di Michele Paris

Una nuova esecuzione capitale risoltasi nel più completo disastro in un penitenziario dell’Oklahoma ha mostrato ancora una volta la sempre più evidente incapacità da parte delle autorità degli Stati Uniti di garantire il rispetto della legge e un minimo di umanità nell’applicazione della più barbara delle punizioni imposte ad un condannato per i suoi crimini.

Nel penitenziario di McAlester, contea di Pittsburg, martedì erano previste ben due condanne a morte, programmate a distanza di due ore l’una dall’altra. Alle 18 sarebbe dovuta scoccare l’ora del detenuto Clayton Lockett, 38enne condannato per l’omicidio di una giovane donna nel corso di una rapina nel 1999. Alle 20, poi, in programma c’era l’esecuzione di Charles Warner, finito nel braccio della morte per avere violentato e ucciso nel 1997 la figlia di 11 mesi dell’allora fidanzata.

La procedura ai danni di Lockett era iniziata regolarmente con una prima iniezione di un sedativo denominato midazolam allo scopo di rendere incosciente il condannato. Successivamente, avrebbero dovuto essere somministrate altre due sostanze, un bloccante muscolare (vecuronio) e del cloruro di potassio per indurre l’arresto cardiaco.

Dopo una decina di minuti dall’avvio delle procedure, Lockett è stato dichiarato in stato di incoscienza dal personale addetto all’esecuzione, ma ben presto ha iniziato ad agitarsi violentemente per provare a liberarsi dal lettino a cui era assicurato, respirando rumorosamente e cercando di alzare la testa per parlare.

La stanza è stata allora oscurata in modo da nascondere quanto stava accadendo ai testimoni presenti, mentre il direttore del sistema penitenziario dell’Oklahoma, Robert Patton, è stato raggiunto da una telefonata, in seguito alla quale ha abbandonato le operazioni assieme ad altri tre addetti del carcere.

Più tardi, lo stesso Patton ha affermato in una conferenza stampa che la prima sostanza non ha avuto l’effetto desiderato, poiché le vene di Lockett sarebbero “esplose”. L’esecuzione è stata interrotta ma, 43 minuti dopo la prima iniezione, il condannato è deceduto a causa di un forte attacco cardiaco. Nonostante le ricostruzioni dei testimoni, le autorità dello stato hanno sostenuto che Lockett è rimasto costantemente in stato di incoscienza fino alla morte.

Patton ha notificato l’accaduto al procuratore generale dello stato e alla governatrice dell’Oklahoma, Mary Fallin, la quale ha disposto una sospensione di 14 giorni per la seconda esecuzione in programma martedì, in attesa di un’indagine sulla procedura prevista dall’Oklahoma per la messa a morte dei condannati.

Ciò che è accaduto nel carcere di McAlester non è in ogni caso un evento senza precedenti negli Stati Uniti ed è inoltre il risultato di una battaglia legale dai contorni talvolta surreali attorno al protocollo finora mai testato e che ha coinvolto i legali dei due condannati, i politici e i massimi tribunali dell’Oklahoma.

Il ricorso ad un nuovo protocollo - in Oklahoma come in altri stati - si era reso necessario in seguito all’impossibilità di reperire le tre sostanze tradizionalmente usate per le iniezioni letali. I fornitori quasi tutti europei di queste ultime, infatti, hanno da qualche tempo bloccato le esportazioni dei medicinali in questione verso gli Stati Uniti proprio a causa del loro utilizzo nelle esecuzioni capitali.

Con l’assottogliamento delle scorte, molti stati hanno iniziato così a studiare soluzioni alternative per non interrompere la macchina della morte, ricorrendo ad esempio a nuovi cocktail o a singole sostanze, spesso di molto dubbia efficacia e quasi sempre reperiti presso fornitori segreti o non certificati, facendo aumentare seriamente il rischio di infliggere sofferenze equiparabili a torture ai condannati a morte.

Il protocollo appena fallito in Oklahoma era già stato impiegato recentemente in Florida, dove però la quantità del sedativo midazolam era stata cinque volte superiore. Secondo gli esperti, se questa sostanza non viene somministrata nella giusta dose, le due successive possono provocare dolori atroci e sensazione di soffocamento con il condannato ancora cosciente, come è accaduto appunto martedì a Clayton Lockett.

Nello stato dell’Oklahoma, peraltro, lo scorso mese di gennaio un’altra esecuzione era finita tra le polemiche, quella del condannato Michael Lee Wilson, il quale dopo la somministrazione del primo sedativo - in questo caso pentobarbital, solitamente utilizzato nell’eutanasia animale - aveva escalamato di sentire il proprio corpo “bruciare”.

Dopo i problemi con il pentobarbital, l’Oklahoma aveva valutato la possibilità di un mix di midazolam e idromorfone, un potente analgesico, criticato da molti medici perché avrebbe potuto risultare sostanzialmente nel soffocamento dei condannati. Infatti, ciò è quanto era accaduto a Dennis McGuire, giustiziato con questo metodo il 16 gennaio in Ohio dopo quasi mezz’ora di orrore e sofferenze.

Dopo vari tentativi, la decisione di adottare il protocollo impiegato nell’esecuzione di Clayton Lockett si è risolta in una nuova violazione dell’Ottavo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti che proibisce punzioni “crudeli e inusuali”.

Per evitare ciò, i legali dello stesso Lockett e di Charles Warner nel mese di febbraio avevano avviato un’azione legale contro lo stato dell’Oklahoma dopo che le autorità avevano annunciato ufficialmente il nuovo cocktail letale.

La lunga diatriba legale aveva spinto il 21 aprile scorso la Corte Suprema dello stato a bloccare le due esecuzioni, così da poter valutare un altro aspetto cruciale, vale a dire la costituzionalità di una legge approvata dal parlamento locale dell’Oklahoma nel 2011 per tenere segreta l’identità dei produttori delle sostanze usate nella procedura con iniezione letale.

La governatrice repubblicana dello stato, però, aveva subito dichiarato che i giudici della Corte Suprema statale erano andati al di là delle proprie competenze nel fermare le esecuzioni. Un deputato dell’assemblea legislativa dell’Oklahoma aveva addirittura presentato richiesta di impeachment contro i cinque giudici che avevano votato a favore della sospensione. Il 23 aprile, infine, la stessa Corte Suprema aveva finito per cedere con un clamoroso voltafaccia, deliberando che i due condannati non avevano il diritto di essere informati circa i fornitori delle sostanze che sarebbero state impiegate per la loro esecuzione.

Svariati altri stati americani stanno facendo i conti con cause legali per le stesse ragioni, con i difensori dei condannati che cercano di evitare la ripetizione di quanto è già accaduto quest’anno in Ohio e in Oklahoma, dove pericolosi cocktail di sostanze di dubbia provenienza sono stati testati su detenuti usati come cavie.

In Texas, ad esempio, un procedimento è attualmente in corso davanti alla Corte Suprema dello stato per forzare le autorità a rivelare i fornitori dei medicinali selezionati per l’iniezione letale. Una legge sulla segretezza è stata approvata nel 2013 anche dalla Georgia, dove ugualmente il massimo tribuale dello stato sarà chiamato a breve ad espimersi sull’argomento.

Il ricorso ai tribunali, in ogni caso, non garantisce in nessun modo il rispetto di diritti costituzionali basilari, come conferma non solo il caso dell’Oklahoma ma anche i recentissimi rifiuti da parte delle Corti Supreme di Missouri e Louisiana anche solo di considerare le cause presentate alla loro attenzione per togliere il segreto sugli approvvigionamenti delle sostanze letali.

di Mario Lombardo

Alcuni giorni fa, un tribunale federale americano ha condannato a pene detentive relativamente pesanti tre manifestanti anti-NATO al termine di quello che è apparso a molti come una parodia di un procedimento legale in un paese democratico. I tre imputati, come è spesso accaduto negli ultimi anni negli Stati Uniti, non hanno in realtà rappresentato alcuna minaccia “terroristica” e i più che discutibili crimini di cui erano accusati sono derivati unicamente dall’attività istigatoria nei loro confronti di due infiltrati della polizia.

Il verdetto è stato emesso dal giudice della contea di Cook, nell’Illinois, Thaddeus Wilson e ha stabilito per Brian Church, Brent Betterly e Jared Chase pene rispettivamente di 5, 6 e 8 anni, al termine delle quali seguiranno per tutti altri 2 anni di libertà condizionata.

Già lo scorso mese di febbraio, i tre giovani alla sbarra erano stati giudicati colpevoli per i reati di possesso di materiale incendiario e di utilizzo di metodi violenti per disturbare la quiete pubblica. La giuria prescelta per il processo li aveva però scagionati dall’accusa più grave, quella di terrorismo secondo il dettato di una legge dell’Illinois approvata all’indomani dell’11 settembre 2001 e fino ad ora mai usata in aula nello stato del Midwest americano.

Il procuratore Anita Alvarez  aveva condotto una durissima battaglia contro i tre imputati, insistendo sulle loro tendenze terroristiche e chiedendo ancora alla vigilia della decisione sull’entità della pena da parte del giudice Wilson fino a 14 anni di carcere nonostante la sentenza di febbraio. Church, Betterly e Chase sono in carcere già da più di 700 giorni e il periodo scontato dietro le sbarre verrà dedotto dalla loro pena definitiva.

Secondo i loro legali, nel caso dovesse essere riconosciuta la buona condotta, i tre potrebbero uscire dal carcere tra 6 e 18 mesi. Jared Chase, inoltre, soffre di una patologia neurodegenerativa chiamata malattia di Huntington, a causa della quale, secondo un neurologo chiamato a testimoniare durante il processo, il condannato 29enne, oltre a dovere essere assistito per ogni sua necessità nel prossimo futuro, potrebbe avere un’aspettativa di vita non superiore ai dieci anni.

In ogni caso, le disavventure legali dei tre uomini erano iniziate nel maggio del 2012 in seguito alla loro partecipazione alle proteste organizzate contro il vertice della NATO andato in scena a Chicago. In quell’occasione, secondo svariate organizzazioni a difesa dei diritti civili, le autorità americane erano ricorse a “violenze indiscriminate” per disperdere i manifestanti, arrestando centinaia di persone e ferendone alcune decine.

Church, Betterly e Chase vennero invece presi di mira probabilmente per le simpatie da loro nutrite nei confronti dei cosiddetti Black Bloc. L’arresto fu effettuato dalle forze di polizia in un appartamento del “south side” di Chicago mentre i tre uomini - secondo l’accusa - erano intenti a versare benzina in alcune bottiglie vuote allo scopo di produrre Molotov da utilizzare in assalti contro alcuni edifici della città, tra cui stazioni di polizia, il quartier generale della campagna elettorale del presidente Obama e l’abitazione del sindaco Rahm Emanuel.

In realtà, l’intera vicenda era apparsa da subito come una trappola preparata dalle forze di polizia di Chicago costruita sulle prestazioni di due infiltrati sotto copertura.

Nel corso del processo, infatti, erano emersi elementi che, pur non risparmiando agli accusati pene detentive, avevano dimostrato l’assurdità delle accuse nei loro confronti. Per cominciare, le prove consistevano soltanto in registrazioni segrete di conversazioni inconsistenti, impronte digitali rinvenute su bottiglie vuote di birra che sarebbero state utilizzate per la preparazione di Molotov, nonché benzina e altro materiale fornito interamente dagli agenti di polizia in incognito.

Le conversazioni raccolte dalla polizia, come ha fatto notare la difesa durante il dibattimento in aula, erano caratterizzate più che altro da frasi bizzare ed evidenziavano la mancanza di preparazione dei tre imputati in relazione a possibili azioni dimostrative violente. In una discussione registrata, addirittura, Brian Church rifiutava esplicitamente l’invito di uno dei due agenti infiltrati a provare l’efficacia delle Molotov contro un qualche bersaglio a Chicago.

Secondo l’avvocato di Brent Betterly, perciò, “la guerra al terrore non può andare tanto in là” fino a includere il caso in questione e, infatti, la vicenda dei cosiddetti “NATO Three” dimostra ancora una volta come le misure di polizia adottate negli USA dopo l’11 settembre 2001 siano destinate in primo luogo a reprimere e scoraggiare ogni forma di dissenso interno.

Lo stesso Betterly, d’altra parte, nelle fasi finali del processo qualche giorno fa ha ribadito pubblicamente il proprio impegno “pacifico contro le potenze occidentali e le corporations transnazionali”, identificando la sua battaglia morale con quella di tutte le “persone oppresse”.

La sorte dei tre condannati conferma anche come gli Stati Uniti valutino in maniera diametralmente opposta le manifestazioni di protesta a seconda che avvengano all’interno dei confini propri e di quelli di paesi amici o contro governi poco graditi.

Così, ad esempio, mentre i gruppi neo-fascisti che hanno rovesciato un governo democraticamente eletto in Ucraina o i manifestanti violenti finanziati da Washington in Venezuela vengono considerati alla stregua di eroi della democrazia, coloro che protestano contro il sistema negli USA, oppure contro il regime golpista di Kiev o la dittatura militare in Egitto, risultano al contrario minacce - spesso di natura “terroristica” - da eliminare senza nessuno scrupolo.

di Michele Paris

L’ultima tappa della trasferta in Estremo Oriente del presidente americano Obama è stata caratterizzata dalla firma di un importante trattato decennale con il governo delle Filippine che consentirà ad un contingente delle forze armate statunitensi di tornare ad occupare alcune basi militari nel paese-arcipelago del sudest asiatico. L’intesa, allo studio da tempo, è stata siglata alla vigilia dell’arivo di Obama a Manila dal segretario alla Difesa filippino, Voltaire Gazmin, e dall’ambasciatore USA, Philip Goldberg.

Il testo dell’accordo è stato redatto con la precisa intenzione di occultare sia le modalità della sua applicazione che gli obiettivi reali che hanno portato alla firma, fondamentalmente per via della diffusa ostilità popolare nei confronti della presenza militare della ex potenza coloniale nelle Filippine e per aggirare la proibizione prevista dalla Costituzione di questo paese in merito alla creazione di basi militari straniere permanenti entro i propri confini.

Secondo i due governi, infatti, il trattato bilaterale non sarebbe rivolto al contenimento o all’accerchiamento della Cina, mentre servirebbe unicamente a favorire l’addestramento delle forze armate filippine e la cooperazione in caso di missioni umanitarie o di assistenza in seguito a disastri naturali. La presenza di soldati USA, viene spiegato inoltre, non sarà permanente ma a “rotazione” e l’accesso alle basi filippine avverrà a seguito di “inviti” del governo di Manila.

In realtà, l’accordo appena mandato in porto con le Filippine rientra in pieno nei piani strategici americani per incrementare le pressioni sulla dirigenza cinese e cercare di subordinare gli interessi di Pechino in quest’area del globo a quelli degli Stati Uniti.

La rilevanza dell’accordo è evidente anche dal fatto che esso giunge a oltre due decenni di distanza dalla decisione presa dalle Filippine di chiudere le basi americane sul proprio territorio dopo quasi un secolo di presenza militare a stelle e strisce. La collaborazione in ambito militare tra Washington e Manila, peraltro, era ripresa già a partire dal 2002 e, soprattutto con il pretesto della lotta al terrorismo, alcuni contingenti USA sono stati da allora impiegati nelle Filippine.

D’ora in avanti, tuttavia, la presenza americana risulterà più massiccia e, per ammissione del responsabile per l’Asia del Consiglio per la Sicurezza Nazionale USA, Evan Medeiros, i vertici militari americani potrebbero prendere in considerazione l’utilizzo di “svariate strutture” ancora da costruire o già esistenti, tra cui la base navale di Subic, occupata dalle forze degli Stati Uniti fino al 1992.

Quella con le Filippine è dunque solo l’ultima e probabilmente più esplicita manovra da parte americana per rafforzare i legami militari con gli alleati asiatici, come è apparso evidente dalla visita di Obama nel continente.

La settimana scorsa in Giappone, ad esempio, il presidente democratico ha ribadito l’impego del suo paese a fianco di Tokyo in caso di “aggressione” da parte cinese in relazione alle isole Senkaku/Diaoyu nel Mar Cinese Orientale al centro di una disputa con Pechino.

Successivamente, in Corea del Sud, la presidente Park Geun-hye ha accettato le richieste americane di rimandare a dopo il dicembre del 2015 il trasferimento da Washington a Seoul del comando militare operativo delle forze armate indigene in tempo di guerra. Inoltre, la Corea del Sud ha dato il via libera all’integrazione del proprio sistema di difesa anti-missilistico con lo scudo anti-balistico che gli USA stanno pianificando nella regione, sempre in funzione anti-cinese.

La prima visita di un presidente americano in Malaysia da quasi mezzo secolo a questa parte, infine, ha portato risultati interessanti per gli Stati Uniti, soprattutto alla luce del fatto che questo paese - a differenza degli altri tre inclusi nel tour asiatico di Obama - non è formalmente un alleato di Washington.

Il comunicato ufficiale del governo malese ha cioè sottolineato la propria adesione ai principi avanzati dagli americani in merito alle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale, da risolversi attraverso un arbitrato internazionale e non con trattative bilaterali come vorrebbe Pechino.

Obama e il primo ministro Najib Razak hanno poi annunciato un innalzamento del livello delle relazioni tra i due paesi, legati ora da quella che è stata definita come una “partnership completa”, e ribadito la cooperazione militare in essere da tempo. In cambio, l’inquilino della Casa Bianca ha dato la propria legittimazione al governo autoritaro di Kuala Lumpur, rifiutandosi di incontrare il leader dell’opposizione, Anwar Ibrahim, e tacendo sulle più recenti disavventure giudiziarie di quest’ultimo, vittima recentemente di nuovi procedimenti motivati politicamente.

Come è accaduto in occasione delle precedenti tappe del viaggio di Obama nei giorni scorsi, anche lunedì i media cinesi hanno accolto con estrema diffidenza le iniziative degli USA e dei loro alleati, così come le rassicurazioni del presidente che le intenzioni di Washington nulla avrebbero a che vedere con i tentativi di contenere l’espansione di Pechino.

Per l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, dunque, l’accordo difensivo tra gli Stati Uniti e le Filippine sarebbe “allarmante” e potrebbe spingere il governo di Manila ad intraprendere azioni “sconsiderate”. Secondo lo stesso editoriale, “l’amministrazione del presidente filippino Benigno Aquino ha messo in chiaro le proprie intenzioni: cercare il confronto con la Cina grazie all’appoggio degli USA”, rendendo perciò più difficile, “se non impossibile, una soluzione amichevole alle dispute territoriali” in corso.

L’atteggiamento sempre più provocatorio nei confronti della Cina da parte del presidente Aquino è indubbiamente la conseguenza dell’incoraggiamento americano, anche se gli stessi Stati Uniti, nonostante la retorica, continuano ad essere protagonisti diretti di gesti volti a mettere pressioni su Pechino.

Un articolo pubblicato lunedì dal Wall Street Journal, ad esempio, ha rivelato come il Comando USA dell’area Pacifico abbia già preparato una serie di risposte da mettere in atto in caso di “qualsiasi futura provocazione cinese nel Mar Cinese Orientale e Meridionale”.

Le misure previste - che vanno dall’invio di bombardieri B-2 ad esercitazioni di portaerei nei pressi delle coste della Cina - servirebbero anche a rassicurare gli alleati asiatici preoccupati per una possibile azione da parte di Pechino simile a quella russa in Crimea.

Simili “analisi” giornalistiche, così come gli annunci del governo di Washington, tralasciano però puntualmente di spiegare le vere ragioni della crisi ucraina come del vertiginoso aumento delle tensioni in Asia orientale, da ricercare non nelle ambizioni di Russia o Cina, bensì precisamente nella stessa provocatoria politica estera degli Stati Uniti.

di Emanuela Muzzi

Londra. "To bet or not to bet, that is the question...”. Per stare al passo con i tempi Shakespeare, in occasione del suo 450esimo compleanno, dovebbe aggiornare il dubbio amletico e farsi una passeggiata in una delle high streets londinesi dove i “betting shops” proliferano e gli inglesi buttano soldi a palate nella speranza di ripagare i debiti. La scommessa su tutto e su tutti del resto è lo sport nazionale nel Regno Unito.

Il governo Tory-LibDem ha inizialmente spinto il business e puntato sugli incassi del “gambling ufficiale e legalizzato” il che ha portato al proliferare dei centri scommesse, postacci lugubri che degradano le strade principali e le aree commerciali.

Mentre la working class si avvelena con la nuova droga delle “crack cocaine”, ovvero i terminal elettronici per le scommesse, white collars e lobbies scommettono sul prossimo cavallo vincente: alle prossime elezioni politiche del 2015 Labour e Tory sono spalla a spalla al 35%, LibDem al 9% mentre i nazionalisti dell’Ukip al 13%  (agenzia Populus dati aggiornati al 25 Aprile) mentre la polling agency YouGov dà i Labours al 38%, i CONs al 32%, l’ Ukip  al 14% ed i LibDem all’8%. Per avere un’idea bisognerebbe mediare tra i due dati, ma come si sa, i polls possono sbagliare anche di molto e poi da qui al 2015 “it’s a long way to go”.

La verità è che, comunque, chi vive in Gran Bretagna sa che tira un’arietta inquinata, specialmente a Londra, dove l’intenzione di voto è ancora nebbiosa: gli inglesi non sanno più su chi scommettere.

Un indice della situazione è sicuramente il dibattito Clegg-Farage, un evento televisivo che ha “democratizzato” il volto bidimensionale del nazional-populista anti-immigrazione ed anti Europa Nigel Farage, segretario dell'Ukip (UK Independence Party), dandogli inoltre la possibilità di comunicare concetti arroganti e semplici alla vasta audience televisiva, esponendo al contempo la strutturale debolezza dialettica del leader LibDem, Nick Clegg, alle solide certezze di un razzista. Risultato: valanga di adesioni all’Ukip.

I polls lo danno come secondo partito vincente alle europee del prossimo 22 Maggio, data che coincide drammaticamente con le elezioni politiche locali in Inghilterra e Irlanda del Nord. Se la scommessa vincente sarà quella della destra xenofoba saranno le urne a dirlo, nel frattempo il “gambling” è sempre più sottobanco, anche perché, come spesso accade, chi vota estrema destra non lo dichiara.

Il plot di sapore shakespeariano alza il sipario sulla tragedia: Clegg lancia un grido d’allarme sulla catastrofe e punta la lancia bipartisan verso Labour e Tories: “Entrambi non stanno facendo nulla per fermare la destra xenofoba”, perché hanno paura di perdere voti e sono troppo indaffarati a tappare i buchi delle divisioni interne. Bisogna ammettere che almeno lui la faccia ce l’ha messa contro “il cattivo”.

Ma per vedere l'ultimo atto della vendetta di Amleto e del duello finale bisogna aspettare. Per il momento al posto della tragedia di William Shakespeare, qui a Londra, va in scena la tragedia di William Hill: il principale player dell’industria delle scommesse è disperato perché il governo ha aumentato la tassa sulle scommesse e si trova a chiudere almeno 900 dei suoi “betting shops”. Nella tragedia, almeno una buona notizia.  

di Michele Paris

A quasi un mese dal primo turno delle elezioni presidenziali in Afghanistan, la Commissione Elettorale Indipendente del paese tuttora sotto occupazione occidentale ha reso noti i risultati quasi definitivi che prospettano, come previsto, il ballottaggio tra i due candidati con il maggior numero di consensi. Il più votato sembra essere l’ex ministro degli Esteri fortemente gradito agli Stati Uniti, Abdullah Abdullah, con il 44,9%, seguito dall’economista Ashraf Ghani con il 31,5%.

Fuori dai giochi è rimasto invece il presunto favorito del presidente uscente Hamid Karzai, l’altro ex ministro degli Esteri Zalmay Rassoul (11,5%). Quest’ultimo, tuttavia, assieme al quarto classificato, l’islamista Abdul Rassoul Sayyaf (7,1%), potrebbe giocare ora un ruolo di primo piano nelle trattative già in corso per garantire il proprio blocco elettorale a uno dei due candidati qualificatisi per il secondo turno.

I risultati appena annunciati sono comunque considerati ancora provvisori, visto che che essi dovranno essere combinati con il responso della commissione incaricata di verificare le denunce di brogli che pesano su circa mezzo milione di voti sui 7 milioni espressi.

Secondo quanto comunicato ai media dalle autorità afgane, i dati definitivi dovrebbero essere diffusi il 14 maggio prossimo e la data del ballottaggio - nel caso quasi certo che Abdullah non riuscisse a superare la soglia del 50% anche dopo un’eventuale modifica dei risultati preliminari - potrebbe essere fissata al 7 giugno.

Come previsto dalla Costituzione, il presidente Karzai non ha potuto candidarsi per un terzo mandato alla guida del paese centro-asiatico dopo avere vinto tra pesanti accuse di brogli nel 2004 e nel 2009. Cinque anni fa, in particolare, lo stesso Abdullah si rifiutò di partecipare al ballottaggio dopo essere giunto dietro a Karzai nel primo turno.

Scrupolo principale degli Stati Uniti, in ogni caso, è quello di installare a Kabul un nuovo governo fantoccio con un leader che causi meno problemi di quelli sorti negli ultimi anni dell’amministrazione Karzai, durante i quali il presidente ha ripetutamente criticato gli occupanti, soprattutto per i raid notturni delle forze speciali USA nelle abitazioni private dei cittadini afgani che continuano a causare vittime civili.

Obiettivo americano è in primo luogo quello di giungere finalmente alla firma del sospirato “trattato bilaterale per la sicurezza” che consentirà a Washington di mantenere un significativo contingente militare in Afghanistan dopo il ritiro delle forze straniere di combattimento previsto per il 31 dicembre prossimo.

Se Karzai si è ripetutamente rifiutato di sottoscrivere l’accordo a causa dell’impopolarità della presenza USA nel suo paese, tutti gli otto candidati alla carica di presidente hanno manifestato la loro intenzione di firmare il documento, negoziato da tempo con l’amministrazione Obama per assicurare la presenza indefinita in Afghanistan di circa dieci mila soldati in una manciata di basi militari.

D’altra parte, sia Abdullah che Ghani hanno avuto modo di mostrare la loro fedeltà all’autorità occupante negli anni successivi all’invasione. Il primo è stato il ministro degli Esteri di Karzai dal dicembre del 2001 al 2005 e, pur essendo di etnia mista Pashtun e Tagika, ottiene la gran parte dei consensi nel paese tra i membri della seconda. Inoltre, Abdullah è stato in grado di intercettare i voti dell’etnia Hazara grazie alla nomina a candidato alla vice-presidenza del “warlord” Mohammad Mohaqiq.

Ashraf Ghani, invece, ha vissuto a lungo negli Stati Uniti dove ha conseguito un master alla Columbia University e ha insegnato a Berkeley e alla Johns Hopkins. Di etnia Pashtun e ministro delle Finanze di Karzai tra il 2002 e il 2004, Ghani ha anche lavorato per la Banca Mondiale negli anni Novanta.

In queste elezioni si è presentato al fianco del candidato vice-presidente Abdul Rashid Dostum, leader dell’etnia Uzbeka e discusso comandante militare di una milizia anti-talebana che nell’ottobre del 2001 massacrò oltre duemila prigionieri arresisi nella località di Kunduz, nell’Afghanistan settentrionale.

Nonostante il vantaggio di Abdullah dopo il primo turno, l’esito finale della corsa alla presidenza appare tutt’altro che scontato. Il terzo classificato, Abdul Rassoul Sayyaf, gode infatti del sostegno del potente clan Karzai, le cui risorse potrebbero risultare decisive per il candidato che eventualmente riuscirà ad assicurarsi il suo appoggio in vista del ballottaggio.

Sia Abdullah che Ghani hanno inoltre già promesso un qualche ruolo per Karzai all’interno della nuova amministrazione. Il presidente e il suo clan, da parte loro, sono fortemente interessati a mantenere gli appoggi necessari per conservare le ricchezze accumulate in questi anni e la loro posizione di potere in Afghanistan.

Secondo i media occidentali, il primo turno delle presidenziali andate in scena il 5 aprile scorso sarebbe stato un successo inaspettato. Su 12 milioni di elettori registrati, 7 si sono recati alle urne, anche se più di un seggio su dieci è rimasto chiuso per il timore di possibili attacchi dei Talebani.

Questi ultimi, tuttavia, non sono stati protagonisti di incursioni su larga scala come nelle elezioni precedenti, secondo molti osservatori per risparmiare le forze in previsione della tradizionale offensiva di primavera che potrebbe essere scatenata nelle prossime settimane.

Pur in un clima relativamente normale, il voto si è tenuto alla presenza di centinaia di migliaia di soldati afgani dispiegati per il paese, mentre nelle città principali come Kabul o Kandahar la popolazione è stata sottoposta a numerosi blocchi stradali e a controlli pervasivi.

Gli Stati Uniti, infine, oltre ad avere finanziato con oltre 100 milioni di dollari la consultazione elettorale che dovrebbe segnare il primo passaggio di poteri pacifico nella storia dell’Afghanistan, continua ad avere 33 mila soldati nel paese sui 50 mila totali che compongono le forze di occupazione.

Un simile scenario, perciò, rende a dir poco assurde le congratulazioni espresse dall’amministrazione Obama per il processo “democratico” di un Afghanistan “sovrano”, rivelando ancora una volta l’ipocrisia della politica estera degli Stati Uniti, fortemente critici – ad esempio – nei confronti del presunto ruolo della Russia nel referendum, non riconosciuto, organizzato in Crimea nel mese di marzo.


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