di Mario Lombardo

La crisi in Siria ha fatto registrare nella mattinata di martedì una drammatica e preoccupante escalation in seguito all’abbattimento da parte della Turchia di un aereo da guerra russo che avrebbe sconfinato all’interno del proprio territorio. L’episodio, non nuovo da parte di Ankara, ha mostrato in maniera chiara come l’aggravarsi della situazione siriana, con l’intervento militare di numerosi paesi a difesa dei rispettivi interessi strategici, rischia di provocare scontri che possono portare a un pericoloso allargamento del conflitto.

Le circostanze dell’abbattimento del jet di Mosca sono state descritte in maniera differente dalle autorità turche e da quelle russe. Per il governo islamista di Ankara, due F-16 turchi avrebbero colpito un SU-24 russo dopo che quest’ultimo era entrato nello spazio aereo della Turchia nei pressi del confine con la Siria. Lo Stato Maggiore turco ha sostenuto che il velivolo russo avrebbe ignorato dieci avvertimenti in cinque minuti prima di essere abbattuto.

Il Ministero della Difesa russo ha invece affermato con decisione che il jet stava sorvolando il territorio siriano in una zona dove sono in corso scontri tra le forze del regime di Assad e gruppi “ribelli”. Inoltre, il fuoco che ha colpito il SU-24 che volava a seimila metri di altezza proveniva da terra. Quest’ultima affermazione è stata succesivamente smentita e anche il governo russo ha indicato due F-16 turchi come i responsabili dell’abbattimento.

I due piloti sono riusciti a lanciarsi con il paracadute prima dello schianto dell’aereo in territorio siriano. Uno di loro sarebbe però deceduto, mentre l’altro sembra essere nelle mani di un gruppo “ribelle” di etnia turcomanna. Secondo alcune testimonianze provenienti dall’opposizione siriana, anche il secondo pilota sarebbe stato ucciso e, stando a fonti del governo moscovita, un terzo militare russo sarebbe stato ucciso mentre cercava i due piloti.

La gravità dell’accaduto ha spinto il presidente russo Putin a intervenire pubblicamente già nel primo pomeriggio di martedì durante un incontro a Sochi con il re della Giordania, Abdullah. Il capo del Cremlino ha definito l’abbattimento come “una pugnalata nella schiena” da parte della Turchia che avrà “conseguenze serie” sui rapporti tra i due paesi. Mosca e Ankara solo lunedì avevano annunciato la volontà di rafforzare la cooperazione per fronteggiare le sfide regionali e globali, in previsione di un vertice strategico tra i due ministri degli Esteri che avrebbe dovuto tenersi a Istanbul nella giornata di mercoledì e che è stato invece cancellato.

Il SU-24 abbattuto, ha continuato Putin, stava conducendo operazioni belliche contro lo Stato Islamico (ISIS) nella regione montagnosa settentrionale di Latakia, dove sono attivi combattenti fondamentalisti in gran parte di nazionalità russa.

Putin ha poi attaccato il presidente turco Erdogan e il primo ministro Davutoglu per essersi rivolti subito alla NATO invece di contattare la Russia, “come se fossimo stati noi ad abbattere un loro aereo e non viceversa”. Il presidente russo ha anche confermato le prime dichiarazioni del ministero della Difesa, cioè che il jet non aveva sconfinato nello spazio aereo turco ed è precipitato in territorio siriano a sei chilometri dal confine, mentre al momento dell’abbattimento si trovava a un chilometro dal confine.

Il governo turco, da parte sua, ha convocato un alto diplomatico dell’ambasciata russa per chiedere spiegazioni sul presunto sconfinamento. Le tensioni tra i due paesi erano peraltro già vicine ai livelli di guardia a causa degli effetti negativi dell’intervento russo sui piani di Erdogan per la Siria. Ankara aveva già convocato l’ambasciatore di Mosca la scorsa settimana in seguito a bombardamenti russi molto vicini al confine turco.

La Turchia ha comunque chiesto e ottenuto una riunione di emergenza del consiglio della NATO. Viste le possibili gravi conseguenze dell’abbattimento e alla luce dei timori per un’escalation del confronto, prima del vertice un portavoce dell’Alleanza aveva tenuto a precisare che la riunione era stata indetta solo per consentire alla Turchia di spiegare l’accaduto e non vi era nessun riferimento all’Articolo IV del trattato, il quale scatta nel caso sia minacciata l’integrità territoriale, l’indipendenza o la sicurezza di un paese membro.

Il comunicato diffuso dalla NATO dopo il summit di emergenza nel tardo pomeriggio di martedì si è limitato a esprimere solidarietà alla Turchia per la violazione del suo spazio aereo da parte dell’aereo russo. I rappresentanti dei vari paesi membri hanno prevedibilmente riconosciuto il diritto della Turchia alla difesa del proprio territorio, ma allo stesso tempo sono prevalsi gli appelli alla calma.

Come hanno riferito alcuni giornali, svariati ambasciatori dei paesi NATO riunitisi a Bruxelles hanno parlato in privato dell’importanza di evitare una retorica troppo accesa che possa mettere a repentaglio i tentativi della Francia di costituire una coalizione militare con la Russia per combattere l’ISIS in Siria.

Il comunicato relativamente blando uscito dalla riunione di martedì è apparso infatti ben diverso da quello emesso solo lo scorso mese di ottobre, quando un’altra denuncia turca di un’invasione del proprio spazio aereo da parte russa era stata seguita da una “forte protesta” e dalla richiesta fatta a Mosca di “cessare” e “desistere” da quello che veniva definito un “comportamento irresponsabile”.

Nel pomeriggio di martedì è intervenuto anche il premier turco Davutoglu, il quale ha ribadito l’obbligo da parte della Turchia di difendere il proprio territorio, come se il presunto sconfinamento di un jet russo impegnato contro le formazioni jihadiste oltreconfine potesse rappresentare una minaccia esistenziale per il paese eurasiatico.

Ferma restando l’impossibilità al momento di accertare la verità, è evidente che i fatti di martedì mattina possono essere letti attraverso i vantaggi e gli svantaggi che da essi potrebbero derivare per le due parti coinvolte.

Per quanto riguarda la Russia, il cui governo sta conducendo una campagna militare in larga misura per la difesa dei propri interessi strategici in Medio Oriente, se si escludono eventuali errori di manovra da parte dei piloti del jet abbattuto, non sono per nulla chiare le ragioni che avrebbero potuto motivare uno sconfinamento in territorio turco nel pieno delle operazioni contro i gruppi “ribelli”.

Mosca, in sostanza, difficilmente potrebbe aver pensato di ricavare un qualche beneficio da una provocazione di questo genere, tanto più essendo perfettamente a conoscenza delle posizioni di Erdogan e del suo governo circa la situazione in Siria.

La Turchia, come già anticipato, ha visto infatti andare in crisi i propri piani per combattere il regime di Damasco in seguito all’intervento militare russo, a cominciare dalla creazione di una “no-fly zone” nel nord della Siria da utilizzare come territorio da cui organizzare un’offensiva contro le forze di Assad.

Proprio per alimentare la presunta minaccia alla propria sicurezza proveniente dalla Siria, il governo turco ha già messo in atto svariate provocazioni in passato, così da convincere i propri alleati occidentali, primi tra tutti gli Stati Uniti, ad agire in maniera più incisiva contro Damasco.

Nel marzo del 2014, gli F-16 turchi furono protagonisti di un altro abbattimento, in quell’occasione di un jet siriano che, secondo Ankara, aveva sconfinato nel proprio spazio aereo. Il regime di Assad aveva negato con forza la versione dell’incidente proposta dalla Turchia, la quale intendeva appunto utilizzare l’episodio per fare pressioni sulla NATO e intervenire a difesa dell’alleato sotto minaccia.

La crisi interna scatenata dal fallimento della politica mediorientale di Erdogan e Davutoglu, tutt’altro che superata dopo le recenti elezioni vinte nettamente dal loro partito (AKP), potrebbe dunque rappresentare anche in questa occasione la molla che ha spinto il governo di Ankara a prendere una decisione così grave nei confronti della Russia.

L’abbattimento del jet russo segna in ogni caso una pericosola complicazione della guerra in Siria e, forse, un passo avanti verso un catastrofico scontro diretto tra le parti che combattono a favore e contro il regime di Assad, queste ultime attraverso l’appoggio di gruppi fondamentalisti.

La delicatezza stessa della situazione siriana e le implicazioni di un’eventuale escalation, come ritengono molti osservatori, potrebbero però consigliare, almeno per il momento, iniziative meno gravi di quanto ci si potrebbe attendere. Da parte russa, nonostante i toni minacciosi di Putin, il già complicato coinvolgimento nelle operazioni in Siria suggerisce ritorsioni relativamente contenute nei confronti di Ankara, come ad esempio la presa di mira di formazioni anti-Assad sostenute dalla Turchia.

Martedì, comunque, Mosca ha annunciato la sospensione di ogni contatto di tipo militare con la Turchia, mentre un incrociatore russo sarà inviato al largo della costa siriana e avrà l’incarico di “distruggere qualsiasi obiettivo che rappresenti una potenziale minaccia”.

Per quanto riguarda gli alleati di Erdogan, tra i quali, come si è visto al termine della riunione di emergenza della NATO, sono giunti inviti alla calma nella giornata di martedì, è ipotizzabile invece che l’episodio verrà sfruttato quanto meno per esercitare ulteriori pressioni sulla Russia e convincere Putin a percorere una strada che, sulla Siria, converga sempre più con gli obiettivi strategici occidentali e della Turchia stessa.

Di ciò se ne è avuto conferma dalle dichiarazioni giunte sia dallo stesso vertice NATO sia da Washington. Nel primo caso, il segretario generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, ha esortato la Russia a concentrare il proprio sforzo bellico sull’ISIS, riproponendo la tesi che Mosca bombardi principalmente i gruppi moderati e secolari che si batterebbe contro Assad. L’identico concetto lo ha ribadito infine anche il presidente americano Obama nel corso dell’incontro negli Stati Uniti con il suo omologo francese Hollande.

di Michele Paris

La risposta del governo britannico alla minaccia terroristica che graverebbe sul continente europeo è apparsa chiara da alcuni annunci e decisioni prese in questi giorni dal primo ministro, David Cameron, e dai membri del suo gabinetto. Londra darà cioè un nuovo impulso al militarismo fin dal prossimo futuro, sia sotto forma di nuove spese per rafforzare le proprie forze armate sia intervenendo direttamente nel teatro di guerra siriano. Il tutto mentre la spesa pubblica per i programmi sociali sul fronte domestico continuerà a essere tagliata in maniera drastica.

Lo stesso premier ha fatto sapere che il bilancio della Difesa aumenterà del 7% nei prossimi dieci anni, salendo a 178 miliardi di sterline. I programmi di spesa in questo ambito sono delineati in due documenti strategici presentati nella giornata di lunedì e anticipati dalla stampa già il giorno precedente.

Per cominciare, il governo intende acquistare 138 aerei da guerra F-35 dalla Lockheed Martin, così da averne 24 operativi per il 2023, vale a dire molto prima e in numero maggiore di quanto era previsto in precedenza. Inoltre, la “vita” dei jet Typhoon sarà prolungata di un decennio fino al 2040, in una mossa che amplierà significativamente la capacità di fuoco aereo britannica. Gli acquisti di Londra riguarderanno anche due nuove portaerei e nove aerei da pattuglia P8 della Boeing, utilizzabili per operazioni di sorveglianza e per manovre belliche contro navi e sottomarini.

Tra i piani del governo Conservatori vi è poi quello di creare entro il 2025 due brigate d’assalto composte da 5 mila uomini ciascuna, dotate di 600 veicoli blindati e pronte a intervenire in tempi brevissimi.

Ancora più importante appare l’impegno economico relativo all’intelligence e all’antiterrorismo. Le operazioni di questo genere beneficeranno di un incremento dei fondi pari addirittura al 30% fino al 2020, passando dagli 11,7 miliardi di sterline originariamente stanziati a 15,1 miliardi.

A tutto ciò vanno aggiunti 80 miliardi di sterline già preventivati per il rinnovamento dell’arsenale nucleare britannico, tra cui spicca l’aggiunta di quattro nuovi sottomarini nucleari, definito recentemente da Cameron la “suprema polizza assicurativa” del paese.

I giornali del Regno hanno sottolineato in questi giorni come la revisione di spesa precedente nel 2010 prevedesse un considerevole ridimensionamento del bilancio militare per contribuire alla riduzione del deficit pubblico. Mentre i tagli alla spesa in altri ambiti e che colpiscono i redditi più bassi non hanno quasi mai suscitato particolari proteste, quelli militari avevano causato diffusi malumori tra i vertici delle forze armate e tra sezioni di una classe dirigente preoccupata per il ruolo declinante della Gran Bretagna a livello internazionale.

Improvvisamente, Cameron sostiene oggi che Londra può tornare a permettersi spese militari da grande potenza. Che il vento avesse iniziato a cambiare era apparso chiaro già qualche mese fa, quando il governo si era impegnato a rispettare l’obiettivo indicato dalla NATO di spendere annualmente almeno il 2% del PIL nazionale in ambito militare.

Se l’incremento degli stanziamenti destinati ai militari viene presentato come assolutamente necessario per garantire la sicurezza del Regno Unito, è evidente il carattere classista delle politiche di spesa del governo Conservatore. Oltre a servire per promuovere gli interessi delle élites britanniche, la pioggia di sterline a beneficio dell’apparato militare e di intelligence contrasta drammaticamente con gli assalti al welfare, alla sanità e all’educazione pubblica condotti da Cameron in questi anni.

Proprio questa settimana, un paio di giorni dopo l’annuncio ufficiale delle aumentate spese militari, il Cancelliere dello Scacchiere (Ministro delle Finanze), George Osborne, delineerà inoltre un ulteriore piano d’attacco alla spesa pubblica, fatto di altri 20 miliardi di sterline di tagli, nel quadro dello sforzo per giungere a un attivo di bilancio nel 2020.

Mentre il denaro per le spese militari risulta dunque reperibile, le autorità locali e i ministeri che erogano servizi sociali fondamentali per gli strati più disagiati della popolazione del Regno continueranno a essere privati di fondi. Osborne ha infatti appena salutato l’accordo con 11 tra ministeri e dipartimenti per l’implementazione di tagli dei loro budget tra il 25% e il 40% che finiranno nella prossima “spending review”. Per comprendere la portata di queste riduzioni di spesa è opportuno ricordare che esse vanno a sommarsi a quelle già decise negli anni scorsi e che avevano spesso superato il 30% dei bilanci totali.

Per quanto riguarda i nuovi piani di spesa militari, in ogni caso, l’attacco terroristico del 13 novembre scorso a Parigi e il clima di assedio alimentato in tutta Europa da media e governi hanno fornito l’occasione per darne l’annuncio in questi giorni.

Allo stesso modo, il gravissimo attentato ha permesso a Cameron di resuscitare la richiesta di allargare l’impegno militare britannico in Medio Oriente - ufficialmente contro lo Stato Islamico (ISIS) - dall’Iraq alla Siria. Nel primo paese le operazioni sono in corso da oltre un anno ma nel secondo l’ambizione del governo ad autorizzare i bombardamenti aerei è stata finora frustrata.

Dopo l’umiliazione del 2013, quando il Parlamento di Londra bocciò l’aggressione militare contro la Siria in seguito alle accuse infondate rivolte al regime di Assad di avere usato armi chimiche contro i civili, Cameron era stato molto cauto nell’approcciare la crisi in questo paese.

Alcuni mesi fa la questione dell’allargamento delle operazioni alla Siria era tornata all’ordine del giorno, con una richiesta di autorizzazione da presentare al Parlamento preparata dal governo. Recentemente, però, l’iniziativa era stata condannata da una commissione della Camera dei Comuni, la quale citava tra l’altro il pericolo di complicare una crisi già quasi inestricabile e il rischio di un conflitto diretto con la Russia da poco attiva militarmente al fianco di Damasco.

Proprio quando la risoluzione di guerra all’ISIS in Siria sembrava morta e sepolta, la strage di Parigi l’ha rimessa in carreggiata e potrebbe approdare al Parlamento di Londra già la prossima settimana. Osborne, tuttavia, ha avvertito che il governo chiederà un voto sulla proposta solo quando sarà certo di ottenere i voti necessari per l’approvazione.

Nel frattempo, il premier Cameron ha anticipato il maggiore coinvolgimento britannico in Siria nel corso dell’incontro di lunedì a Parigi con il presidente francese, François Hollande. Il leader Conservatore si è detto convinto che la Gran Bretagna debba unirsi alla Francia nel bombardare l’ISIS in Siria e ha offerto ai caccia transalpini l’uso della base della RAF di Akrotiri, a Cipro.

Cameron, dopo avere fatto visita con Hollande al teatro Bataclan, dove gli attentatori hanno fatto quasi un centinaio di vittime, ha anche auspicato l’adozione di misure di sorveglianza ancora più severe. Soprattutto, il primo ministro ha definito fondamentale la condivisione tra i membri dell’UE delle informazioni relative a tutti i passeggeri degli aerei che viaggiano da e per l’Europa, nonostante, come è emerso nei giorni scorsi, i servizi di sicurezza francesi fossero stati chiaramente allertati da più parti circa i movimenti e la pericolosità dei responsabili degli attacchi di Parigi.

di Michele Paris

L’Assemblea Nazionale francese ha approvato giovedì la richiesta del governo del presidente, François Hollande, e del primo ministro, Manuel Valls, di prolungare da dodici giorni a tre mesi lo stato di emergenza sul territorio nazionale dichiarato subito dopo gli attentati di venerdì scorso a Parigi. Il provvedimento, che rappresenta l’ennesima grave minaccia per la democrazia d’Oltralpe, modifica una legge esistente del 1955 e, nelle intenzioni dell’Eliseo, dovrebbe essere seguita al più presto da modifiche alla Costituzione per assegnare al presidente poteri virtualmente illimitati nell’applicazione dello stato di emergenza.

Secondo la versione dei media e dei politici, i recenti attacchi terroristici avrebbero riacceso un dibattito pubblico sugli equilibri tra le necessità della sicurezza e la conservazione dei diritti democratici, spostando l’accento sulle prime a discapito di questi ultimi. In realtà, in Francia e non solo, gli episodi di violenza continuano a servire da giustificazione per implementare misure sempre più repressive che le classi dirigenti hanno in serbo da tempo e che servono ad ampliare i poteri di controllo e sorveglianza non tanto o non solo sui sospettati di terrorismo ma sull’intera popolazione.

Lo stato di emergenza che sta per essere prolungato in Francia codifica veri e propri poteri da stato di polizia. Particolarmente preoccupante è la facoltà assegnata alle forze di sicurezza di porre in stato di fermo non solo chiunque rappresenti una minaccia all’ordine pubblico, bensì addirittura chiunque tenga un comportamento che possa far pensare a una minaccia alla sicurezza e all’ordine pubblico.

Dalla spiegazione data qualche giorno fa da un portavoce del governo Socialista, le forze di polizia potranno prendere di mira individui che si fanno notare dal loro comportamento, ma anche dalle loro amicizie, affermazioni o progetti. In sostanza, potranno essere arrestate persone che, con un semplice post su un social network, possano teoricamente istigare disordini, anche senza legami a fatti di terrorismo.

Se si considerano i precedenti storici, inoltre, la criminalizzazione di simili attività può essere facilmente applicabile a scioperi, manifestazioni politiche o, ancora peggio, al sostegno o alla semplice esposizione di idee e posizioni critiche nei confronti dello stato, se non degli attuali rapporti di classe o del sistema capitalistico.

Che queste ipotesi siano tutt’altro che inverosimili è confermato ad esempio dalla clamorosa decisione presa dal governo del Partito Socialista francese nel Luglo dello scorso anno, quando venne proibita a Parigi una manifestazione pacifica contro il massacro israeliano di civili allora in corso a Gaza.

Sempre sulla base della percezione di ipotetiche minacce, potranno essere poi sciolte determinate organizzazioni, mentre un emendamento alla legge esistente approvato giovedì consentirà al ministero dell’Interno di oscurare siti internet che incitino o siano responsabili di apologia del terrorismo. Questo potere era peraltro già stato assegnato al governo lo scorso febbraio anche al di fuori dello stato di emergenza.

Poco confortante è invece la cancellazione dei controlli sui mezzi di informazione, previsti dalla precedente legge, decisa dal governo soprattutto per l’affidabilità dei media “mainstream” anche in Francia nell’auto-censurarsi e nello sposare automaticamente la linea ufficiale delle autorità nei casi che hanno a che fare con la sicurezza nazionale.

Ancora, risulterà molto più laborioso contestare i provvedimenti di arresto, mentre durante le perquisizioni nelle abitazioni private potranno essere sequestrati computer, telefoni cellulari e altri dispositivi elettronici. La precedente legge del 1955 consentiva invece il sequestro soltanto di armi.

Lo stesso presidente Hollande, nel suo intervento eccezionale di lunedì di fronte ai due rami del Parlamento a Versailles, aveva anticipato altre misure che il governo intende adottare. Tra queste, oltre all’assegnazione alle forze di sicurezza del potere di utilizzare “tutti i mezzi offerti dalle nuove tecnologie”, vi è la possibilità di revocare quella francese a coloro che hanno doppia cittadinanza, nonché di espellerli dal paese, in caso di condanna per terrorismo.

Sempre le forze di polizia, inoltre, potranno invocare il diritto all’auto-difesa in molti più casi rispetto al passato e gli agenti avranno la possibilità di tenere con sé le loro armi anche al di fuori degli orari di servizio.

Il prolungamento dello stato di emergenza nelle modalità stabilite dalla nuova legge che modifica quella del 1955 sarà approvato in via definitiva dopo il voto del Senato, previsto per venerdì. Ciò appare una formalità, vista anche la maggioranza schiacciante ottenuta giovedì dal governo all’Assemblea Nazionale (551 favorevoli, 6 contrari).

Come già anticipato, Hollande auspica anche una modifica alla Costituzione entro i prossimi tre mesi. I cambiamenti previsti permetteranno al presidente di dichiarare lo stato di emergenza senza l’approvazione del Parlamento. Gli emendamenti voluti dal presidente, come ha spiegato un docente di diritto costituzionale alla radio francese RFI, servono sostanzialmente a dare un “fondamento costituzionale” allo stato di emergenza, cioè, paradossalmente, alla sospensione delle libertà civili e dei diritti democratici.

Incredibilmente, Hollande aveva sostenuto lunedì che le modifiche costituzionali e le nuove disposizioni in materia di anti-terrorismo permettono alle “autorità pubbliche di agire contro il terrorismo secondo la legge”. Al contrario, le manovre del governo di Parigi intendono dare a misure profondamente anti-democratiche una copertura pseudo-legale, sfruttando il clima venutosi a creare in seguito agli attentati della scorsa settimana.

I piani del governo sono ancora più gravi se si considera che solo pochi mesi fa, ufficialmente in risposta all’attacco di gennaio alla redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo e alla continua allerta terrorismo nel paese, era già stata approvata un’altra legge che assegnava poteri di sorveglianza vastissimi alle forze di sicurezza.

Tutte queste iniziative, va ricordato, sono proposte e adottate per far fronte a una minaccia che è interamente il risultato della criminale politica estera mediorientale del governo di Parigi, portata avanti con gli alleati di Washington, Londra e nel mondo arabo.

Soprattutto, però, l’assunzione di misure repressive da parte del governo è indissolubilmente legata all’impopolarità senza precedenti di un presidente in carica e dello stesso Partito Socialista. Impopolarità determinata dall’attuazione di politiche di rigore e di smantellamento dei diritti del lavoro, dopo una campagna elettorale di segno diametralmente opposto, che hanno prodotto nel paese immense tensioni sociali pronte a esplodere.

Questa evoluzione è peraltro comune praticamente a tutti i paesi occidentali, coinvolti infatti in larga misura in almeno uno dei conflitti in Medio Oriente o in Africa settentrionale che hanno alimentato il fondamentalismo jihadista e prodotto, di riflesso, effetti collaterali sotto forma di attentati terroristici entro i rispettivi confini, a loro volta seguiti dall’approvazione di leggi da stato di polizia.

Estremamente significativa è infine la promessa fatta in questi giorni da Hollande, avallata dall’Unione Europea, di violare il patto di stabilità finanziaria per stanziare fondi extra a favore delle forze di sicurezza, in ultima analisi da compensare con ulteriori devastanti tagli alla spesa pubblica.

di Michele Paris

Dal summit dei G-20 in Turchia, martedì il presidente americano Obama è volato nelle Filippine per partecipare al primo di una serie di vertici che coinvolgono i paesi dell’Asia sud-orientale e dell’area Pacifico, mettendo subito in chiaro l’intenzione da parte degli Stati Uniti di sfruttare ogni singolo palcoscenico internazionale per alimentare ulteriori tensioni anti-cinesi.

Il primo evento a cui sta prendendo parte Obama è quello che riunisce i 21 paesi membri della Cooperazione Economica Asiatico-Pacifica (APEC), in corso appunto a Manila. Nei prossimi giorni si terranno invece il summit dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) e il Forum dell’Asia Orientale (EAS), entrambi a Kuala Lumpur, in Malaysia.

L’inquilino della Casa Bianca ha da subito sollevato la questione delle rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale, oggetto da alcuni anni di accese dispute, incoraggiate da Washington, tra Pechino e vari paesi della regione. Già durante il primo giorno di lavori all’APEC, Obama ha invitato la Cina a interrompere le operazioni nell’arcipelago di Spratly conteso con le Filippine, dove recentemente alcune aree sono state strappate al mare per costruire installazioni civili e militari.

Obama ha poi chiesto ai leader cinesi di prendere iniziative per ridurre le tensioni nel Mar Cinese Meridionale, mentre ha ribadito l’appoggio del suo governo a quello di Manila nella causa presentata dalle Filippine contro Pechino presso un tribunale internazionale a L’Aia, in Olanda, sui territori contesi.

L’enfasi posta sulla necessità di trovare una soluzione multilaterale, verosimilmente mediata da Washington, per risolvere le rivendicazioni nelle acque del sud-est asiatico è stata inoltre, come di consueto, un altro modo per alzare in maniera deliberata il livello dello scontro con la Cina, visto che quest’ultimo paese si è sempre detto disposto a negoziare una soluzione diplomatica ma soltanto a livello bilaterale e senza interferenze di paesi terzi.

La scelta del presidente americano di affrontare direttamente un argomento così sgradito a Pechino appare ricca di significato, non solo perché giunge a pochi giorni dagli attentati di Parigi che hanno fatto alzare i livelli della retorica dell’unità nella lotta al terrorismo, ma anche alla luce del fatto che i vertici APEC, dedicati alle questioni economiche e commerciali, sono raramente il teatro di dispute diplomatiche o di discussioni legate alla sicurezza della regione.

Come se non bastasse, il presidente cinese, Xi Jinping, aveva accettato di essere presente a Manila solo dopo avere avuto la rassicurazione dal presidente filippino, Benigno Aquino, che il suo governo non avrebbe sollevato la questione delle dispute territoriali durante il summit.

Già martedì, comunque, nel suo primo giorno di visita nelle Filippine, Obama aveva mostrato la volonta di agitare ancor più le acque nel continente asiatico. Il presidente era apparso pubblicamente a bordo della fregata filippina BRP Gregorio Del Pilar nel porto di Manila, da dove ha riassunto la posizione e la strategia USA in relazione alle dispute territoriali nella regione.

Questa imbarcazione, oltretutto, faceva parte della flotta della guardia costiera americana prima di essere acquistata nel 2011 dal governo filippino e oggi viene utilizzata proprio per pattugliare le aree rivendicate da Manila nel Mar Cinese Meridionale.

Obama ha ad ogni modo parlato dell’impegno del suo paese “per la sicurezza nelle acque della regione e per la libertà di navigazione”, annunciando poi la fornitura di altre due navi alla marina delle Filippine nel quadro di un piano da 250 milioni di dollari destinato ad “aumentare l’assistenza ai nostri alleati e ai nostri partner nella regione sul fronte della sicurezza marittima”.

I fondi stanziati saranno erogati in due anni e la fetta maggiore andrà proprio alle Filippine (79 milioni), seguite da Vietnam (40 milioni), Indonesia (20 milioni) e Malaysia (2,5 milioni), tutti paesi che sono tornati a manifestare apertamente le rispettive rivendicazioni territoriali nei confronti della Cina su istigazione degli Stati Uniti. L’aumentata “sicurezza marittima” a cui ha fatto riferimento martedì Obama non è infatti altro che un’escalation di provocazioni nel Mar Cinese Meridionale che minacciano di sfociare in pericolosi scontri militari nelle acque della regione.

L’irrigidimento delle posizioni americane a qualche anno dal lancio della “svolta” asiatica in funzione di contenimento della Cina si riflette sempre più nelle posizioni ufficiali degli “alleati” e dei “partner” nella regione evocati da Obama.

Se nel concreto questi paesi dell’Asia sud-orientale sembrano mantenere un’attitudine relativamente cauta verso Pechino, vista l’importanza della Cina per le loro economie, mostrano però anch’essi una pericolosa tendenza all’allineamento strategico sulle posizioni USA, quanto meno in questo frangente con un Obama in visita nella regione impegnato a elargire aiuti economici tutt’altro che trascurabili.

Qualche giorno fa, l’Indonesia, uno dei paesi fin qui più attenti a non prendere parte allo scontro tra Washington e Pechino, ha così minacciato di denunciare la Cina presso la Corte Permanente di Arbitrato de L’Aia se non saranno risolte pacificamente le dispute territoriali che mettono di fronte i due paesi, in questo caso per le isole Natuna, sempre nel Mar Cinese Meridionale.

Altrettanto prudente era stato in genere finora anche il governo della Malaysia, ma sabato scorso il vice primo ministro, Zahid Hamidi, nel corso di un discorso pubblico ha bollato come “infondate” le rivendicazioni cinesi su basi storiche nel Mar Cinese Meridionale.

Le provocazioni più significative nelle ultime settimane hanno visto tuttavia protagonisti proprio gli Stati Uniti, i quali continuano anche a incoraggiare una corsa agli armamenti tra i paesi del sud-est asiatico. Il mese scorso, Washington aveva inviato una nave da guerra all’interno delle acque territoriali delle isole Spratly, su cui la Cina afferma la propria sovranità pur essendo rivendicate dalle Filippine, e successivamente aveva autorizzato a volare sopra di esse dei bombardieri B-52.

Vari esponenti dell’amministrazione Obama e i vertici militari americani hanno assicurato che simili operazioni proseguiranno in futuro, malgrado la ferma reazione di Pechino. Gli USA fanno riferimento alla necessità di garantire la libertà di navigazione, lasciando intendere che quest’ultima sarebbe minacciata dalle rivendicazioni cinesi e dai lavori condotti su alcune isole nel Mar Cinese Meridionale.

Questa tesi è però assurda, visto che è proprio la Cina ad avere tutto l’interesse a difendere la libertà dei traffici commerciali nell’area. Da queste rotte vitali per Pechino transita infatti una parte molto consistente delle importazioni e delle esportazioni cinesi, mentre è piuttosto la presenza militare statunitense in svariati paesi della regione a rappresentare una potenziale minaccia, soprattutto in caso di esplosione di un conflitto tra le prime due potenze economiche del pianeta.

Uno dei più recenti accordi promossi da Washington per lo stazionamento di forze armate e navali è stato quello con le Filippine, siglato nella primavera del 2014, che prevede la concessione di alcune basi militari al personale americano. L’intesa, a cui si oppone la gran parte della popolazione filippina e sezioni della classe dirigente indigena preoccupate per il deterioramento dei rapporti con la Cina, è però al vaglio della Corte Suprema di Manila, in quanto violerebbe la Costituzione del paese asiatico che vieta la presenza a tempo indeterminato di soldati stranieri sul territorio nazionale.

Il regime cinese, da parte sua, continua intanto a mantenere un atteggiamento apparentemente pacato nei vertici internazionali, rispondendo raramente alle provocazioni americane. Il presidente Xi, ad esempio, mercoledì durante il summit APEC di Manila ha invitato i paesi membri a “promuovere un’atmosfera di pace” attraverso il dialogo e la cooperazione, senza fare alcun riferimento alle questioni aperte nel Mar Cinese Meridionale.

Soprattutto però, il leader cinese ha come al solito giocato la carta economica per cercare di logorare l’influenza USA e attrarre i paesi vicini sempre più nella propria orbita. Con un occhio anche al trattato di libero scambio sui generis denominato Partnership Trans-Pacifica (TPP), sottoscritto a ottobre tra gli Stati Uniti e altri 11 paesi asiatici, del continente americano e dell’Oceania, Xi ha avanzato la causa di un trattato concorrente, ovvero la cosiddetta Area di Libero Scambio dell’Asia-Pacifico.

Pechino, ha fatto sapere Xi, intende insomma intensificare gli sforzi per mandare in porto svariati accordi di libero scambio. D’altra parte, la forza di attrazione del gigante cinese, nonostante il relativo rallentamento della crescita economica, rappresenta un formidabile ostacolo ai tentativi di integrare la regione in un sistema diplomatico-militare-economico guidato dalla declinante potenza americana.

A conferma di ciò, il presidente cinese ha citato il perfezionamento a portata di mano dell’accordo di libero scambio tra il suo paese e i membri dell’ASEAN, nonché trattati simili già siglati tra Pechino e due importanti alleati di Washington – Australia e Corea del Sud – che dovrebbero entrare in vigore entro la fine di quest’anno.

di Michele Paris

A quasi un anno dalla diffusione della sintesi del rapporto del Senato americano sugli interrogatori di presunti terroristi con metodi di tortura da parte della CIA, lo scontro interno al governo di Washington per impedirne la pubblicazione integrale ed evitare conseguenze legali o politiche ai responsabili continua a rimanere molto acceso nonostante lo scarso interesse della stampa ufficiale.

Ai primi di dicembre del 2014, era giunta a termine una lunga contesa che aveva ritardato di quasi due anni la pubblicazione di quella che rappresenta solo una piccola parte di uno studio di 6.700 pagine. Nelle 525 pagine declassificate vi erano comunque descritti numerosi crimini commessi dalla principale agenzia di intelligence USA, tra cui il ricorso alle più sadiche forme di tortura e alla menzogna per occultare queste ultime e far credere all’efficacia degli interrogatori “avanzati” per ottenere preziose informazioni dai detenuti.

Le gravissime accuse contenute nel rapporto stilato dalla commissione per i Servizi Segreti del Senato di Washington - ai tempi della compilazione a maggioranza democratica - non ha prevedibilmente innescato alcun processo, né tantomeno alcuna incriminazione, a carico di coloro che hanno commesso i fatti descritti e di quanti hanno autorizzato le torture o hanno contribuito al tentativo di insabbiamento.

Anzi, certi dell’impunità, potenziali criminali di guerra come l’attuale direttore della CIA, nonché ex primo consigliere per l’Antiterrorismo di Obama, John Brennan, sono più volte intervenuti pubblicamente non solo per difendersi ma anche per attaccare il rapporto stesso e i suoi compilatori, esaltando al contempo “i tremendi sacrifici e i servizi resi da vari membri dell’agenzia per la sicurezza del paese”.

La stessa Casa Bianca ha fatto di tutto per mettere in pratica il proposito del presidente Obama di “guardare avanti” senza indagare troppo sul passato sporco della “guerra al terrore”, contribuendo di fatto a far sparire completamente dal dibattito pubblico la questione delle torture della CIA.

L’eventuale incriminazione dei responabili e dei mandanti politici dei crimini commessi contro i sospettati di terrorismo fisserebbe d’altra parte un precedente spiacevole per gli esponenti di spicco dell’amministrazione Obama, tra cui lo stesso presidente, i quali hanno abolito formalmente l’autorizzazione a torturare per sostituirla con gli assassini mirati, ugualmente o ancor più in violazione del diritto internazionale e della Costituzione americana.

La pubblicazione del rapporto completo sulle torture rappresenterebbe in questo senso una grave preoccupazione per quanti erano coinvolti nel programma di interrogatori della CIA, visto che nelle 6.700 pagine potrebbero essere citati con precisione nomi, luoghi e responsabilità di quanto accaduto dopo l’11 settembre 2001.

Per comprendere l’approccio dell’amministrazione Obama alla questione delle torture e il grado di trasparenza che la contraddistingue, risulta estremamente interessante ricostruire almeno in maniera sommaria la sorte del rapporto dopo la pubblicazione del riassunto nel dicembre dello scorso anno.

Secondo un recente articolo del New York Times, poco dopo la pubblicazione, la commissione del Senato che aveva redatto il rapporto, presieduta dalla senatrice democratica della California, Dianne Feinstein, aveva debitamente inoltrato copia della versione integrale al Pentagono, alla CIA, al Dipartimento di Stato e al Dipartimento di Giusizia, assieme alla raccomandazione - solo apparentemente ironica - di leggerlo integralmente affinché i crimini descritti potessero servire da lezione per il futuro.

I supporti informatici che contengono il rapporto giacciono però tuttora intatti nelle casseforti dei ministeri e delle agenzie a cui sono stati inviati. Il Dipartimento di Stato, spiega il Times, al momento della ricezione ha ad esempio messo sotto chiave la propria copia con un timbro che recita: “Materiale del Congresso - Non Aprire, Non Leggere”.

Queste iniziative fanno parte di un’autentica farsa messa in piedi dall’amministrazione Obama per impedire la diffusione pubblica del rapporto stesso. Il testo integrale è infatti oggetto di dispute legali, con associazioni come la American Civil Liberties Union (ACLU) che ne hanno chiesto la pubblicazione secondo quanto previsto dalla legge sulla Libertà di Informazione (FOIA).

Quest’ultima legge si applica però soltanto ai documenti del governo, mentre quelli del Congresso possono rimanere segreti. Il Dipartimento di Giustizia e gli altri organi dell’esecutivo che hanno ricevuto copia del rapporto sulle torture hanno perciò deciso di non volerlo aprire né leggere, in quanto ritengono che così facendo il materiale in questione resterebbe di esclusiva pertinenza del Congresso e quindi non sottoposto all’obbligo di pubblicazione.

Nel mese di maggio, un tribunale federale di primo grado aveva deliberato in favore dell’amministrazione Obama ma un verdetto d’appello è atteso nel prossimo futuro. Nel frattempo, la senatrice Feinstein è stata al centro di un nuovo scontro tra i poteri dello stato negli USA, dopo che nel 2014 aveva tenuto un eccezionale discorso al Congresso per accusare la CIA di avere violato la Costituzione mettendo sotto sorveglianza i terminali dei membri della Commissione sui Servizi Segreti impegnati nella realizzazione del rapporto sulla stessa agenzia di Langley.

La Feinstein ha cioè indirizzato una lettera al ministro della Giustizia, Loretta Lynch, accusando il suo dipartimento di volere bloccare la diffusione del rapporto e, quindi, impedire che “gli errori del passato siano ripetuti”. Oltre al fatto che di errori non si tratta, bensì di politiche criminali deliberate, la senatrice democratica, nonostante i toni molto duri nei confronti del governo, ha peraltro mostrato più volte estrema docilità verso l’apparato della sicurezza nazionale USA.

Ciò è confermato, tra l’altro, dal fatto che, fino allo scorso anno, in qualità di presidente della Commissione sui Servizi Segreti, avrebbe potuto promuovere la pubblicazione unilaterale della versione integrale del rapporto senza attendere il via libera della CIA, ovvero dell’agenzia oggetto dell’indagine e responsabile dei crimini in essa descritti.

A tutt’oggi, le probabilità che il contenuto del rapporto possa essere portato a conoscenza del pubblico sono sembre più poche, anche perché il cambio di maggioranza al Senato nel mese di gennaio ha cambiato gli equilibri tra favorevoli e contrari alla pubblicazione.

Il successore di Dianne Feinstein alla guida della Commissione, il repubblicano del North Carolina, Richard Burr, si sta infatti impegnando per occultare del tutto il rapporto. Il senatore ha definito quest’ultimo una “nota a margine della storia” e ha già chiesto agli organi del governo che ne hanno ricevuto copia di restituirla alla Commissione, agevolando probabilmente il definitivo insabbiamento di uno dei documenti più rilevanti per l’assegnazione delle responsabilità nei crimini commessi dagli Stati Uniti nell’ambito della cosiddetta “guerra al terrore”.


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