di Fabrizio Casari

Si allarga al resto d’Europa l’allarme terrorismo. Ultimo in ordine di tempo quello di ieri sera allo stadio di Hannover, dove doveva svolgersi la partita di calcio tra Germania e Olanda; annullata anche quella che doveva disputarsi a Bruxelles tra Belgio e Spagna. Sembra quindi che anche la Germania debba aggiungersi ai paesi nel mirino del Daesh. Ma soprattutto che, diversamente da episodi passati, un attentato rischi di essere solo l’inizio di una catena di altri e che non uno, ma molti paesi europei possano venire coinvolti.

Prosegue così senza sosta il clima di timore per nuovi attentati in Europa, a conferma di come le intelligence occidentali valutino seriamente le capacità operative del Daesh. Sono passate solo poche ore da quando Francois Hollande ha chiesto a Bruxelles di non lasciar sola Parigi nelle operazioni militari contro il Daesh. “Siamo in guerra, chiediamo aiuto alla UE”, ha detto il titolare dell’Eliseo. L’alto Commissario per la politica estera e di sicurezza europea, Federica Mogherini, ha risposto positivamente, garantendo l’impegno della UE al fianco della Francia.

Ma le parole della Mogherini sono soprattutto sostegno politico e buone intenzioni più che una risposta alla chiamata alle armi dei francesi. L’appello all’art. 42.7 del Trattato di Lisbona è stato sì accolto, ma con una interpretazione quantomeno elastica. Il che non è un male, non essendo l’ennesima invasione di un paese mediorientale la soluzione auspicabile, ma solo l’innesco per altri due decenni di terrore.

Diversamente da quanto affermato sui media internazionali, infatti, l’abbraccio del mondo con la Francia risulta al momento più che altro una pacca sulle spalle. Né gli Stati Uniti, né l’Europa, meno che mai i paesi arabi e i regimi monarchici del Golfo si sono spinti oltre un impegno generico. D’altra parte le responsabilità storiche della Francia nel continente africano e nella stessa crisi siriana non sono certo trascurabili ed è naturale che l’atteggiamento da tenere non può essere l’adesione acritica alla volontà di Hollande.

Allo stato, Parigi ha trovato orecchie e voci disponibili ad un impegno militare solo da parte della Russia, con la quale è allo studio un coordinamento che verrà raffinato nella prossima riunione tra Hollande e Putin, il prossimo 26 a Mosca, con il presidente francese reduce dal viaggio negli Usa dove il 24 incontrerà Obama.

La riunione con Obama è particolarmente importante, dal momento che verranno stabiliti gli eventuali possibili confini ed ambiti della collaborazione militare con la Russia per un paese membro della Nato. Gli esiti della riunione avranno conseguenze decisive anche per l’eventuale impegno della UE. L’Europa non muove un passo senza la guida statunitense. Non si tratta solo di capacità militare, ma anche di leadership politica. In particolare per la Gran Bretagna, che nella dipendenza totale dalle scelte statunitensi ha da sempre il suo tratto distintivo.

Ma se Parigi spera di convincere Obama ad intervenire al suo fianco, rischia di rimanere deluso. Sarà un aiuto - quello statunitense - in intensificazione dei raid aerei, in  intelligence e mezzi di ricognizione, in sistemi di protezione e assistenza alle operazioni, ma non in termini di truppe. Il Presidente USA, conscio degli errori storici di Washington in Medio Oriente (ai quali lui stesso ha dato un decisivo, tragico apporto) tende a non chiudere il suo mandato con un’altra spedizione militare, benché i falchi nel Congresso e al Senato spingano in questa direzione. Dunque, al momento, Parigi può contare solo sulla Russia.

Russia che pure ha già colpito duramente i terroristi ed ha consentito all’esercito siriano di ristabilire ordine nei suoi reparti, ma che si rende perfettamente conto che l’articolazione in piccoli reparti del Daesh rende insufficienti i soli bombardamenti sulle loro postazioni. Mosca ritiene comunque che una eventuale strategia condivisa di attacco non possa essere affrontata in un ambito come quello Nato, al cui interno siede la Turchia, e nemmeno possano essere coinvolti gli alleati storici statunitensi nell’area - come i sauditi - perché la sicurezza delle operazioni sarebbe seriamente compromessa in virtù degli interessi diretti di Ankara e Riyadh che dei nemici sono i migliori amici.

Lo ha detto chiaro e tondo al G20 lo stesso Putin:“Vi sono anche qui, all’interno di questo G20 - ha detto il Presidente russo - paesi che sostengono l’ISIS” (o Daesh come lo si voglia chiamare). L’intenzione di Mosca è quella di scoperchiare la pentola dove in un minestrone indigesto vengono cucinati interessi divergenti.

In particolare quelli delle monarchie oscurantiste del Golfo, che utilizzano i terroristi del Daesh per abbattere Assad e rompere l’alleanza politico-militare sciita tra l’Iran, la Siria, Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza. E anche quelli della Turchia, che sostiene il Daesh sia attraverso l’aiuto diretto (il passaggio di loro uomini e merci alla frontiera turca) che indirettamente, bombardando i Peshmerga kurdi, unici ad infliggere severe sconfitte agli uomini del Califfato. L’interesse di Ankara non è di sconfiggere il Daesh quanto impedire sul nascere la riunificazione dei kurdi in Irak, Siria e Turchia, dal momento che la riunificazione dei circa 30 milioni di kurdi in un unico Stato è vista come una minaccia mortale al suo regime.

E’ quindi necessario un robusto salto di qualità nell’intesa politica che, sola, può produrre una strategia condivisa. Politicamente, economicamente, Mosca non può assumere sulle sue spalle il destino della guerra al Califfato e del riassetto generale del Medio Oriente in termini politici e militari: la condivisione di linea politica con l’Occidente e la sua leadership è indispensabile. Le rassicuranti parole di Obama circa l’importanza del suo intervento potrebbero sì essere il primo passo per l’interruzione del contrasto con Washington e Bruxelles, ma non si può escludere che Obama voglia delegare ai russi i lutti inevitabili per la sconfitta del Daesh.

Mosca non vuole e non può rimanere isolata ma intende sin da ora delineare quale sarebbe lo scenario per la Siria una volta che il Daesh fosse stato sconfitto. E decidere una linea comune per la Siria è solo il primo passo di una generale rivisitazione degli equilibri regionali. A fronte di un ulteriore coinvolgimento, Mosca chiederà un deciso cambio di rotta a Washington e Bruxelles. Sa che qualunque riassetto possibile nel risiko mediorientale che non metta in discussione radicalmente l’espansionismo saudita e turco, difficilmente avrà una dimensione di prospettiva a medio-lungo termine.

Il che non toglie che Mosca, anche in assenza di un’intesa globale, continuerà ad attaccare il Daesh; motivi geostrategici, di sicurezza e, a questo punto, anche d’immagine, glielo impongono. L’ammissione del riscontro di prove della presenza di un ordigno a bordo del volo russo esploso sul Sinai, serve proprio a riconfermare ai russi l’inevitabilità di una iniziativa militare contro il terrorismo jahidista. “Li andremo a stanare ovunque siano e la vendetta sarà tremenda” ha detto Putin. Ma sarà il grado di condivisione con l’Occidente a stabilire la misura e la modalità dell’intervento russo. Diversamente, continuerà ad assicurare la riconquista da pare dell’esercito siriano del controllo del Paese e si limiterà a garantire l’incolumità delle sue basi e il mantenimento al potere di Assad o di un suo successore gradito a Mosca.

E mentre si vanno delineando le strategie d’intervento e i piani di reazione alla minaccia terroristica, va registrata una commovente ondata di solidarietà popolare con la Francia senza precedenti, che viaggia soprattutto nella Rete. Una solidarietà importante, che viaggia però con il retrogusto amaro di una similitudine eurocentrica, dal momento che né l’attentato a Beirut con 35 morti di Hezbollah ad opera del Daesh, né l’abbattimento dell’aereo russo sul Sinai, con 224 vittime altrettanto innocenti come quelle di Parigi, avevano suscitato hashtag, bandiere sui profili facebook e minuti di silenzio nelle diverse capitali europee.

Non si vuole certo polemizzare sul dolore e la sacrosanta indignazione che ogni morte innocente produce, ma l’espressione di questi sentimenti indipendentemente dall’appartenenza delle vittime risulterebbe certo più nobile e meno schierata. Sarebbe quindi bene che gli europei esportassero anche a Sud la giusta indignazione per le vittime del terrore.

Certo, sappiamo tutti qual è l’amara verità: sul borsino internazionale del dolore la morte di un occidentale vale molto più che quella di un orientale. E’ uno degli aspetti peggiori del dominio culturale del mainstream informativo in mano all’Occidente, che chiama morti gli altri e vittime i suoi. Rafforzando così le frustrazioni e le umiliazioni che affollano il mondo arabo e dalle quali attingono cinicamente i califfi d’ogni sorta per trasformare ogni musulmano in un potenziale terrorista.

di Michele Paris

La risposta del governo francese agli attentati terroristici di venerdì scorso a Parigi sembra prevedere quasi esclusivamente un’accelerazione delle iniziative già in corso da oltre un anno per combattere lo Stato Islamico in territorio iracheno e siriano. Sul fronte internazionale, infatti, il presidente Hollande ha autorizzato da subito un’intensificazione dei fin qui inutili bombardamenti sulla presunta capitale del “califfato”, Raqqa, nel nord della Siria.

Sul suolo domestico, invece, Parigi sta preparando un altro giro di vite sulle libertà civili e i diritti democratici per prevenire nuovi attacchi da parte di individui radicalizzati che, come confermano le identità dei responsabili dei recenti episodi di sangue, quasi sempre trovano già posto negli archivi delle forze di sicurezza transalpine.

A partire da domenica sera, come è noto, i jet francesi hanno iniziato a operare bombardamenti sulle postazioni dell’ISIS a Raqqa partendo da basi militari negli Emirati Arabi Uniti e in Giordania. Le operazioni sono coordinate con gli Stati Uniti, da dove l’amministrazione Obama ha fatto sapere che i raid saranno ulteriormente intensificati nelle prossime settimane.

Le notizie di incursioni più frequenti nei territori controllati dall’ISIS è stata diffusa in varie occasioni dall’inizio della nuova campagna mediorientale promossa da Washington nell’estate del 2014, salvo poi concretizzarsi tutt’al più in perdite modeste e tutt’altro che determinanti per i fondamentalisti guidati da al-Baghdadi.

Lo sdegno internazionale per i fatti di Parigi, che fanno seguito a quelli, decisamente meno condannati da media e governi occidentali, del velivolo commerciale russo abbattuto sul Sinai e della strage di civili sciiti a Beirut, potrebbe essere sfruttato sia per arrivare a un’invasione di terra della Siria sia per fare pressioni sulla Russia a unirsi alla coalizione “anti-ISIS” e a scaricare finalmente il presidente Assad.

La prima ipotesi sembra essere lontana dai pensieri della Casa Bianca o dell’Eliseo, ma influenti sezioni della classe dirigente, non solo americana, continuano a spingere per una soluzione di questo genere. Molto più chiara è al contrario la volontà di questi governi e dei loro alleati di provare a forzare l’allineamento di Mosca ai loro obiettivi strategici, uno sforzo diventato meno complicato - almeno dal loro punto di vista - dopo i 129 morti di Parigi.

Il teatro di queste manovre è stato il G-20 di Antalya, in Turchia, prevedibilmente dominato dagli attentati di venerdì. Obama e Putin hanno tenuto un faccia a faccia informale per più di mezz’ora, definito “costruttivo” dalla Casa Bianca. L’incontro è stato accompagnato da un coro di dichiarazioni di vari leader impegnati a chiedere alla Russia di concentrarsi sulla lotta all’ISIS invece di prendere di mira le formazioni anti-Assad “moderate”.

Considerando anche che in un paio di mesi l’intervento militare legale della Russia in Siria ha assestato maggiori danni all’ISIS e alle altre organizzazioni fondamentaliste, che spesso coincidono con quelle definite “moderate” dall’Occidente, il forcing su Putin di questi giorni ha evidentemente come obiettivo lo sganciamento di Mosca dal regime di Damasco.

Ciò giunge sulla scorta dell’accordo raggiunto sabato a Vienna su una generica “road map” per un cessate il fuoco e una transizione politica in Siria. Tutte le parti convenute nella capitale austriaca sono sembrate condividere il piano di una Siria unitaria e non-settaria, così come il processo che dovrebbe portare a una nuova Costituzione e a elezioni entro 18 mesi. Il punto su cui rimane il muro contro muro è il ruolo di Assad, ovvero, al di là della sorte personale del presidente, quale orientamento strategico dovrà avere il governo che potrebbe sorgere nel prossimo futuro a Damasco.

I propositi occidentali di unità nella lotta ai terroristi in Siria sono stati ribaditi dallo stesso Putin, anche se, nel concreto, le posizioni restano distanti, visto che la categoria nella quale sono classificati i gruppi integralisti adottata dalla Russia non ha gli stessi contorni di quella di Washington, Londra o Parigi.

Nonostante la retorica di dichiarazioni che sollecitano misure più incisive per combattere l’ISIS, qualsiasi iniziativa militare che verrà eventualmente adottata in relazione alla Siria continuerà ad avere come reale obiettivo la rimozione del regime di Assad. Se il governo francese e i suoi alleati vedono con ovvia apprensione il diffondersi del rischio attentati in Europa, non saranno di certo i morti di Parigi a far cambiare i loro calcoli strategici in Siria.

Sulle formazioni jihadiste, Parigi come Washington o Londra, per non parlare di Ankara e Riyadh, hanno investito enormemente con l’obiettivo di abbattere il regime di Damasco, mettendo in conto la possibilità di “effetti collaterali” sotto forma di attentati terroristici entro i propri confini. All’interno di un panorama strategico di questo genere, dunque, risulta estremamente improbabile l’abbattimento del rischio terrorismo, visto che l’Occidente intende accelerare le stesse politiche che lo hanno generato.

Dal G-20 sono uscite comunque varie promesse da parte dei leader che vi hanno partecipato per dare l’impressione di voler combattere più efficacemente il rischio terrorismo, tra cui quelle di incrementare la condivisione di informazioni di intelligence, di rafforzare i controlli alle frontiere in Europa e, la più improbabile di tutte, di interrompere i canali di finanziamento dei jihadisti.

L’altra questione emersa inevitabilmente subito dopo la strage di venerdì è la riproposizione delle misure da stato di polizia della stessa natura di quelle già implementate più volte nell’ultimo decennio e che, a rigor di logica, sono da considerarsi inutili per i fini dichiarati ufficialmente. Infatti, com’è accaduto in maniera puntuale con i precedenti episodi riconducibili al terrorismo internazionale, in Francia e non solo, praticamente in ogni occasione i responsabili erano già ben noti ai servizi segreti o alle forze di polizia.

Il processo di radicalizzazione di molti giovani musulmani, non solo francesi, avvenuto in Siria, è stato seguito con estrema attenzione dai servizi segreti occidentali, visto che, almeno per i primi anni del conflitto, l’obiettivo di questi individui e dei governi dei paesi da dove provenivano, vale a dire la guerra contro Assad, coincideva alla perfezione.

Se gli attentatori erano perciò più o meno tenuti sotto controllo da organi dello stato dotati di facoltà quasi illimitate nell’ambito della sorvegliamza, è legittimo chiedersi quali altri poteri sarà necessario attribuire alle forze di sicurezza per prevenire ulteriori attentati. Ciò appare tanto più inquietante alla luce dei contorni dell’operazione suicida di Parigi, condotta non da terroristi improvvisati o “lupi solitari” difficili da individuare, bensì da team altamente addestrati, ben armati e finanziati e con collegamenti all’estero, in grado di pianificare con attenzione la strage.

Il governo del presidente Hollande e del primo ministro, Manuel Valls, ha in ogni caso deciso lo stato di emergenza e si appresta a chiedere un cambiamento della legge francese per prolungarne drasticamente la durata. La sospensione di alcuni diritti costituzionali tramite questo strumento è basata su una legge del 1955, adottata nell’ambito della guerra d’Algeria, e prevede una durata di non più di dodici giorni. Il governo di Parigi intende invece prolungarla di ben tre mesi e mercoledì preparerà un disegno di legge che sarà poi presentato e votato in Parlamento.

Tra le misure autorizzate dallo stato di emergenza vi sono la possibilità di mettere in atto alcuni provvedimenti anti-democratici in maniera arbitraria, come perquisizioni in abitazioni private, coprifuoco, controllo della stampa, arresti, chiusura di luoghi ed edifici pubblici, stop alle manifestazioni di piazza.

In un intervento di fronte ai due rami del Parlamento a Versailles con pochissimi precedenti storici, lunedì Hollande ha lanciato un appello a unire le forze per combattere l’ISIS, aggiungendo sinistramente che la Francia è “in guerra” contro il terrorismo jihadista.

Tutto il legittimo sdegno per i fatti di sangue di venerdì scorso, così come i proclami e le iniziative del governo francese, non possono ad ogni modo far dimenticare il contesto in cui sono avvenuti gli attentati e le responsabilità per la creazione del clima tossico che si respira in Europa di riflesso dalle crisi che attraversano il Medio Oriente.

I governi occidentali, con quello di Parigi in prima fila, a fronte della retorica della “guerra al terrore”, dietro le quinte hanno coltivato e continuano a coltivare forze islamiste ultra-reazionarie e violente per promuovere i loro interessi strategici, come il cambio di regime in paesi come Libia e, ora, Siria.

Questi gruppi integralisti mantengono rapporti a dir poco ambigui con le intelligence occidentali, le quali contribuiscono allo sforzo di armarli, finanziarli e addestrarli assieme ai regimi dittatoriali del mondo arabo, alimentando violenze e atrocità nei teatri di guerra mediorientali e, allo stesso tempo, fornendo la giustificazione per interventi militari diretti in una spirale di violenza senza fine che, sempre più, sembra trovare drammaticamente eco anche nelle capitali occidentali.

di Fabrizio Casari

Si deve all’abilità della sicurezza dello stadio dove si svolgeva la partita tra Francia e Germania se il bilancio degli attentati terroristici non è arrivato a contare migliaia di morti. Aver immediatamente chiuso le uscite dallo stadio ha impedito la fuga generale di decine di migliaia di tifosi nel pieno del panico, che avrebbe potuto replicare moltiplicando per cento quanto avvenuto all’Heysel nel 1985.

Nella dinamica degli attentati emergono alcuni dati che vanno evidenziati. La scelta del Venerdì, giorno santo dedicato alla preghiera per i musulmani non sembra casuale. I luoghi scelti, in primo luogo il teatro Bataclan (dove si svolgeva un concerto di musica metal), ma anche lo stadio, sono luoghi per eccellenza dove si recano i parigini.

Sono posti difficilmente meta di turisti che, invece, sono soliti muoversi in altre zone, dal Quartiere Latino a Montmartre, dagli Champs Elysees e Place de la Concorde, al Louvre, alla Tour Eiffel.

C’è, con tutta evidenza, un salto in avanti rispetto agli scorsi attentati contro Charlie Hebdo. Se nei confronti della rivista satirica si poteva leggere, per quanto folle e omicida, la risposta di presunti musulmani presumibilmente offesi per le cialtronate che venivano pubblicate e dunque la scelta di colpire a Parigi poteva essere una sorta di effetto collaterale dovuto alla collocazione fisica della redazione, quelli di ieri non hanno un bersaglio in qualche modo identificabile con l’avversione all’Islam.

In questo senso, volendo cercare una linea unificante con gli attacchi di pochi mesi orsono, quelli di ieri più che ad un obiettivo preciso ed identificato nell’occasione con la redazione del giornale satirico, sembrano inserirsi nello stesso orribile solco di quanto avvenne nel supermercato. Il nemico dichiarato è la gente comune, il normale vivere quotidiano di una città europea. A maggior ragione di una capitale che contiene milioni di musulmani, la maggior parte stipati in banlieues che, a semplice vista, ricordano la vita in cattività di ormai tre generazioni di maghrebini.

Il silenzio assoluto delle guide musulmane di Francia colpisce non poco. E’ forse figlio di una difficoltà a pronunciarsi, stretti tra un dovere di cittadinanza europeo e un obbligo di solidarietà e comprensione con i giovani assassini che uccidono in nome del Corano. Colpisce ed inquieta, quel silenzio, perché ridurrà ulteriormente i margini di manovra di coloro che cercheranno di differenziare la caccia agli assassini dalla caccia all’Islam.

La rivendicazione arrivata dall’ISIS accusa la Francia di essere “la capitale dell’abominio e della perversione”, ma se così fosse gli attentati avrebbero avuto luogo a Pigalle o in altri luoghi dove le libertà negli usi e costumi francesi si manifesta con maggiore nettezza. E quindi più credibil l’obiettivo fosse il terrore per il terrore, fosse cioè infondere la paura a 360 gradi.

E così come avvenne nello scorso Gennaio, non si realizzano attacchi singoli, ma più nuclei in posti diversi per quanto relativamente vicini. Il che dice qualcosa sugli assassini e qualcos’altro su chi dovrebbe difendere l’incolumità delle città.

Sono circa una decina i commandos suicidi. Il che significa che, includendo ideazione, organizzazione, logistica e comunicazioni, sono state perlomeno una quarantina le persone coinvolte nell’organizzazione della strage. La domanda, dunque, è inevitabile: i servizi segreti francesi hanno esaurito la loro fama nelle cantine dove torturavano i resistenti algerini negli anni 60? Dove e su quale qualità dell’intelligence riposa l’ostinata riproposizione di una grandeur che ormai risulta drammaticamente imbelle?

E’ evidente che i protagonisti, per quanto abili possano essere (ma certo, vista la giovane età, non si tratta di veterani guerriglieri) sono riusciti a bucare completamente le maglie della rete di controllo che dalle banlieues al resto di Francia, la DGSE e il Ministero dell’Interno hanno teso successivamente all’assalto a Charlie Hebdo.

La notizia secondo la quale uno dei componenti del commando era schedato e “attenzionato” dai servizi francesi, aumenta gli interrogativi. Perché era libero? Ed era almeno sorvegliato? E chi lo sorvegliava non aveva notato nulla nei suoi movimenti che potesse insospettire? Qui non ci si trova di fronte alla scheggia impazzita, al gesto isolato di un esaltato obiettivamente difficile da prevenire, ma all’azione di un nucleo organizzato al quale la retata di 24 ore prima in Italia e Germania può aver solo spinto ad accelerare l’azione.

Il Presidente Hollande, una delle maggiori delusioni nella storia politica della Francia, ha invitato tutto il Paese alla mobilitazione, com’era inevitabile. Ma forse, più concretamente, dovrebbe decidere di proporre una modifica sostanziale alle linee operative dei suoi organi d’intelligence, in primo luogo dismettendo quella di punta di lancia degli interessi delle imprese d’Oltralpe per concentrarsi invece sulla difesa dell’integrità e inviolabilità del suo territorio dalla minaccia interna ed estera.

Si può - anzi si deve - ricordare che l’orrore provato ieri in Francia è solo una minima parte di quello provato in tutto il Medio Oriente ogni giorno, ma più che replicare all'unisono la retorica da boyscout e l’elegia del modello di democrazia occidentale contro la barbarie, è meglio che l’azione di ieri sia contestualizzata politicamente è della sua condotta in Siria che Parigi è chiamata a rispondere.

Che viene vista dall’ISIS come un tradimento, evidentemente. Perché in particolare in Libia, ma anche in Siria, la Francia è stata in prima linea contro i legittimi governi di Tripoli e Damasco ed anche in Irak Parigi non ha mai rappresentato un sostegno al governo sciita. Dunque, l’affermazione dell’ISIS è stata certamente agevolata dalla linea politica di Parigi, oltre che da quella di Londra e Washington.

Dallo scorso Settembre, però, pur con molte più parole che proiettili, Parigi ha dato un giro diverso con la sua partecipazione all'alleanza internazionale contro l'ISIS e, a seguito di questa nuova collocazione, ha effettuato alcune missioni di attacco in Siria.

Quello che però ha cambiato il quadro complessivo è la recente Conferenza di Vienna, nella quale hanno cominciato a delinearsi i primi contorni per un processo di pace. Nata a seguito dell’intervento russo in Siria, la consultazione tra le nazioni vede la presenza del governo di Damasco e di quello di Teheran, cominciando così a delineare un totale cambio di rotta verso l'ISIS da parte di Parigi e Londra. Nel comunicato dell'ISIS che rivendica gli attentati di ieri a Parigi, vengono indicate Londra, Washington e Roma come le tappe successive del terrore camuffato da religione. Dunque, sebbene i distinguo sono evidenti, la sfida è a l'Occidente tutto.

Tra dieci giorni, i 17 paesi che stanno scegliendo il percorso possibile per la soluzione politica alla guerra siriana torneranno a riunirsi. Ebbene sarà opportuno intraprendere un deciso e definitivo percorso che abbandoni l’ostilità politica contro Assad e sappia invece costruire un’alleanza militare con il governo di Damasco e l’esercito lealista per sconfiggere definitivamente il Califfato di Al Baghdadi.

Gli iraniani e i curdi in Irak, i Peshmerga curdi e i russi in Siria, stanno già facendo sul serio. E’ ora che l’Occidente si aggiunga e metta con le spalle al muro i suoi alleati sauditi e turchi invece di continuare ad individuare in Assad il problema.

In questo senso, le dichiarazioni di ieri del Ministro degli Esteri italiano, Gentiloni, che ritiene come l'obiettivo sia la cacciata di Assad, risultano particolarmente stupide. Per carità, non è certo Gentiloni la figura di riferimento per la politica estera del nostro Paese, ma sarebbe opportuno che fosse ricondotto al silenzio da chi decide.

Se si vuole pacificare la Siria, Assad è parte della soluzione, non il problema. Impossibile chiedergli di lasciare il comando perché il vuoto di potere produrrebbe solo una nuova Libia, dove pure l'Occidente e la Francia in particolare stanno sperimentando il fallimento totale. Serve piuttosto una rapida disfatta militare dell’islamismo per ridurre l’aureola del terrore e preparare un nuovo inizio per la Siria.

Ci sarà tempo successivamente per analizzare errori e fallimenti di chi per liberarsi dell’asse tra Teheran, Damasco, Beirut e Gaza ha pensato di costruire un Frankestein del terrore. Che poi, come già in Afghanistan, gli si è rivoltato contro facendogli pagare il prezzo più alto.

di Michele Paris

Il neonato governo di minoranza di centro-destra in Portogallo è caduto questa settimana ancor prima di iniziare il proprio mandato dopo l’incerto esito del voto dello scorso mese di ottobre. Come annunciato da settimane, una coalizione di centro-sinistra, che detiene la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, ha sfiduciato il gabinetto del primo ministro, Pedro Passos Coelho, alla presentazione del suo programma di governo, rimettendo nuovamente le sorti della crisi nelle mani del discusso presidente, Anibal Cavaco Silva.

L’esecutivo formato dal Partito Social Democratico (PSD) e dal Centro Democratico Sociale-Partito Popolare (CDS-PP) ha raccolto appena 107 voti a favore, contro i 123 contrari che hanno segnato una fine decisamente prematura per il secondo mandato di Passos Coelho alla guida del suo paese.

L’esito del voto parlamentare di martedì a Lisbona potrebbe spianare finalmente la strada alla formazione di un nuovo governo di centro-sinistra con il Partito Socialista, il Partito Comunista (PCP), i Verdi (PEV) e il Blocco di Sinistra (BE). Queste formazioni avevano ottenuto complessivamente quasi il 51% dei consensi nelle elezioni del 4 ottobre, pur non presentandosi in un’alleanza formale.

Il presidente Cavaco Silva aveva però assegnato l’incarico di formare il nuovo gabinetto al premier uscente, la cui coalizione dispone della maggioranza relativa, giustificando la sua decisione con le preoccupazioni dei mercati per il possibile ingresso al governo di forze di sinistra e l’inopportunità di consegnare il paese nelle mani di partiti anti-europeisti.

Il leader Socialista, António Costa, si era peraltro mostrato inizialmente favorevole alla creazione di un governo di minoranza di centro-destra ma pochi giorni più tardi aveva annunciato la sottoscrizione di un’intesa con gli altri tre partiti per far nascere un esecutivo di centro-sinistra.

Dopo le polemiche per la decisione anti-democratica del presidente portoghese, in molti prevedono ora l’assegnazione dell’incarico a Costa, se non altro per evitare il diffondersi di ulteriori malumori nel paese, a causa del mancato rispetto della volontà della maggioranza degli elettori, e provocare una nuova erosione del sostegno per il PSD e il CDS-PP.

L’alternativa che resta a Cavaco Silva è quella di tenere in vita il governo di minoranza di centro-destra con funzioni limitate e in modalità transitoria in attesa di elezioni anticipate. Questa ipotesi prolungherebbe però i tempi della risoluzione della crisi, visto che secondo le regole costituzionali un nuovo voto non può tenersi prima di giugno, con il rischio di far salire le pressioni internazionali su un paese che è ancora vincolato ai diktat di Bruxelles dopo il “salvataggio” del 2011 sottoforma di un pacchetto di “aiuti” da quasi 80 miliardi di euro.

I nuovi sviluppi di questa settimana hanno prodotto numerose analisi e commenti sui giornali europei e americani, quasi tutti concordi nel prospettare un’inversione di rotta riguardo le politiche economiche che verranno adottate a Lisbona con un governo di centro-sinistra.

I media di orientamento conservatore hanno poi ipotizzato scenari da catastrofe nell’eventualità che i Socialisti e i loro partner abbandonino le misure di austerity. Il ministro delle Finanze del gabinetto uscente, Maria Luís Albuquerque, ha alimentato questi timori, affermando martedì in Parlamento che “la fiducia degli investitori è già diminuita”, mentre “il mancato taglio del deficit di bilancio, in linea con gli impegni presi da Lisbona con l’UE, potrebbe causare una nuova crisi del debito e rendere necessario un altro intervento di salvataggio”.

La stessa esponente del PSD si è unita al coro di quanti hanno minacciato un futuro per il Portogallo simile alla Grecia nel caso si dovesse provare a mettere fine all’austerity, con “maggiore recessione, più povertà, disoccupazione e dipendenza dall’Europa e dal Fondo Monetario Internazionale”.

La campagna mediatica scatenata per cercare di spaventare una popolazione che intende manifestare l’ovvia volontà di liberarsi da oppressive politiche di rigore, dall’impoverimento e dalla precarietà non è d’altra parte nuova né in Europa né altrove.

Il caso del Portogallo è però significativo per come la sola ipotesi di un lieve rallentamento delle impopolari misure antisociali imposte da organismi come UE o FMI sia visto come una minaccia mortale al dominio assoluto dei mercati sulle politiche dei governi. Ciò non è dovuto tanto a una reale prospettiva di cambiamento determinata da un’elezione e dal cambio alla guida di un paese, ma piuttosto dal rischio di generare aspettative di cambiamento tra le popolazioni che si trasformino potenzialmente in un movimento di massa contro la classe dirigente europea.

A ben vedere, per quanto riguarda il Portogallo, le rassicurazioni dei leader dei partiti di centro-sinistra, nonché la loro storia recente – in particolare quella del Partito Socialista – e i precedenti negli ultimi anni di partiti con simili orientamenti in altri paesi dell’Unione non lasciano intravedere alcun cambiamento drastico rispetto al percorso seguito dal governo uscente.

I Socialisti, per cominciare, erano al governo con il premier José Socrates quando nel 2011 venne siglato il “bailout”, ovvero l’orwelliano “Programma di Aggiustamento Economico”, con l’UE in cambio di pesantissime misure di “ristrutturazione”.

Dopo il voto e i quattro anni di governo di centro-destra, il Partito Socialista ha percepito chiaramente l’ostilità dei portoghesi all’austerity e ha proposto in campagna elettorale un’agenda diametralmente opposta. Le misure promesse includono, tra l’altro, l’aumento della spesa pubblica in vari ambiti, la revoca delle “riforme” del mercato del lavoro degli ultimi anni, l’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici, la riduzione delle trattenute fiscali sulle pensioni più basse e l’imposizione di una nuova tassa di successione.

Tutto ciò e altro ancora risulta però difficile, se non impossibile, da applicare nel quadro del programma di “aggiustamento” promosso da Bruxelles e senza una qualche ristrutturazione – per non dire un ripudio – del debito pubblico portoghese. Come nel caso greco, in sostanza, se anche dovessero esistere spazi di manovra per un governo teoricamente anti-austerity, essi sarebbero decisamente molto limitati, tanto da incidere in maniera trascurabile sulle condizioni di vita di milioni di persone.

Nonostante le ipotesi rovinose che si sono sprecate sui giornali nei giorni scorsi, i partiti della coalizione portoghese di centro-sinistra hanno fatto di tutto per mandare segnali rassicuranti a Bruxelles e ai mercati finanziari. Il principale candidato alla carica di ministro delle Finanze in un eventuale governo a guida PS, Mário Centeno, in un’intervista al Financial Times ha garantito ad esempio che “non verrà gettato denaro nell’economia”, non vi saranno cioè aumenti significativi della spesa pubblica.

Lo stesso economista portoghese ha poi aggiunto che il paese “resterà sulla strada del consolidamento fiscale” con una previsione di ridurre il rapporto deficit/PIL dal 3% attuale all’1,5% nel 2019 e il debito totale dal 128% al 112% del PIL nello stesso periodo di tempo. Queste cifre sono solo parzialmente diverse da quelle proposte dal centro-destra e, infatti, Centeno ha ipotizzato tutt’al più un “rallentamento” delle politiche di rigore, non un abbandono di esse.

Anche soltanto una qualche attenuazione del “consolidamento fiscale” dovrà essere discussa e concordata con i padroni di Bruxelles e, come ricorda ancora una volta il caso della Grecia, a livello europeo non sembra esserci particolare disponibilità in questo senso.

Soprattutto per il Partito Socialista o, quanto meno, per una parte di esso, non vi è comunque un particolare entusiasmo all’idea di provocare uno scontro con l’Unione Europea. Ciò è sembrato pensarlo probabilmente anche il presidente portoghese quando il 30 ottobre scorso ha incaricato Passos Coelho di provare a mettere assieme un nuovo governo.

Cavaco Silva auspicava cioè che la popolarità del premier conservatore tra il business domestico e i governi stranieri, assieme alle pressioni internazionali, avrebbero potuto convincere almeno un certo numero di parlamentari Socialisti a fornire il loro appoggio esterno al governo di minoranza di centro-destra per continuare senza scosse sulla strada dell’austerity.

Le stesse pressioni dei mercati e dei leader europei, ad ogni modo, non diminuiranno nel prossimo futuro con un eventuale governo di centro-sinistra. Anzi, la minaccia di una nuova crisi in Portogallo e nell’intera Europa viene già agitata da molti in questi giorni, con l’obiettivo di convincere da subito i leader Socialisti ad archiviare il loro programma e gli accordi con gli alleati.

Proprio l’atteggiamento del Partito Comunista, dei Verdi e del Blocco di Sinistra risulterà decisivo sul futuro del probabile prossimo esecutivo, nel caso quest’ultimo dovesse ripiegare in fretta su politiche di rigore, mettendo queste formazioni di fronte a una scelta tra un’imbarazzante permanenza al governo e un’uscita da esso per non compromettere la loro relativa popolarità tra gli elettori portoghesi.

di Vincenzo Maddaloni

E' da quando il presidente dell’Iran, Hassan Rohani ha scelto l’Italia per la sua “prima visita ufficiale” in Europa, che  la domanda è: “Incontrerà il Papa?”. Le prime voci su un possibile incontro erano circolate alla fine di settembre durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove entrambi si erano alternati alla tribuna. Fin da allora si cominciò a parlare con insistenza di una visita del Presidente iraniano al Papa, tant'è che da qualche giorno si è iniziato una sorta di countdown, poiché leader politico di Teheran sarà a Roma il 14 e il 15 di  novembre.

Naturalmente l’incontro ufficiale del presidente Rohani è il bilaterale con Renzi. L'obiettivo di entrambi è di lavorare a un rilancio del dialogo politico e preparare il terreno al ritorno delle aziende italiane in Iran, dopo l’intesa sul nucleare di Vienna. L'Italia è da lungo tempo uno dei principali partner commerciali di Teheran, il secondo tra i paesi Ue dopo la Germania. Lo confermano i dati Eurostat del 2014 secondo i quali, in ambito Ue, Italia e Germania sono i soli Paesi ad aver avuto significativi volumi di esportazione verso l’Iran, superando il miliardo di euro. Sono gli unici in Europa.

Infatti, la Germania si conferma il principale fornitore dell’Iran, con un export di 2.390 milioni di Euro nel 2014, seguita dall’Italia che ha esportato verso l’Iran beni per 1.156 milioni di Euro. Il più 9,5 per cento di esportazioni italiane ed il più 28,7 per cento di esportazioni tedesche trainano l’aumento complessivo dell’export dell’intera Ue, che si attesta al 5,8 per cento.

La Germania - a differenza dell'Italia da sempre incollata agli Usa - è anche l'unica nazione europea che si è espressa benevolmente sulla coalizione creata da Mosca, con Siria, Iraq ed Iran, e il conseguente rilancio dell’asse tra Teheran e Mosca. Tuttavia Hassan Rohani ha scelto Roma come prima tappa del suo viaggio in Europa, e sicuramente nella sua decisione molto avrà pesato l’opportunità di una visita in Vaticano. Il fatto poi che Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana non abbia confermato (ma  nemmeno smentito) che l’hojjatoleslam  Hassan Rohani  potrebbe varcare la sacra soglia,  suona - alle orecchie dei vaticanisti più esperti - come una conferma che il sensazionale incontro ci sarà.

Certamente, entrambi i presuli hanno problemi comuni sui quali discutere, a cominciare dal terrorismo che è una tattica di estremismo interna a ogni religione, come pure alle religioni laiche del marxismo o del nazionalismo. Poiché nessuna religione - Islam compreso - predica la violenza indiscriminata contro degli innocenti.

La posizione della Chiesa di Roma su come andrebbe affrontato il terrorismo è largamente condivisa tra gli altri credi. Essa considera pericolosa la dissociazione della repressione del terrorismo dall’azione politica e sociale, poiché trascura le ragioni profonde che stanno all’origine delle azioni terroristiche. Sottolineare esclusivamente il lato criminale del terrorismo, com’è in uso nella mediacrazia, senza analizzarne le motivazioni e quindi agire di conseguenza, non basta per dare una soluzione definitiva al problema, soprattutto in situazioni - come quella palestinese - dove il ricorso ad atti terroristici affonda le proprie radici nella frustrazione di genti che non vedono prospettive per il proprio futuro.

Dopotutto l’integralismo islamico non è nato oggi e la disfatta araba del 1967 ne rappresenta uno dei culmini. L’Occidente non ha mai percepito l’intensità di quella umiliazione. Da allora i musulmani hanno la conferma che l’Occidente sarà sempre al fianco di Israele.

Di fronte al fallimento del nazionalismo progressista, del nasserismo, del baathismo, i musulmani militanti, eredi del risveglio arabo, continuano a sostenere che «invece di modernizzare l’Islam, bisogna islamizzare la modernità», come l’ISIS sta facendo a suon di bombe. Da qui si capisce la preoccupazione della diplomazia vaticana di fronte alla grossolanità con la quale i responsabili dell’amministrazione Obama, (come prima lo erano quelli di Bush) presentano l´intervento in Medio Oriente come una crociata.

I riferimenti alla superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica o della religione ebraico-cristiana rispetto a quella musulmana, sono temuti di là del Tevere come la peggiore delle disgrazie, proprio per l´impatto che può avere in Medio Oriente, dove le comunità cristiane hanno tutto da perdere in un conclamato scontro tra civiltà.

Naturalmente uno scambio di pensieri con il presidente dell’Iran Rohani su questo argomento, potrebbe rivelarsi prezioso. Egli è un militante della rivoluzione iraniana della prima ora, un convinto assertore della bontà del messaggio e dell’azione politica dell’ayatollah Khomeini, il quale trasformò lo sciismo da corrente per molti versi popolar-mistica dell’Islam in ideologia politica e terzomondista che sfida l’imperialismo personificato dalle potenze straniere. E’ la sua una rilettura dell’Islam dei primordi della vita del Profeta, del quale ne esalta l’umiltà. E va oltre.

Ispirandosi a varie teorie, non ultima quella marxista, giunse a costruire una nuova ideologia ricca di spunti di riflessione sulle problematiche politiche, economiche e sociali.  Rohani è stato uno stretto e fidato collaboratore di Khomeini, e - particolare che va sottolineato - è stato eletto due anni fa presidente dell’Iran al primo turno, con 18.613.329 voti pari al 52,5 per cento dei voti validi e al 50,68 per cento di quelli espressi, in una tornata elettorale caratterizzata da un’affluenza del 75 per cento dei 50,5 milioni di aventi diritto al voto.

Malauguratamente, dopo le guerre del Golfo scatenata dai Bush sono riapparse e si sono rafforzate nel mondo musulmano le profonde separazioni dottrinarie, ma anche ideologiche, poiché l’Islam contemporaneo non è più soltanto teologia, ma è rinato per mille motivi come ideologia politico-sociale,  coinvolgendo le diverse interpretazioni del dogma, dell’idea di Stato, di «risveglio» come rilancio del tradizionalismo o come irredentismo legato alla nozione di progresso. Così facendo si sono ridisegnate, esasperandole, le vecchie frontiere etniche fra arabi e non arabi; fra arabi e turchi e persiani.

L’hojjatoleslam Hassan Rohani è il presidente di una nazione, l’Iran, che svolge una sua funzione peculiare nella civiltà musulmana. Gli sciiti persiani sono stati per secoli gli strumenti di un modo diverso di pensare l'Islam, non necessariamente opposto, ma il più delle volte complementare a quello ufficiale dell'arabismo. Sono meno chiesastici degli arabi, più inclini a sintonizzarsi con le società in perenne mutamento.

Negli ultimi anni, però, gli equilibri complessivi di tutto il Medio Oriente sono stati modificati dalle scelte compiute dal governo degli Stati Uniti in risposta agli eventi dell’11 settembre 2001. L’intervento militare in Afghanistan ed in Iraq, l’appoggio sempre più incondizionato prestato alla politica dei falchi israeliani, la guerra all’ISIS, sono gli esempi più clamorosi delle iniziative che si inquadrano in un disegno molto più ambizioso, che mira ad assicurare agli Stati Uniti il controllo incondizionato delle risorse energetiche di quella regione.

Dopotutto, benché Forbes definisca per il terzo anno consecutivo, Vladimir Putin l'uomo più potente della Terra, è Obama il capo dell’incontrastata superpotenza globale in termini militari. E dunque gli Stati Uniti, anche se privi di risorse culturali indispensabili alla gestione planetaria, hanno più dei russi la concreta possibilità di mettere in atto le loro minacce.

E’ con questa situazione che la politica del Vaticano è costretta a confrontarsi soprattutto in Medio Oriente. Deve valutare se la strategia seguita fino ad ora ha bisogno di correzioni dopo che sullo scenario è comparsa la Russia di  Putin. Da sempre essa si è prefissa il compito di tutelare tre obiettivi - difesa delle comunità cristiane, tutela dei luoghi santi, ricerca della pace - indispensabili per la serena coabitazione dei fedeli di religioni differenti. Questo spiega la prudenza e la marcata indipendenza della Chiesa di Roma dalle potenze occidentali e, in particolare, dagli Stati Uniti.

Un atteggiamento che essa mantiene fin dal conflitto israelo-palestinese del 1948, dalla crisi di Suez, dalla prima e della seconda guerra del Golfo, fino ad oggi. La Chiesa continua a mantenersi distante dalla linea politica degli Stati Uniti e dei loro alleati europei. L’assenza, fino a dodici anni fa, di relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele, il partner più fedele di cui Washington dispone nella regione, è la manifestazione più evidente di questa divergenza. Anche se non è mancata e non manca la rincorsa agli spunti provocatori, che si sono moltiplicati con questo papato, per costringerlo a  riaccorciare le distanze.

Francesco resiste. C’è nell’azione di questo Papa che proviene dal Terzo Mondo un sapere sottile e consapevole che il Medio Oriente - insieme alla guerra contro il terrorismo - costituisce oggi il campo principale della politica mondiale. Egli evidenzia - diversamente dai suoi predecessori Wojtyla e Ratzinger -  le deformazioni del capitalismo che è nato in Europa e vi si è sviluppato per secoli estendendosi al resto del mondo. Anzi questa estensione è stata proprio una delle forme di sottomissione del mondo all’Occidente che ha prodotto l’America imperiale.

Visto dai musulmani, l’Occidente appare in larga parte incomprensibile. Nel loro mondo le fortune eccessive sono il più delle volte confiscate, quasi sempre ridistribuite ai poveri o impiegate nella costruzione di edifici religiosi. Poiché queste società musulmane non lottano contro un capitalismo, un “modello americano” che ignorano, ma per la loro conservazione, per tutelare un equilibrio tra le diverse forze sociali. Nel più o nel meno è il modello che  questo nuovo Papa raccomanda ai suoi fedeli.

L’Iran sciita fa storia a sé. Il “Rinascimento persiano”, quello dei poeti che cantavano l’amore e il vino, dei palazzi fastosi, dei veli e dei cuscini, quello delle miniature con i volti languidi dei cavalieri che tanto eccitavano Byron e poi Chatwin, è agli antipodi del puritanesimo imposto dagli ayatollah. Esso viene accettato - come la partecipazione alle recenti elezioni presidenziali dimostra - perché l’assenza di un'alternativa laica seria e popolare, stimola a ripensare a  quanto scrisse il poligrafo egiziano Suyûtî (sunnita).

Egli narrò (sec XVI) che, «quando Hussein fu ucciso nella piana di Kerbala si fermò il mondo, il sole divenne giallo come zafferano, le stelle caddero. L’orizzonte fu rosso per sei mesi. E il rosso dell’orizzonte si vide ogni giorno, dopo quel fatto, mentre prima non si vedeva». Tutto questo vuol dire anche che 36 anni dopo la rivoluzione khomeinista ancora rimane negli iraniani quell’attaccamento alla trinità culturale “iranità, islamità e modernità”, nella quale essi coniugano novità e tradizione, e che li ha resi peculiari agli occhi del mondo.

Allora perché stupirsi se folle di pellegrini si recano ogni giorno dell’anno sulla montagna di Radwa (a sette giorni di marcia da Medina, in Arabia), dove Sâhib al zamân (colui che domina questo tempo), è nascosto: «in una fonda caverna fra pantere e leoni, invisibile ai sensi, ma presente al cuore dei fedeli». La devozione del pio fedele sciita si è polarizzata su di lui, il Mahdî della Resurrezione che non si rivelerà finché il genere umano non sarà capace di trovare, con il trionfo dell’ecumenismo, la sua unità.

I cristiani, con altri sacri riferimenti, viaggiano in sintonia. Insomma, ci sono le premesse ideali per due ministri della trascendenza che sono pure due capi di Stato. La mistura è sorprendente. Vediamo sullo scenario mondiale l’effetto che  fa.

 

*Vincenzo Maddaloni, giornalista e saggista, negli anni 1978 -79 ha raccontato da Teheran la caduta dello Scià e la presa del potere da parte di Khomeini. Dall’Iran ha firmato negli anni numerose corrispondenze. Ha scritto il libro “L’atomica degli Ayatollah. Il ruolo strategico dell’Iran, la crisi con gli Usa” (con lo scrittore iraniano Amir Modini).



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