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di Mario Lombardo
Il ritrovamento lunedì vicino a Hebron dei cadaveri dei tre giovani israeliani, rapiti il 12 giugno scorso nei pressi di un insediamento illegale in Cisgiordania, ha scatenato la prevedibile dura reazione del governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu. Il primo ministro ha accusato il movimento islamista Hamas del rapimento e dell’omicidio dei tre ragazzi, intensificando una campagna di aggressione già in corso da tre settimane nei territori palestinesi per individuare i presunti colpevoli.
Una riunione d’emergenza del gabinetto israeliano si è conclusa con un primo provvedimento che ha autorizzato una quarantita di incursioni nella notte tra lunedì e martedì nella Striscia di Gaza, ufficialmente per colpire obiettivi legati ad Hamas, Jihad Islamica e altri gruppi militanti. L’operazione sarebbe avenuta anche in risposta al lancio di 18 missili verso Israele provenienti da Gaza a partire dalla serata di domenica.
I servizi di sicurezza israeliani avevano sostenuto la settimana scorsa di avere identificato nel 29enne Marwan Qawasmeh e nel 32enne Amar Abu Aisha i presunti responsabili del rapimento dei tre adolescenti. Le operazioni condotte a partire dal 12 giugno dalle forze armate di Israele hanno già causato almeno sei decessi, mentre gli arrestati si contano a centinaia. I morti e i detenuti palestinesi, com’è ovvio, nulla hanno a che vedere con il rapimento ma, tutt’al più, sono il risultato della resistenza contro l’ennesimo assalto israeliano in Cisgiordania condotto per terrorizzare la popolazione palestinese.
Le forze israeliane, inoltre, hanno raso al suolo le abitazioni dei due sospettati. Durante la distruzione di uno dei due edifici, la moglie incinta e un nipote di 2 mesi di Qawasmeh sono rimasti feriti. La madre di Abu Aisha, invece, ha ricordato come gli israeliani avessero già demolito la sua casa nel 2005 dopo l’uccisione di un altro suo figlio mentre cercava di lanciare dell’esplosivo contro un soldato delle forze di occupazione.
La tragica vicenda dei tre giovani è stata in ogni caso sfruttata dal governo Netanyahu per alzare i toni nei confronti dei vertici del movimento palestinese, con un preciso obiettivo politico, vale a dire la rottura del recente accordo di riconciliazione tra l’Autorità Palestinese e Hamas. L’intesa era stata raggiunta ad aprile e poi siglata a inizio giugno con l’intenzione di spianare la strada a un governo di “unità nazionale” e di organizzare le elezioni nei territori palestinesi per il 2015.
Da subito, il riavvicinamento tra l’entità guidata da Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e Hamas aveva suscitato le accese critiche di Israele, la cui classe dirigente teme fortemente la formazione di un fronte unitario - o meno frammentato - sul versante palestinese.
Nonostante Hamas abbia respinto ogni responsabilità nel rapimento dei tre giovani israeliani, in molti all’interno del governo di Tel Aviv hanno lanciato minacciosi avvertimenti all’organizzazione islamista, con l’obiettivo di creare una nuova divisione tra quest’ultima e l’Autorità Palestinese.Il portavoce di Netanyahu, Mark Regev, ha confermato il proposito del governo, sostenendo che Abbas è in parte responsabile dell’accaduto, poiché i “terroristi” provenivano da un’area sotto il suo controllo. L’invito rivolto all’anziano leader palestinese è perciò quello di revocare il patto sottoscritto con Hamas.
Prima e durante la riunione di gabinetto di lunedì, i falchi nel governo Netanyahu hanno poi chiesto un’azione incisiva contro Hamas. Il ministro dell’Economia e leader del partito di estrema destra “La Casa Ebraica”, Naftali Bennett, ha affermato che “questo è il momento dell’azione e non delle parole”. A Bennett ha fatto eco il ministro dei Trasporti e membro del Likud, Yisrael Katz, il quale ha sollecitato il primo ministro ad agire con “tutta la nostra forza contro Hamas a Gaza e in Cisgiordania”.
Ancora più esplicito è stato il vice-ministro della Difesa, Danny Danon, poco dopo il ritrovamento dei cadaveri, emanando un comunicato per annunciare che il governo “non si fermerà fino a quando Hamas sarà completamente sconfitta”.
Altri ministri hanno invece chiesto una risposta relativamente misurata, come quello della Difesa, Moshe Ya’alon, delle Finanze, Yair Lapid, e della Giustizia, Tzipi Livni. Lo stesso Ya’alon, tuttavia, ha proposto di inaugurare una nuova ondata di insediamenti illegali in Cisgiordania, di cui uno da intitolare alla memoria dei tre ragazzi assassinati.
Netanyahu, da parte sua, ha ammesso la necessità di una risposta “forte” ma senza spiegare in cosa essa dovrebbe consistere. Il premier, assieme al presidente uscente Shimon Peres e ad altri membri del suo governo, ha partecipato martedì ai funerali, mentre ulteriori iniziative contro Hamas potrebbero essere decise dopo una nuova riunione di emergenza del gabinetto.
Se appare del tutto evidente che il triplice assassinio dei giovani israeliani è un crimine odioso, la consueta risposta spropositata di Israele non ha nulla a che vedere con la giustizia ma rappresenta piuttosto l’ennesimo atto di punizione collettiva nei confronti di un popolo già sottoposto a decenni di abusi.
Inoltre, l’ampio spazio concesso alla vicenda dai media occidentali conferma tristemente come a fare notizia per la cosiddetta “comunità internazionale” continuino a essere quasi unicamente le violenze subita da Israele, mentre quelle esercitate dalle autorità di quest’ultimo paese sui palestinesi, anche se talvolta condannate in maniera formale, sono di fatto ampiamente accettate.
Uccisioni, arresti arbitrari, torture, segregazione, confische, espulsioni dalle proprie terre e molti altri crimini vengono commesi quotidianamente dalle forze di sicurezza di Israele contro le popolazioni palestinesi, oltretutto con l’appoggio più o meno tacito degli Stati Uniti e dei loro alleati in Occidente.Lo stesso presidente Obama ha condannato ufficialmente l’assassinio dei tre giovani israeliani, manifestando tutta la sua comprensione per i familiari di questi ultimi. Un sentimento, quello dell’inquilino della Casa Bianca, che raramente viene espresso per le vittime delle violenze di cui si rende responsabile lo stato di Israele.
Né Obama né il resto della “comunità internazionale”, d’altra parte, orchestrano o appoggiano campagne di condanna per i pur numerosissimi giovani assassinati da Israele, spesso senza che le vittime rappresentino una reale minaccia o perché si battono contro l’occupazione illegale delle loro terre. Solo qualche settimana fa, ad esempio, un video di sorveglianza aveva mostrato l’uccisione di un 16enne e di un 17enne palestinesi per mano delle forze di sicurezza israeliane. I due ragazzi erano stati colpiti al petto a un’ora di distanza l’uno dall’altro mentre camminavano disarmati nei pressi di un carcere in Cisgiordania.
A fotografare la disparità delle forze in campo nel conflitto israelo-palestinese, così come il trattamento dei membri più giovani delle popolazioni sottoposte a occupazione, era stato infine un rapporto reso noto dal ministero dell’Informazione dell’Autorità Palestinese proprio pochi giorni prima del rapimento dei tre “teenager” provenienti dai territori occupati.
Secondo i dati resi noti, le forze di occupazione israeliane hanno ucciso più di 1.500 minori palestinesi tra il mese di Settembre del 2000 - data dell’inizio della seconda Intifada - e l’Aprile del 2013, ovvero uno ogni tre giorni. A ciò vanno aggiunti più di 6.000 feriti e 9.000 arrestati sotto i 18 anni, di cui 250 tuttora nelle carceri dello stato di Israele. Nel silenzio complice dell’Occidente.
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di Michele Paris
In un tribunale di Washington, qualche giorno fa è iniziato un nuovo processo contro quattro ex mercenari della famigerata compagnia militare privata americana Blackwater, responsabili della sparatoria in una piazza di Baghdad che nel settembre del 2007 si concluse in una vera e propria strage di civili. La riapertura del procedimento giudiziario ai danni degli ex contractor del governo USA è stata seguita dalla pubblicazione di alcuni documenti del Dipartimento di Stato, dai quali si comprende a sufficienza sia il potere raggiunto da simili compagnie private nell’Iraq occupato sia la quasi totale libertà d’azione a loro garantita grazie alla protezione dei rappresentati di Washington nel paese mediorientale.
Alla sbarra presso il tribunale distrettuale della capitale degli Stati Uniti ci sono Nicholas Slatten, Dustin Heard, Evan Liberty e Paul Slough. Il primo è accusato di omicidio di primo grado, mentre le altre tre ex guardie private di omicidio (“manslaughter”) volontario e tentato omicidio. Le pene previste in caso di condanna potrebbero arrivare fino all’ergastolo per Slatten e partire da un minimo di trent’anni per i rimanenti imputati nel caso fossero riconociuti colpevoli anche di altri reati di minore gravità. Un quinto ex dipendente di Blackwater coinvolto nei fatti del 2007 è stato invece scagionato e un altro ancora ha raggiunto un patteggiamento con il Dipartimento di Giustizia.
Il risultato della sparatoria che vide protagonisti gli uomini di Blackwater nell’affollata piazza Nisoor di Baghdad fu la morte di 14 iracheni e il ferimento di altre 18 persone. Secondo la versione sempre sostenuta dai mercenari americani, la loro azione sarebbe stata la risposta a un possibile attacco suicida degli “insorti”. In un simile scenario, gli uomini che viaggiavano sul convoglio di Blackwater avrebbero perciò agito per legittima difesa.
Numerose indagini e testimonianze hanno però smentito categoricamente questa ricostruzione. Un’analisi degli avvenimenti fatta dal New York Times già nell’ottobre del 2007, ad esempio, aveva mostrato come non ci fosse stata alcuna minaccia per i contractor del governo americano. In particolare, la prima auto contro cui le guardie private spararono nella piazza, perché identificata come possibile minaccia, si era in realtà scontrata con i mezzi di Blackwater solo dopo che il suo conducente era stato colpito alla testa e aveva perso il controllo della vettura.
Una prima scarica di colpi di arma da fuoco sparati in piazza Nisoor dai mercenari americani sarebbe stata così seguita da una valanga di pallottole e granate, dirette anche contro le auto e i passanti che cercavano in tutti i modi di allontanarsi o trovare rifugio. Nessuna prova o testimonianza ha invece mai confermato spari da parte irachena, provenienti dalle auto nella piazza o dagli edifici adiacenti.
A sostegno dell’accusa in un processo inizialmente abbandonato nel 2009 ci sono ora le testimonianze di decine di cittadini iracheni superstiti, il cui trasferimento negli Stati Uniti è stato coordinato dall’FBI. Secondo uno degli assistenti del procuratore impegnati nel procedimento, alcune delle vittime della sparatoria erano civili che cercavano di evitare il fuoco dei contractor. Questi ultimi, una volta lasciata piazza Nisoor, iniziarono al contrario a far circolare la propria versione dei fatti, sostenendo che il convoglio su cui viaggiavano era stato assaltato dagli “insorti”, a cui avevano risposto armi alla mano per garantire la loro sicurezza.
Inoltre, lo stesso assistente procuratore ha spiegato come il Dipartimento di Stato americano avesse atteso quattro giorni prima di inviare alcuni uomini nella piazza di Baghdad per indagare sulla strage. Come se non bastasse, la stessa indagine ufficiale è stata definita caotica e incompleta, dal momento che era stata avviata con il solo scopo di “scagionare i contractor” al servizio proprio del Dipartimento di Stato.Nei giorni scorsi alcuni testimoni iracheni hanno già raccontato in aula la loro drammatica esperienza nella piazza Nisoor. La commozione di Mohammed al-Razaq Kinani, ad esempio, ha costretto il giudice che presiede l’udienza a licenziare temporaneamente i giurati. Kinani ha ricordato tra le lacrime di come il figlio di nove anni era stato ucciso dagli uomini di Blackwater dopo che una pallottola lo aveva raggiunto alla testa mentre era sul sedile posteriore della sua auto.
I legali degli accusati hanno bollato come “fabbricate” questa e altre testimonianze. La loro strategia difensiva, secondo quanto riportato dai media americani, si baserebbe sul tentativo di convincere la giuria che il livello di violenza in quel periodo a Baghdad era tale da giustificare una reazione così forte in risposta alla minima minaccia percepita. A loro disposizione ci sarebbbe poi un presunto testimone che avrebbe accertato la presenza di “insorti” intenzionati a prendere di mira il convoglio di Blackwater. Infine, lo stesso numero molto elevato di testimoni dell’accusa potrebbe generare confusione circa la corretta ricostruzione dei fatti, senza fornire un quadro sufficientemente chiaro degli eventi e delle responsabilità.
La strage del settembre 2007 a Baghdad, in ogni caso, non è stata in nessun modo un caso isolato ma solo uno degli esempi più sanguinosi della dura repressione ai danni della popolazione irachena, messa in atto dai militari e dalle guardie private americane nel corso dell’occupazione del paese mediorientale.
Episodi come quello di piazza Nisoor, oltre a rimanere quasi sempre impuniti, rivelano il vero volto di un esercito di mercenari a cui ricorre sempre più frequentemente il governo americano e con il quale le forze armate ufficiali operano in stretto coordinamento. Blackwater, soprattutto, ha spesso occupato le pagine dei giornali di mezzo mondo per le proprie operazioni criminali, non solo in Iraq ma anche in Afghanistan, dove ha ottenuto appalti del valore di miliardi di dollari dal Dipartimento di Stato e dalla CIA.
Secondo la stampa tedesca, addirittura, uomini di Blackwater - il cui nome è stato cambiato in Xe Services nel 2009 e in Academi nel 2011 - sono stati recentemente impiegati anche in Ucraina al fianco dei gruppi paramilitari neo-fascisti promossi dal nuovo regime di Kiev per reprimere nel sangue le manifestazioni anti-governative nelle regioni orientali del paese.
Il fondatore di Blackwater, l’ex membro delle forze speciali “Navy SEAL” Erik Prince, aveva ceduto la compagnia nel 2010 e proprio qualche settimana fa essa si è fusa con la rivale Triple Canopy, assumendo la nuova denominazione di Constellis Holdings.
Il livello di integrazione di questa compagnia con le forze di occupazione in Iraq e lo strapotere che essa aveva raggiunto sono state messe in luce da un dettagliato articolo pubblicato nel fine settimana dal New York Times a firma dell’autorevole giornalista investigativo James Risen.
I fatti raccontati da Risen sulla base del contenuto di documenti finora mai pubblicati risalgono all’agosto del 2007, poche settimane prima della strage di piazza Nisoor. Nell’estate di quell’anno, il Dipartimento di Stato aveva inviato in Iraq due investigatori - Jean Richter e Donald Thomas - con il compito di valutare la condotta già più che discutibile di Blackwater nel paese occupato.Nella lunga lista di violazioni del proprio contratto con il governo riscontrate da Richter e Thomas spiccavano, tra l’altro, la variazione senza il permesso del Dipartimento di Stato delle norme di sicurezza previste per la protezione dei diplomatici USA, come la riduzione del numero di guardie private da impiegare nei vari incarichi.
Inoltre, i mercenari tenevano armi e munizioni nelle proprie stanze private, dove davano vita a frequenti feste a base di alcool e in presenza di donne. Molte guardie avevano anche a disposizione armi che non erano autorizzate a usare. Tutt’altro che rari erano infine i casi in cui Blackwater gonfiava le proprie fatture dopo avere falsificato i registri del personale addetto alla protezione degli uomini del Dipartimento di Stato.
Secondo i due investigatori, Blackwater aveva potuto mantenere un simile comportamento grazie agli stretti legami stabiliti tra la compagnia e il personale dell’ambasciata americana in Iraq. I due investigatori avrebbero trovato conferma a loro spese della corretteza di questa conclusione.
Il 20 agosto del 2007, Richter fu infatti convocato dal responsabile per la sicurezza dell’ambasciata USA, Bob Hanni, il quale lo informò di avere ricevuto una richiesta per “documentare il comportamento inappropriato” dello stesso investigatore.
Il giorno successivo, Richter e il suo collega, Donald Thomas, si recarono dal “project manager” di Blackwater in Iraq, Daniel Carroll, anch’egli ex Navy SEAL, per discutere dell’esito della loro indagine. Secondo quanto lo stesso Richter avrebbe successivamente comunicato al Dipartimento di Stato, Carroll minacciò di ucciderlo in maniera esplicita, aggiungendo che, vista la situazione dell’Iraq in quel periodo, non ci sarebbe stata per lui nessuna conseguenza penale.
Correttamente, Richter prese “sul serio la minaccia di Carroll”, dal momento che le questioni sollevate nella sua indagine potevano avere un “impatto potenzialmente negativo su un proficuo appalto per la sicurezza” dei diplomatici americani. Il collega di Richter, a sua volta, avrebbe confermato la versione del collega circa l’incontro con il numero uno di Blackwater in Iraq.
A rendere ancora più inquietante la situazione per Richter e Thomas fu il mancato appoggio ottenuto dall’ambasciata degli Stati Uniti nonostante le minacce di morte ricevute. A questi ultimi fu infatti ordinato di lasciare immediatamente l’Iraq, poiché la loro presenza era diventata “un ostacolo alle operazioni quotidiane e creava un ambiente inutilmente ostile” per i contractor privati.
Richter e Thomas furono così costretti ad abbondonare bruscamente il loro lavoro e a fare ritorno a Washington il giorno successivo. Quando, pochi giorni dopo, alcuni uomini della Blackwater si sarebbero resi protagonisti del massacro in piazza Nisoor a Baghdad, il Dipartimento di Stato avrebbe finalmente preso in considerazione gli avvertimenti dei due investigatori sulla compagnia stessa, ma senza decidere alcun provvedimento.
Le stesse successive indagini ufficiali sui fatti del settembre 2007, a cominciare dalla speciale commissione istituita dall’allora segretario di Stato, Condoleezza Rice, avrebbero accuratamente evitato di raccogliere la testimonianza dei due uomini che meglio di chiunque altro avevano descritto il comportamento criminale della principale agenzia di sicurezza privata operante in Iraq con la colpevole complicità del governo degli Stati Uniti.
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di Michele Paris
Con un’importante sentenza che ha in buona parte riconosciuto un sacrosanto diritto costituzionale, la Corte Suprema degli Stati Uniti questa settimana ha stabilito che le forze di polizia sono tenute a richiedere una specifica ordinanza di un giudice prima di esaminare il contenuto del telefono cellulare di un arrestato. Il parere espresso all’unanimità dal più alto tribunale americano è giunto in risposta a due cause, una delle quali aveva visto l’amministrazione Obama partecipare alle udienze preliminari in favore della polizia e contro il fondamentale diritto alla privacy dei cittadini.
Il verdetto è stato generalmente salutato dall’altra parte dell’oceano come una vittoria per i difensori dei diritti civili e un opportuno chiarimento circa l’applicazione di alcuni principi costituzionali nell’era degli smartphones e dei social networks.
Secondo i media americani, inoltre, la sentenza potrà avere un impatto più ampio, includendo ad esempio le perquisizioni di tablet e computer portatili, ma anche di abitazioni e uffici, nonché i dati e le informazioni conservate dalle compagnie telefoniche.
A scrivere il testo della sentenza è stato il presidente della Corte Suprema, John Roberts, il quale ha affermato, tra l’altro, che i “vecchi principi” della Costituzione “richiedono l’esclusione del contenuto dei telefoni cellulari dalle perquisizioni di routine”.
Lo stesso giudice ha paragonato l’esame dei telefoni degli arrestati da parte degli agenti di polizia alle “ordinanze generalizzate” usate dagli inglesi prima dell’indipendenza americana per perquisire a piacimento le abitazioni private alla ricerca di prove di attività criminali. “Il fatto che la tecnologia consenta oggi a una persona di avere letteralmente nelle proprie mani simili informazioni”, ha aggiunto Roberts, “non rende queste ultime meno soggette alle protezioni per le quali i padri fondatori hanno combattuto”.
Il contenuto dei telefoni cellulari degli arrestati, quindi, è coperto dalle protezioni garantite dal Quarto Emendamento alla Costituzione americana, il quale impedisce perquisizioni e confische da parte delle autorità senza il mandato di un giudice.
Durante le udienze che hanno preceduto la deliberazione di mercoledì, i legali dell’amministrazione Obama avevano sostenuto che l’analisi dei cellulari era da considerarsi legittima anche senza il mandato di un tribunale, poiché i sospettati in stato di fermo potevano cancellare informazioni importanti in essi contenute o contattare i loro complici. La Corte Suprema ha invece respinto entrambe le tesi, proponendo alle forze di polizia di prevenire questi rischi estraendo la batteria o riponendo il cellulare in un apposito contenitore che impedisca la ricezione del segnale.Secondo l’amministrazione Obama, poi, l’esame di un telefono cellulare non è in sostanza differente dalla perquisizione - consentita in caso di arresto - di una borsa o di un portafogli. Per i giudici, invece, questa operazione può essere effettuata solo per verificare se il cellulare nasconda un coltello o altri oggetti che rappresentino minacce materiali. Per il giudice Roberts, mettere sullo stesso piano le due perquisizioni è come affermare che “una gita a dorso di cavallo è materialmente indistinguibile da un volo sulla luna”.
Il primo caso all’attenzione della Corte Suprema che ha portato alla sentenza - “Riley contro California” - riguardava l’arresto di David Riley a San Diego nel 2009 dopo che la polizia a un normale posto di blocco aveva trovato armi cariche nella sua auto. Gli agenti avevano ispezionato lo smartphone di Riley, rilevando informazioni che lo collegavano a una sparatoria. Riley era stato alla fine condannato a 15 anni di carcere e una corte d’appello in California aveva stabilito che l’esame del suo cellulare non richiedeva l’ordinanza di un giudice.
Il secondo caso - “Stati Uniti contro Wurie” - era scaturito dall’arresto nel 2007 a Boston di Brima Wurie mentre spacciava crack. Tra gli oggetti confiscati c’era anche il suo telefono cellulare, dal quale la polizia ha potuto ricavare un indirizzo dove sono state poi rinvenute droga e armi. Nel processo di appello, tuttavia, i legali di Wurie avevano ottenuto il ribaltamento della condanna di primo grado proprio per l’utilizzo illegale delle informazioni reperite dal suo cellullare.
La sentenza definitiva della Corte Suprema è apparsa sorprendente a molti, soprattutto perché i tribunali inferiori negli ultimi anni sono più volte intervenuti a favore della polizia in casi riguardanti arresti e perquisizioni, spesso ritenute legali perché considerate necessarie a garantire la sicurezza degli agenti o a evitare la distruzione di prove. Gli stessi giudici supremi attualmente in carica, oltretutto, hanno ormai una lunga storia di sentenze favorevoli alle forze di polizia e volte a restringere i diritti dei sospettati.
Tuttavia, se il verdetto di mercoledì fissa senza dubbio un principio fondamentale, appare poco giustificato l’entusiasmo dei più importanti media “liberal” americani che hanno attribuito senza riserve una mossa, a loro dire, di impronta indubitabilmente progressista ad una Corte Supema composta in maggioranza da giudici ultra-reazionari.
Infatti, tra le pieghe della sentenza vi sono alcuni aspetti che rendono la decisione meno rassicurante di quanto appaia a prima vista. I giudici, ad esempio, sembrano a un certo punto affermare la validità del Quarto Emendamento come semplice copertura per evitare ricorsi e battaglie legali prolungate. Ciò risulta evidente nel riferimento alla facilità con cui la polizia può ottenere l’ordinanza di un tribunale per esaminare il contenuto di un telefono cellulare, secondo Roberts addirittura “in 15 minuti” grazie all’uso di “e-mail e iPads”.In una “opinione concordante” redatta dal giudice di estrema destra Samuel Alito, inoltre, viene chiesto al Congresso di intervenire sulla questione delle perquisizioni dei telefoni cellulari, così da bilanciare la garanzia della privacy dei cittadini con le necessità legate alla raccolta di prove delle forze dell’ordine.
Per il giudice nominato da George W. Bush, “sarebbere spiacevole se la difesa della privacy nel 21esimo secolo fosse lasciata principalmente alle corti federali”, costrette a decidere con il solo “strumento del Quarto Emendamento”. Quello che Alito intende, con ogni probabilità, è che il Congresso debba approvare delle regole che assegnino maggiori poteri alle forze di polizia durante gli arresti, in modo da restringere i casi di perquisizione per i quali si renda necessario richiedere un’ordinanza di tribunale.
Lo stesso testo della sentenza del presidente John Roberts, d’altra parte, cita le condizioni nelle quali le garanzie del Quarto Emendamento potrebbero venire meno, quando cioè le “circostanze lo richiedano con urgenza”. In tal caso, le forze dell’ordine avranno facoltà di violare liberamente la privacy dei cittadini, facendo riferimento a situazioni di emergenza spesso molto difficili da valutare.
Una simile eccezione ricorda sinistramente tutte le giustificazioni, legate alle presunte necessità della “guerra al terrore”, a cui si sono appellati i governi e i giudici americani nell’ultimo decennio per implementare e convalidare misure profondamente anti-democratiche.
A questa eccezione, perciò, ha subito fatto riferimento il Dipartimento di Giustizia di Washington nel commentare a caldo la sentenza di mercoledì, annunciando l’impegno del governo nell’individuare le “circostanze urgenti” che consentano di calpestare la Costituzione e di procedere con l’analisi dei telefoni degli arrestati senza il fastidioso coinvoglimento di un giudice.
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di Michele Paris
Uno degli obiettivi principali del primo ministro ultra-conservatore del Giappone, Shinzo Abe, fin dal suo ritorno al potere sul finire del 2012 è stato quello di imprimere una svolta in senso militarista al paese, in modo da avere a disposizione uno strumento fondamentale per le ambizioni da “grande potenza” coltivate dall’estrema destra nipponica.
Per raggiungere lo scopo che lo stesso premier si era prefissato almeno un decennio fa, è però necessario modificare, o quanto meno “reinterpretare”, la Costituzione marcatamente pacifista del paese asiatico, approvata nel 1947 durante l’occupazione americana.
In particolare, nel mirino di Abe e del suo Partito Liberal Democratico (LDP) c’è l’articolo 9 che recita: “Il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come strumento per la risoluzione delle dispute internazionali”. Per questa ragione, il Giappone non può mantenere “forze di terra, di mare, di aria e qualsiasi altra forza potenzialmente militare”.
Inizialmente, sull’onda del relativo entusiasmo suscitato tra i media e gli ambienti del business giapponesi dalla creazione del suo Gabinetto, Abe era intenzionato a riscrivere interamente questa parte della Costituzione. Di fronte alle resistenze del principale partner di governo del LDP, il partito buddista Nuovo Komeito, e soprattutto alla profonda opposizione popolare, Abe è stato però costretto a fare una parziale marcia indietro.
Per implementare qualsiasi modifica alla Costituzione giapponese è necessaria infatti l’approvazione di entrambi i rami della Dieta (Parlamento) con una maggioranza di due terzi. Gli emendamenti, inoltre, devono essere sottoposti a un referendum popolare.
Di fronte a questi ostacoli rivelatisi insormontabili, il primo ministro ha deciso così per una scorciatoia, inventando cioè il concetto profondamente anti-democratico di “reinterpretazione” della Costituzione stessa per raggiungere in sostanza lo stesso obiettivo.
Abe ha allora nominato una speciale commissione formata da personalità sulla sua stessa lunghezza d’onda a cui ha affidato l’incarico di fornire raccomandazioni circa il ruolo delle Forze di Auto-Difesa, ovvero l’esercito giapponese, istituite nel 1954 nonostante i limiti imposti dal dettato costituzionale. Ottenuto l’inevitabile appoggio della commissione al suo progetto, Abe si è presentato ai propri alleati per trovare un accordo sulla “reinterpretazione” dell’articolo 9, incontrando però maggiori ostacoli del previsto anche all’interno del suo stesso partito.
Il piano del premier si basa sul principio di “difesa collettiva”, in base al quale le forze armate giapponesi potrebbero partecipare ad azioni militari non solo per difendere il paese in caso di attacco ma anche a fianco di un alleato, se fosse quest’ultimo ad essere attaccato.La mossa di Abe è appoggiata dagli Stati Uniti, i quali vedono con favore la soppressione di qualsiasi vincolo costituzionale che limiti il pieno coinvolgimento del Giappone nelle manovre di Washington in Estremo Oriente. Queste ultime, com’è noto, prevedono un’escalation militare nei confronti della Cina, con il rischio concreto di scatenare una guerra rovinosa, e la parallela formazione - sempre in funzione anti-cinese - di un’alleanza militare con paesi come Australia, Filippine, Corea del Sud e, appunto, Giappone.
Negli ultimi anni, peraltro, le forze armate nipponiche hanno già contribuito alle avventure belliche statunitensi, sia in Afghanstan che in Iraq, ma l’intenzione di Abe è ora quella di attribuire ai propri militari la piena capacità di condurre operazioni di combattimento al fianco degli alleati.
Il Giappone, inoltre, è già ampiamente coinvolto nelle strategie belliche degli USA, come dimostra la presenza di basi militari americane sul proprio territorio. Tuttavia, mentre l’alleanza tra i due paesi obbligherebbe i militari americani ad assistere il Giappone in caso di aggressione nei suoi confronti, le forze armate di Tokyo non potrebbero ad esempio affiancare gli Stati Uniti in una guerra contro la Cina per via dei limiti costituzionali.
La “reinterpretazione” dell’articolo 9 ideata da Abe è comunque solo l’ultima delle iniziative adottate dal primo ministro a partire dal dicembre 2012. L’impronta militarista al paese è risultata evidente anche dall’aumento delle spese militari, così come dalla crescente aggressività mostrata nei confronti della Cina attorno alle dispute territoriali nelle acque condivise con il vicino occidentale.
Infine, il governo del LDP ha recentemente istituito un Consiglio per la Sicurezza Nazionale sull’esempio di quello americano, mentre ha rinvigorito l’alleanza strategica con Washington e avviato una campagna all’insegna del revisionismo storico nel tentativo di sminuire i crimini di guerra commessi dall’imperialismo giapponese negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso.
Questa preoccupante evoluzione registrata a Tokyo ha determinato un deterioramento dei rapporti non solo con la Cina ma anche con la Corea del Sud, vittime entrambe della durissima occupazione giapponese fino alla seconda Guerra Mondiale. In maniera ovvia, i due paesi hanno perciò criticato aspramente l’intenzione del primo ministro giapponese di rivedere la propria Costituzione in senso miltarista.
Come già anticipato, le mire di Abe sulla Costituzione sono viste con sospetto anche dall’alleato di governo Nuovo Komeito, in larga misura a causa delle tendenze generalmente pacifiste della base elettorale di quest’ultimo partito, formata in prevalenza da giapponesi di fede buddista.
Per far digerire la “reinterpretazione” dell’articolo 9 a questo partito sono in corso da giorni accese trattative, visto che Abe vorrebbe affrettare i tempi dell’approvazione da parte del suo gabinetto. L’urgenza è resa necessaria dalla crescente opposizione nel paese per l’accelerazione militarista impressa dal governo e in previsione dell’imminente approvazione di un nuovo impopolare aumento dell’imposta sui consumi.Per superare le resistenze del partito Nuovo Komeito, Abe potrebbe apportare delle modifiche alla sua proposta, ad esempio inserendo il principio della “sicurezza collettiva” nell’ambito di operazioni militari approvate da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Questa proposta, emersa durante i negoziati della scorsa settimana, secondo il quotidiano Asahi Shimbun sarebbe tuttavia già stata scartata.
Un’altra ipotesi potrebbe essere invece quella di consentire l’intervento militare soltanto nel caso in cui si presentasse “un pericolo esplicito” per la popolazione giapponese e non semplicemente se ci fosse “il timore” di una minaccia al paese, com’era stato inzialmente stabilito.
Secondo gli osservatori, in ogni caso, i due partiti riusciranno alla fine a trovare un punto d’incontro che permetterà al primo ministro di ottenere quanto desidera, come conferma la rassicurazione fornita da tempo dai vertici del Nuovo Komeito di non avere alcuna intenzione di abbandonare la coalizione di governo a causa della questione della “sicurezza collettiva”.
La volontà del governo di Tokyo di mettersi alle spalle in fretta la “reinterpretazione” della Costituzione circa il ruolo delle forze armate è più che comprensibile alla luce degli umori del paese. Come hanno mostrato svariati sondaggi, infatti, la percentuale dei giapponesi contrari all’iniziativa del premier Abe appare in continua crescita.
In una rilevazione risalente allo scorso maggio della rete televisiva NHK, ad esempio, il 41% degli intervistati si era detto contrario alla “reinterpretazione” contro il 34% di favorevoli. Secondo un sondaggio pubblicato qualche giorno fa dall’agenzia di stampa Kyodo, addirittura, i contrari sarebbero ora saliti al 55,4%, mentre quasi il 58% ha espresso il proprio malcontento per il metodo con cui Abe sta operando per implementare una vera e propria modifica costituzionale aggirando le regole stabilite.
Più in generale, lo stesso sondaggio ha evidenziato il raggiungimento da parte dell’esecutivo guidato dal LDP del punto più basso in termini di gradimento (52,1%) dal suo insediamento a fine 2012, prospettando una crescente opposizione nel paese nei confronti non solo della riproposizione di un pericoloso militarismo, fortemente avversato dalla maggioranza della popolazione, ma anche delle ricette economiche ultra-liberiste su cui si basa il programma di governo di Shinzo Abe.
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di Mario Lombardo
Prima dell’arrivo a Baghdad nella giornata di lunedì per un delicato colloquio con il premier iracheno Maliki, il segretario di Stato americano, John Kerry, ha trascorso la domenica incontrando il neo-presidente dell’Egitto, Abdel Fattah al-Sisi, al quale ha manifestato l’intenzione degli Stati Uniti di ristabilire la piena partnership con il nuovo regime al Cairo dopo le relative incomprensioni seguite al colpo di stato del luglio scorso e alla durissima repressione ai danni dei Fratelli Musulmani.
La disposizione più che benevola degli USA si è concretizzata con l’annuncio da parte dell’ex senatore democratico dello sblocco di 650 milioni di dollari destinati ai militari egiziani, che erano stati congelati dall’amministrazione Obama in seguito alla deposizione dell’ex presidente Mohamed Mursi. Questa cifra corrisponde alla prima tranche di un pacchetto da circa 1,3 miliardi di dollari che Washington eroga annualmente alle forze armate dell’Egitto, sostanzialmente in cambio del mantenimento del paese nord-africano nell’orbita strategica degli Stati Uniti.
Sulla questione degli aiuti militari, dunque, Kerry ha assicurato che i due paesi alleati sono “sul binario giusto” e che anche la fornitura di 10 elicotteri Apache, precedentemente sospesa, verrà autorizzata “molto presto”.
La visita di Kerry al Cairo è giunta significativamente il giorno successivo alla conferma in appello della condanna a morte di ben 183 sostenitori dei Fratelli Musulmani, tra cui l’ex guida suprema del movimento islamista, Mohamed Badie. Come molti altri processi andati in scena in Egitto nei mesi scorsi, anche quello di sabato non è stato altro che una farsa, essendo sfociato in una sentenza emessa al termine di un’udienza durata appena 15 minuti e condotto senza il minimo rispetto dei diritti degli imputati.
Simili pratiche sono estremamente diffuse nell’Egitto controllato dalla giunta militare guidata da Sisi, tanto che lo stesso Kerry ha ammesso di essere stato costretto ad esprimere “il nostro sostegno per i diritti e le libertà universali di tutti gli egiziani, incluse le libertà di espressione e di associazione”.
Le parole del numero uno della diplomazia USA sono evidentemente cadute nel vuoto, visto che lunedì un altro tribunale egiziano ha inflitto condanne tra 7 e 10 anni di carcere a tre giornalisti di Al Jazeera, accusati di avere fornito aiuto materiale ad un’organizzazione terroristica, cioè ai Fratelli Musulmani. I reporter condannati sono stati puniti per avere raccontato gli eventi seguiti al golpe in maniera troppo favorevole al governo eletto dei Fratelli Musulmani, sostenuto dalla monarchia del Qatar a cui appartiene il network arabo.
Anche durante questo procedimento, le basilari norme democratiche sono state deliberatamente calpestate, ad esempio con il ricorso a prove del tutto inconsistenti per dimostrare la presunta colpevolezza dei tre giornalisti.
Il governo che l’ex generale Sisi si appresta a guidare, d’altra parte, ha presieduto non solo a innumerevoli processi come quelli appena descritti ma anche al brutale soffocamento di qualsiasi forma di opposizione al nuovo regime. Come già ricordato, a farne le spese sono stati soprattutto i Fratelli Musulmani, tra cui si sono contate migliaia di morti e decine di migliaia di arresti.
Come corollario della repressione, Sisi ha presieduto all’emanazione di leggi che hanno di fatto bandito qualsiasi forma di protesta, mentre ha favorito la stesura di una nuova Costituzione che ha fissato il ruolo privilegiato dei militari nel paese. Per legittimare tutto ciò, il regime ha organizzato con il consenso dell’Occidente le elezioni presidenziali del Maggio scorso, nelle quali Sisi ha ottenuto il 97% dei consensi in una consultazione segnata dall’astensionismo di massa, nonché da brogli e intimidazioni.Una nuova testimonianza del clima che si respira nell’Egitto di Sisi è giunta poi nel fine settimana con una rivelazione pubblicata dal Guardian, nella quale si racconta della prigione militare segreta di Azouli. Svariate testimonianze, raccolte dal quotidiano britannico, descrivono i raccapriccianti metodi di tortura riservati agli ospiti della struttura, spesso arrestati “a caso” o a seguito di “prove estremamente esili”.
Con queste premesse, in ogni caso, Kerry ha potuto affermare che il presidente Sisi ha dato la “forte impressione” di essere impegnato “nella revisione delle leggi sui diritti umani” e delle norme “del processo giudiziario”. La fiducia del segretario di Stato americano nelle potenzialità del regime, la cui vera natura ha cercato cinicamente di nascondere, è confermata anche dall’estrema cordialità degli incontri di domenica.
Kerry, ad esempio, ha avuto parole di stima per il ministro degli Esteri, Sameh Shoukry, assieme al quale l’ex candidato alla Casa Bianca ha detto di avere lavorato negli anni passati. Shoukry, infatti, è stato ministro durante l’era Mubarak e ambasciatore del suo paese negli Stati Uniti tra il 2008 e il 2012.
Il ritorno al potere dei militari e di uomini già facenti parte del regime di Mubarak, dopo la parentesi dei Fratelli Musulmani seguita alla rivoluzione del 2011, non crea dunque alcun imbarazzo all’amministrazione Obama, quato meno esteriormente, nonostante quasi tre anni e mezzo fa l’allora dittatore venne invitato a dimettersi proprio da Washington nel pieno della rivolta di piazza Tahrir.
In quell’occasione, peraltro, gli USA scaricarono l’alleato Mubarak con riluttanza solo dopo che la sua posizione era diventata insostenibile e il discredito americano - già ampiamente diffuso tra gli egiziani - rischiava di aumentare ulteriormente con conseguenze disastrose.
In seguito alla rivoluzione, gli Stati Uniti avevano finito per accettare, pur senza entusiasmo, il governo di Mursi e dei Fratelli Musulmani, una volta accertato che quest’ultimo non avrebbe minacciato in maniera seria gli interessi americani (e israeliani) nella regione.
L’ondata di proteste popolari contro il governo, tuttavia, avrebbe compromesso irrimediabilmente anche la posizione di Mursi, spingendo gli USA ad avallare il colpo di stato militare guidato dal generale Sisi. Le modeste critiche rivolte talvolta alla giunta militare hanno infine lasciato spazio alla totale accettazione del nuovo presidente, come conferma la visita di Kerry.Nonostante la sanguinosa repressione, l’abbraccio a Sisi conferma che gli Stati Uniti hanno assistito all’esito più favorevole possibile della crisi in Egitto, dove un nuovo uomo forte legato a Mubarak ha riconquistato il potere, garantendo il controllo delle piazze e il quasi totale allineamento del Cairo agli interessi strategici di Washington.
Gli unici scrupoli mostrari da Kerry sono legati alla necessità di fare apparire la repressione in atto come una parentesi trascurabile anche se sgradevole, così da rassicurare l’opinione pubblica internazionale circa il percorso “democratico” intrapreso dal nuovo Egitto. A questo scopo sono servite le frasi del tutto vuote pronunciate al Cairo dal capo della diplomazia USA, il quale ha assicurato che con Sisi ha discusso del “ruolo essenziale in una democrazia di una società vivace, di una stampa libera, dello stato di diritto e [della garanzia] di un giusto processo”.
Al di là delle dichiarazioni, la visita del segretario di Stato in Egitto nel fine settimane non fa che confermare ancora una volta la reale attitudine “democratica” della classe dirigente d’oltreoceano, pronta come sempre a collaborare con qualsiasi regime dittatoriale che garantisca gli interessi dell’imperialismo americano. Tanto più in una situazione come quella attuale di grave instabilità nella regione mediorientale, segnata dalle crisi in Iraq e in Siria che saranno inevitabilmente al centro dei colloqui di John Kerry nel prosieguo della sua trasferta nel mondo arabo.