di Michele Paris

A poche settimane dall’elezione alla presidenza dell’Egitto, l’ex generale Abdel Fattah al-Sisi ha annunciato un’iniziativa richiesta da tempo dagli ambienti finanziari internazionali e dal business indigeno. La graduale eliminazione dei sussidi statali per i prodotti energetici ha causato l’immediata impennata dei prezzi dei carburanti, colpendo duramente le fasce più povere della popolazione e provocando manifestazioni di protesta che potrebbero rapidamente allargarsi nel prossimo futuro.

Nonostante fosse nell’aria, la misura è scattata a sorpresa nella notte tra sabato e domenica e rientra nel piano del regime per ridurre il deficit pubblico di 48 miliardi di lire egiziane (4,94 miliardi di euro), in modo da portarlo al 10% del PIL. Il totale dei sussidi che saranno cancellati ammonta a 44 miliardi di lire egiziane, equivalenti a circa 4,5 miliardi di euro.

Da un giorno all’altro, così, gli egiziani hanno visto aumentare il prezzo della benzina per i mezzi di trasporto fino al 78% e il diesel del 64%. I più colpiti sono stati però i proprietari di auto con impianti a gas, poiché in questo caso gli aumenti sono stati addirittura del 175%. Tra i maggiori consumatori di gas per auto figurano i tassisti egiziani che, infatti, hanno dato vita nel fine settimana a proteste improvvisate, disperse con gas lacrimogeni dalla polizia, soprattutto al Cairo ma anche a Suez e Ismailia.

L’effetto dei sussidi va ad aggiungersi poi a un altro recentissimo decreto firmato da Sisi che aumenta le tasse su tabacco e alcolici, nonché più in generale a un’inflazione in costante aumento, soprattutto per i beni alimentari.

Per finanziare i sussidi nel settore energetico e per i beni alimentari, l’Egitto spende ogni anno circa un terzo del bilancio pubblico. Vista la loro entità, i sussidi sono tradizionalmente criticati dagli ambienti di potere nazionali ed esteri perché considerati uno spreco di denaro pubblico e una distorsione intollerabile del mercato.

I principali media, inoltre, continuano a sostenere che i prezzi artificialmente bassi di alcuni beni di prima necessità favoriscono in larga misura i cittadini più benestanti, i quali oltretutto non ne avrebbero nemmeno bisogno. I sussidi statali, in realtà, nonostante riguardino anche le aziende, consentono agli egiziani che appartengono alle classi più disagiate di sopravvivere a fronte di livelli drammatici di povertà e di disoccupazione.

Quella annunciata domenica è comunque solo la prima fase di un progetto che, nel caso dovesse andare in porto, prevede la rimozione di tutti i sussidi del settore energetico in un periodo dai tre ai cinque anni. Secondo quanto affermato in maniera improbabile dal primo ministro egiziano, Ibrahim Mehleb, le risorse così risparmiate consentiranno di liberare risorse che il governo potrebbe spendere nel settore sanitario e in quello dell’educazione.

Implementati per alleviare la povertà e contenere le tensioni sociali, i sussidi statali in Egitto non erano mai stati toccati nei tre decenni dell’era Mubarak, mentre della loro eliminazione si è iniziato a discutere dopo la rivoluzione del 2011.

Il presidente eletto tra le fila dei Fratelli Musulmani, Mohamed Mursi, aveva negoziato un prestito da 4,8 miliardi di dollari con il Fondo Monetario Internazionale (FMI), a patto che l’Egitto procedesse con un piano di austerity che comprendeva, appunto, la riduzione dei sussidi.

Con l’economia in caduta libera e il malumore crescente tra la popolazione, la questione del taglio dei sussidi non è stata però affrontata in maniera concreta e il prestito del FMI è rimasto congelato. La decisione presa settimana scorsa dal regime non è ufficialmente legata ai negoziati col Fondo, anche se il ministro delle Finanze, Hany Kadri, ha affermato che l’Egitto avrebbe ora diritto ad accedere al prestito perché sta adottando “riforme più dure” di quelle richieste dal FMI.

La decisione di Sisi ricorda invece quella presa nel gennaio 1977 dall’allora presidente egiziano Anwar al-Sadat. In quell’occasione, l’eliminazione dei sussidi per i beni alimentari di prima necessità - su richiesta del FMI e della Banca Mondiale - fece scoppiare la protesta di centinaia di migliaia di egiziani delle classi più povere, ai quali il regime rispose con l’intervento dell’esercito. Dopo giorni di scontri e un’ottantina di morti, fu solo il ripristino dei sussidi a riportare l’ordine nel paese nordafricano.

I timori per una nuova esplosione di rabbia tra la popolazione pervadono anche oggi la classe dirigente egiziana. La recente elezione a presidente con una percentuale schiacciante, nonostante l’astensionismo di massa, deve avere però convinto Sisi di essere sufficientemente forte da far digerire a decine di milioni di persone un drastico aumento del costo della vita.

Meno sicuri sono apparsi al contrario quasi tutti i partiti politici egiziani. Se quelli di ispirazione liberista hanno tiepidamente applaudito l’iniziativa, pur criticando le modalità con cui la soppressione di alcuni sussidi è stata frettolosamente implementata, altre formazioni di sinistra hanno bocciato la decisione del governo.

L’atteggiamento critico di questi ultimi partiti appare tuttavia poco più di una manovra politica, dal momento che essi avevano in gran parte appoggiato il colpo di stato militare guidato da Sisi nel luglio dello scorso anno, contribuendo a promuovere l’immagine “democratica” dell’ex generale nonostante fosse più che evidente la natura contro-rivoluzionaria del colpo di mano ai danni del presidente eletto Mursi.

L’offensiva del nuovo regime contro i lavoratori e i poveri egiziani, d’altra parte, conferma ancora una volta come il golpe portato a termine poco più di un anno fa non abbia rappresentato in nessun modo un’azione volta a difendere le conquiste rivoluzionarie del 2011.

Al contrario, la manovra dei militari - appoggiata dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Occidente - si era resa necessaria per bloccare sul nascere una nuova mobilitazione popolare e riportare una qualche stabilità nel paese, così da procedere con le richieste del capitalismo domestico e internazionale. In questa prospettiva, la soppressione dei sussidi statali è solo la prima delle “riforme” che il nuovo governo ha in serbo per la popolazione egiziana.

di Michele Paris

Questa settimana, un tribunale cileno ha ufficialmente riconosciuto la responsabilità dei servizi segreti degli Stati Uniti nella morte nell’autunno del 1973, per mano del neo-installato regime golpista di Augusto Pinochet, di due giornalisti americani. Secondo il giudice Jorge Zepeda, “l’intelligence statunitense ha avuto un ruolo fondamentale nell’omicidio dei due cittadini americani… fornendo ai vertici militari del Cile le informazioni che hanno portato alla loro morte”.

Lo stesso giudice ha individuato nel capitano americano Ray Davis la persona che passò le informazioni sui due sostenitori del governo socialista di Salvador Allende - il 31enne Charles Horman e il 24enne Frank Teruggi - al suo contatto all’interno del regime cileno, Raúl Monsalve.

Grazie a queste informazioni, Horman e Teruggi furono arrestati pochi giorni dopo il colpo di stato contro Allende dell’11 settembre 1973, portati allo stadio Nazionale di Santiago, trasformato dai militari in centro di detenzione, e successivamente torturati e uccisi.

Il giudice Zepeda ha anche confermato una precedente sentenza che ordinava l’incriminazione del colonnello cileno in pensione Pedro Espinoza per i due omicidi e dell’ex agente del controspionaggio Rafael Gonzalez per complicità nell’omicidio di Charles Horman.

I due giovani giornalisti americani erano giunti in Cile dopo l’elezione di Allende e lavoravano per una pubblicazione di sinistra nella capitale, Santiago. Horman, inoltre, stava indagando sul ruolo svolto dal governo americano nel golpe e, con ogni probabilità, era entrato in possesso di informazioni sensibili visto che alla vigilia dell’azione dei militari cileni si trovava a Vina del Mar, di fatto quartier generale dei golpisti e degli agenti degli Stati Uniti con cui stavano organizzando il rovesciamento del governo legittimo.

Un’amica di Horman che si trovava in vacanza a Vina del Mar - Terry Simon - avrebbe in seguito rivelato che lei e il giornalista avevano visto navi da guerra degli Stati Uniti nella località vicina a Valparaiso e parlato con ufficiali americani, chiaramente euforici per gli eventi in corso a Santiago.

Horman e Terry Simon ottennero poi un passaggio in auto per la capitale dal capitano Davis, all’epoca capo del cosiddetto “Gruppo Militare” presso l’ambasciata americana, il quale aveva ultimato la sua visita settimanale al porto di Valparaiso. Due giorni più tardi, nel pieno dell’ondata di arresti di militanti di sinistra e sostenitori del governo Allende scatenata da Pinochet, i militari cileni rapirono Charles Horman.

Quasi contemporaneamente, la stessa sorte toccò anche a Frank Teruggi e al suo coabitante, David Hathaway. Teruggi scomparve dopo il secondo interrogatorio sostenuto all’interno dello stadio di Santiago, mentre Hathaway venne rilasciato e potè rientrare negli Stati Uniti.

Il cadavere di Teruggi - con la gola tagliata e i segni di due colpi di arma da fuoco alla testa - venne identificato da un amico in un obitorio, mentre quello di Horman - murato in una struttura dello stadio – sarebbe stato ritrovato solo un mese più tardi.

Dopo la sparizione, il padre di Horman si recò in Cile per cercare il figlio e, formalmente, l’ambasciata USA gli fornì una qualche assistenza. Edmund Horman e Joyce, la moglie di Charles, dubitavano però dei diplomatici americani, tanto che declinarono la richiesta di questi ultimi di fornire all’ambasciata un elenco con i nomi degli amici del giornalista scomparso.

La vicenda di Horman e Teruggi e, soprattutto, le ricerche del padre e della moglie del primo in Cile sono state raccontate nel famoso film Missing del 1982 di Costa-Gavras.

Come era risaputo, la sentenza di questa settimana ha confermato che gli Stati Uniti all’epoca del golpe in Cile erano impegnati in un’operazione di intelligence per raccogliere informazioni sulle attività politiche dei cittadini americani presenti nel paese sudamericano. Il lavoro di uomini come il capitano Ray Davis veniva svolto con la piena consapevolezza che la denuncia ai militari cileni dei loro connazionali sarebbe equivalsa ad una condanna a morte.

Inoltre, come ha spiegato in questi giorni un avvocato della famiglia Horman, “i militari cileni non avrebbero mai agito di propria iniziativa”, dal momento che “non avevano particolare interesse in Horman o Teruggi, né disponevano di prove di attività politiche compromettenti che facessero dei due americani un obiettivo dell’intelligence domestica”.

Per quanto riguarda Ray Davis, la giustizia cilena aveva richiesto già in passato l’estradizione agli Stati Uniti, credendo che l’ex ufficiale vivesse in Florida. Invece, il capitano americano viveva segretamente proprio in Cile, dove sarebbe deceduto lo scorso anno in una struttura di ricovero di Santiago.

Sulla vicenda di Horman e Teruggi, il governo americano era stato costretto a pubblicare alcuni documenti già nel 1980 in seguito ad una richiesta sottoposta in base al "Freedom of Information Act". Le carte erano però censurate in maniera pesante, coerentemente con i tentativi di Washington e Santiago di nascondere le proprie responsabilità negli omicidi.

Nel 1999, in seguito all’arresto dell’anno precedente a Londra di Pinochet, l’amministrazione Clinton decise di rivelare il contenuto degli omissis, portando alla luce per la prima volta le ammissioni del Dipartimento di Stato che il regime cileno non avrebbe agito nei confronti dei due cittadini americani senza il via libera di Washington.

Già nel 1976, le dichiarazioni dell’ex agente dell’intelligence di Pinochet, Rafael Gonzalez, avevano peraltro costretto il Dipartimento di Stato USA ad avviare due indagini interne sulla morte di Horman e Teruggi. Gonzalez aveva tra l’altro rivelato che i suoi superiori avevano in un’occasione comunicato a “un americano” che Horman “doveva sparire perché sapeva troppo”.

Lo stesso Gonzalez aveva anche descritto la stretta collaborazione tra i servizi segreti cileni e quelli americani nella destabilizzazione del governo Allende. Gli USA, inoltre, avevano fornito ai militari una lista di militanti di sinistra da arrestare nei giorni successivi al colpo di stato.

Entrambe le indagini sarebbero giunte alla conclusione che il regime di Pinochet era responsabile dell’assassinio dei due americani, citando allo stesso tempo l’assenso di Washington, sia pure in termini molto cauti. La seconda indagine, soprattutto, sollecitava il coinvolgimento della CIA per fare chiarezza sulla vicenda ma, com’è ovvio, non venne presa nessuna iniziativa in questo senso.

Il risultato ottenuto con la sentenza di questa settimana è arrivato soltanto grazie alla perseveranza delle famiglie Horman e Teruggi. In particolare, di fronte all’ostilità del governo americano, la vedova di Charles Horman nel 2000 aveva denunciato in Cile Pinochet e i suoi subordinati, citando come testimoni l’ex consigliere per la sicurezza nazionale ed ex segretario di Stato, Henry Kissinger, e i membri del Dipartimento di Stato durante l’amministrazione Nixon.

A seguito del pronunciamento del giudice cileno, Joyce Horman ha dichiarato: “dopo più di 40 anni dall’uccisione di mio marito e dopo 14 anni dall’inizio del procedimento giudiziario in Cile, sono lieta che i casi di Charles Horman e Frank Teruggi stiano avanzando nei tribunali di questo paese. Allo stesso tempo, resto sconvolta dal fatto che… un ufficiale americano indagato, il capitano Ray Davis, sia potuto sfuggire alla giustizia”.

Ciononostante, ha concluso la vedova del giornalista, “la sentenza del giudice Zepeda ha implicato e incriminato agenti dell’intelligence degli Stati Uniti per il ruolo oscuro che hanno svolto nell’assassinio di mio marito”.

di Michele Paris

Un’accesa polemica scoppiata negli Stati Uniti sta coinvolgendo la probabile favorita nella corsa alla Casa Bianca per il Partito Democratico in vista delle elezioni presidenziali del 2016. L’ex segretario di Stato, Hillary Clinton, è infatti da qualche tempo bersaglio di critiche a causa della situazione finanziaria della sua famiglia, la quale ha messo assieme un’autentica fortuna al termine della presidenza del marito Bill nel gennaio del 2001.

Le entrate dei Clinton erano finite al centro del dibattito politico dopo che, in un’intervista televisiva, Hillary aveva sostenuto che lei e il marito erano “usciti dalla Casa Bianca non solo al verde ma anche indebitati”. L’ex presidente e la ex first lady erano “senza denaro” e costretti “a mettere assieme le risorse per i mutui, per le case, per l’educazione [della figlia] Chelsea”, ritrovandosi perciò in una situazione definita “non facile”.

Successivamente, nel corso di un’intervista al britannico Guardian, Hillary è arrivata a negare che la sua famiglia faccia parte della cerchia di americani “veramente ricchi”, essendo piuttosto tra coloro che pagano tasse sul reddito “normali”. In ogni caso, ha aggiunto Hillary, i suoi introiti e quelli del marito non costituiscono un problema, poiché i due sarebbero diventati ricchi sfondati “lavorando duro”.

A definire il livello di ricchezza raggiunto dai Clinton e il genere di “duro lavoro” che i coniugi hanno dovuto sostenere è stata qualche giorno fa un’indagine del Washington Post basata sulle dichiarazioni dei redditi presentate fino al 2013, quando Hillary ha lasciato l’amministrazione Obama.

Se anche nell’improbabile eventualità che i due leader democratici fossero effettivamente usciti in condizioni economiche precarie dall’esperienza alla Casa Bianca, gli stenti per loro non sono durati troppo a lungo e, soprattutto, sono stati ripagati in maniera sostanziosa.

Infatti, dal gennaio 2001 fino allo scorso anno, Bill Clinton ha incassato ben 104,9 milioni di dollari in compensi per discorsi tenuti durante conferenze pubbliche e private. Questa cifra è il risultato di 542 apparizioni dell’ex presidente, con una media di oltre 190 mila dollari per un singolo discorso, vale a dire circa quattro volte il reddito annuo di una famiglia americana media.

Scorrendo l’elenco di enti e compagnie che hanno ingaggiato Bill Clinton è facile comprendere quale genere di “duro lavoro” sia stato compensato così profumatamente. Secondo il Post, cioè, gli sponsor maggiormente interessati a garantirsi l’apparizione dell’ex presidente sono da ricercare nell’industria finanziaria di Wall Street. Soltanto le grandi banche e gli istituti finanziari hanno pagato Bill Clinton quasi 20 milioni di dollari per 102 conferenze.

Questo denaro è di fatto il compenso assicurato dai banchieri e dagli speculatori d’oltreoceano al loro uomo alla Casa Bianca, il quale soprattutto negli ultimi anni della sua presidenza è stato protagonista della più grande operazione di deregulation finanziaria della storia americana. Tra le leggi che hanno concesso mano libera alle compagnie finanziarie di Wall Street, portando direttamente al tracollo del 2008, ci sono almeno il Financial Services Modernization Act del 1999 e il Commodity Futures Modernization Act del 2000.

La firma su questi provvedimenti ha assicurato a Bill Clinton la riconoscenza dei colossi bancari USA e dei loro dirigenti che hanno di fatto cooptato l’ex presidente nell’élite dei super-ricchi d’America.

Tra gli sponsor più generosi spicca Goldman Sachs che, nonostante la sua agenda affollata, ha ingaggiato Bill Clinton in otto occasioni, pagandolo un totale di 1,35 milioni di dollari. Ancora di più ha fatto però la canadese TD Bank, per la quale Clinton ha parlato dieci volte incassando 1,8 milioni di dollari. Questa banca, fa notare il Washington Post, possiede una quota di TD Ameritrade, il cui fondatore, Joe Ricketts, è uno dei più importanti finanziatori del Partito Repubblicano.

La necessità forse di superare le difficoltà economiche della famiglia ha però spinto Bill Clinton ad accettare ingaggi praticamente in qualsiasi ambito. Dagli interventi di fronte a platee di imprenditori per discutere di commercio estero o della crisi finanziaria alla somministrazione di consigli a investitori desiderosi di ascoltare una celebrità nazionale, Clinton ha invariabilmente richiesto parcelle super-salate.

Una delle prestazioni in assoluto più pagate per Bill Clinton risale al maggio di due anni fa, quando una trasferta “frenetica” di sette giorni tra Svizzera, Danimarca, Svezia, Austria e Repubblica Ceca gli valse qualcosa come 1,4 milioni di dollari. Proprio il 2012 è stato l’anno finora più impegnativo e proficuo per l’ex presidente, durante il quale ha tenuto 72 discorsi retribuiti per un totale di 16,3 milioni di dollari.

Parte del denaro raccolto in questo modo, tengono a precisare i portavoce dei Clinton, viene indirizzato talvolta verso la loro fondazione privata. Bill, inoltre, negli ultimi anni ha visto aumentare la concorrenza di Hillary, sempre più richiesta - e pagata - per i suoi interventi dopo l’esperienza al Dipartimento di Stato.

In seguito all’uscita dall’amministrazione Obama, Hillary Clinton ha anche iniziato un tour per la promozione del suo libro, “Hard Choices”, grazie al quale le entrate della famiglia sono lievitate ulteriormente. Per l’anno 2013, in ogni caso, non ci sono dati sulla situazione finanziaria dei Clinton, essendo cessato l’obbligo di rendere pubblici i redditi una volta abbandonate da entrambi le cariche pubbliche ricoperte.

Oltre a compensare i servizi di Bill Clinton durante i suoi otto anni alla Casa Bianca, il denaro erogato dall’universo delle banche e delle corporation degli Stati Uniti servirà a garantire la difesa dei grandi interessi economico-finanziari anche nel caso di un’eventuale futura presidenza di Hillary.

I due leader democratici hanno d’altra parte mostrato una grande abilità non solo nell’intercettare dollari per il proprio interesse privato ma anche a favore delle loro campagne elettorali e delle casse del partito.

Bill e Hillary, secondo quanto riportato questa settimana dal Wall Street Journal, hanno contribuito alla raccolta di più di 1 miliardo di dollari in finanziamenti elettorali in due decenni di impegno politico. La rete di donatori a cui i Clinton possono attingere, secondo il quotidiano newyorchese, rappresenta un indubbio vantaggio per Hillary sui repubblicani, nel caso quest’ultima decidesse di correre per la Casa Bianca nel 2016.

Secondo i dati presentati, almeno i tre quarti dei finanziamenti elettorali raccolti grazie allo sforzo dei Clinton provengono da compagnie private. Per dare l’idea della vastità dei legami dei Clinton con il mondo “corporate” americano, basti citare la quota di donazioni raccolte dai due presidenti Bush nell’ambito del business USA, non superiore cioè al 60% del totale.

Anche in questo caso, l’ex presidente e l’ex segretario di Stato si sono affidati in buona parte alla magnanimità dell’industria finanziaria, con Goldman Sachs che si è mostrata il singolo donatore più generoso tra quelli di Wall Street (5 milioni di dollari).

Come ipotizza il Journal, perciò, una candidatura alla Casa Bianca di Hillary Clinton potrebbe convincere le grandi banche USA a “tornare nel campo democratico”, dopo che nelle ultime elezioni avevano favorito il Partito Repubblicano, soprattutto nel 2012 con Mitt Romney.

Gli scenari descritti confermano dunque ancora una volta l’avanzato deterioramento delle condizioni democratiche negli Stati Uniti, dove l’intero sistema resta nelle mani di una ristretta cerchia di politici multi-milionari sostenuti e finanziati da interessi multi-miliardari, a cui qualsiasi presidente o membro del Congresso finisce per rispondere una volta eletto.

La situazione economica dei Clinton non è comunque un’eccezione ma, anzi, sempre più la regola in un sistema come quello americano e non solo. A partire dal 2012, infatti, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti oltre la metà dei componenti del Congresso di Washington ha dichiarato redditi superiori al milione di dollari.

di Mario Lombardo

Il ritrovamento lunedì vicino a Hebron dei cadaveri dei tre giovani israeliani, rapiti il 12 giugno scorso nei pressi di un insediamento illegale in Cisgiordania, ha scatenato la prevedibile dura reazione del governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu. Il primo ministro ha accusato il movimento islamista Hamas del rapimento e dell’omicidio dei tre ragazzi, intensificando una campagna di aggressione già in corso da tre settimane nei territori palestinesi per individuare i presunti colpevoli.

Una riunione d’emergenza del gabinetto israeliano si è conclusa con un primo provvedimento che ha autorizzato una quarantita di incursioni nella notte tra lunedì e martedì nella Striscia di Gaza, ufficialmente per colpire obiettivi legati ad Hamas, Jihad Islamica e altri gruppi militanti. L’operazione sarebbe avenuta anche in risposta al lancio di 18 missili verso Israele provenienti da Gaza a partire dalla serata di domenica.

I servizi di sicurezza israeliani avevano sostenuto la settimana scorsa di avere identificato nel 29enne Marwan Qawasmeh e nel 32enne Amar Abu Aisha i presunti responsabili del rapimento dei tre adolescenti. Le operazioni condotte a partire dal 12 giugno dalle forze armate di Israele hanno già causato almeno sei decessi, mentre gli arrestati si contano a centinaia. I morti e i detenuti palestinesi, com’è ovvio, nulla hanno a che vedere con il rapimento ma, tutt’al più, sono il risultato della resistenza contro l’ennesimo assalto israeliano in Cisgiordania condotto per terrorizzare la popolazione palestinese.

Le forze israeliane, inoltre, hanno raso al suolo le abitazioni dei due sospettati. Durante la distruzione di uno dei due edifici, la moglie incinta e un nipote di 2 mesi di Qawasmeh sono rimasti feriti. La madre di Abu Aisha, invece, ha ricordato come gli israeliani avessero già demolito la sua casa nel 2005 dopo l’uccisione di un altro suo figlio mentre cercava di lanciare dell’esplosivo contro un soldato delle forze di occupazione.

La tragica vicenda dei tre giovani è stata in ogni caso sfruttata dal governo Netanyahu per alzare i toni nei confronti dei vertici del movimento palestinese, con un preciso obiettivo politico, vale a dire la rottura del recente accordo di riconciliazione tra l’Autorità Palestinese e Hamas. L’intesa era stata raggiunta ad aprile e poi siglata a inizio giugno con l’intenzione di spianare la strada a un governo di “unità nazionale” e di organizzare le elezioni nei territori palestinesi per il 2015.

Da subito, il riavvicinamento tra l’entità guidata da Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e Hamas aveva suscitato le accese critiche di Israele, la cui classe dirigente teme fortemente la formazione di un fronte unitario - o meno frammentato - sul versante palestinese.

Nonostante Hamas abbia respinto ogni responsabilità nel rapimento dei tre giovani israeliani, in molti all’interno del governo di Tel Aviv hanno lanciato minacciosi avvertimenti all’organizzazione islamista, con l’obiettivo di creare una nuova divisione tra quest’ultima e l’Autorità Palestinese.

Il portavoce di Netanyahu, Mark Regev, ha confermato il proposito del governo, sostenendo che Abbas è in parte responsabile dell’accaduto, poiché i “terroristi” provenivano da un’area sotto il suo controllo. L’invito rivolto all’anziano leader palestinese è perciò quello di revocare il patto sottoscritto con Hamas.

Prima e durante la riunione di gabinetto di lunedì, i falchi nel governo Netanyahu hanno poi chiesto un’azione incisiva contro Hamas. Il ministro dell’Economia e leader del partito di estrema destra “La Casa Ebraica”, Naftali Bennett, ha affermato che “questo è il momento dell’azione e non delle parole”. A Bennett ha fatto eco il ministro dei Trasporti e membro del Likud, Yisrael Katz, il quale ha sollecitato il primo ministro ad agire con “tutta la nostra forza contro Hamas a Gaza e in Cisgiordania”.

Ancora più esplicito è stato il vice-ministro della Difesa, Danny Danon, poco dopo il ritrovamento dei cadaveri, emanando un comunicato per annunciare che il governo “non si fermerà fino a quando Hamas sarà completamente sconfitta”.

Altri ministri hanno invece chiesto una risposta relativamente misurata, come quello della Difesa, Moshe Ya’alon, delle Finanze, Yair Lapid, e della Giustizia, Tzipi Livni. Lo stesso Ya’alon, tuttavia, ha proposto di inaugurare una nuova ondata di insediamenti illegali in Cisgiordania, di cui uno da intitolare alla memoria dei tre ragazzi assassinati.

Netanyahu, da parte sua, ha ammesso la necessità di una risposta “forte” ma senza spiegare in cosa essa dovrebbe consistere. Il premier, assieme al presidente uscente Shimon Peres e ad altri membri del suo governo, ha partecipato martedì ai funerali, mentre ulteriori iniziative contro Hamas potrebbero essere decise dopo una nuova riunione di emergenza del gabinetto.

Se appare del tutto evidente che il triplice assassinio dei giovani israeliani è un crimine odioso, la consueta risposta spropositata di Israele non ha nulla a che vedere con la giustizia ma rappresenta piuttosto l’ennesimo atto di punizione collettiva nei confronti di un popolo già sottoposto a decenni di abusi.

Inoltre, l’ampio spazio concesso alla vicenda dai media occidentali conferma tristemente come a fare notizia per la cosiddetta “comunità internazionale” continuino a essere quasi unicamente le violenze subita da Israele, mentre quelle esercitate dalle autorità di quest’ultimo paese sui palestinesi, anche se talvolta condannate in maniera formale, sono di fatto ampiamente accettate.

Uccisioni, arresti arbitrari, torture, segregazione, confische, espulsioni dalle proprie terre e molti altri crimini vengono commesi quotidianamente dalle forze di sicurezza di Israele contro le popolazioni palestinesi, oltretutto con l’appoggio più o meno tacito degli Stati Uniti e dei loro alleati in Occidente.

Lo stesso presidente Obama ha condannato ufficialmente l’assassinio dei tre giovani israeliani, manifestando tutta la sua comprensione per i familiari di questi ultimi. Un sentimento, quello dell’inquilino della Casa Bianca, che raramente viene espresso per le vittime delle violenze di cui si rende responsabile lo stato di Israele.

Né Obama né il resto della “comunità internazionale”, d’altra parte, orchestrano o appoggiano campagne di condanna per i pur numerosissimi giovani assassinati da Israele, spesso senza che le vittime rappresentino una reale minaccia o perché si battono contro l’occupazione illegale delle loro terre. Solo qualche settimana fa, ad esempio, un video di sorveglianza aveva mostrato l’uccisione di un 16enne e di un 17enne palestinesi per mano delle forze di sicurezza israeliane. I due ragazzi erano stati colpiti al petto a un’ora di distanza l’uno dall’altro mentre camminavano disarmati nei pressi di un carcere in Cisgiordania.

A fotografare la disparità delle forze in campo nel conflitto israelo-palestinese, così come il trattamento dei membri più giovani delle popolazioni sottoposte a occupazione, era stato infine un rapporto reso noto dal ministero dell’Informazione dell’Autorità Palestinese proprio pochi giorni prima del rapimento dei tre “teenager” provenienti dai territori occupati.

Secondo i dati resi noti, le forze di occupazione israeliane hanno ucciso più di 1.500 minori palestinesi tra il mese di Settembre del 2000 - data dell’inizio della seconda Intifada - e l’Aprile del 2013, ovvero uno ogni tre giorni. A ciò vanno aggiunti più di 6.000 feriti e 9.000 arrestati sotto i 18 anni, di cui 250 tuttora nelle carceri dello stato di Israele. Nel silenzio complice dell’Occidente.

di Michele Paris

In un tribunale di Washington, qualche giorno fa è iniziato un nuovo processo contro quattro ex mercenari della famigerata compagnia militare privata americana Blackwater, responsabili della sparatoria in una piazza di Baghdad che nel settembre del 2007 si concluse in una vera e propria strage di civili. La riapertura del procedimento giudiziario ai danni degli ex contractor del governo USA è stata seguita dalla pubblicazione di alcuni documenti del Dipartimento di Stato, dai quali si comprende a sufficienza sia il potere raggiunto da simili compagnie private nell’Iraq occupato sia la quasi totale libertà d’azione a loro garantita grazie alla protezione dei rappresentati di Washington nel paese mediorientale.

Alla sbarra presso il tribunale distrettuale della capitale degli Stati Uniti ci sono Nicholas Slatten, Dustin Heard, Evan Liberty e Paul Slough. Il primo è accusato di omicidio di primo grado, mentre le altre tre ex guardie private di omicidio (“manslaughter”) volontario e tentato omicidio. Le pene previste in caso di condanna potrebbero arrivare fino all’ergastolo per Slatten e partire da un minimo di trent’anni per i rimanenti imputati nel caso fossero riconociuti colpevoli anche di altri reati di minore gravità. Un quinto ex dipendente di Blackwater coinvolto nei fatti del 2007 è stato invece scagionato e un altro ancora ha raggiunto un patteggiamento con il Dipartimento di Giustizia.

Il risultato della sparatoria che vide protagonisti gli uomini di Blackwater nell’affollata piazza Nisoor di Baghdad fu la morte di 14 iracheni e il ferimento di altre 18 persone. Secondo la versione sempre sostenuta dai mercenari americani, la loro azione sarebbe stata la risposta a un possibile attacco suicida degli “insorti”. In un simile scenario, gli uomini che viaggiavano sul convoglio di Blackwater avrebbero perciò agito per legittima difesa.

Numerose indagini e testimonianze hanno però smentito categoricamente questa ricostruzione. Un’analisi degli avvenimenti fatta dal New York Times già nell’ottobre del 2007, ad esempio, aveva mostrato come non ci fosse stata alcuna minaccia per i contractor del governo americano. In particolare, la prima auto contro cui le guardie private spararono nella piazza, perché identificata come possibile minaccia, si era in realtà scontrata con i mezzi di Blackwater solo dopo che il suo conducente era stato colpito alla testa e aveva perso il controllo della vettura.

Una prima scarica di colpi di arma da fuoco sparati in piazza Nisoor dai mercenari americani sarebbe stata così seguita da una valanga di pallottole e granate, dirette anche contro le auto e i passanti che cercavano in tutti i modi di allontanarsi o trovare rifugio. Nessuna prova o testimonianza ha invece mai confermato spari da parte irachena, provenienti dalle auto nella piazza o dagli edifici adiacenti.

A sostegno dell’accusa in un processo inizialmente abbandonato nel 2009 ci sono ora le testimonianze di decine di cittadini iracheni superstiti, il cui trasferimento negli Stati Uniti è stato coordinato dall’FBI. Secondo uno degli assistenti del procuratore impegnati nel procedimento, alcune delle vittime della sparatoria erano civili che cercavano di evitare il fuoco dei contractor. Questi ultimi, una volta lasciata piazza Nisoor, iniziarono al contrario a far circolare la propria versione dei fatti, sostenendo che il convoglio su cui viaggiavano era stato assaltato dagli “insorti”, a cui avevano risposto armi alla mano per garantire la loro sicurezza.

Inoltre, lo stesso assistente procuratore ha spiegato come il Dipartimento di Stato americano avesse atteso quattro giorni prima di inviare alcuni uomini nella piazza di Baghdad per indagare sulla strage. Come se non bastasse, la stessa indagine ufficiale è stata definita caotica e incompleta, dal momento che era stata avviata con il solo scopo di “scagionare i contractor” al servizio proprio del Dipartimento di Stato.

Nei giorni scorsi alcuni testimoni iracheni hanno già raccontato in aula la loro drammatica esperienza nella piazza Nisoor. La commozione di Mohammed al-Razaq Kinani, ad esempio, ha costretto il giudice che presiede l’udienza a licenziare temporaneamente i giurati. Kinani ha ricordato tra le lacrime di come il figlio di nove anni era stato ucciso dagli uomini di Blackwater dopo che una pallottola lo aveva raggiunto alla testa mentre era sul sedile posteriore della sua auto.

I legali degli accusati hanno bollato come “fabbricate” questa e altre testimonianze. La loro strategia difensiva, secondo quanto riportato dai media americani, si baserebbe sul tentativo di convincere la giuria che il livello di violenza in quel periodo a Baghdad era tale da giustificare una reazione così forte in risposta alla minima minaccia percepita. A loro disposizione ci sarebbbe poi un presunto testimone che avrebbe accertato la presenza di “insorti” intenzionati a prendere di mira il convoglio di Blackwater. Infine, lo stesso numero molto elevato di testimoni dell’accusa potrebbe generare confusione circa la corretta ricostruzione dei fatti, senza fornire un quadro sufficientemente chiaro degli eventi e delle responsabilità.

La strage del settembre 2007 a Baghdad, in ogni caso, non è stata in nessun modo un caso isolato ma solo uno degli esempi più sanguinosi della dura repressione ai danni della popolazione irachena, messa in atto dai militari e dalle guardie private americane nel corso dell’occupazione del paese mediorientale.

Episodi come quello di piazza Nisoor, oltre a rimanere quasi sempre impuniti, rivelano il vero volto di un esercito di mercenari a cui ricorre sempre più frequentemente il governo americano e con il quale le forze armate ufficiali operano in stretto coordinamento. Blackwater, soprattutto, ha spesso occupato le pagine dei giornali di mezzo mondo per le proprie operazioni criminali, non solo in Iraq ma anche in Afghanistan, dove ha ottenuto appalti del valore di miliardi di dollari dal Dipartimento di Stato e dalla CIA.

Secondo la stampa tedesca, addirittura, uomini di Blackwater - il cui nome è stato cambiato in Xe Services nel 2009 e in Academi nel 2011 - sono stati recentemente impiegati anche in Ucraina al fianco dei gruppi paramilitari neo-fascisti promossi dal nuovo regime di Kiev per reprimere nel sangue le manifestazioni anti-governative nelle regioni orientali del paese.

Il fondatore di Blackwater, l’ex membro delle forze speciali “Navy SEAL” Erik Prince, aveva ceduto la compagnia nel 2010 e proprio qualche settimana fa essa si è fusa con la rivale Triple Canopy, assumendo la nuova denominazione di Constellis Holdings.

Il livello di integrazione di questa compagnia con le forze di occupazione in Iraq e lo strapotere che essa aveva raggiunto sono state messe in luce da un dettagliato articolo pubblicato nel fine settimana dal New York Times a firma dell’autorevole giornalista investigativo James Risen.

I fatti raccontati da Risen sulla base del contenuto di documenti finora mai pubblicati risalgono all’agosto del 2007, poche settimane prima della strage di piazza Nisoor. Nell’estate di quell’anno, il Dipartimento di Stato aveva inviato in Iraq due investigatori - Jean Richter e Donald Thomas - con il compito di valutare la condotta già più che discutibile di Blackwater nel paese occupato.

Nella lunga lista di violazioni del proprio contratto con il governo riscontrate da Richter e Thomas spiccavano, tra l’altro, la variazione senza il permesso del Dipartimento di Stato delle norme di sicurezza previste per la protezione dei diplomatici USA, come la riduzione del numero di guardie private da impiegare nei vari incarichi.

Inoltre, i mercenari tenevano armi e munizioni nelle proprie stanze private, dove davano vita a frequenti feste a base di alcool e in presenza di donne. Molte guardie avevano anche a disposizione armi che non erano autorizzate a usare. Tutt’altro che rari erano infine i casi in cui Blackwater gonfiava le proprie fatture dopo avere falsificato i registri del personale addetto alla protezione degli uomini del Dipartimento di Stato.

Secondo i due investigatori, Blackwater aveva potuto mantenere un simile comportamento grazie agli stretti legami stabiliti tra la compagnia e il personale dell’ambasciata americana in Iraq. I due investigatori avrebbero trovato conferma a loro spese della corretteza di questa conclusione.

Il 20 agosto del 2007, Richter fu infatti convocato dal responsabile per la sicurezza dell’ambasciata USA, Bob Hanni, il quale lo informò di avere ricevuto una richiesta per “documentare il comportamento inappropriato” dello stesso investigatore.

Il giorno successivo, Richter e il suo collega, Donald Thomas, si recarono dal “project manager” di Blackwater in Iraq, Daniel Carroll, anch’egli ex Navy SEAL, per discutere dell’esito della loro indagine. Secondo quanto lo stesso Richter avrebbe successivamente comunicato al Dipartimento di Stato, Carroll minacciò di ucciderlo in maniera esplicita, aggiungendo che, vista la situazione dell’Iraq in quel periodo, non ci sarebbe stata per lui nessuna conseguenza penale.

Correttamente, Richter prese “sul serio la minaccia di Carroll”, dal momento che le questioni sollevate nella sua indagine potevano avere un “impatto potenzialmente negativo su un proficuo appalto per la sicurezza” dei diplomatici americani. Il collega di Richter, a sua volta, avrebbe confermato la versione del collega circa l’incontro con il numero uno di Blackwater in Iraq.

A rendere ancora più inquietante la situazione per Richter e Thomas fu il mancato appoggio ottenuto dall’ambasciata degli Stati Uniti nonostante le minacce di morte ricevute. A questi ultimi fu infatti ordinato di lasciare immediatamente l’Iraq, poiché la loro presenza era diventata “un ostacolo alle operazioni quotidiane e creava un ambiente inutilmente ostile” per i contractor privati.

Richter e Thomas furono così costretti ad abbondonare bruscamente il loro lavoro e a fare ritorno a Washington il giorno successivo. Quando, pochi giorni dopo, alcuni uomini della Blackwater si sarebbero resi protagonisti del massacro in piazza Nisoor a Baghdad, il Dipartimento di Stato avrebbe finalmente preso in considerazione gli avvertimenti dei due investigatori sulla compagnia stessa, ma senza decidere alcun provvedimento.

Le stesse successive indagini ufficiali sui fatti del settembre 2007, a cominciare dalla speciale commissione istituita dall’allora segretario di Stato, Condoleezza Rice, avrebbero accuratamente evitato di raccogliere la testimonianza dei due uomini che meglio di chiunque altro avevano descritto il comportamento criminale della principale agenzia di sicurezza privata operante in Iraq con la colpevole complicità del governo degli Stati Uniti.


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