di Michele Paris

L’ennesimo episodio di violenza contro un cittadino di colore per mano della Polizia americana sta gettando nel panico l’amministrazione democratica della città di Chicago, guidata dall’ex capo di gabinetto del presidente Obama, Rahm Emanuel. La vicenda in questione riguarda in realtà un assassinio avvenuto più di un anno fa, anche se accuse, polemiche e proteste popolari sono scoppiate solo dopo la recente pubblicazione dell’autopsia sul corpo della vittima e, soprattutto, di un filmato registrato da un’auto della Polizia della metropoli dell’Illinois che documenta l’accaduto e che le autorità avevano cercato in tutti i modi di tenere nascosto.

Il video mostra come l’agente Jason Van Dyke la sera del 20 ottobre 2014 avesse sparato ben 16 colpi di pistola, tra cui la maggior parte dall’alto verso il basso, contro il 17enne Laquan McDonald. Quest’ultimo, dopo una serie di eventi non ancora chiariti, stava camminando al centro di una strada a quattro corsie e si stava chiaramente allontanando da Van Dyke e dai suoi colleghi senza evidenziare alcun comportamento minaccioso.

La ricostruzione visiva degli ultimi secondi di vita di McDonald ha smentito completamente la versione fornita dalla Polizia dopo la sua uccisione più di dodici mesi fa. In quell’occasione, il portavoce di un sindacato della Polizia di Chicago aveva sostenuto che il giovane afro-americano si stava dirigendo verso l’agente Van Dyke con la chiara intenzione di assalirlo.

Un comunicato del Dipartimento di Polizia della città raccontava invece di come lo stesso McDonald avesse ignorato l’ordine degli agenti di gettare a terra un coltello che teneva minacciosamente tra le mani. Secondo l’ufficio del procuratore della contea di Cook che sta conducendo le indagini, sulla scena era stato ritrovato un coltello con una lama di quasi 8 centimetri riposta però nella propria custodia. Alcuni giornali, citando informazioni provenienti dalla Polizia, avevano inoltre riportato che McDonald era stato ucciso da un singolo colpo di arma da fuoco al petto.

Subito dopo l’esecuzione di quest’ultimo, l’amministrazione comunale e i vertici della Polizia di Chicago hanno iniziato un’operazione di insabbiamento durata 13 mesi e scoperta solo grazie agli sforzi di due giornalisti free-lance. Attraverso cause legali, i due reporter sono riusciti a ottenere i risultati dell’autopsia del medico legale, che rilevava appunto 16 fori di proiettile sul corpo di McDonald, e la diffusione del filmato.

Le nuove prove hanno subito innescato manifestazioni spontanee di protesta nelle strade della città, mentre l’agente Van Dyke è stato inevitabilmente arrestato con l’accusa di omicidio di primo grado. Gli sviluppi degli ultimi giorni hanno lasciato tuttavia in sospeso più di una questione relativa alla responsabilità di coloro che hanno tentato di coprire l’agente assassino, con un approccio a una simile tragedia comune peraltro a praticamente tutte le città americane interessate dagli oltre mille omicidi che in media ogni anno vengono commessi per mano della Polizia.

Ad esempio, il filmato che il Dipartimento di Chicago ha dovuto rendere pubblico risulta insolitamente senza audio. Secondo la stessa Polizia, le telecamere installate sulle auto degli agenti sono in grado di registrare anche le tracce audio, ma, singolarmente, nella serata del 20 ottobre 2014 i dispositivi di tutte le vetture presenti sul luogo dell’assassinio di McDonald sarebbero stati interessati dallo stesso guasto tecnico.

Un testimone che era apparso di fronte al Gran Jury incaricato dell’indagine sulla sparatoria aveva poi ipotizzato la possibile manipolazione di un video di sorveglianza da parte della Polizia. L’uomo era il direttore di un Burger King nei pressi del luogo sove sono avvenuti i fatti e aveva affermato che alcuni agenti erano entrati nel suo ristorante chiedendo di visionare il nastro della telecamera di sorveglianza.

L’analisi delle immagini era durata quasi due ore e, successivamente, quando gli impiegati del Burger King avevano a loro volta guardato il filmato avrebbero riscontrato un buco di 90 minuti in concomitanza con l’orario nel quale Laquan McDonald è stato ucciso. La telecamera era posizionata in modo tale che non sarebbe stata in grado di registrare l’esecuzione, ma avrebbe potuto forse chiarire le circostanze che hanno portato al drammatico epilogo. Il procuratore della contea aveva comunque assicurato che il nastro era stato esaminato accuratamente durante l’indagine e non erano state riscontrate manipolazioni.

Dopo che il video proveniente dall’auto della Polizia ha fatto il giro degli Stati Uniti e non solo, le pressioni sul sindaco democratico di Chicago, Rahm Emanuel, sono cominciate a salire. Tanto più che il veterano degli ambienti politici e finanziari dell’Illinois e di Washington aveva favorito il raggiungimento di un accordo con la famiglia del giovane assassinato, secondo il quale la sua amministrazione accettava di sborsare cinque milioni di dollari a patto che il filmato fosse rimasto segreto.

Il patteggiamento era avvenuto una settimana dopo la rielezione di Emanuel grazie alla vittoria di misura nel secondo turno delle elezioni, avvenuto il 7 aprile scorso. Durante la complicata campagna elettorale, il sindaco si era anche adoperato per non far trapelare la notizia dell’esistenza del filmato che documentava l’omicio di McDonald a opera della Polizia.

Per salvare, almeno per il momento, la sua poltrona, martedì Emanuel si è visto costretto ad annunciare il licenziamento del capo della Polizia di Chicago, Garry McCarthy, con la motivazione che quest’ultimo non godeva ormai più della fiducia degli abitanti della città. La decisione, secondo i giornali USA, sarebbe il sintomo della situazione estremamente delicata del sindaco, abituato a tenere in massima considerazione i buoni rapporti con i suoi fedelissimi e poco propenso a sacrificarli per i propri interessi di carriera.

Il più che probabile coinvolgimento di Emanuel nei tentativi di occultare le responsabilità dell’agente di Polizia che ha ucciso Laquan McDonald ha fatto comunque in modo che in molti continuino a chiederne le dimissioni. L’ex uomo di fiducia di Obama alla Casa Bianca, che ora esprime rammarico per la morte del 17enne di colore, fino a poche settimane fa non esitava a mostrarsi strenuo difensore della Polizia, denunciando anzi i presunti effetti deleteri delle proteste contro i metodi violenti delle forze dell’ordine registrate in varie località degli Stati Uniti.

L’indagine sulla morte di McDonald è comunque ancora in corso, ha fatto sapere la Procura, lasciando intendere che nel prossimo futuro potranno essere annunciate nuove incriminazioni, magari legate ai tentativi di insabbiamento. Un’eventuale condanna per ostruzione della giustizia comporta una pena massima pari a 20 anni di detenzione e una sanzione da 250 mila dollari.

Rahm Emanuel, in ogni caso, appare ben intenzionato a resistere alle pressioni e, per provare a sviare le accuse nei suoi confronti, dopo avere sollevato dal proprio incarico il capo della Polizia di Chicago, ha creato anche una speciale “task force” per indagare sui metodi delle forze dell’ordine della città.

Questa commissione dovrà preparare un rapporto entro il prossimo mese di marzo, anche se quella presa dal sindaco è una tipica iniziativa della classe dirigente americana per dare l’impressione di voler agire contro malefatte portate a conoscenza del pubblico ma che ha in realtà come vero obiettivo quello di evitare il coinvolgimento dei veri responsabili dell’accaduto.

In attesa della nomina di un nuovo capo della Polizia, Emanuel ha scelto come rimpiazzo temporaneo del rimosso Garry McCarthy il suo vice, John Escalante. Quest’ultimo è in servizio da quasi tre decenni in un Dipartimento che è considerato tra i più corrotti, violenti e indisciplinati degli Stati Uniti. A partire dal 2004, infatti, la città di Chicago ha speso qualcosa come 500 milioni di dollari per risarcire le vittime degli abusi della Polizia.

La violenza della Polizia USA è comunque una piaga che interessa tutto il paese e minaccia non solo i cittadini di colore. La brutalità e il ricorso a metodi repressivi, spesso simili a quelli impiegati dalle Forze Armate americane all’estero, sono legati alla necessità di contenere le tensioni sociali esplosive che caratterizzano una società che ha raggiunto livelli di disuguaglianza abnormi a causa delle politiche “pro-business” messe in atto sia a livello nazionale che locale.

In questo senso, l’amministrazione di Chicago, guidata dall’ex banchiere d’investimenti Rahm Emanuel, appare emblematica. L’ex capo di gabinetto di Obama ha infatti presieduto all’implementazione di pesanti misure anti-sociali in questi anni, come la chiusura forzata di decine di scuole pubbliche nei quartieri più disagiati della città dell’Illinois.

di Mario Lombardo

L’imminente voto parlamentare in Gran Bretagna per autorizzare il governo Cameron ad allargare i bombardamenti aerei contro l’ISIS/Daesh al territorio siriano ha nuovamente evidenziato le profonde divisioni che attraversano il Partito Laburista sotto la guida del nuovo leader di “sinistra”, Jeremy Corbyn. La decisione presa lunedì di lasciare libertà di coscienza ai propri deputati nel voto sulla guerra in Medio Oriente ha mostrato però soprattutto la vera natura dello stesso Labour, la cui distanza incolmabile dai suoi potenziali elettori ha assicurato un altro successo alle forze di destra in Gran Bretagna.

La capitolazione della leadership laburista appare ancora più clamorosa se si considera che il Partito Conservatore non disponeva probabilmente dei voti sufficienti per fare approvare la risoluzione che consentirà ai caccia britannici di operare raid aerei sulla Siria. Cameron, infatti, dopo avere sfruttato gli attentati di Parigi del 13 novembre scorso per rispolverare la propria agenda militarista in Medio Oriente, aveva affermato che un voto su tale questione alla Camera dei Comuni sarebbe stato chiesto solo se ci fosse stata la certezza di avere i numeri necessari per l’approvazione.

Sul fronte laburista, Corbyn si era detto fermamente contrario alle bombe sulla Siria ma questa posizione è apparsa da subito in contrasto con quella sostenuta dalla maggioranza dei membri del suo governo-ombra, orientati a votare a favore della risoluzione di guerra avanzata dal primo ministro.

Per cercare di imporre la propria volontà sul resto del partito, venerdì scorso il leader laburista aveva pubblicato una lettera aperta nella quale ribadiva la sua contrarietà ai bombardamenti in Siria. Il primo ministro non era stato in grado di portare argomenti convincenti a favore dell’allargamento dell’impegno militare di Londra e, nella giornata di domenica, Corbyn aveva poi rivendicato il diritto del leader a imporre la linea del partito su una questione così delicata.

Queste iniziative di Corbyn avevano però sollevato un’ondata di polemiche tra le fazioni del Labour che vedono con estremo sospetto il nuovo leader del partito. Lo stesso Corbyn, verosimilmente, dietro le quinte stava peraltro già preparando la resa, sotto forma di un accordo negoziato con il numero due del partito, Tom Watson, e il ministro-ombra degli Esteri, Hillary Benn, per lasciare libertà di coscienza ai deputati laburisti.

A nulla era servita anche la presentazione di una recentissima consultazione tra circa 100 mila iscritti al partito che mostrava come il 75% di essi si fosse dichiarato contrario alla guerra in Siria. Le riunioni del governo-ombra e dei membri del Parlamento laburisti si sono concluse alla fine con l’esito auspicato dalla destra del partito, smaniosa di dare la propria approvazione a una nuova avventura bellica della Gran Bretagna.

In cambio, Corbyn ha ottenuto la possibilità di emettere una patetica quanto inutile dichiarazione che stabilisce la contrarietà alla guerra in Siria come posizione ufficiale del Partito Laburista. In maniera altrettanto misera, Corbyn ha indirizzato a Cameron una richiesta per spalmare su due giorni il dibattito sulla risoluzione di guerra. Il primo ministro Conservatore ha però respinto l’istanza, limitandosi ad allungare di qualche ora la discussione in aula, la quale sarà seguita da un voto dall’esito scontato già nella serata di mercoledì.

Secondo i giornali britannici, tra i 10 e i 15 deputati della maggioranza dovrebbero votare contro la risoluzione presentata dal loro stesso leader. Defezioni di questa portata avrebbero messo a serio rischio l’approvazione, ma, grazie alla resa di Corbyn, addirittura un centinaio di deputati laburisti potrà correre in soccorso del governo e garantire il passaggio della risoluzione di guerra.

L’esito del dibattito interno al Labour ha inoltre provocato non pochi malumori tra gli stessi sostenitori di Corbyn, sia nel partito sia tra le organizzazioni che gravitano attorno ad esso, come il potente sindacato Unite e il gruppo pacifista Stop the War Coalition, di cui il leader laburista è stato presidente fino a poche settimane fa.

Com’è accaduto in varie altre occasioni in questi primi mesi della dirigenza Corbyn, il neo-leader laburista ha dunque voluto nuovamente evitare lo scontro con l’opposizione interna al partito, formata in buona parte da seguaci dell’ex premier e potenziale criminale di guerra, Tony Blair.

La volontà di Corbyn di sottrarsi a una sorta di resa dei conti interna e di cedere sostanzialmente a una manciata di deputati guerrafondai profondamente screditati e che godono di una relativa popolarità solo sui media ufficiali, può apparire a molti incomprensibile. Infatti, a settembre Corbyn era stato eletto con una maggioranza schiacciante dai simpatizzanti e dagli iscritti al Labour proprio per le sue credenziali di “sinistra”.

Una volta assunta la guida del partito, però, Corbyn ha tutt’al più difeso in maniera blanda le sue posizioni, privilegiando il compromesso con una maggioranza interna ostile e pronta fin da subito a boicottare la nuova leadership. La prova di questa strategia perdente si è avuta con le nomine dei membri del governo-ombra, tra i quali figurano numerosi nomi di irriducibili oppositori di Corbyn e della sinistra del partito.

Nel caso del voto sulla guerra in Siria, forte di un consistente mandato popolare, Corbyn avrebbe indubbiamente potuto imporre la decisione di votare contro il governo Conservatore, costringendo i suoi rivali interni a sfidare il loro stesso partito con una mossa politicamente rischiosa.

La stessa minaccia, prospettata fin dalla sua elezione, di adottare una qualche iniziativa per rimuovere Corbyn sarebbe stata inoltre difficilmente percorribile, visto che l’opposizione interna al Labour avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di portare a termine un golpe contro un leader eletto a larghissima maggioranza allo scopo di allineare il partito alle posizioni dei Conservatori.

Quella andata in scena lunedì a Londra è quindi una pesante sconfitta per la leadership di Jeremy Corbyn ma, soprattutto, dimostra l’illusione, avanzata da quest’ultimo, di poter trasformare dall’interno il Labour in un partito autenticamente progressista dopo un lunghissimo processo degenerativo segnato dall’asservimento al capitalismo britannico e alle sue ambizioni imperialiste.

In verità, contro Corbyn si erano da subito schierate forze formidabili, a cominciare dall’apparato militare e della sicurezza nazionale, giunto a minacciare apertamente la ribellione nel caso di un futuro successo elettorale laburista che avrebbe portato il nuovo leader del partito alla guida del governo britannico.

Come si è visto, anche all’interno del Labour stesso l’opposizione alla linea politica teorica della nuova leadership continua a essere fortissima, ma Corbyn ha mostrato da subito scarso interesse a fare l’unica mossa che avrebbe potuto garantire una minima possibilità di successo al suo progetto politico, ovvero fare appello alla mobilitazione di centinaia di migliaia di elettori che lo hanno scelto per guidare il partito dopo il culmine della deriva destrorsa negli anni del blairismo.

Se Corbyn e i suoi sostenitori hanno perciò evitato per il momento la guerra civile all’interno del Labour attorno all’autorizzazione della campagna militare in Siria, l’arrendevolezza mostrata ancora una volta dalla nuova leadership potrà fare ben poco per contratare il persistente dominio sul partito dei suoi oppositori di destra.

di Michele Paris

Mentre l’Unione Europea al termine di una riunione di emergenza nel fine settimana annunciava un oneroso accordo con il governo della Turchia per tenere gli immigrati fuori dai confini del vecchio continente, in quest’ultimo paese andava in scena l’ennesimo gravissimo giro di vite sui diritti democratici in nome delle manovre strategico-militari condotte dal presidente Erdogan e dal primo ministro Davutoglu. Un’intesa che era già stata prefigurata alcune settimane fa è stata suggellata a Bruxelles, dove i vertici UE hanno confermato il pagamento ad Ankara di una cifra pari a tre miliardi di euro che, nelle parole della cancelliera tedesca Merkel, dovrebbe contribuire a “far restare i migranti nella regione [mediorientale]” e, soprattutto, fuori dall’Europa.

Oltre al denaro, l’Europa intende offrire alla Turchia la ripresa dei vertici bilaterali, ma anche un’accelerazione sull’abolizione del visto d’ingresso nei paesi UE per i cittadini turchi e il ritorno al tavolo delle trattative per l’ingresso a pieno titolo di Ankara nell’Unione.

L’accordo, al di là delle rassicurazioni, dà in sostanza carta bianca a un regime sempre più autoritario per contrastare i flussi migratori, con modalità che, quasi certamente, provocheranno un numero maggiore di morti e il dilagare delle violazioni dei diritti umani di coloro che fuggono da situazioni disperate, la cui responsabilità, per quanto riguarda soprattutto la Siria, è da attribuire peraltro proprio alla Turchia e ai governi occidentali.

Se la decisione dell’UE risponda a un’illusoria convinzione che Erdogan sia in grado o abbia la volontà di stoppare gli immigrati diretti in Europa, sia pure con metodi repressivi, o risulti piuttosto un costoso espediente per favorire un’escalation del conflitto in Siria non appare del tutto chiaro. Quel che è certo, però, è che difficilmente i governi europei e i burocrati non eletti di Bruxelles siano all’oscuro sia della deriva autoritaria del governo Erdogan-Davutoglu sia dei metodi proposti da questi ultimi per fermare l’esodo di profughi dalla Siria.

Lo stesso presidente Erdogan, nel corso di una visita a Bruxelles ai primi di ottobre, aveva ad esempio esposto “tre passi” da compiere per risolvere la crisi migratoria in Medio Oriente. Il contenuto di tutte e tre le iniziative (illegali) smascherava in realtà le intenzioni di un governo molto più interessato a perseguire il cambio di regime a Damasco, visto che l’addestramento e la fornitura di armi all’opposizione anti-Assad, la creazione di una “zona di sicurezza” lungo il confine con la Turchia e l’imposizione di una “no-fly zone” nella stessa area non farebbero altro che alimentare ulteriormente il caos in Siria.

Il denaro che sarà erogato dall’Unione Europea potrebbe così essere impiegato da Ankara a questi scopi, anche se la presenza della Russia oltre il confine meridionale rende per il momento complicate le ultime due proposte di Erdogan. Per questa ragione, il governo turco potrebbe finire soprattutto per intensificare il proprio sostegno finanziario, militare e logistico ai gruppi armati in Siria, inclusi quelli di orientamento jihadista come lo Stato Islamico (ISIS/Daesh).

Ad ogni modo, l’imbarazzo generato dall’accordo da tre miliardi di euro tra Bruxelles e Ankara è stato tale che quasi tutti i media ufficiali in Occidente hanno dovuto dedicare almeno un breve commento sull’apparente contraddizione tra la difesa dei valori democratici che guiderebbe le politiche dell’Unione e il deterioramento del clima democratico in Turchia.

Un qualche imbarazzo lo ha mostrato la stessa Merkel, quando, alla domanda di un giornalista curdo circa le violazioni dei diritti umani che si stanno moltiplicando sotto il governo dell’AKP, non avendo risposte adeguate a portata di mano, ha replicato che “questo argomento non è stato discusso a lungo” durante il vertice UE.

Nonostante la poca sorprendente indifferenza per l’argomento diritti umani della cancelliera tedesca, un qualche approfondimento degli eventi dei giorni scorsi in Turchia da parte dei governi dell’Unione sarebbe stato illuminante. Se non altro, ciò avrebbe potuto rappresentare un promemoria sulla doppiezza delle politiche di Bruxelles, caratterizzate da un lato da sanzioni a un paese come la Russia, intervenuta in Ucraina orientale indubbiamente per difendere i propri interessi ma comunque in risposta alla minaccia rappresentata dall’installazione di un regime golpista a Kiev da parte di Washington e Berlino, e dall’altro da una pioggia di denaro su un governo, come quello turco, responsabile di una lunga serie di violazioni dei diritti umani e delle norme del diritto internazionale.

Le vicende di due autorevoli giornalisti e di tre alti ufficiali turchi hanno infatti portato nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale le tendenze repressive di Erdogan e del suo governo. Giovedì scorso, il direttore e il responsabile della sede di Ankara del quotidiano Cumhuriyet, rispettivamente Can Dündar e Erdem Gül, sono stati arrestati dopo un lungo interrogatorio a Istanbul per avere pubblicato nel mese di maggio alcune immagini che documentavano automezzi carichi di armi inviati in Siria sotto la supervisione dei servizi segreti turchi (MIT).

Le accuse formulate dalla giustizia turca nei confronti dei due giornalisti sono sbalorditive e includono: spionaggio, rivelazione di documenti riservati e affiliazione a un’organizzazione terroristica. Secondo il giornale turco il materiale era diretto verso alcuni gruppi fondamentalisti dell’opposizione siriana, com’è noto utilizzati da tempo dalla Turchia per cercare di abbattere il regime di Assad a Damasco.

La Gendarmeria turca, ovvero la sezione delle forze armate che si occupa dell’ordine pubblico interno, nel gennaio del 2014 aveva intercettato in due occasioni alcuni veicoli pesanti in seguito a soffiate su possibili carichi illegali di armi da trasferire in Siria. Il governo, da parte sua, aveva smentito questa accusa, sostenendo che gli automezzi in questione trasportavano carichi “umanitari” destinati ai ribelli siriani di etnia turcomanna.

Accuse di spionaggio e di tradimento sono state dunque rivolte ai due giornalisti di Cumhuriyet, ma anche ai vertici della Gendarmeria turca che avevano autorizzato l’intercettazione dei carichi che sarebbero dovuti giungere ai terroristi attivi in Siria.

Anche due generali e un colonnello in pensione sono stati arrestati domenica a Istanbul con le accuse di avere “ottenuto informazioni confidenziali a scopo di spionaggio politico o militare, rivelato informazioni segrete relative alla sicurezza nazionale a scopo di spionaggio, tentato di rovesciare il governo della Repubblica turca o di impedirne il funzionamento, fondato o guidato un’organizzazione terroristica armata”.

Sul caso era già intervenuto anche Erdogan, il quale aveva definito l’indagine allora in corso ai danni dell’MIT un atto di “tradimento e spionaggio” da parte dei procuratori coinvolti, a loro volta sottoposti a indagine.

Soprattutto l’arresto dei due giornalisti ha suscitato indignazione anche tra la popolazione turca, già segnata da una campagna contro la libertà di stampa che, solo nelle ultime settimane, aveva registrato la chiusura di un gruppo editoriale vicino all’opposizione a pochi giorni dalle recenti elezioni anticipate vinte dall’AKP.

Nella giornata di domenica, una folla composta soprattutto da giornalisti ha sfilato per le strade di Istanbul per esprimere solidarietà a Can Dündar e Erdem Gül e per chiederne la scarcerazione. Il portavoce di un’associazione della stampa turca è stato tra coloro che hanno parlato durante l’evento, sottolineando come il governo stia trasformando il giornalismo – “necessità fondamentale per una società civile” – in un’attività criminale.

Alla manifestazione era presente anche il segretario generale di Reporter Senza Frontiere (RSF), Christophe Deloire, il quale ha ricordato come la Turchia occupi il 149esimo posto su 180 paesi elencati nella classifica della libertà di stampa stilata dalla stessa organizzazione con sede in Francia.

Deloire ha poi assicurato che RSF continuerà a esercitare pressioni sull’Unione Europea per adoperarsi per il rispetto del pluralismo e della libertà dei media in Turchia. Simili appelli ai governi europei sono giunti dagli stessi giornalisti di Cumhuriyet in carcere ma, anche considerandoli in buona fede, risultano pericolosamente illusori visti i precedenti dell’UE e lo stesso recente accordo tra Bruxelles e Ankara sui migranti.

A ben vedere, infatti, la legittimazione di Erdogan e del suo regime da parte europea non deve sorprendere alla luce del collasso delle forme di governo democratiche che sta avvenendo in gran parte dei paesi del vecchio continente.

A questo processo di erosione dei diritti democratici più fondamentali si è assistito drammaticamente proprio nella gestione della cosiddetta “emergenza” legata ai migranti, che Bruxelles chiede oggi alla Turchia di contribuire a risolvere, ma anche nell’implementazione in Francia di misure da stato di polizia dopo gli attentati di Parigi, versione finora più estrema di un assalto diffuso alle libertà civili e giustificato, come sempre, dalle necessità della “guerra al terrore”.

di Michele Paris

A pochi giorni dall’abbattimento del caccia russo Su-24 da parte della Turchia, i contorni dell’episodio sembrano sempre più confermare i sospetti iniziali di una provocazione progettata a tavolino dal governo di Ankara nel disperato tentativo di fermare le operazioni militari di Mosca in Siria contro i terroristi che combattono il regime di Assad. La decisione presa ad altissimo livello dal governo turco ha riportato nel dibattito sulla crisi siriana tutte le ambiguità della politica estera promossa dal presidente Erdogan e i legami a dir poco sospetti della sua cerchia di potere con i gruppi fondamentalisti sunniti che operano a sud del confine, incluso lo stesso Stato Islamico (ISIS/Daesh).

I sospetti sui fatti di martedì sono stati ampiamente confermati non solo dalle dichiarazioni dei vertici politici e militari russi, ma anche dalla stessa contraddittoria versione fornita dalla Turchia. Il pilota russo sopravvissuto ha affermato che le autorità turche non avevano lanciato nessun avvertimento al velivolo prima dell’abbattimento. Ankara, da parte sua, giovedì ha diffuso dubbie registrazioni degli avvertimenti che sarebbero stati indirizzati ai due piloti russi. Nel materiale audio pubblicato dalla Associated Press non vi è inoltre traccia della risposta di questi ultimi.

Com’è stato ampiamente riportato dalla stampa occidentale “mainstream”, secondo i tracciati radar forniti da Ankara, se anche il jet russo avesse violato lo spazio aereo turco, sarebbe rimasto all’interno di esso per non più di 17 secondi, rendendo alquanto improbabile il fatto che la Turchia avesse potuto lanciare dieci avvertimenti ai piloti in cinque minuti. Anzi, ciò rivela semmai come siano stati gli F-16 turchi a violare lo spazio aereo siriano, nel quale hanno abbattuto il Su-24 russo, precipitato infatti ben all’interno del territorio della Siria.

Vista la situazione, appare chiaro che l’aereo da guerra russo non rappresentava alcuna minaccia alla sicurezza della Turchia. Nei casi poi di sconfinamenti che non indicano minacce, la pratica comune suggerisce iniziative ben diverse per risolvere un episodio di questo genere, a cominciare dall’invio di caccia del paese “invaso” per cercare di accompagnare al di fuori del proprio spazio aereo il velivolo “invasore”. Tanto più che, com’è stato fatto notare da Mosca, la Russia ha siglato un accordo con gli Stati Uniti per evitare incidenti durante le operazioni in Siria e tale accordo sembrava dover riguardare anche gli alleati di Washington che fanno parte della coalizione impegnata ufficialmente contro l’ISIS/Daesh.

Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha inoltre ricordato come lo stesso Erdogan avesse affermato pubblicamente nel 2012 che una breve violazione dello spazio aereo di un altro paese non giustificava l’abbattimento di un velivolo militare. Queste parole erano state pronunciate dall’allora primo ministro turco dopo che il governo di Damasco aveva ordinato l’abbattimento di un caccia di Ankara accusato di avere sconfinato in Siria.

Se si considera come accertata la provocazione da parte della Turchia, risulta fondamentale chiedersi quali siano i motivi che hanno spinto Erdogan e il premier Davutoglu a prendere una decisione così grave, ma anche se il governo dell’AKP abbia agito o meno in accordo con gli Stati Uniti e gli altri paesi NATO.

Per quanto riguarda il primo aspetto ci sono sostanzialmente due questioni da valutare. La prima ha a che fare con la necessità da parte turca di difendere le formazioni “ribelli” fondamentaliste siriane dagli attacchi russi. Ankara ha investito parecchio nella galassia integralista attiva in Siria, senza troppi scrupoli nell’appoggiare gruppi come il Fronte al-Nusra - ovvero la filiale siriana di al-Qaeda - e lo stesso ISIS/Daesh. La Turchia continua infatti a rappresentare un centro logistico e un territorio di passaggio fondamentale per i guerriglieri, il denaro e le armi dirette verso la Siria.

Come ha fatto notare il presidente russo Putin alcuni giorni fa, questa dissennata politica della Turchia non solo risponde alle esigenze strategiche del governo di Ankara, che consistono principalmente nella rimozione del regime di Assad, ma permette a una schiera di funzionari, uomini d’affari e politici che ruotano più o meno attorno all’AKP di realizzare considerevoli profitti.

Una delle principali fonti di finanziamento dell’ISIS/Daesh è rappresentata dalla vendita clandestina di greggio estratto dai pozzi petroliferi in Siria sottratti al controllo di Damasco. Questo petrolio sembra finire in gran parte proprio in Turchia, dove viene acquistato a prezzi decisamente inferiori a quelli di mercato e garantisce un flusso di denaro continuo nelle casse degli uomini del “califfo” al-Baghdadi.

Addirittura, lo stesso figlio del presidente Erdogan, Bilal, è stato nei giorni scorsi indicato come uno dei beneficiari di questo traffico illegale di greggio dalle aree controllate dall’ISIS/Daesh verso la Turchia. Putin, d’altra parte, nel corso del recente vertice dei G-20 proprio in Turchia aveva rivelato in una conferenza stampa come “alcuni paesi membri di questo consesso siano tra i principali finanziatori dell’ISIS/Daesh”.

A evidenziare questi legami non è stato solo il governo russo, ma anche quello americano, ad esempio con il sotto-segretario di Stato, David Cohen, che lo scorso ottobre aveva quantificato in circa un milione di dollari al giorno i guadagni dell’ISIS/Daesh provenienti dalla vendita di petrolio, principalmente alla Turchia.

I recenti bombardementi della Russia contro convogli che trasportavano greggio proveniente dai pozzi controllati dall’ISIS/Daesh avrebbero quindi provocato un danno strategico ed economico tutt’altro che indifferente per la Turchia, spingendo il suo governo a mettere in atto una clamorosa ritorsione.

L’altra motivazione che avrebbe indotto Ankara a ordinare l’abbattimento del caccia russo è legata invece agli sviluppi diplomatici e militari emersi dopo l’attentato di Parigi del 13 novembre. Se l’intervento russo in Siria ha già messo in crisi la strategia di Erdogan in questo paese, le prospettive per la Turchia sono ulteriormente peggiorate in seguito al progetto del presidente francese Hollande di costituire una coalizione anti-ISIS/Daesh che includa Mosca.

La provocazione contro la Russia di martedì sarebbe perciò un tentativo di ostacolare queste manovre in atto tra Mosca e Parigi, tant’è vero che uno dei temi che hanno trovato maggiore spazio sui media ufficiali subito dopo l’abbattimento del Su-24 è stato proprio il complicarsi dei piani di Hollande per mettere in piedi un più ampio ed efficace fronte contro i terroristi attivi in Siria.

Nei piani di Erdogan, agitare una presunta minaccia russa alla sicurezza nazionale turca avrebbe dovuto convincere la NATO a intralciare la riconciliazione franco-russa e, nella migliore delle ipotesi, trascinare la stessa Alleanza direttamente nel conflitto siriano per ottenere un ridimensionamento dell’impegno militare russo e la creazione di una sospirata “no-fly zone” nel nord della Siria.

La scommessa di Erdogan è stata ad ogni modo estremamente rischiosa, oltre che sconsiderata, visto che, pur segnando una pericolosa escalation del conflitto siriano con possibili serie conseguenze future, almeno per il momento la risposta della NATO non è andata al di là di una dichiarazione di circostanza che ha espresso solidarietà alla Turchia per la violazione dello spazio aereo da parte della Russia.

A livello non ufficiale, diplomatici di vari paesi NATO sembrano anche avere espresso maggiori apprensioni per l’atteggiamento turco, avallando di fatto la versione proposta da Mosca per i fatti di martedì.

Le manovre di Erdogan che hanno portato all’abbattimento del jet russo, come anticipato in precedenza, sollevano però un importante interrogativo circa l’eventuale complicità di Washington. I commentatori si sono divisi su questo punto, con alcuni che hanno considerato impossibile un’iniziativa del genere senza il via libera degli Stati Uniti. Se non altro, infatti, il mancato sostegno americano avrebbe lasciato la Turchia completamente esposta a una possibile devastante reazione militare russa.

Altri, al contrario, ritengono che la decisione di Ankara sia stata l’ennesimo esempio della natura impulsiva e imprevedibile di un Erdogan che continua ad assistere al clamoroso fallimento della propria politica siriana. In tal caso, quest’ultimo avrebbe voluto costringere Washington e la NATO ad agire al proprio fianco dopo avere presentato il fatto compiuto della presunta “aggressione” russa, seguita dall’abbattimento del Su-24.

Secondo questa interpretazione, la prova che l’amministrazione Obama e la NATO non fossero al corrente dell’abbattimento dell’aereo russo starebbe nella risposta cauta che ne è seguita. La freddezza occidentale dipenderebbe allora dal ruolo destabilizzante della Turchia in relazione alla Siria, dovuto in primo luogo al persistente appoggio garantito ai jihadisti, ma anche al timore delle conseguenze di un gesto simile, ossia un rafforzamento dell’impegno russo a favore del regime di Assad.

Infatti, le prime iniziative di Mosca dopo la provocazione turca sono state l’intensificazione dei bombardamenti contro i “ribelli” anti-Assad fondamentalisti - o “moderati”, secondo il giudizio dei governi in Occidente - e soprattutto l’annuncio del dispiegamento del sofisticato sistema di difesa missilistico S-400 nel nord della Siria.

Quest’ultima misura deve apparire particolarmente allarmante ad Ankara e in Occidente, visto che segnerebbe l’istituzione di fatto di una “no-fly zone” russa nelle stesse aree della Siria dove Erdogan - assieme agli ambienti “neo-con” americani - intendeva crearla, restringendo dunque le opzioni degli Stati Uniti e dei loro alleati per giungere al cambio di regime a Damasco.

Al di là del coordinamento o meno con Washington da parte di Ankara nell’abbattere il caccia russo, nonché delle tensioni crescenti tra gli alleati che vogliono disfarsi di Assad tramite le formazioni che compongono l’opposizione armata in Siria, gli obiettivi strategici di questi ultimi coincidono in larga misura e le differenze che stanno emergendo appaiono per lo più di natura tattica.

Gli Stati Uniti e la Turchia, in particolare, hanno mostrato di essere entrambi pronti a scatenare una guerra dalle conseguenze incalcolabili contro una potenza nucleare come la Russia pur di difendere i propri interessi sullo scacchiere mediorientale.

di Fabrizio Casari

Il neoliberista Maurizio Macrì, leader di Cambiemos, ha vinto il ballottaggio elettorale contro Daniel Scioli, rappresentante del centrosinistra argentino. Sebbene non si possa parlare di risultato inaspettato, di sovversione dei pronostici, la vittoria di Macrì, divide nettamente in due il Paese, dato del resto confermato da uno scarso 3% di differenza numerica nell’affermazione elettorale. Macrì, inoltre, non godrà nemmeno di una maggioranza nei due rami del Parlamento, che restano al centrosinistra, e avrà quindi dei margini di manovra limitati, pur essendo ampi i poteri della presidenza.

Figlio di immigrati italiani calabresi, Macrì è l’uomo che c’ha messo la faccia, ma il disegno politico, il denaro e le alleanze che hanno reso possibile la su vittoria vengono dai settori interni ed esteri in nome e per conto dei quali il nuovo presidente di origine italiana dovrà governare. Interessi che hanno nomi e cognomi, a cominciare dagli Stati Uniti, passando per i grandi gruppi editoriali e industriali argentini e le lobbies finanziarie statunitensi.

La vittoria di Macrì, pur se scarna, è per gli Stati Uniti di fondamentale importanza, perché l’Argentina è stata uno dei due giganti latinoamericani (insieme al Brasile) che ha dato vita al rifiuto dell’ALCA, al processo di democratizzazione del continente ed alla fine dell’assoggettamento di esso alla volontà politica della Casa Bianca, divenendo uno dei protagonisti del processo d’integrazione latinoamericana.

Gli Stati Uniti ritengono che possa cominciare da Buenos Aires la rincorsa della destra latinoamericana, che vede nel voto argentino l’inizio della marcia verso il revanscismo continentale, che nei piani di Washington dovrebbe proseguire con la crisi degli organismi comunitari, attori principali dell’integrazione latinoamericana. Obiettivo da perseguirsi attraverso la cacciata dei governi progressisti, dal Brasile alla Bolivia, dall’Ecuador fino al Venezuela.

A breve termine Washington e i suoi alleati ritengono di poter bissare il successo argentino con le prossime elezioni parlamentari in Venezuela, puntando sulle difficoltà economiche del governo di Nicolas Maduro e ritenendo di poter incassare il risultato di due anni di golpismo strisciante, violenza e accaparramento, menzogne e propaganda, paramilitari e speculatori impegnati a distruggere l’opera politica e sociale del governo bolivariano in favore degli ultimi.

Non a caso, per cominciare bene, Macrì ha lanciato minacce alla Bolivia di Evo Morales e al Venezuela di Maduro. Per quest’ultima ha chiesto addirittura l’esclusione dal Mercosur, indicandola colpevole di violare i diritti umani. L’applicazione della “clausola democratica” invocata da Macrì ha bisogno però del voto unanime del Mercosur e già l’Uruguay ha fatto sapere che non se ne parla nemmeno, figuriamoci gli altri membri. Dunque Macrì non ha ancora ricevuto l’investitura ma ha già preso la prima sberla. Non sarà l’unica: l’uomo è tutto meno che un genio della politica.

In una replica più ampia, chiede sanzioni al Venezuela per mancato rispetto dei diritti umani, ma non tiene conto che il governo di Caracas è stato da poco nominato membro del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite con il voto di 131 paesi su 192. Tutti accecati dal chavismo? Del resto, a chiarire meglio l’idea che Macrì ha dei diritti umani, vi è la proposta di chiudere con una generale amnistia nei processi ai militari che si macchiarono di ogni atrocità per tenere in piedi la dittatura genocida guidata da Videla.

A fargli eco, con scarso tempismo, non appena saputo della vittoria di Macrì, un editoriale del quotidiano La Naciòn ha già chiesto di porre fine ai processi, suscitando il ripudio generale ma fornendo, al contempo, un’idea chiara di come i finanziatori occulti del nuovo presidente sono già in fila a chiedere la restituzione del dovuto.

Il fatto è che Macrì riceve indicazioni dagli avanzi del golpismo di mezzo continente, tra cui spiccano i paramilitari colombiani legati ad Uribe e la destra brasiliana, che vedono nel ritorno delle dittature militari l’unica possibilità di resurrezione per una destra xenofoba e mercantilista a chiare tinte nazistoidi. A completare il quadretto degli orrori c’è poi una consigliera particolare, la moglie di Leopoldo Lopez, leader golpista dell’ultra destra venezuelana giudicato e condannato a Caracas per aver organizzato le guarimbas che misero a ferro e fuoco il Venezuela nel Febbraio del 2014 e dove vennero uccisi uomini delle forze dell’ordine e civili.

Ma dietro a questi comprimari c’è, come sempre c’è stata, la politica statunitense. A ben vedere, nella scelta di utilizzare alleati impresentabili, Obama non si dimostra diverso dai suoi predecessori. Pur avendo avuto l’occasione storica di aprire una nuova stagione nelle relazioni continentali, ha preferito associare come sempre gli USA a una destra fascistoide e razzista, che addirittura attraverso alcuni suoi esponenti europei come Aznar, gli ha dettato l’agenda politica nel continente.

L’obiettivo finale è ambizioso: sconfiggere i governi progressisti e riportare così le lancette della storia indietro di 12 anni, per chiudere con la stagione dell’integrazione latinoamericana, con le politiche economiche e sociali che hanno ridotto enormemente la forbice sociale nel continente e che grazie alle politiche keynesiane lo hanno tenuto al riparo dalla spaventosa crisi finanziaria che ha colpito USA ed Europa. Un continente con meno fame e molta più uguaglianza, infatti, non produce la disperazione e l’obbedienza utile a mercati di riserva.

Va quindi ridisegnato in chiave di sottomissione se si vogliono ripristinare le politiche turbo-liberiste, soddisfacendo così le ansie speculative della finanza internazionale e la sete di potere delle combriccole della destra continentale, che per compiacere i suoi padroni statunitensi e raccogliere le briciole che cadono dalle loro tavole, prepara le condizioni per la ripresa di un mercato nel quale scaricare le eccedenze di mercato statunitensi che hanno bisogno di difendersi dalle conseguenze finanziarie di una nuova crisi finanziaria globale alle porte.

L’Argentina è il laboratorio per eccellenza del ritorno al passato, simbolicamente incarnato dalla postura golpista delle formazioni di destra che, dentro l’Argentina e nel resto del continente, vedono la vittoria di Macrì come una loro vittoria, l’inizio della loro vendetta. Ciononostante Macrì non avrà un cammino facile. L’intenzione di abbandonare l’Alba e Unasur per consentire l’ingresso nell’Alleanza del Pacifico e riportare il Mercosur sotto l’influenza della UE sarà un processo complesso il cui esito è tutt’altro che certo, visti i rapporti di forza parlamentari.

E anche sul piano interno le cose non appaiono semplici. Il tentativo di rimettere l’economia in mano alle lobbies che, internamente ed esternamente sono pronte a divorarsi di nuovo il Paese, sarà irto di difficoltà. L’intenzione annunciata di sostanziale rivisitazione delle riforme sociali impulsate dal kirchnerismo, che hanno portato innumerevoli benefici agli strati più umili della popolazione, troverà certamente un dura opposizione dalla metà del paese che non vuol vedere rientrare dalla finestra il darwinismo sociale uscito dalla porta.

Macrì non potrà eliminare le politiche di assistenza senza pagare un duro prezzo, così come non potrà regalare agli speculatori le imprese strategiche nazionalizzate dal peronismo kirchnerista. Proprio pochi giorni fa, prudentemente, è stata approvata una legge che prevede la cessione di rami strategici dell’economia nazionale ai privati solo con il voto favorevole dei due rami del Parlamento, nessuno dei quali Macrì controlla.

Certo, si deve riconoscere che il Paese esprimeva segnali evidenti di stanchezza. Ci si aspettava una sconfitta persino più ampia del centrosinistra. Non solo le difficoltà della congiuntura mondiale e il carico di problemi economici strutturali del Paese, ma anche le scelte di politiche progressiste in economia, hanno contribuito all’identificazione con la destra delle classi medie e alte; che vivono sognando il modello americano e rimpiangendo di non essere nati al nord del Rio Bravo e vedono le politiche sociali come la peggiore delle minacce ai loro privilegi.

Le politiche d’inclusione sociale, del resto, drenano risorse pubbliche importanti sottraendole ai potenziali bacini di business, colpendo così la media e grande imprenditoria, che quindi scatena tutto l’odio sociale ed ideologico di cui dispone trasformando la vita politica del Paese in un ring dove sferra l’offensiva senza esclusione di colpi.

Finisce, comunque, l’era del kirchnerismo. Che, nonostante il susseguirsi di governi che hanno incontrato il favore della maggioranza degli argentini, non è stato in grado di proiettare la sua opera politica otre il limite dei mandati presidenziali esercitati da Cristina, di incarnare un progetto di trasformazione che andasse più in là della sua leadership. Questo è stato certamente un limite strutturale del kirchnerismo, come del resto lo fu del peronismo. Per ora, quindi, la destra purulenta e golpista festeggia. Si tratta di capire se e quanto durerà.


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