di Michele Paris

Confermando un’evoluzione in corso da qualche tempo e impensabile soltanto alcuni anni fa, la General Motors (GM) la settimana scorsa ha annunciato il trasferimento di una linea di produzione di un modello Cadillac da un impianto in Messico a uno negli Stati Uniti. La notizia è stata accolta con grande entusiasmo dai politici locali e, soprattutto, dal sindacato UAW (United Automobile Workers), protagonista delle contrattazioni collettive nel settore automobilistico che hanno portato alla creazione di condizioni ampiamente favorevoli al business a stelle e strisce per il ritorno in patria di alcune attività manifatturiere.

A partire dalla fine del 2015, GM sposterà dunque la produzione della nuova versione del “crossover” Cadillac SRX negli stabilimenti di Spring Hill, nel Tennessee, sottraendola all’impianto di Ramos Arizpe, nello stato di Coahuila, nel Messico settentrionale. Ciò consentirà la creazione e il mantenimento di circa 1.800 posti di lavoro negli Stati Uniti.

Non solo, GM ha anche promesso un investimento di 185 milioni di dollari per produrre a Spring Hill nuovi motori della famiglia “EcoTec” da 75 a 165 cavalli, più piccoli cioè di quelli simili che già escono dalla catena di montaggio del Tennessee per due modelli Chevrolet. I nuovi motori continueranno a garantire occupazione a 390 lavoratori.

Nello stesso comunicato stampa, i vertici GM hanno anche prospettato un investimento da 48,4 milioni di dollari nella fabbrica di Bedford, nell’Indiana, dove verranno creati 45 nuovi posti di lavoro sempre per la produzione di motori EcoTec che finiranno su 27 modelli entro il 2017.

Le conseguenze dello spostamento della produzione in territorio americano sui lavoratori messicani non sono state rese note né, com’era prevedibile, i sindacati USA si sono preoccupati di fare riferimento ai possibili licenziamenti a sud del confine. In Messico, GM ha già ridotto il personale alle proprie dipendenze nei mesi scorsi in seguito a un calo delle vendite, anche se la Reuters ha citato una fonte aziendale secondo la quale almeno una parte della produzione della Chevrolet Equinox potrebbe essere trasferita all’impianto di Ramos Arizpe.

Quest’ultimo modello viene costruito attualmente proprio a Spring Hill, dove era stato portato da GM dopo la sospensione nel 2009 della produzione in Tennessee del marchio Saturn a causa della bancarotta pilotata del gigante di Detroit.

A condensare in una sola frase le ragioni del rimpatrio di una linea di produzione GM dal Messico è stato il governatore del Tennessee, il repubblicano Bill Haslam, che ha ricordato come il suo stato possa oggi realizzare prodotti manifatturieri “in competizione con qualsiasi paese del mondo”.

Infatti, a convincere il management GM non sono state tanto, o non solo, le capacità degli operai di Spring Hill di produrre auto di qualità - come ha sostenuto un dirigente qualche giorno fa - bensì una realtà nella quale la differenza nei costi del personale tra gli Stati Uniti e paesi come il Messico si è notevolmente ridotta.

Questa evoluzione è stata possibile grazie al ruolo svolto dai sindacati, in grado di far digerire ai lavoratori pesantissime concessioni negli anni seguiti alla crisi del 2008 e oggi elogiati dai vertici GM per le buone relazioni istituite in fabbrica.

Come ha spiegato la vicepresidente di UAW, Cindy Estrada, la quale ha incassato compensi per un totale di 156 mila dollari nel 2013, il sindacato automobilistico ha infatti “lavorato con GM per realizzare questa storia di successo attraverso il processo di contrattazione collettiva”.

Ancora, la stessa dirigente del sindacato ha sottolineato la natura corporativa della sua associazione, respingendo la mentalità del “noi contro di loro” che impedirebbe il raggiungimento di “elevati standard lavorativi e di vita” per i propri affiliati.

Alle “storie di successo” dei sindacati americani, in realtà, possono brindare quasi esclusivamente le grandi aziende manifatturiere, i cui profitti sono aumentati sensibilmente negli ultimi anni grazie ai tagli delle spese di produzione. La sola General Motors, ad esempio, nel 2013 ha registrato utili pari a 3,8 miliardi di dollari, anche se nel 2014 sono crollati per le cause legali in corso relative a difetti di fabbricazione che in alcuni modelli avevano causato numerosi decessi nel decennio scorso.

Lo spostamento della produzione della Cadillac SRX in Tennessee, che dovrebbe essere seguita in futuro da un secondo modello, è in sostanza una ricompensa per un sindacato che, a partire dal 2009, ha permesso l’implementazione di praticamente tutte le modifiche contrattuali richieste dal management GM.

Punto cardine degli accordi tra proprietà e sindacato dopo la bancarotta, oltre alla riduzione dei benefici sanitari riservati ai lavoratori in pensione, era stato il ricorso su più ampia scala a un doppio livello di retribuzione, già concordato nel 2007. In base ad esso, GM può pagare circa 15 dollari l’ora i propri neo-assunti, vale a dire la metà della paga base precedente.

Questi livelli di retribuzione consentono di sopravvivere appena al di sopra della soglia ufficiale di povertà negli Stati Uniti e hanno rappresentato soprattutto il punto di riferimento per una corsa al ribasso nel resto dell’industria americana, dove coloro che hanno trovato un impiego in questi anni possono solo sognare gli stipendi che un tempo garantivano una vita dignitosa.

Il sostanziale processo di impoverimento della “working-class” americana ha avuto inoltre la totale approvazione dell’amministrazione Obama. Il presidente democratico aveva anzi lanciato subito dopo l’ingresso alla Casa Bianca una campagna per promuovere una sorta di “insourcing” dell’industria statunitense, così da convincere le grandi corporations a riportare in patria unità produttive trasferite negli anni in America Latina o in Asia orientale.

Questa politica, come già ricordato, ha favorito le grandi aziende, mentre i posti di lavoro creati nel settore manifatturiero - comunque ancora ben al di sotto dei livelli pre-crisi - risultano quasi sempre sotto-pagati, “flessibili” e con pochi o nessun benefit come l’assistenza sanitaria. Complessivamente, così, dal 2009 a oggi le retribuzioni in termini reali dei lavoratori in ambito manifatturiero negli USA sono calate di quasi il 2,5%, mentre la contrazione nel solo settore automobilistico ha toccato addirittura il 10%.

Per politici, sindacalisti e commentatori “liberal”, tuttavia, questa è l’unica realtà oggi a disposizione dei lavoratori, costretti a scegliere soltanto tra disoccupazione cronica e condizioni di impiego sempre più simili a quelle della prima metà del secolo scorso. Il capitalismo in crisi strutturale, insomma, non ha ormai nient’altro da offrire a decine di milioni di lavoratori se non povertà e un futuro di precariato.

di Michele Paris

Per coloro che più difficilmente si lasciano trascinare nel vortice delle notizie/propaganda a ciclo continuo del circuito dei media ufficiali, la pressoché totale sparizione dalle cronache internazionali della vicenda relativa al volo Malaysia Airlines MH17, precipitato il 17 luglio scorso mentre attraversava i cieli dell’Ucraina orientale, continua ad apparire estremamente sospetta.

La responsabilità del gravissimo incidente, che era costato la vita a tutte e 298 le persone a bordo tra passeggeri ed equipaggio, era stata subito attribuita dalle autorità di Kiev ai ribelli separatisti filo-russi, in grado di portare a termine una simile operazione grazie al sostegno militare e logistico di Mosca.

Anche se le giustificazioni per la continua escalation di minacce e sanzioni nei confronti del Cremlino sono negli ultimi tempi cambiate - come conferma la più recente accusa della presunta invasione russa in Ucraina - il “missile di Putin” che quasi sette settimane fa sembrava senza alcun dubbio avere abbattuto il velivolo malese ha rappresentato forse il fattore decisivo nel convincere anche i governi europei più cauti a dare la loro approvazione ad un pacchetto di misure punitive destinate alla Russia e volute fortemente da Washington.

Con una campagna ben orchestrata, il regime golpista ucraino aveva fatto così sapere di essere in possesso delle prove circa la responsabilità dei ribelli, i quali erano stati colti da una registrazione di dubbia autenticità mentre si autocelebravano per l’abbattimento di un aereo che forse credevano appartenere alle forze armate di Kiev.

Gli Stati Uniti, a loro volta, pur senza sostenere di avere prove irrefutabili che conducessero a Mosca o ai ribelli, avevano fortemente suggerito questa pista, dichiarando che a colpire il Boeing 777 era stato un missile terra-aria lanciato da un sistema mobile denominato Buk e fornito ai ribelli dalla Russia.

Questa ipotesi, priva di alcun fondamento concreto e basata su informazioni di parte o su post apparsi nei vari social network, probabilmente fabbricati ad arte, era stata accettata senza tante riserve dalla stampa ufficiale in Occidente poiché tornava utile alla loro propaganda anti-russa modellata sull’agenda ucraina di Berlino e Washington.

La gravità dell’incidente e delle accuse contro Mosca nel pieno della crisi in Europa orientale lasciava ragionevolmente pensare a un’indagine tempestiva, una volta risolte le difficoltà legate all’accesso al luogo del disastro in uno scenario di guerra. L’aumentare dei dubbi sulla versione iniziale e l’emergere di maggiori informazioni che hanno fatto pensare a spiegazioni alternative e decisamente imbarazzanti per il governo ucraino e i suoi sponsor occidentali, hanno determinato però di fatto l’insabbiamento dell’esame delle scatole nere, mentre notizie sulla sorte del volo MH17 risultano ormai quasi introvabili sui principali media internazionali.

Vista la tendenza altamente manipolatrice di questi ultimi e dei governi occidentali che appoggiano il governo di estrema destra a Kiev, è impensabile che anche eventuali frammenti di informazioni emersi dalle indagini finora condotte non verrebbero utilizzati come armi di propaganda anti-russa se confermassero una qualche responsabilità dei ribelli.

Per questa ragione, il silenzio apparentemente inspiegabile a cui si assiste rende più che lecito sospettare la presenza di materiale scottante che possa coinvolgere nei fatti del 17 luglio scorso proprio quelle forze che avevano per prime puntato il dito contro Mosca e i separatisti ucraini.

A tutt’oggi, d’altra parte, le forze di sicurezza di Kiev non hanno ancora reso noti né i tabulati radar né le registrazioni delle conversazioni nella torre di controllo che era in contatto col volo MH17, informazioni requisite poco dopo il disastro e tanto più importanti alla luce della notizia che all’aeromobile malese era stato ordinato un cambiamento di rotta proprio pochi minuti prima dell’abbattimento.

Le autorità olandesi, a cui erano state consegnate le scatole nere per essere esaminate, avevano inoltre annunciato l’11 agosto scorso di essere sul punto di pubblicare un rapporto preliminare sui fatti, ma meno di due settimane più tardi hanno comunicato che non è prevista alcuna data per la diffusione delle registrazioni. Ogni giorno di attesa fa perciò aumentare il sospetto che sia in atto una qualche falsificazione dei dati sull’incidente, così da far coincidere l’esito delle indagini con la versione ufficiale.

A questo punto, non è dunque necessaria una particolare predisposizione cospirazionista per sospettare che il 17 luglio nei cieli dell’Ucraina abbia potuto avere luogo un’operazione “false flag” ad opera di coloro che per primi avevano formulato accuse sul disastro appena accaduto.

Le indicazioni in questo senso appaiono molteplici e, in alcuni casi, molto convincenti o, quanto meno, più convincenti di quelle presentate finora da Kiev e Washington. Oltretutto, va ricordato, da un punto di vista di convenienza politica l’abbattimento di un velivolo commerciale ad opera dei ribelli filo-russi avrebbe favorito l’emergere di un fronte compatto a fianco del regime ucraino per aumentare i toni dello scontro con Mosca, come è poi effettivamente accaduto, mentre nessun beneficio ne sarebbe derivato per i separatisti.

Per cominciare, in ogni caso, pochi giorni dopo il disastro, i vertici militari russi avevano rivelato che il volo MH17, appena prima di scomparire dai radar, era stato affiancato da aerei da guerra ucraini. Questa informazione si sarebbe rivelata importante alcune settimane dopo in seguito all’apparizione di alcune analisi dei resti dell’aereo provenienti da fonti non sospette.

Il resoconto più dettagliato e attendibile fin qui apparso sui media internazionali continua a essere quello pubblicato ai primi di agosto dal quotidiano malese New Straits Times, puntualmente ignorato da quasi tutta la stampa occidentale. Il pezzo in questione risulta significativo non solo per le tesi che propone ma ancor più perché la testata è considerata una sorta di organo di propaganda del governo di Kuala Lumpur, come è noto tutt’altro che ostile agli Stati Uniti e all’Occidente.

Secondo questa versione, la stessa intelligence americana sarebbe arrivata alla conclusione che ad abbattere il volo MH 17 sia stato un razzo lanciato da un aereo da guerra che volava nelle vicinanze e che le responsabilità dell’accaduto siano da ricercare nel regime ucraino. A una simile conclusione si sarebbe giunti in seguito all’analisi da parte di esperti delle immagini dei resti del velivolo che mostravano segni differenti sulla fusoliera.

I primi sembravano compatibili con l’impatto di una testata dotata di “flechettes”, o piccole frecce metalliche che servono a fare il maggior danno possibile contro un determinato obiettivo, e gli altri, con un profilo più uniforme, prodotti dal fuoco di un mitragliatore di un aereo da guerra.

Ciò indicherebbe un danno che un missile lanciato da terra non avrebbe potuto produrre e trova conferma anche nelle dichiarazioni rilasciate già a fine luglio alla televisione canadese CBC dall’investigatore dell’OSCE Michael Bociurkiw, uno dei primi a giungere sul luogo del disastro in Ucraina orientale. Bociurkiw aveva parlato infatti di frammenti ancora fumanti che portavano chiaramente i segni di colpi di mitragliatore.

Sulla testimonianza al di sopra delle parti dell’investigatore ucraino-canadese si era poi basato anche il pilota in pensione della Lufthansa, Peter Haisenko, il quale dalle immagini diffuse in rete dei resti del velivolo aveva notato dei fori di entrata su un lato della cabina di pilotaggio e di uscita sul lato opposto, entrambi compatibili con proiettili calibro 30.

Anche questa valutazione indica che a colpire siano stati più velivoli militari affiancati al volo MH17, poiché un missile terra-aria non poteva penetrare l’aeromobile nella direzione descritta, né colpire in punti opposti e lasciare il tipo di tracce riscontrate.

Riassumendo lo scenario che scaturirebbe dalle prove finora disponibili, un commento apparso recentemente sulla testata online Asia Times ha infine proposto l’ipotesi di un ex membro dell’aeronautica militare USA e ingegnere della Boeing. Per quest’ultimo, un jet ucraino Su-25 avrebbe potuto colpire con un missile aria-aria R-60 il 777 della compagnia malese senza necessariamente volare alla sua stessa velocità o altitudine.

In fase di crociera e in assenza di virate, sarebbe infatti semplice calcolare il punto d’impatto, poiché è il missile R-60 a raggiungere velocità e altitudine necessarie. Una volta colpito, il 777 sarebbe entrato rapidamente nel raggio d’azione diretta dei jet Su-25 che potrebbero averlo finito definitivamente con scariche di mitragliatori.

Sui molteplici dubbi e interrogativi sollevati in queste settimane, in ogni caso, difficilmente verrà fatta luce a breve, visto che l’ultima parola sulle indagini spetta sostanzialmente a quegli stessi governi che avevano utilizzato la tragedia per i loro fini strategici e che oggi sembrano avere tutto l’interesse a nascondere la verità sulla morte di 298 persone innocenti.

di Fabrizio Casari

Dopo l’ultimatum UE di una settimana, tempo nel quale verranno presentate le nuove sanzioni occidentali contro Mosca, a far crescere notevolmente la tensione politica e militare tra Russia e Nato, arriva puntuale il premier britannico Cameron, che in una intervista al Financial Times informa dell’intenzione di attivare una forza militare a comando britannico che comprenderebbe militari di Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia, Paesi Bassi, Estonia, Lettonia e Lituania (il Canada si sarebbe detto disponibile).

Una forza di spedizione congiunta denominata JEF, dotata di unità terrestri, aeree e navali forte di diecimila uomini. Si muoverebbe continuamente ai confini sud-orientali russi e, seppur in funzione di deterrenza e come segnale di disponibilità alla risposta rapida, utilizzerebbe proprio l’assenza di stanzialità e basi fisse per evitare la violazione degli accordi tra Nato e Mosca in ordine all’equilibrio di forze in Europa.

Difficile credere che questo schieramento possa impensierire Mosca sotto il profilo militare, dal momento che la sproporzione di forze è tale da non essere messa in discussione da questa nuova creatura militare partorita dal sempre gravido ventre degli Stranamore occidentali. E’ invece plausibile che l’iniziativa intenda mettere di fronte al fatto compiuto Germania e Italia, che continuano a chiedere una soluzione negoziata. L’operazione Nato, voluta da Obama e attuata da Cameron, sembra destinata a rassicurare i paesi dell’Est che continuano a chiedere con cadenza quotidiana soldi e guerra per rinsaldare le rispettive gang di mafiosi al potere.

Non gli si può concedere una guerra termonucleare globale per difendere Kiev ma si può far finta di non limitarsi alla guerra delle sanzioni economiche. Il messaggio è comunque indirizzato anche a Mosca, indicando la disponibilità ad alzare ulteriormente l’asticella del confronto militare alle sue frontiere utilizzando i paria ex Patto di Varsavia.

Si tratterà di vedere se e come il dispositivo pensato da Cameron potrà concretizzarsi e quale sarà la risposta di Mosca, che riafferma con Putin l’intenzione di non farsi accerchiare e di garantire alle regioni che vogliono continuare ad essere legate alla Russia tutto l’appoggio necessario. Ma volendo scongiurare una escalation militare, al momento la questione delle sanzioni occidentali e delle contro sanzioni russe rappresentano il cuore del conflitto, essendo la soluzione politica, la grande assente dalla discussione europea, ancorché l’unica soluzione possibile. E sono quindi le sanzioni il terreno dove si misureranno le contraddizioni europee nella prossima settimana.

Nonostante la questua quotidiana di Kiev e degli altri paesi dell’Est, il danno per l’Europa è decisamente elevato. Secondo alcune stime indipendenti il complessivo danno possibile per l’Occidente con la guerra economica alla Russia è di 1200 miliardi di Euro, 190 dei quali a carico della sola Germania. Solo per quanto riguarda il settore agricolo ammontano a due miliardi di Euro i mancati introiti del 2014 derivanti dalle esportazioni europee verso la Russia, 706 milioni solo per quanto riguarda l’Italia.

Ma sono importi destinati a crescere e a ripercuotersi nell’economia più generale, dal momento che la mancata esportazione dei prodotti deteriorabili renderà necessario immetterli nei mercati interni già saturi, con il risultato di dover applicare ulteriori abbassamenti dei prezzi complicando così ulteriormente la dinamica domanda-offerta già messa a durissima prova dalla deflazione. Deflazione che non è positiva; non viene infatti da una riduzione dei prezzi data da maggiore concorrenza, ma da l’abbassamento dei prezzi determinato dalla riduzione dei consumi causata dalla contrazione delle entrate, conseguenza ovvia della crisi occupazionale.

Nemmeno pensare poi, a quello che avverrà nei prossimi due mesi, quando il gas russo, dal quale dipendono quasi tutti all’Est e che risulta determinante anche per l’approvvigionamento di Germania e Italia, potrebbe essere bloccato da Mosca oppure venduto a prezzi decisamente più alti di quello pagato fino ad ora, determinando così un costo ancora più alto per tutta la filiera e che andrebbe a colpire l’utenza finale. Non è peraltro escluso che nel caso la escalation occidentale contro Mosca proseguisse, Putin potrebbe addirittura scegliere di bloccare l’export del gas, la cui cosa avrebbe come risultato lasciare mezza Europa nella morsa del gelo.

Sono diversi quindi gli elementi che spingono Germania, Italia e la stessa Francia ad un atteggiamento meno ideologico nel confronto tra Bruxelles e Mosca. L’impressione è che l’Europa, nella fretta di assecondare le mire statunitensi di contrastare la Cina nel Nord dell’Eurasia e di limitare il consolidamento dell’alleanza euroasiatica, sia rimasta con il classico cerino in mano. Aprire un nuovo scontro in un nuovo scenario con Russia e Cina, infatti, è tutto nell’esclusivo interesse statunitense, che nella limitazione dell’espansione dell’alleanza tra Mosca e Pechino vede il suo core business per la difesa dell’impero unipolare.

Tutt’altra questione per quanto riguarda Mosca, che ha già trovato nel mercato euroasiatico e nella Turchia la riallocazione di alcuni dei suoi prodotti oggi bloccati dalle sanzioni e che ha in Argentina e Brasile i nuovi fornitori agricoli (dal grano alle verdure e alla frutta) che importava dall’Europa e che ha già un accordo con la Cina per l’assegnazione delle quote di gas fino ad ora assegnate al Vecchio continente.

Rischia dunque di costare carissima la scelta dei golpisti di Kiev di aderire ai trattati europei, in opposizione a quanto il legittimo governo di Yanukovic aveva voluto, cioè l’adesione all’Unione Doganale Euroasiatica, composta da Russia, Bielorussia e Kazhakistan, che prevedeva una circolazione di merci senza dazi e a tariffe uniche nei tre paesi per il commercio con i paesi terzi e l’approvvigionamento energetico a prezzi calmierati da parte di Mosca.

L’adesione di Kiev agli accordi con Bruxelles, siglata nello scorso Giugno a Bruxelles dai golpisti guidati da Poroshenko, non prevedono altro che prestiti finanziari dal FMI a fronte di prezzi calmierati per le esportazioni ucraine verso l’Europa e sono da escludersi donazioni di entità determinanti da parte europea, vista la crisi drammatica in cui si trova. Dunque non vi sono questioni di convenienza economica per Kiev, ma solo di natura politica-ideologica. L’adesione agli accordi economici preferenziali con Bruxelles è la porta di servizio dalla quale passare per la successiva richiesta, quella di entrare nella Nato.

L’Europa, infatti, ha scelto di aizzare la destra ucraina al colpo di stato proprio per rompere con Mosca. Primo fondamentale passaggio per incorporare Kiev nella Nato e poter così ulteriormente allargare la presenza dell’alleanza Atlantica a Est, arrivando nel giro di poco tempo a piazzare armamenti e uomini ai confini con la Russia, in violazione a quanto pattuito con Mosca solo pochi anni addietro e ribadito pochi mesi orsono.

Una richiesta di adesione alla Nato avrebbe messo la Russia con le spalle al muro e l'avrebbe probabilmente spinto, da accerchiata, ad una risposta militare immediata, per quanto limitata, che indicasse senza equivoci l’indisponibilità a scherzare con la sua sicurezza. Ma Washington non vede altra strada che non sia quella di esercitare minacce e pressioni a Pechino e Mosca per ridurre la loro crescente influenza nello scenario globale e mette nel conto sacrificare pace e sicurezza di chiunque.

In questo senso l’Europa, proprio per sfilarsi dalla morsa nella quale Washington intende stringerla deve cercare nella soluzione politica al conflitto ucraino la via d’uscita. Lo scioglimento del Parlamento ucraino da parte di Poroshenko e l’indizione di elezioni per il prossimo 26 Novembre, risultano una manovra per cancellare la presenza parlamentare dei rappresentanti di Crimea e Donbass e ridurre quella dell’estrema destra con cui Bruxelles e Washington non gradiscono apparire nelle foto di rito. Si vedrà come andranno le elezioni, visto che alle ultime la maggioranza dei voti sono andati ai filorussi guidati da Yanukovic e che la drammatica crisi economica, con aggiunte le minacce di guerra, stanno provocando proteste massicce a Kiev contro il re del cioccolato.

Ammesso quindi che Poroshenko possa vincere (cosa non semplice) dovrà comunque decidere di trovare una soluzione politica alla crisi con Mosca. Tanto nei colloqui in Finlandia, come nell’incontro tra Putin e Poroshenko a Minsk, Kiev al momento si dice disposta a riconoscere un’ampia autonomia alla regione, ma Putin ritiene questo assolutamente insufficiente sotto il profilo della sicurezza delle sue frontiere, per questo, propone la nascita di uno stato vero e proprio che tenga insieme Crimea e Dombass e che rappresenti una sorta di cuscinetto tra Russia e Occidente.

Non sembrano, quelle di Putin, pretese eccessive; a maggior ragione dopo che i bombardamenti ucraini su Donetsk e le migliaia di civili morti nell'assalto dell'esercito di Kiev alle città e ai villaggi del Donbass non favoriranno certo la convivenza nel prossimo futuro. Dunque la proposta di Putin è proposta praticabile e di buon senso: la dimensione dell’Ucraina è cosa assolutamente trascurabile.

Bruxelles potrebbe effettivamente lavorare per convincere Washington che l’Europa non può pagare un prezzo economico altissimo per legarsi ad un paese insignificante (se non per essere utilizzato in funzione antirussa) o essere addirittura portata sull’orlo di una guerra per assecondare i piani del Pentagono. Cominciando col dire che l’opzione militare è scartata e che la soluzione del conflitto deve essere politica, Bruxelles si farebbe un favore. Pazienza se gli Stranamore di Washington, i nazisti di Budapest e Varsavia e i golpisti di Kiev ci resteranno male.

di Fabrizio Casari

Alla fine, come pronosticato anche qui, Federica Mogherini, Ministro degli Esteri italiano, è stata eletta alla carica di Lady Pesc, ovvero Alto Eappresentante Europea per la politica estera e di sicurezza. E’ certamente una vittoria politica di Matteo Renzi, che della nomina della Mogherini in Europa ne ha fatto una questione cruciale, quasi una ossessione. Berlino, Parigi e Londra non hanno avuto particolari difficoltà ad accettare il capriccio di Renzi, dal momento che non sarà certo a politica estera il terreno principale delle contraddizioni interne alla UE. In cambio, ottenere l’inutile nomina a Mr Pesc impedisce altre di maggior peso politico.

Per questo, nonostante le opposizioni dei paesi dell’Est Europa, ampio era il consenso dei paesi decisivi e lo stesso accordo tra socialisti e democristiani a livello europeo, che aveva prodotto la nomina di Junker a Commissario Europeo con il voto decisivo del PSE, (con il PD italiano in prima fila) comportava per riequilibrio sia la vicepresidenza del Consiglio d’Europa che l'Alto Rappresentante agli esteri e alla sicurezza a forze e paesi diversi.

La nomina della Mogherini era scontata proprio dopo l’avvenuta nomina di Junker e l’opposizione degli ex appartenenti al blocco socialista dell’Est non avrebbe potuto impedire l’arrivo della signora romana a Bruxelles. Ungheria, Bulgaria, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Croazia, Romania, Repubblica Ceka, Slovacchia e Slovenia, pur costituendo un blocco numeroso sono però paesi dal peso politico ridotto a livello europeo. Vedono comunque bilanciare la sconfitta patita su Lady Pesc con la nomina di Donald Tusk, ex premier polacco, a Vicepresidente permanente del Consiglio d’Europa.

Peraltro, l’opposizione di Praga, Varsavia, Budapest e soci poggiava su un elemento discutibile, cioè la presunta “morbidezza” della Mogherini nei confronti di Mosca. Ma si tratta di furore ideologico allo stato puro, dal momento che Mogherini, come del resto i governi determinanti europei, non sono inclini a verbosità guerriere contro Mosca. A Varsavia o a Praga, tutto meno che icone di democrazia, in linea con il cioccolataio di Kiev si chiede l’apertura di una guerra con la Russia di Putin, salvo poi, a giorni alterni, chiedere armi e soldi a Europa e Usa. Un “armiamoci e partite” quindi, che non viene accreditato di particolare considerazione a Bruxelles.

Anche perché, differentemente dai parìa dell’Est, proprio a Bruxelles (vista come sede Ue e Nato) sanno perfettamente la differenza che corre tra una diplomazia attenta all’interlocuzione e un comizio; e dal momento che sono Berlino, Parigi, Londra, Roma e Madrid a sostenere lo scontro politico, diplomatico e commerciale con Mosca, ritengono di dover affrontare i nodi delicati della partita con la Russia con la precisa consapevolezza di doversi poi assumere le conseguenze del loro agire politico.

Ciò detto, rimane da decifrare politicamente la ragione dell’impegno spasmodico di Renzi per occupare la casella di Lady Pesc, a parte l’evidenza della volontà del premier italiano di ottenere un successo personale, aspetto del resto presente in tutta l’attività dell’uomo con il gelato. Intendiamoci: la nomina a Lady Pesc di una politica italiana non rappresenta un danno per il Paese, ci mancherebbe altro.

Semplicemente, Lady Pesc - come ha dimostrato la Signora Ashton - è un ruolo puramente figurativo, privo di qualunque decisionalità politica, dal momento che Bruxelles non ha una linea politica continentale nelle relazioni internazionali; sostiene posizioni comuni solo su questioni di relativa importanza, mentre i dossier decisivi per gli equilibri internazionali ciascun paese membro della UE li affronta per proprio conto e d’accordo con Washington.

E, proprio in relazione a quest'ultimo aspetto, va sottolineato come la vicinanza di Renzi a Obama abbia visto Washington dare il suo gradimento alla nomina di Federica Mogherini, ed è ovvio quanto noto che il sostegno statunitense sulla nomina di un ministro degli Esteri e della Sicurezza europea pesa come un macigno sulla scelta.

Per quanto riguarda le ricadute italiane della nomina di Federica Mogherini, si tratterà di vedere se Renzi riterrà di nominare solo una nuova titolare della Farnesina oppure se verrò colta l’occasione per un mini-rimpasto di governo. Nelle scorse settimane erano girate voci insistenti sullo spostamento di Alfano al posto della Mogherini, ma i deboli di stomaco hanno espresso diverse riserve.

Se infatti l’uscita di Alfano dal Viminale rappresenterebbe comunque una buona notizia per l’Italia, le recentissime polemiche su Frontex e sulla missione Mare Nostrum che il ministro dell’Interno ha scatenato contro l’Europa potrebbero costituire un’ulteriore difficoltà per lo spostamento di Alfano alla Farnesina. Voci maliziose sostengono che le polemiche sarebbero nate proprio in seguito alla consapevolezza di uno scarsissimo entusiasmo dei partner europei all’arrivo alla Farnesina di un uomo considerato non certo dotato di genialità politica.

Contemporaneamente, altri appetiti si scatenano. Casini, infatti, ultimamente in particolare, si danna quotidianamente per autocandidarsi a nuovo ministro degli Esteri e, benché il mantenimento in vita del governo è garantito dall’alleanza tra PD e Forza Italia, con il NDC e gli ex di SEL nel ruolo di attori non protagonisti, Renzi potrebbe ritenere utile blindare anche i voti della pattuglia di Cesa e Casini.

In attesa della consumazione del rito tutto democristiano del rimpasto, resta solo l’evidenza di come Renzi, mentre l’economia attraversa una fase drammatica e la disoccupazione registra la percentuale più alta della storia italiana dagli anni ’60 ad oggi, si sia impegnato allo spasimo per la controriforma istituzionale e la nomina di Federica Mogherini. La prima dannosa per l’Italia, la seconda inutile per l’Europa.

di Michele Paris

La situazione in Libia a quasi tre anni dalla deposizione e dall’assassinio di Gheddafi appare sempre più drammatica e ormai sul punto di esplodere in una guerra civile a tutti gli effetti. A sonvolgere il paese nord-africano, “liberato” dalle bombe NATO nel 2011 in seguito alla manipolazione di una risoluzione dell’ONU, sono i continui scontri tra milizie armate grosso modo riconducibili a militanti islamisti e secolari, appoggiati a loro volta da potenze straniere in competizione per l’influenza nella ex colonia italiana ricchissima di risorse energetiche.

A mettere in guardia la comunità internazionale dal baratro in cui sta precipitando la Libia è stato tra gli altri anche il suo ambasciatore alle Nazioni Unite, Ibrahim Dabbashi. Quest’ultimo ha lanciato un appello all’azione per evitare il peggio in concomitanza con il voto unanime questa settimana del Consiglio di Sicurezza per imporre nuove quanto inutili sanzioni sui presunti responsabili della destabilizzazione del paese.

I 15 membri del Consiglio, con apparente serietà, hanno anche invitato i paesi arabi ad adoperarsi per mettere fine alle violenze e a cercare una soluzione negoziata al conflitto in corso. La raccomandazione è apparsa sinistramente ironica, visto che proprio alcuni importanti paese arabi continuano ad alimentare gli scontri in Libia: Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi da una parte e Qatar dall’altra.

Questa realtà, che ha trascinato la Libia al centro della lotta di potere nella regione tra i sostenitori dell’Islamismo politico e i suoi oppositori, è apparsa evidente qualche giorno fa con la conferma da parte del governo americano che gli Emirati Arabi, grazie all’appoggio logistico egiziano, hanno recentemente bombardato con aerei da guerra alcune postazioni islamiste nel paese nord-africano.

L’intervento doveva avere l’obiettivo di impedire alle milizie islamiste, guidate dalla fazione proveniente da Misurata, di conquistare l’aeroporto internazionale di Tripoli, controllato da quasi tre anni dalla milizia di Zintan, nella Libia occidentale, alleata con varie altre formazioni sostenute appunto dal Cairo, Riyadh e Abu Dhabi.

Le incursioni aeree non hanno però avuto l’effetto sperato, visto che la fazione di Misurata e le alleate di quest’ultima hanno finito per assumere ugualmente il controllo dell’aeroporto nel fine settimana.

Nonostante le smentite, appare difficile che gli americani non siano stati al corrente dell’operazione decisa dal regime degli Emirati vista la stretta alleanza di quest’ultimo con Washington e la massiccia presenza di forze armate statunitensi nella regione del Golfo Persico. Del tutto possibile è invece un certo disappunto dell’amministrazione Obama che potrebbe temere sia un aggravamento del caos in Libia sia di essere scavalcata negli eventi di questo paese dai propri alleati arabi.

In ogni caso, gli attacchi aerei condotti il 18 e il 23 agosto non hanno rappresentato il primo intervento congiunto di Egitto ed Emirati Arabi in territorio libico, poiché in precedenza era circolata la notizia di almeno un blitz delle forze speciali di questi due paesi contro un accampamento degli islamisti poco oltre il confine con l’Egitto.

Lo scontro tra vari paesi arabi e non solo per estendere la loro influenza sulla Libia era iniziato già durante la “rivolta” contro Gheddafi, a conferma della più che dubbia natura democratica della guerra contro il regime alimentata fin dall’inizio da armi e denaro stranieri. Il Qatar e la Turchia, ad esempio, avevano da subito individuato possibili alleati soprattutto tra le milizie anti-governative di ispirazione islamista e dopo la fine del regime i due paesi si erano schierati a fianco dei Fratelli Musulmani libici.

Questi ultimi erano riusciti a prevalere all’interno del corpo legislativo “post-rivoluzionario” transitorio, denominato Congresso Nazionale Generale ed eletto nell’estate del 2012. In seguito, le milizie islamiste sarebbero state in pratica incorporate nelle strutture del nuovo stato, suscitando sempre più la preoccupazione di paesi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, tradizionalmente ostili a forme alternative di islamismo politico che possano rappresentare una qualche minaccia ai rispettivi regimi assoluti.

Per tutta risposta, Riyadh e Abu Dhabi hanno allora iniziato a fornire aiuti militari e finanziari alle milizie anti-islamiste, originarie soprattutto della città occidentale di Zintan, contribuendo in maniera decisiva alla destabilizzazione della Libia.

Lo scontro si è fatto poi ancora più aspro dopo il colpo di stato in Egitto che ai primi di luglio dello scorso anno ha rimosso dal potere il presidente dei Fratelli Musulmani Mohamed Mursi – eletto democraticamente e sostenuto finanziariamente e politicamente dal Qatar – dando inizio a una violentissima repressione ai danni del movimento islamista. L’iniziativa dei militari egiziani era stata appoggiata in pieno da Arabia Saudita ed Emirati Arabi - nonché dagli Stati Uniti - e aveva incoraggiato ancor più all’azione le milizie anti-islamiste nella vicina Libia.

In un quadro di scontri sempre più violenti e con il rapido deterioramento della situazione interna, si è inserito inoltre nel mese di maggio il tentativo di riportare un qualche ordine nel paese da parte dell’ex generale di Gheddafi, Khalifa Hiftar. Esiliato per decenni negli Stati Uniti in una località a pochi chilometri dal quartier generale della CIA, Hiftar aveva tentato un’offensiva contro gli islamisti nella parte orientale della Libia con il tacito appoggio degli Stati Uniti, raccogliendo il consenso di varie milizie e manifestando chiaramente l’intenzione di riprodurre nel suo paese le vicende egiziane.

L’offensiva guidata da Hiftar si è però arenata dopo alcuni successi iniziali e le elezioni, da lui indette dopo avere sciolto il Congresso Nazionale Generale e licenziato il governo, non hanno prodotto nessun risultato.

Il voto tenuto a giugno aveva peraltro messo in minoranza le forze islamiste nel nuovo parlamento ma l’assemblea ha potuto riunirsi solo qualche settimana fa nella città orientale di Tobruk, mentre il vecchio Congresso Nazionale Generale è stato recentemente reinsediato a Tripoli. L’inconsistenza della nuova Camera è confermata dal fatto che le tre principali città libiche - Bengasi, Misurata e appunto la capitale - dove risiede più della metà della popolazione, rimangono sotto il controllo degli islamisti.

In questo scenario, la Libia è ormai un campo di battaglia tra opposte fazioni nel quale i principi che avevano nominalmente animato la guerra contro Gheddafi sono stati abbandonati anche nelle apparenze, con gli islamisti e i loro sponsor esteri che cercano di contrastare la controffensiva delle milizie rivali, finanziate a loro volta dal petrolio saudita e disposte da qualche tempo ad accettare anche il contributo di ex membri del regime del rais contro cui avevano duramente combattuto.

La progressiva disintegrazione delle strutture statali della Libia dopo la caduta di Gheddafi e la trasformazione di questo paese in una sorta di nuova Somalia hanno dunque responsabilità ben precise. Esse non sono però da ricercare soltanto tra quei regimi arabi che stanno combattendo per procura su tutto il fronte mediorientale e nord-africano per assestare un colpo letale alle forze islamiste rivali, appoggiate in particolare da Qatar e Turchia.

Le responsabilità maggiori sono da attribuire agli Stati Uniti e ai governi europei, oggi silenziosi o impotenti di fronte all’espandersi della crisi libica ma intervenuti prontamente a sostegno della “rivolta” anti-Gheddafi nel 2011 per favorire il crollo del regime dietro motivazioni umanitarie, puntando proprio sulle forze fondamentaliste e le milizie armate violente che hanno continuato in questi anni a fronteggiarsi per la spartizione del potere e delle ricchezze del paese.


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