cioè solo un lievissimo incremento dei propri voti rispetto a giugno, confermando le difficoltà ad affermarsi come alternativa all’AKP, non da ultimo a causa della scarsa credibilità delle proprie proposte in ambito economico alla luce di un passato come strumento della borghesia turca.

I voti riconquistati dall’AKP sono arrivati però da una parte degli elettori che nella scorsa tornata avevano appoggiato il Partito del Movimento Nazionalista (MHP) di estrema destra e il Partito Democratico Popolare (HDP) curdo. Il primo, dopo avere rifiutato un’alleanza di governo con l’AKP, è precipitato dal 16% a poco meno del 12%, mentre l’HDP è passato da un record del 13,2% a circa il 10%, appena sufficiente a superare l’antidemocratica soglia di sbarramento prevista dalla legge elettorale turca per l’ingresso in Parlamento.

Sul rilancio dell’AKP ha influito in maniera decisiva il deteriorarsi della situazione interna alla Turchia e nella regione mediorientale, con un’escalation di violenze la cui responsabilità va in gran parte attribuita al governo e al presidente Erdogan.

Il conflitto tra le forze di sicurezza turche e quelle del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) nelle aree sud-orientali del paese è ripreso dopo una tregua che aveva suscitato parecchie speranze per una risoluzione pacifica della questione curda. La guerra con il PKK, secondo alcuni, sarebbe stata voluta da Erdogan sia per creare un clima di emergenza e accreditare l’AKP come unica forza politica in grado di fronteggiarla sia per dividere il fronte curdo e minare la popolarità dell’HDP.

Tra questo partito e il PKK sono infatti apparse evidenti le divisioni, riflesso anche dell’ostilità di buona parte della popolazione curda alla ripresa degli attacchi contro il governo e le forze di sicurezza turche in un clima già esplosivo a causa della situazione in Siria. Molti elettori laici e della classe media hanno poi probabilmente ritenuto che l’HDP non avesse preso a sufficienza le distanze dalle violenze del PKK, ripiegando perciò sull’AKP, ritenuta l’unica forza in grado di garantire la sicurezza nel paese.

Sedi ed eventi di organizzazioni curde e del partito HDP sono stati inoltre bersaglio di attentati nei mesi scorsi, attribuiti dal governo quasi sempre allo Stato Islamico (ISIS) anche se molti vi hanno visto la mano dello stesso governo, sostenitore peraltro in maniera più o meno diretta dell’ISIS. L’episodio più grave era stato registrato il 10 ottobre scorso, quando un attacco suicida aveva fatto più di 100 morti nella capitale durante una manifestazione a favore del ritorno al dialogo tra il governo e la minoranza curda.

Il cupissimo clima venutosi a creare in Turchia che ha spianato la strada al nuovo successo elettorale dell’AKP è stato alimentato anche dalle centinaia di migliaia di rifugiati siriani presenti nel paese e intenzionati a raggiungere l’Europa.

Il recente accordo con l’Unione Europea che ha assegnato un ruolo importante ad Ankara nel bloccare i profughi in cambio di qualche miliardo di euro in aiuti può avere favorito Erdogan e il suo partito, tanto più che alla vigilia del voto la cancelliera tedesca Merkel era stata in visita in Turchia elogiando il governo dell’AKP.

Da non dimenticare sono infine i consueti metodi repressivi promossi da Erdogan. Oltre a usare la propria posizione, teoricamente super partes, per fare campagna elettorale a favore dell’AKP, il presidente turco e il suo partito hanno condotto una vera e propria guerra contro le rimanenti voci giornalistiche non allineate o vicine all’opposizione, come dimostra ad esempio la chiusura del gruppo editoriale Koza-Ipek pochi giorni prima del voto.

Erdogan sembra essere riuscito in sostanza a trasformare le elezioni anticipate in una sorta di referendum monotematico sulle misure di sicurezza da adottare e già adottate di fronte a una situazione di emergenza.

Nonostante il successo elettorale, Erdogan e la sua agenda politica e diplomatica rimangono fortemente impopolari tra ampie fasce della popolazione turca a causa delle evidenti tendenze autoritarie, del deteriorarsi dell’economia e dei preoccupanti sviluppi della crisi in Siria.

Il leader indiscusso dell’AKP avrà però ora a disposizione il nuovo mandato appena ottenuto per consolidare un sistema di governo ancora più autoritario, soprattutto se riuscirà ad aggiungere una manciata di voti a quelli a disposizione del suo partito in Parlamento per far approvare modifiche costituzionali di vasta portata, a cominciare dalla creazione di un sistema presidenziale.

Sul fronte curdo, invece, Erdogan potrebbe addirittura intensificare la guerra al PKK, oppure, secondo vari commentatori, decidere al contrario un ritorno al tavolo delle trattative, visto l’obiettivo ormai raggiunto di ridimensionare la rappresentanza parlamentare dell’HDP.

Le forze scatenate in questo ambito non saranno però facili da fermare e rischiano anzi di aggravare le tensioni regionali e non solo. Ankara si trova nel pieno di una guerra anche con la milizia curda siriana YPG (Unita di Protezione Popolare), colpita più volte con raid aerei oltreconfine nelle scorse settimane ma considerata dagli Stati Uniti come uno dei principali partner nella presunta guerra all’ISIS.

Oltre alle tensioni con Washington, vanno valutate quelle con paesi come Russia e Iran, cioè i due principali alleati di Damasco, mentre restano freddi i rapporti con Israele ma anche con l’Arabia Saudita dopo le divergenze sull’Egitto e l’appoggio garantito dalla Turchia al governo dei Fratelli Musulmani, rovesciato dai militari con il pieno appoggio di Riyadh.

Il sostegno assicurato da Ankara alle formazioni integraliste violente attive in Siria contro il regime di Assad ha infine destabilizzato l’area mediorientale, producendo anche in ambito economico conseguenze negative che vanno ad aggiungersi a quelle causate dagli stenti dell’Europa, ovvero il principale mercato dell’export turco.

La Turchia che si appresta a guidare anche per i prossimi quattro anni il presidente Erdogan e il governo del premier Davutoglu è in definitiva un paese immerso sempre più nelle contraddizioni ed esposto a pericolose tensioni sociali, aggravate da scenari regionali altrettanto minacciosi.

Che la leadership dell’AKP sia in grado di districarsi da tutti questi ostacoli dopo aver precipitato il paese nel caos rimane in forte dubbio, nonostante le manovre apparentemente vincenti che hanno consentito al partito islamista di incassare una nuova indiscussa maggioranza dopo gli stenti dello scorso mese di giugno.

di Michele Paris

L’instabilità politica in Portogallo seguita alle elezioni di inizio ottobre, rischia di prolungarsi ulteriormente dopo i più recenti sviluppi che già prospettano una crisi di governo per un esecutivo non ancora nato. Nel voto per il rinnovo del Parlamento di Lisbona, la coalizione di centro-destra al potere, composta dal Partito Social Democratico (PSD) e dal Centro Democratico Sociale-Partito Popolare (CDS-PP), aveva ottenuto il numero più alto di consensi ma si era vista sfuggire la maggioranza assoluta che le aveva permesso di governare negli ultimi quattro anni.

I partiti di sinistra e di centro-sinistra, invece, avevano conquistato complessivamente 122 seggi sui 230 totali ma, alla chiusura delle urne, il leader della principale formazione di opposizione - António Costa del Partito Socialista - aveva escluso un’intesa con le altre forze, lasciando intendere che l’ipotesi più probabile fosse la creazione di un governo di minoranza PSD/CDS-PP guidato dal primo ministro uscente, Pedro Passos Coelho.

Quest’ultima coalizione era stata punita dagli elettori portoghesi per avere implementato senza scrupoli la solita durissima ricetta imposta dall’UE e dai mercati finanziari in cambio di un pacchetto di “salvataggio” da circa 80 miliardi di euro. Se risulta impopolare tra la maggioranza degli elettori, il governo di Passos Coelho è al contrario gradito alla classe dirigente indigena e a livello internazionale, visto che si era impegnato a continuare a rispettare le prescrizioni all’insegna dell’austerity anche di fronte alla vasta opposizione nel paese.

Pochi giorni dopo le prime dichiarazioni di Costa, però, il Partito Socialista e le altre formazioni di sinistra - Partito Comunista (PCP), Verdi (PEV), Blocco di Sinistra (BE) - hanno annunciato a sorpresa il raggiungimento di un’intesa per far nascere un nuovo governo. Dal momento che queste formazioni dispongono di una maggioranza assoluta in Parlamento, la logica suggeriva che il presidente portoghese, il Social Democratico Anibal Cavaco Silva, avrebbe conferito l’incarico di primo ministro a António Costa.

Il capo dello Stato, al contrario, la settimana scorsa ha finito per assegnare nuovamente a Passos Coelho e alla sua coalizione di minoranza la responsabilità di formare il nuovo gabinetto. La decisione di Cavaco Silva è stata bollata da molti come una sorta di golpe, anche se il presidente si è giustificato facendo riferimento alla consuetudine portoghese di assegnare l’incarico di governo al partito con il maggior numero di seggi, nonché alle passate esperienze di governi di minoranza nel paese.

Inquietante è stata però la giustificazione fornita da Cavaco Silva, esposta oltretutto in diretta televisiva. Il presidente portoghese ha di fatto dichiarato inutile il voto popolare, visto che il desiderio di invertire le politiche di austerity diffuso nel paese va contro le incontestabili disposizioni delle istituzioni internazionali che detengono il controllo sul Portogallo, e non solo.

Cavaco Silva ha affermato che “questo è il peggior momento per un cambiamento radicale delle fondamenta della nostra democrazia”. Identificando la democrazia con la dittatura dei mercati, il presidente portoghese ha poi spiegato che, “dopo avere completato un oneroso programma di assistenza finanziaria con pesanti sacrifici, nei limiti dei miei poteri costituzionali, è mio dovere fare tutto il possibile per impedire che vengano inviati segnali sbagliati alle istituzioni finanziarie, agli investitori e ai mercati”.

Inoltre, per motivare la sua scelta, Cavaco Silva ha aggiunto che, dal ritorno alla democrazia, il Portogallo non ha mai avuto una coalizione di governo formata da partiti anti-europeisti, come lo sono il Partito Comunista e il Blocco di Sinistra, a confermare che l’unica strada percorribile rimane quella del rigore ordinata da Bruxelles.

Simili affermazioni mostrano in maniera inequivocabile la vocazione “democratica” di praticamente tutta la classe politica europea, per la quale risulta impossibile accettare una strada alternativa al rigore finanziario e ai sacrifici imposti a lavoratori e classe media. Non a caso, infatti, vari leader europei sono intervenuti nella crisi politica in atto a Lisbona, tra cui il premier spagnolo, Mariano Rajoy, e la stessa cancelliera tedesca, Angela Merkel, impegnata a far sapere che la prospettiva di un governo anti-austerity in Portogallo - sostenuto da una maggioranza scelta democraticamente dagli elettori - sarebbe “estremamente negativa”.

Lo scenario politico delineatosi e Lisbona è stato criticato dai partiti di centro-sinistra che hanno prospettato un voto di sfiducia per il nascente governo di Passos Coelho fin dalla sua prima apparizione in Parlamento. Il prossimo 9 novembre, il primo ministro incaricato e il suo gabinetto dovranno presentare il proprio programma di governo per i prossimi quattro anni, ma, in assenza di una maggioranza, potrebbero cadere già il giorno successivo.

Questa settimana, i leader del Partito Socialista e delle altre formazioni alleate hanno infatti annunciato che voteranno contro il governo di minoranza, rimettendo così le sorti del paese nelle mani del presidente. In previsione del voto di sfiducia, intanto, il centro-sinistra qualche giorno fa ha bocciato il candidato dei Social Democratici alla carica di presidente del Parlamento, eleggendo invece il Socialista Eduardo Ferro Rodrigues.

Con una crisi di governo precoce, Cavaco Silva potrebbe ricredersi e assegnare l’incarico di primo ministro al centro-sinistra mentre, in caso contrario, si aprirebbero scenari decisamente incerti. Per cominciare, la Costituzione portoghese prevede che tra un’elezione e l’altra debbano passare almeno sei mesi, ma un presidente al termine del suo mandato non può sciogliere il Parlamento. Cavaco Silva dovrà lasciare il suo incarico il prossimo gennaio, così che l’eventuale decisione di indire nuove elezioni dovrà essere presa dal suo successore, il quale però a sua volta sarà obbligato ad attendere sei mesi prima di fissare una data per il voto.

Un’ulteriore ipotesi da considerare, nel caso Cavaco Silva dovesse continuare ad opporsi a un incarico al Socialista António Costa, è che l’attuale governo uscente di centro-destra resti in carica con poteri limitati fino a che sarà costituzionalmente possibile andare alle urne. Questo ipotetico governo di transizione, però, senza una maggioranza parlamentare sarebbe praticamente paralizzato e impossibilitato a mettere in atto qualsiasi iniziativa politica o economica di rilievo.

Lo scontro in atto in Portogallo appare ad ogni modo significativo alla luce del fatto che, nonostante una campagna elettorale contro l’austerity e i diktat degli ambienti finanziari internazionali, il Partito Socialista e gli altri partiti di sinistra che dovrebbero entrare a far parte del governo hanno più volte assicurato di volere rispettare gli impegni finanziari presi con l’Unione Europea.

Inoltre, a negoziare il “bailout” da 79 miliardi di dollari per un Portogallo sull’orlo della bancarotta nel 2011fu proprio un governo Socialista, quello del premier José Socrates, il quale aveva in precedenza già implementato una serie di pesanti misure caratterizzate dall’aumento del carico fiscale e da tagli alla spesa pubblica.

A Bruxelles e a Berlino, evidentemente, dopo il faticoso accordo per la prosecuzione delle politiche di austerity in Grecia, si continua a temere che forze politiche anche solo moderatamente contrarie al rigore possano non tanto minare il predominio dei mercati, quanto alimentare speranze di cambiamento tra la popolazione e innescare una qualche mobilitazione contro la dittatura finanziaria che domina oggi in Europa.

Il muro contro muro a Lisbona, in ogni caso, è secondo alcuni più sfumato di quanto appaia a prima vista e, se così fosse, quella del presidente Cavaco Silva e del premier Passos Coelho potrebbe essere una tattica dilatoria. All’interno del Partito Socialista è infatti presente una fazione che si oppone all’alleanza con le sinistre e vede con favore la nascita di un governo di minoranza di centro-destra.

Il prolungarsi dello stallo politico, perciò, potrebbe portare ancor più allo scoperto quest’ultima fazione Socialista ed attrarre consensi e voti preziosi per il governo di minoranza di Passos Coelho, tanto più che il persistere della paralisi a Lisbona provocherebbe un crescendo di critiche e pressioni internazionali per trovare al più presto una soluzione che garantisca il ritirono alla “stabilità”.

di Michele Paris

In parallelo alle manovre diplomatiche in corso per esplorare una soluzione pacifica al conflitto siriano, l’amministrazione Obama sta preparando una nuova strategia di guerra che potrebbe prevedere l’impiego di forze di terra in Siria e in Iraq. Ufficialmente per combattere in maniera più efficace lo Stato Islamico (ISIS) ma in realtà come diretta conseguenza dell’intervento militare della Russia in Medio Oriente.

A dare l’annuncio dei possibili nuovi svilupppi è stato il numero uno del Pentagono, Ashton Carter, nel corso di una recente apparizione al Senato di Washington, durante la quale ha affermato che gli USA “non esiteranno ad appoggiare partner adeguati negli attacchi contro l’ISIS o a condurre missioni in maniera diretta”, sia con “bombardamenti aerei” sia con “azioni dirette sul campo”.

La notizia era stata anticipata da varie rivelazioni concesse appositamente dal governo ad alcuni dei principali giornali americani. Il Washington Post aveva ad esempio ipotizzato l’invio di membri delle Forze Speciali “embedded” con formazioni curde e dell’opposizione araba al regime di Assad nell’Iraq settentrionale e in Siria. I componenti di questi team dovrebbero agire da “consiglieri” militari dei gruppi a cui si unirebbero e facilitare i bombardamenti dell’aviazione americana.

Un’altra ipotesi allo studio è quella di utilizzare un certo numero di elicotteri da combattimento Apache. Il ricorso a questi velivoli, spiega il Wall Street Journal, comporterebbe un incremento notevole di personale USA in Medio Oriente, visto che sarebbero necessarie centinaia di altri soldati, tra piloti e addetti alla protezione e alla manutenzione dei mezzi. Attualmente, nel quadro della guerra all’ISIS, sono presenti in Iraq circa 3.500 soldati americani.

In maniera particolarmente insidiosa, anonimi esponenti dell’amministrazione Obama hanno distribuito alla stampa rassicurazioni circa il possibile aumento dell’impegno militare in Iraq e in Siria. La Reuters ha riportato le confidenze di due fonti governative che hanno garantito come la nuova strategia USA avrà obiettivi limitati in Iraq e in Siria, mentre non vi sarà alcun dispiegamento di massa di truppe da combattimento in nessuno dei due paesi.

Queste promesse appaiono difficilmente credibili, non solo perché gli Stati Uniti sono già di fatto impegnati a tutto campo nel complicato e ambiguo conflitto mediorientale, ma il lancio di nuovi piani di intervento, ancorché relativamente limitati, servono di solito a spianare la strada a un coinvolgimento maggiore delle forze armate americane negli scenari di guerra internazionali.

L’ipotesi più controversa e dalle conseguenze più gravi per imprimere una svolta allo scenario attuale rimane quella dell’imposizione di una no-fly zone sui cieli della Siria settentrionale. Uno scenario, quest’ultimo, che viene da tempo invocato soprattutto dalla Turchia e che trova molti sostenitori all’interno della classe dirigente di Washington, anche se, almeno ufficialmente, non alla Casa Bianca.

Oltre a rappresentare un’altra mossa illegale, visto che le probabilità di ottenere un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ONU sono pari a zero, una no-fly zone farebbe aumentare seriamente le possibilità di uno scontro diretto con le forze russe, impegnate nei bombardamenti contro i gruppi terroristi che operano in Siria in appoggio al governo leggitimo di Damasco.

Lo stesso Carter ha escluso che nell’immediato possa essere implemenentata una no-fly zone in Siria, ma ha lasciato intendere che questa è una delle ipotesi che il Pentagono continua a considerare per il futuro, nonostante richieda uno sforzo militare decisamente più consistente di quello attuale.

Tutte queste iniziative rappresentano ad ogni modo la reazione statunitense alla campagna militare russa in Siria, in seguito alla quale sono stati messi in piena luce tutti i tentennamenti e le ambiguità dell’approccio alla questione dell’ISIS da parte di Washington.

Che il governo e i militari USA abbiano in mente Mosca nel delineare le nuove strategie per la Siria e l’Iraq è apparso evidente proprio dalle parole del Segretario alla Difesa nell’audizione al Senato di qualche giorno fa citata in precedenza. Carter ha denunciato infatti l’aumentato impegno russo a fianco di Assad, mettendo in guardia anche dai recenti sviluppi relativi all’Iraq e che indicano un rafforzamento dei legami tra Mosca e Baghdad.

La fallimentare strategia americana in Medio Oriente, basata sull’appoggio a formazioni integraliste armate violente, tra cui l’ISIS, per operare il cambio di regime a Damasco, molto difficilmente potrà essere invertita. Anzi, con l’evolversi della situazione sembra moltiplicarsi il grado di confusione generata dalla volontà di dominio USA dell’intera regione.

Il segnale più recente in questo senso è stato il bombardamento operato questa settimana dall’aviazione turca sulle postazioni dell’Unita di Protezione Popolare curda (YPG) nel nord della Siria.

I raid sono giunti poco dopo la dichiarazione da parte del braccio politico della milizia - il Partito dell’Unione Democratica (PYD) - circa l’inclusione della città siriana di Tal Abyad, al confine con la Turchia, nella regione curda semiautonoma creata de facto dopo l’esplosione della guerra contro Assad.

Visti i legami tra il PYD e l’YPG con il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), Ankara teme un contagio delle spinte autonomiste o indipendentiste che si stanno diffondendo in Siria e, pur facendo formalmente parte della “coalizione” anti-ISIS promossa dagli USA, vede come minaccia di gran lunga superiore le formazioni curde rispetto ai gruppi terroristi attivi in Siria, che ha peraltro armato e finanziato.

La milizia YPG è però uno dei principali partner “sul campo” degli Stati Uniti in Siria e continua a essere identificata come una delle formazioni più efficaci nella guerra all’ISIS, tanto che buona parte delle decine di tonnellate di armi recentemente paracadutate dagli americani in territorio siriano sembra essere finita nelle mani dei combattenti curdi.

A complicare ulteriormente il quadro c’è infine il binario diplomatico che, paradossalmente, ha fatto registrare qualche apparente passo avanti nelle settimane seguite all’intervento russo in Siria. Infatti, a inizio settimana gli Stati Uniti hanno acconsentito per la prima volta a invitare l’Iran ai colloqui di pace sulla Siria che si terranno a Vienna venerdì. All’invito, Teheran ha risposto nella giornata di mercoledì, comunicando la presenza nella capitale austrica del ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif.

Nonostante l’impegno militare in aumento, i negoziati di pace vengono perseguiti dagli Stati Uniti sia in risposta alle pressioni internazionali per una soluzione politica alla crisi sia per tenere aperto un canale alternativo nell’impasse mediorientale in presenza di scarsi progressi sul campo e, comunque, di persistenti divisioni sulla questione siriana all’interno della classe dirigente USA.

Al di là dei presunti progressi diplomatici, in ogni caso, l’opzione militare continua a risultare dominante, mentre le trattative, ancora in fase embrionale, dovranno superare ostacoli formidabili per mandare in porto una transizione pacifica a Damasco, primo fra tutti la totale divergenza di interessi tra la Russia e l’Iran, da una parte, e, dall’altra, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e nel mondo arabo.

di Vincenzo Maddaloni

Berlino. Parlare di Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), l’accordo transatlantico di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti e dire che ci avvelenerà, poiché liberalizzerà in Europa il commercio delle sostanze chimiche nocive per l’uomo e l’ambiente, non sembra affatto esagerato.

Anche perché in fatto di standard ambientali e sanitari gli Stati Uniti sono decisamente di manica molto larga, da sempre. E quindi, ogni volta che se ne parla torna in mente la mistura di erbicidi e di defolianti del micidiale agente Orange, che piovve sui quattro milioni e ottocento mila vietnamiti tra il 1961 e il 1965. Tant'è che a distanza di decenni, ancora troppa gente vive in realtà contaminate e si nutre con cibi infetti. Moltissimi figli delle persone colpite soffrono di malattie e di malformazioni.

Dagli effetti dell’Agente Orange dipende - ancora oggi - la sorte degli uomini e delle donne in Vietnam e dei veterani negli Stati Uniti. La vita di molte persone s’è accorciata, altre la consumano nella malattia, nella disabilità, nella disperazione. Quando si dice che l'America è  sempre di “manica larga”, significa che in guerra o in pace, essa non cambia in  nulla. Infatti, nemmeno all'11° ciclo di negoziati - a porte chiuse - del Ttip che si è concluso venerdì 23 ottobre a Miami, in Florida sembra aver dato delle risposte rassicuranti su questo tema, sebbene il settore della chimica sia uno dei più pericolosi da liberalizzare.

Perché l'Ue è ancora esitante? Eppure parla chiaro l'ultimo rapporto di Friends Of the Earth Germany, secondo il quale con l'approvazione del trattatato, i consumatori nel Vecchio continente potrebbero essere esposti ad agenti chimici cancerogeni. Infatti, con l'entrata in vigore del Ttip verrebbe smantellato il Reach, il regolamento sulla registrazione, la valutazione, l'autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche. adottato a livello europeo, che impedisce finora la commercializzazione di oltre mille e trecento additivi chimici nella cosmetica e vieta più di ottanta pesticidi. Tutte sostanze legali, invece, negli Stati Uniti.

Si tenga a mente che il libero scambio regolamentato dal Ttip porterebbe ad un aumento delle esportazioni reciproche, includendo sicuramente anche questi prodotti benché dagli europei giudicati cancerogeni. Naturalmente, quel che si chiama “il principio di precauzione” verrebbe aggirato con l’adozione del “mutuo riconoscimento”, che obbliga all’accettazione reciproca dei prodotti fabbricati dal partner commerciale, anche se le prescrizioni sono diverse da quelle di ciascuna Nazione.

Insomma, l'Europa avrebbe tutto da perdere e le grandi Multinazionali tutto da guadagnare. Per questo sabato 9 ottobre a Berlino, la sinistra tedesca era scesa in piazza. Duecentocinquanta mila persone erano passate davanti alla porta di Brandeburgo, reggendo cartelli contro il Ttip e sventolando le bandiere della Confederazione dei Sindacati tedeschi, la Deutscher Gewerkschaftsbund (Dgb), ma anche quelle rosse con la falce e martello e  il pugno alzato.

Tuttavia i grandi media italiani a cominciare dalla televisione avevano dedicato poche immagini e poco spazio a quell'evento. Come del resto è avvenuto con l'incontro di Miami: soltanto poche righe di cronaca e alcun commento. E in Italia non c'è giornale di grande tiratura  che sostenga con vigore la battaglia contro il Ttip, facendone una campagna vera e propria.

Eppure stiamo parlando di un Trattato che è un vero e proprio attacco alla democrazia. Basta leggersi le “Risoluzioni delle controversie tra investitori e Stato” (Isds) che autorizzano le aziende a querelare i governi nel caso in cui le loro politiche determinassero una perdita dei loro guadagni. Tradotto in pratica significa che le multinazionali possono invalidare le leggi approvate dai governi democraticamente eletti.

Infatti, oltre che premiare l'apertura dei mercati ai servizi, una delle caratteristiche centrali degli accordi di libero scambio, come lo è il Ttip,  è la loro capacità di incidere efficacemente sulle liberalizzazioni e le privatizzazioni - passate e future - indipendentemente da quello che sia l'orientamento del governo liberamente eletto o quello che sia il mandato o politico ricevuto.

Il settore della sanità pubblica è uno degli obiettivi principali dei lobbisti delle multinazionali che sostengono il Ttip e che sperano di capitalizzare la crescente spesa sanitaria guidata dall'invecchiamento della popolazione sia in Europa che negli Stati Uniti, dal momento che i settori della sanità pubblica continuano a soffrire per i continui tagli ai finanziamenti imposti dai governi in carica per far quadrare i bilanci.

Cosicché il Ttip permetterà agli investitori domiciliati in Nord America di sfruttare le  liberalizzazioni già intraprese nei settori della sanità pubblica in Europa, per  imporre ulteriori aperture del mercato e per mettere mano sulle privatizzazioni passate. Com’è stato ben spiegato dal  settimanale economico inglese “The Economist”, lo Isds consegna alle corporations nell’UE e negli USA il potere di denunciare i governi di fronte a un tribunale di avvocati aziendali. Potranno, inoltre, contestare le leggi che non gradiscono e anche ricevere un risarcimento milionario se pensano che quest’ultime possano influenzare i loro "profitti futuri", come per esempio vietare la pubblicità delle sigarette, tutelare l'ambiente o prevenire una catastrofe nucleare.

Un altro esempio? L'azienda del tabacco Philip Morris ha denunciato l’Australia e l’Uruguay, con trattati simili al Ttip, per i loro tentativi di scoraggiare il fumo. Gli Stati Uniti intanto hanno già in mente di far togliere tutti gli avvertimenti contro il fumo sui pacchetti delle sigarette che, a Ttip siglato, saranno in vendita anche in Europa.

Naturalmente le multinazionali del tabacco si sono cautelate con normative ormai collaudate, molto simili a quelle che negarono ai soldati americani veterani del Vietnam l’invalidità da avvelenamento con la diossina, e quindi sono stati privati delle cure mediche, delle medicine e di tutto quello che rientra nell’assistenza pubblica o nei loro contratti con le compagnie di assicurazione.

In un mondo caratterizzato da una competizione globale sempre più dura, senza proposte credibili sul piano della crescita, e con le misure espansive di tipo keynesiano tradizionale che si presentano ardue da praticare nel contesto attuale, c'è da chiedersi se la minaccia di essere dominati in un futuro molto prossimo, dalla “legge” delle multinazionali diventi veramente concreta. Dopotutto anche il sostegno di alcuni sindacati, terrorizzati dalla legislazione sfavorevole, non appare sufficiente per accantonare questa tragedia.

Eppure il Ttip - è provato - è un distruttore della democrazia. Va combattuto. In Germania la Sinistra ha mobilitato la società civile che, sebbene spesso ce ne si dimentichi, è il “mandante” vero della politica, è la ragione per cui la politica esiste. Malauguratamente in Italia la politica non la tiene in gran conto. Come il Ttip, del resto. 











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