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di Mario Lombardo
I vertici militari americani stanno progettando l’invio in Europa di migliaia di altri soldati, in aggiunta a quelli già presenti, in previsione di un futuro conflitto armato con la Russia. L’ipotesi è stata avanzata nel corso di una recente conferenza sulla sicurezza nazionale in California, durante la quale alcuni dei rappresentanti più autorevoli della macchina da guerra USA hanno dipinto ancora una volta Vladimir Putin e il suo governo come gli unici responsabili delle tensioni nel vecchio continente.
Protagonisti dell’evento, organizzato presso la Biblioteca Presidenziale Ronald Reagan di Simi Valley, nei pressi di Los Angeles, e di una successiva intervista al Wall Street Journal sono stati il comandante supremo delle forze NATO, generale Philip Breedlove, e il capo di Stato Maggiore dell’Esercito USA, generale Mark Milley.
Entrambi gli alti ufficiali hanno fatto a gara per dare una rappresentazione della realtà dei fatti in Europa completamente ribaltata, così da trasformare il destabilizzante interventismo diplomatico e militare americano in un impegno per la sicurezza e il mantenimento della pace.
Il Pentagono intende far fronte alla “minaccia” di Mosca aggiungendo almeno una brigata -composta da 3.500 uomini - alle due che già si trovano in pianta stabile sul territorio europeo, ovviamente dotata dei dovuti mezzi. Per aggirare gli ostacoli legali e le prevedibili reazioni russe, gli Stati Uniti dichiarerebbero le nuove truppe come “provvisorie”, utilizzando il consueto espediente della “rotazione” dei soldati per evitare, almeno ufficialmente, un dispiegamento a carattere permanente.
Una proposta sul nuovo contingente sarà predisposta non prima di due mesi e dovrà essere approvata dalla Casa Bianca ed eventualmente ottenere i necessari finanziamenti dal Congresso. Le parole di Breedlove e Milley nel fine settimana sono però servite ad aprire la strada all’iniziativa e a stabilire le basi sulle quali altri soldati USA potrebbero giungere a occupare le installazioni militari in Europa.
Intanto, a procedere già nelle prossime settimane dovrebbe essere la decisione di stabilire una forza NATO di reazione rapida in Europa orientale, sempre in funzione anti-russa, secondo il piano delineato in un vertice dell’alleanza tenuto a Varsavia lo scorso luglio.
Il generale Milley ha apertamente fatto riferimento alla necessità di far fronte alla “guerra ibrida” che caratterizzerebbe le operazioni russe in Crimea e in Ucraina orientale, vale a dire condotte da una combinazione di forze regolari e irregolari.
Ciò ha inevitabilmente riproposto la versione propagandata dall’Occidente sulla guerra in Ucraina, secondo la quale sarebbe la Russia l’aggressore, così che, di conseguenza, anche gli altri paesi dell’Europa orientale - a cominciare da quelli baltici - risultano esposti alla minacca di invasione o di attacco da parte di Mosca.Per fronteggiare questo fantomatico scenario, i militari americani necessitano di una maggiore presenza in Europa, anche se essi stessi, in caso di esplosione di un conflitto, si aspettano “interferenze” da parte della Russia, a cominciare dalle stesse operazioni di trasferimento dei soldati da una sponda all’altra dell’Atlantico.
A spiegare la gravità della situazione, il generale Milley ha di fatto proposto di rispolverare un’esercitazione che veniva condotta durante la Guerra Fredda per fare appunto pratica nello spostare migliaia di uomini dall’America all’Europa.
Questa considerazione rispecchia le apprensioni del Pentagono per il grado di sofisticatezza raggiunto dalle forze armate russe, in particolare per quanto riguarda le cosiddette “anti-access, area denial forces”, cioè l’insieme dei sistemi difensivi di un determinato paese. Altri ufficiali americani hanno espresso invece preoccupazione per il trasferimento di sistemi missilistici nell’enclave russa di Kaliningrad, situata tra Polonia e Lituania, e la modernizzazione degli armamenti situati presso una base di Mosca in Bielorussia.
L’ipocrisia di simili dichiarazioni, pur essendo tutt’altro che insolita in relazione agli Stati Uniti, raggiunge livelli difficilmente immaginabili, visto che, nel caso specifico, l’apparato militare americano, responsabile di innumerevoli invasioni, aggressioni e devastazioni varie nell’ultimo mezzo secolo, dispone di qualcosa come 800 basi all’estero contro le poche decine mantenute da tutti gli altri paesi del pianeta combinati.
Sia Breedlove sia Milley hanno comunque messo in guardia dalla presunta tendenza a prestare attenzione esclusivamente all’intervento russo in Siria, poiché così facendo si rischierebbe di considerare come un fatto compiuto e ormai accettato l’annessione della Crimea. Infatti, secondo il generale, “un’aggressione rimasta senza risposte conduce probabilmente ad altre aggressioni”, nonostante la grandissima maggioranza della popolazione della Crimea avesse votato in un referendum a favore dell’unione con la Russia e, soprattutto, l’intera crisi ucraina sia stata orchestrata da Washington per strappare questo paese all’influenza di Mosca.La stessa retorica anti-russa è stata proposta nel corso del forum di Simi Valley anche dal segretario alla Difesa, Ashton Carter. Il numero uno del Pentagono ha posto l’attenzione sull’aggressività russa, criticando poi il Cremlino sostanzialmente per una serie di atteggiamenti che caratterizzano piuttosto la politica estera degli Stati Uniti.
Tra l’altro, Carter ha accusato il governo del presidente Putin di “gettare benzina sul fuoco” del conflitto siriano e di agitare lo spettro della guerra nucleare. Un’altra accusa che il governo e i militari americani rivolgono con insistenza in questo periodo sia alla Russia per quanto riguarda il Medio Oriente e l’Europa, sia alla Cina nel teatro dell’Estremo Oriente, è poi quella di volere mettere a repentaglio la stabilità e l’ordine internazionale.
In realtà, proprio l’imperialismo americano è di gran lunga la vera forza destabilizzatrice del 21esimo secolo e l’ordine che i paesi emergenti starebbero minacciando non è altro che la declinante egemonia USA nelle aree strategicamente più importanti del globo. A questa dinamica, gli Stati Uniti non hanno da offrire alcuna contromossa di carattere progressista ma soltanto una pericolosissima escalation militare, rivolta oltretutto contro due potenze nucleari.
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di Carlo Musilli
Più che una presa di posizione convinta sembra una mossa tattica imposta da ragioni di politica interna, ma arriva pur sempre da Westminster e bisogna far mostra di prenderla sul serio. Martedì 10 novembre il premier britannico David Cameron ha scritto al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e al numero uno della Commissione europea Jean Claude Junker.
Nella lettera, il Primo ministro avanza una serie di richieste a Bruxelles per scongiurare la prospettiva del Brexit, ovvero l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea, tema su cui gli elettori britannici saranno chiamati a esprimersi via referendum entro il 2017 (forse già nell'autunno del 2016).
In sintesi, Londra pone quattro condizioni: la possibilità di chiamarsi fuori da eventuali progetti che puntino a una maggiore integrazione europea; il potenziamento della sussidiarietà, concedendo a gruppi di parlamenti nazionali il potere di correggere la legislazione comunitaria; una maggiore tutela della sterlina e in generale dei diritti dei Paesi che non fanno parte dell'Eurozona; il diritto di porre limiti al numero di immigrati dagli altri Paesi Ue e al Welfare di cui questi beneficiano.
I cambiamenti richiesti - ha ammesso Cameron - sono "grandi, ma non impossibili" e "con pazienza, buona volontà e inventiva" potranno essere raggiunti per fare "della Gran Bretagna, ma anche dell'Ue", un posto più "sicuro e prospero" negli anni a venire. Il Premier britannico mantiene un atteggiamento conciliante, ribadisce che vuole mantenere il Paese all'interno dell'Ue, ma avverte che, se le autorità europee non prenderanno in considerazione le richieste sue "e dell’elettorato", potrebbe anche cambiare idea.
La reazione di Bruxelles è stata piuttosto fredda. Il portavoce della Commissione ha definito alcune richieste di Londra "fattibili", altre "difficili" e altre ancora "altamente problematiche", perché causerebbero discriminazioni e comprometterebbero "le libertà fondamentali" dei cittadini europei (ad esempio quella di circolazione sancita dal trattato di Schengen, probabilmente l'accordo più vituperato dalle destre europee).
Fin qui le dichiarazioni ufficiali. Lettere e comunicati, però, non rispondono alla domanda fondamentale: per quale ragione Cameron ha sollevato un polverone di cui - è evidente - lui stesso avrebbe fatto volentieri a meno? In realtà, è stato costretto. Il numero uno di Downing Street, che euroscettico non è, deve fare i conti ormai da tempo con la crescente ostilità della maggior parte dei suoi connazionali nei confronti dell'Unione europea.
Questo sentimento è stato cavalcato con abilità dall'Ukip, il partito populista e conservatore guidato da Nigel Farage (peraltro alleato del Movimento Cinque Stelle all’europarlamento) che negli ultimi anni ha moltiplicato i propri consensi usando proprio l'euroscetticismo come propellente elettorale. Fondato nel 2009, l'Ukip ha ottenuto alle elezioni locali del 2013 il 23% dei consensi (contro il 25% del Partito Conservatore di Cameron) e alle europee del 2014 ha trionfato con il 27,5% dei voti, diventando il primo partito della Gran Bretagna.Com'era prevedibile, Farage ha criticato le richieste di Cameron alla Ue, bollandole come "non sostanziali", perché "non c’è alcuna promessa di ridare supremazia al Parlamento britannico, non c’è niente sulla necessità di porre fine alla libertà di movimento delle persone e non c’è alcun tentativo di ridurre l’enorme contributo britannico al budget europeo".
Posizioni che la maggior parte dei sudditi di Sua Maestà sembra condividere. Secondo un sondaggio realizzato da YouGov per il Times e pubblicato lo scorso 28 settembre, infatti, se si tenesse oggi il referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell'Ue il fronte del No conquisterebbe il 40% delle preferenze, mentre i favorevoli si fermerebbero al 38%.
Il quotidiano inglese sostiene che la crescita dell'euroscetticismo riflette una divisione sull'Ue all'interno dei Tory e dei Labour. Per sanare questa frattura, Cameron sa che l'unica strada è rassicurare l'elettorato conservatore. Il che significa rincorrere Farage verso destra.
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di Michele Paris
La vittoria schiacciante che si prospetta per il partito Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) di Daw Aung San Suu Kyi in Myanmar ha segnato prevedibilmente le prime elezioni considerate dalla comunità internazionale come realmente libere e credibili dal 1990. L’ex Birmania è alle prese da alcuni anni con la drastica inversione di rotta strategica intrapresa dalla propria classe dirigente. Se anche il trasferimento del potere dai militari a una nuova autorità civile guidata dal principale partito dell’opposizione dovesse risolversi pacificamente, gli obiettivi economici e strategici che verranno perseguiti nel prossimo futuro non si discosteranno di molto da quelli già fissati dal regime.
Nella giornata di lunedì, l’entusiasmo della popolazione birmana per il risultato delle urne si è diffuso rapidamente, spingendo i leader della NLD a dichiarare quasi con certezza il successo con percentuali che, su base nazionale, potrebbero aggirarsi addirittura attorno al 70%. Il partito di Aung San Suu Kyi ha in particolare fatto il pieno nella principale città, Yangon, dove avrebbe prevalso in 44 dei 45 distretti elettorali in cui è suddivisa.
I risultati definitivi arriveranno solo tra qualche giorno, ma anche svariati esponenti del Partito dell’Unione, della Solidarietà e dello Sviluppo, ovvero lo strumento politico dei militari al potere, hanno ammesso la sconfitta. Anche il potente ex generale Shwe Mann, presidente uscente del Parlamento, è stato battuto da un candidato della NLD, frustrando seriamente le sue aspirazioni a diventare presidente.
Secondo la Costituzione, ai militari va comunque assegnato automaticamente un quarto dei seggi parlamentari, così che la NLD dovrà conquistare i due terzi di quelli che erano in palio nel voto di domenica scorsa per garantirsi la maggioranza assoluta. In tal caso, la NLD potrà teoricamente approvare leggi senza dipendere dai militari, nonché eleggere un proprio candidato alla presidenza, ma non Aung San Suu Kyi, visto che la Costituzione proibisce di ricoprire tale carica a chiunque abbia cittadini stranieri tra i propri parenti più stretti.
Il premio Nobel per la Pace è stata subito protagonista di un’apparizione pubblica lunedì, nel corso della quale ha prospettato in maniera cauta la vittoria del suo partito e, riflettendo forse qualche timore per la ripetizione dei fatti del 1990, quando le elezioni vinte a valanga dalla NLD furono cancellate dai militari, ha invitato gli sconfitti ad accettare i risultati “serenamente e con coraggio”.
La misura del successo elettorale della Lega Nazionale per la Democrazia in Myanmar chiarisce senza incertezze il livello di avversione presente nel paese del sud-est asiatico nei confronti di un regime repressivo che per decenni ha chiuso ogni spazio alla società civile e, anche a causa delle sanzioni internazionali, ha imposto condizioni materiali di vita insostenibili alla maggior parte della popolazione.
Qualche anno fa, la giunta militare al potere aveva intrapreso una svolta strategica decisiva, svincolandosi relativamente dalla Cina, di fatto l’unico vero partner politico e commerciale per i due decenni precedenti, per mandare segnali di distensione verso l’Occidente. Gli Stati Uniti, in particolare, avevano immediatamente manifestato la propria disponibilità ad aprire un percorso di pacificazione, dal momento che la nuova attitudine del Myanmar ben si incastrava con le iniziative allo studio a Washington per cercare di contenere la Cina attraverso la creazione o il consolidamento di partnership con i paesi dell’Asia sud-orientale.
In cambio del riconoscimento internazionale del regime birmano e dell’annullamento delle sanzioni, gli Stati Uniti e i loro alleati avevano imposto l’attuazione di varie “riforme democratiche”, principalmente per nascondere agli occhi dell’opinione pubblica occidentale i veri interessi strategici ed economici in gioco dietro il consueto paravento della promozione dei valori democratici. Il possibile abbraccio del Myanmar con l’Occidente, infatti, presentava e presenta tuttora ghiottissime possibilità di profitto per il capitale americano, europeo, giapponese e australiano.
La prospettiva di attrarre investimenti stranieri e “modernizzare” il paese con una lunga serie di “riforme” è stata promossa sì dal regime birmano, sia pure tra incertezze e divisioni interne, ma è stata sostanzialmente accettata anche dalla NLD e da Aung San Suu Kyi. Dietro lo scontro tra forze bollate come retrograde e dittatoriali da una parte e quelle “democratiche” dall’altra vi è in realtà un fondamentale accordo sulla necessità di trasformare il Myanmar nella nuova frontiera per gli investimenti internazionali e nell’ennesimo centro di sfruttamento del lavoro a bassissimo costo nel sud-est asiatico.
L’entusiasmo generato dalla NLD e dalla trasformazione di Aung San Suu Kyi in una vera e propria icona democratica sono senza dubbio il segnale di un diffusissimo desiderio di cambiamento nella ex Birmania e delle aspirazioni a una vita migliore. Tuttavia, che questo partito possa diventare un’autentica forza in grado di generare un processo trasformativo in senso progressista e che porti benefici a decine di milioni di persone che vivono oggi in povertà è alquanto improbabile.
La NLD è infatti il partito della borghesia liberale e filo-occidentale del Myanmar che negli ultimi due decenni è stata esclusa dalle possibilità di prosperare a causa delle sanzioni internazionali e del monopolio esercitato sull’economia e sulle strutture del potere da parte dei militari e di una ristretta cerchia di ricchi imprenditori con legami ad altissimo livello. L’obiettivo primario del partito e della sua classe di riferimento è perciò quello di assicurarsi il controllo dei processi innescati dall’apertura del paese all’economia di mercato.
Per comprendere quali siano gli orientamenti ideologici del partito di Aung San Suu Kyi è sufficiente una rapida scorsa alla piattaforma economica approvata dai suoi dirigenti nel 2013. Il partito prometteva senza indugi di adottare una politica economica “orientata verso il mercato”, creando soprattutto le condizioni più favorevoli all’afflusso di capitale estero.
Uno dei punti principali era la deregolamentazione del settore finanziario e la promozione delle liberalizzazioni in vari ambiti, partendo dalla privatizzazione delle aziende di stato. La NLD si diceva poi entusiasta delle nuove regole già implementate dal regime per assegnare contratti alle multinazionali straniere nel settore energetico ed estrattivo, mentre sposava in pieno il passaggio da un sistema basato sul settore agricolo - con una probabile “riforma” agraria dagli effetti devastanti per milioni contadini - alla diffusione di impianti manifatturieri destinati ad alimentare l’export.
Consapevole delle implicazioni economiche e sociali di un’evoluzione che intenda far approdare il Myanmar nel paradiso del capitalismo internazionale, in un’intervista rilasciata nel 2014 al Wall Street Journal, un alto dirigente della NLD metteva in guardia la popolazione da aspettative eccessive, poiché i cambiamenti allo studio non avrebbero comunque generato un livello di benessere diffuso ancora per molto tempo.
Le questioni economiche e i piani della NLD in questo ambito sono ad ogni modo rimasti fuori dal dibattito che ha preceduto le elezioni, dominato invece dai proclami ispirati ai valori democratici e dalla possibilità di ridurre per la prima volta l’influenza dei militari.
Le credenziali democratiche di questo partito sono state però minate da alcuni episodi significativi nei mesi scorsi. La maggioranza della NLD aveva ad esempio emarginato molti membri del movimento “Generazione 88”, protagonista della rivolta contro il regime repressa nel sangue nel 1988.
Dei 17 aspiranti alla candidatura nelle elezioni generali di questo gruppo, soltanto uno è stato accettato dai vertici della NLD, mentre aspre critiche ha anche suscitato la decisione del partito di ignorare le richieste dei suoi iscritti ed escludere vari candidati graditi a questi ultimi a favore di altri considerati di orientamento troppo conservatore.
Qualche malumore anche a livello internazionale aveva provocato infine il sostanziale adeguamento della NLD e di Aung San Suu Kyi stessa alla campagna del regime contro la minoranza musulmana Rohingya che vive in Myanmar. Per cominciare, quasi 800 mila Rohingya nello stato occidentale di Rakhine, che avevano partecipato alle elezioni parlamentari del 2010 e a quelle suppletive del 2012, sono stati privati del diritto di voto in questa tornata.
La decisione, presa mesi fa dal regime del presidente Thein Sein, faceva seguito alle persecuzioni subite dalla minoranza di fede islamica, alimentate dal governo stesso e condotte sul campo da fondamentalisti buddisti, protagonisti di veri e propri pogrom che hanno fatto centinaia di morti e trasformato altre centinaia di migliaia di Rohingya in profughi e detenuti in speciali campi di prigionia.Non solo la NLD non ha presentato un solo candidato musulmano nelle elezioni appena terminate, ma i suoi vertici, inclusa il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, non hanno ritenuto di dover sollevare la questione dei Rohingya nel corso della campagna elettorale.
Il voto in Myanmar è stato comunque accolto molto positivamente dal governo americano. Il segretario di Stato, John Kerry, ha emesso un comunicato nella giornata di domenica, elogiando “l’importante passo avanti” compiuto con le elezioni, pur sottolineando “i significativi ostacoli strutturali” che rimangono sulla strada verso un “governo pienamente democratico e civile”.
Le dichiarazioni provenienti da Washington riflettono in altre parole le speranze legate alla possibile formazione di un governo guidato dalla NLD e da Aung San Suu Kyi, la cui liberazione dagli arresti domiciliari era stata una delle principali condizioni per lo sdoganamento del regime militare qualche anno fa.
Parallelamente, riferendosi agli “ostacoli” che ancora impediscono il pieno sviluppo della democrazia nella ex Birmania, Kerry intende ricordare alla classe dirigente indigena come l’allineamento agli interessi strategici ed economici degli USA dovrà essere assicurato fino in fondo. In caso contrario, le “carenze democratiche” del Myanmar potranno essere sfruttate in qualsiasi momento per rigettare il paese nell’isolamento degli ultimi vent’anni.
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di Fabrizio Casari
Alla fine, sebbene a denti stretti, anche l’Egitto sta per ammettere quello che ormai tutta la comunità dell’Intelligence da per certo: l’Airbus 321 russo precipitato la settimana scorsa nel Sinai, nel quale hanno perso la vita a 224 persone, è stato vittima di un attentato terroristico. L’ordigno che ne avrebbe causato l’esplosione sarebbe stato confezionato - stando alle intercettazioni ed all’attività investigativa - dalla cellula egiziana dell’Isis.
L’esplosivo sarebbe arrivato in stiva contenuto in una bombola da sub, probabilmente anche grazie ai controlli insufficienti dell’aeroporto di Sharm El-Sheikh. La riluttanza egiziana ad ammettere che di attentato si è trattato ha almeno un paio di spiegazioni: la prima è che Il Cairo è perfettamente consapevole che indicare il suo territorio come destinazione possibile di attentati metterà in seria crisi il turismo, che ad oggi continua ad essere la prima voce delle entrate finanziarie per l’Egitto.
La seconda spiegazione è che l’eventuale conferma di un attentato mette in difficoltà l’autorevolezza del governo egiziano, dimostrando che egli potrà anche aver piegato con la forza i Fratelli Musulmani, potrà anche aver vinto elezioni militarizzate e aver stretto ulteriormente gli spazi per l’iniziativa islamista, ma l’area riferibile direttamente all’Isis in particolare, e al radicalismo islamista in generale, dispone di energie e risorse per costituire una minaccia grave per il paese dei faraoni.
La rivendicazione dell’attentato da parte dell’aspirante califfo d’Egitto, Abu Osama Al Musri, che ha già officiato il rito di sottomissione ad Abu Bakr Al-Baghdadi, ripropone con forza la presenza di una miscela di radicalismo e terrorismo egiziano che punta a costituire un ponte con l’attività militare del califfato in Siria e Iraq. L’ipotesi che possa trattarsi di millanteria allo scopo di farsi pubblicità e di accreditarsi presso Al Baghdadi non viene considerata plausibile, mentre vengono accreditate le tracce che porterebbero proprio ad Al Musri nell’organizzazione del criminale attentato.
E’ una seconda pessima notizia per le ambizioni del governo di Al Sisi, giacché almeno per quanto si riferisce alla capacità di controllo interno, il suo governo non può certo presentarsi come affidabile. Di conseguenza, il ruolo di gendarme anti-Isis al quale l'Egitto aspirava, viene quantomeno ridimensionato. E anche per quanto attiene alla politica estera la situazione è tutt’altro che brillante: la strategia del governo egiziano di unirsi alla coalizione militare anti-Isis e, nel contempo, cercare di riannodare i rapporti con l’Arabia Saudita, non pare risolutiva, almeno a fini interni.
Ovvio che in un momento di ridefinizione generale degli equilibri di potere nella Regione, l'Egitto non possa permettersi un profilo di secondo piano, visto il peso militare, politico e culturale del Paese in tutto il mondo arabo. Ma aggiungersi alla coalizione occidentale - dove ci sono Turchia e Arabia Saudita, che in realtà appoggiano l’Isis per motivi diversi - ha ulteriormente sollecitato l’attivismo interno degli islamisti e ha riproposto in forma evocativa le scelte di politica del regime di Mubarak, riavvolgendo così il nastro della politica egiziana a prima delle Primavere arabe e fornendo armi alla propaganda terroristica.
Anche la Russia aveva evitato di riconoscere l’attentato immediatamente, giacchè l’assenza di riscontri e il parziale danneggiamento della scatola nera del velivolo rendevano arduo il formarsi di un convincimento netto al riguardo. E anche perché Mosca ha piena consapevolezza di come l’eventuale conferma dell’attentato cambi decisamente lo scenario e il contesto del suo intervento in Siria. Mosca, con questo attentato, passa infatti dall’essere soggetto attivo nell’attacco alle postazioni islamiste in Siria al ruolo di vittima del terrorismo islamico.
E’ probabile che la risposta russa non si farà attendere ed è ipotizzabile che i pur positivi risultati dei colloqui internazionali con gli altri protagonisti della guerra siriana, che hanno riconosciuto alla Russia un ruolo di primo piano, alla luce di questo attentato non potranno che far crescere il suo peso nell’area. In fondo, l’incremento della presenza militare statunitense sul teatro siriano, ha anche l’obiettivo di non lasciare troppo campo ai russi.
Ma da ora sarà ancor più difficile limitare l’intervento russo attestandolo sulla difesa delle sue basi e della capitale. L’attentato subìto, in questo senso, cambia il quadro generale e la stessa legittimazione dell’intervento militare di Mosca risulta maggiore. Se infatti l’intervento in Siria faceva leva sulle necessità geopolitiche della Russia, ora il tema della sicurezza russa diverrà parallelo a quello della sicurezza mediorientale, diventando la seconda gamba su cui far marciare le truppe moscovite.Sul piano interno, Putin potrà far leva sul nazionalismo russo: pur essendo scenari e conflitti completamente diversi, la memoria del conflitto ceceno è ancora viva nel Paese e dover contare le vittime civili del terrorismo islamico non potrà che far crescere il già ampio consenso popolare alle scelte del Cremlino. Viene superato, in sostanza, l’intervento a sostegno di Assad e per la cacciata del terrorismo islamico dalla Siria; l’attentato alla sua aviazione civile porta anche formalmente la Russia in guerra aperta contro il terrorismo islamista in tutto il Medio Oriente.
Sarà dunque maggiore il ruolo che la Russia rivendicherà nelle scelte di riordino dell’area, ma sarà anche l’elemento che comporterà un diverso agire. Se il Cremlino pensava che l’intervento in Siria potesse essere di breve durata e intensità, ora dovrà rivedere i calcoli.
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di Michele Paris
Il governo Conservatore britannico ha presentato questa settimana in Parlamento un nuovo progetto di legge sulle intercettazioni e la sorveglianza delle comunicazioni elettroniche e del traffico internet di tutti i cittadini del Regno. Il provvedimento, battezzato “Investigatory Powers Bill”, rappresenta un attacco diretto ai diritti democratici della popolazione, come sempre dietro il paravento della necessità di dotare le forze di sicurezza dei mezzi necessari a combattere la minaccia del terrorismo.
La legge dovrebbe essere approvata e implementata entro la fine del 2016. Punta, da un lato, ad allargare drammaticamente i poteri di controllo sui cittadini da parte dello Stato e, dall’altro, a garantire in maniera retroattiva un quadro pseudo-legale per le attività di spionaggio già messe in pratica in questi anni con l’autorizzazione del governo.
I punti centrali del provvedimento sono sostanzialmente due. I provider di servizi internet dovranno in primo luogo conservare per dodici mesi i dati di navigazione sul web di tutti gli utenti britannici, rendendoli disponibili alle forze di polizia e ai servizi segreti. Questi ultimi, poi, avranno facoltà di penetrare clandestinamente computer, smartphone e telefoni di chiunque rappresenti una teorica minaccia alla sicurezza del paese.
Il pacchetto di misure è stato presentato dal ministro degli Interni, Theresa May, davanti a una Camera dei Comuni quasi deserta e sostanzialmente inerte di fronte a uno dei più deliberati tentativi di smantellare diritti democratici consolidati da secoli nella società britannica.
La May ha affermato che, per contrastare “trame terroristiche e il crimine organizzato”, lo Stato “deve avere la possibilità di intercettare il contenuto delle comunicazioni per ricavare informazioni sensibili” e di utilizzare “questi poteri per identificare le minacce più gravi contro il Regno Unito provenienti dall’estero e stabilire rapidamente collegamenti con i sospettati nel nostro paese”.
Le agenzie governative avranno ora la possibilità di conoscere senza richiedere alcun mandato l’URL di un sito web visitato da qualsiasi utente. Per accedere all’intera cronologia di navigazione, come ad esempio tutte le pagine visitate di un determinato sito, sarà invece necessario ottenere un mandato.
Anche in quest’ultimo caso, le garanzie per la protezione della privacy e dei diritti civili degli utenti, che Theresa May ha affermato saranno assicurate, risultano però del tutto inefficaci. A differenza di quanto accade attualmente, non sarà più sufficiente un’autorizzazione del ministro degli Interni, ma sarà necessario un mandato sottoscritto da un giudice.
Tuttavia, secondo la legge a occuparsi delle richieste sarà uno speciale “commissario”, ovvero un giudice, nominato dal primo ministro. Questa figura collaborerà con altri giudici che a loro volta avranno l’autorità di firmare un mandato.
In casi ritenuti “urgenti”, inoltre, il ministro degli Interni potrà autorizzare l’accesso ai dati sensibili prima che i giudici abbiano il tempo di considerare la richiesta. In qualsiasi caso, lo stesso ministro potrà fare appello contro una richiesta di mandato respinta, riferendosi direttamente al “commissario” di nomina governativa, il quale sarà verosimilmente esposto a enormi pressioni per ribaltare la decisione.
L’intera procedura ricalca grosso modo quella in atto da tempo negli USA, dove a valutare le richieste di intercettazione è uno speciale tribunale che si riunisce in segreto e che acconsente alle istanze presentate dalle agenzie governative praticamente nel 100% dei casi.
Questo sistema di “supervisione” delle attività di spionaggio domestico dei servizi britannici è stato criticato da molte organizzazioni a difesa della privacy e dei diritti civili, così come dal relatore ONU sull’anti-terrorismo e i diritti umani, Ben Emmerson, secondo il quale l’emissione di un mandato deve essere affidata esclusivamente a un “giudice indipendente”, cosa non prevista dalla legislazione appena presentata dal governo Cameron.
In merito all’autorità conferita ai servizi di sicurezza di violare i computer e i telefoni cellulari di sospettati di terrorismo, come già ricordato, la nuova legge si propone di legalizzare attività che, per stessa ammissione del governo, sono state finora condotte clandestinamente. Sotto l’occhio dei servizi segreti britannici, ha assicurato infine il ministro, potrà finire chiunque, inclusi gli stessi membri del Parlamento.
Nel suo intervento, Theresa May ha poi fatto una dichiarazione eccezionale, quando ha rivelato per la prima volta al Parlamento che, sulla base del Telecommunications Act del 1984, tutti i governi di Londra a partire dal 1994 hanno emesso ordini segreti per costringere le compagnie di telecomunicazioni a consegnare i dati delle comunicazioni elettroniche e telefoniche di cittadini britannici ai servizi di sicurezza.
Per giustificare azioni palesemente illegali da parte di questi ultimi e dei governi, il ministro May ha garantito che i dati così acquisiti hanno contribuito a sventare svariati attacchi terroristici in Gran Bretagna. Prevedibilmente, l’autorevole membro del gabinetto Conservatore ha ritenuto di non dover presentare alcuna prova in merito.
L’Investigatory Powers Bill è la versione modificata di un provvedimento simile presentato nel 2012 dal precedente governo Cameron e bollato ironicamente come “Snoopers Charter” (“Carta degli Spioni”). Il livello di violazione della privacy previsto da quella legge era tale che lo stesso partner di governo dei Conservatori - il Partito Liberal Democratico - si era sentito in dovere di respingerlo. Senza i numeri in Parlamento e sull’onda dell’opposizione manifestata da moltissimi in Gran Bretagna, il Partito Conservatore aveva alla fine ritirato la proposta di legge.
La necessità di mettere nelle mani delle forze di sicurezza vastissimi poteri di sorveglianza, in un clima di forti tensioni sociali e di crescente ostilità alle politiche di austerity e alla deriva autoritaria della classe dirigente del Regno, ha però riportato all’ordine del giorno la legge. I cambiamenti rispetto al 2012 sono in larga misura cosmetici e riguardano quasi esclusivamente i debolissimi meccanismi di “supervisione” giudiziaria che sono stati inseriti, così da consentire al governo di sostenere di avere rispettato le principali garanzie democratiche.
Come hanno fatto notare vari giornali in questi giorni, la nuova legge che sarà discussa in Gran Bretagna rappresenta il più ambizioso tentativo in Occidente di fissare nuove regole sui metodi di sorveglianza dei cittadini dall’inizio delle rivelazioni su queste attività dell’ex contractor dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), Edward Snowden, nel 2013.Snowden aveva fatto conoscere a tutto il mondo i metodi criminali del governo americano, attuati in collaborazione con i suoi più fedeli alleati, come la Gran Bretagna grazie alle attività del GCHQ (Government Communications Headquarters). Da allora, però, le iniziative allo studio o adottate da vari governi sono andate in direzione esattamente opposta a quella richiesta da popolazioni giustamente allarmate per l’erosione dei diritti democratici.
Più precisamente, come conferma la nuova legge britannica, i governi hanno sfruttato il dibattito generato dalle rivelazioni di Snowden per codificare azioni di sorveglianza anti-democratiche messe in atto da tempo in modo clandestino dai servizi segreti, spacciandole come iniziative a difesa della privacy in seguito all’inclusione di sterili misure di supervisione pseudo-giudiziarie.
Se i governi occidentali - e non solo - hanno potuto mettere in atto un’offensiva di questa portata contro le libertà civili e i diritti democratici non è certo a causa di uno scarso interesse da parte delle popolazioni o di una mancanza di disponibilità alla mobilitazione. Piuttosto, ciò è reso possibile dalla complicità dei partiti di “sinistra” e delle organizzazioni che ruotano attorno a essi.
In Francia, una legge da stato di polizia sulle intercettazioni è stata recentemente adottata dal governo e dalla maggioranza del Partito Socialista. In Gran Bretagna, invece, il Partito Laburista ha garantito il pieno appoggio alla proposta dei Conservatori. Mentendo spudoratamente sui contenuti della legge, il ministro-ombra degli Interni, Andy Burnham, ha infatti assicurato che il provvedimento “non è né una ‘Carta degli Spioni’ né un piano per la sorveglianza di massa” della popolazione britannica.