di Fabrizio Casari

L’annuncio è arrivato Domenica notte, quando alle 22,35 Barak Obama, attraverso i network televisivi statunitensi, ha diramato una comunicazione presidenziale. Sabato 23 Novembre, l’accordo sul nucleare iraniano è stato raggiunto. Dopo anni di scontri, reciproche minacce ed univoche sanzioni, mesi di trattative e giornate difficili, è stato infatti siglato un accordo tra Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, Germania con la Repubblica Islamica dell’Iran. Il governo Rohuani s’impegna a bloccare al 5% l’arricchimento dell’ uranio, a neutralizzare quello già arricchito al 20% e a bloccare ogni attività sul plutonio.

L’intesa prevede l’allentamento parziale delle sanzioni economiche (che dovrebbe portare ad un miglioramento dei conti iraniani per circa 8 miliardi di dollari) a fronte dell’impegno persiano ad interrompere l’arricchimento dell’uranio sopra la soglia del 5 per cento. Dal canto loro, le potenze firmatarie sì sono impegnate a non imporre sanzioni all’Iran (ad eccezione di quelle sulle esportazioni di petrolio, che vengono mantenute). Nell’accordo si prevede una verifica nel giro di sei mesi dell’applicazione da parte iraniana di quanto disposto.

L’accordo riguarda la proliferazione nucleare di Teheran, ma i contorni e le conseguenze dello stesso vanno ben oltre lo specifico. E’ indubbiamente un successo per l’Amministrazione Obama, che ha dovuto affrontare una fortissima opposizione da parte sia dei suoi alleati in Medio Oriente - primo fra tutti Israele - che internamente, nei media e nel Congresso, che alle pressioni della potentissima lobby ebraica sono notoriamente ultrasensibili.

L’opposizione all’accordo raggiunto da parte di Israele era del resto risaputa, così come quella alla Conferenza di Ginevra 2 sulla Siria; il timore israeliano è che un accordo con l’Iran e con la Siria ridurrebbe sensibilmente le ipotesi di conflitto regionale e, con ciò, gli USA potrebbero rivedere in chiave minore il loro impegno militare diretto e i finanziamenti ai loro alleati. Tel Aviv, che ha nella macchina bellica la sua unica fonte di centralità politica (che riesce a mantenere attraverso i generosi finanziamenti statunitensi) rischia di veder ridursi il volume dei dollari in arrivo.

Ma, soprattutto, Israele vede ridurre il suo peso specifico, la sua capacità di esercitare pressioni sulla politica estera statunitense in Medio Oriente e Golfo Persico e questo è certamente il pericolo maggiore che ha davanti. D’altra parte il governo di ultradestra di Tel Aviv non ha mai nascosto la sua ostilità verso Barak Obama e la sua Amministrazione allo stesso modo in cui era chiaramente entusiasta dell’Amministrazione Bush.

I "No" dichiarati di Netanyahu sia all’accordo sullo smantellamento delle armi chimiche siriane in cambio dello stop all’opzione dell’intervento come a quello sul nucleare iraniano, non hanno infatti - come in passato - orientato gli Stati Uniti, oggi ansiosi di volgere verso l’Asia lo sguardo sui mercati e la sfida sulla leadership globale.

Non è certo in discussione il ruolo di bastione degli interessi occidentali nella regione che Israele rappresenta, ma una sua riduzione d’influenza sugli Stati Uniti può, dal punto di vista dell’establishment ebraico, esporre Israele ad una maggiore vulnerabilità nell’area. Un nuovo asse tra Beirut, Damasco e Teheran riporta indietro di diversi mesi le serenità israeliane. Proprio per questo Netanyahu ha ribadito con forza sia il dissenso israeliano dall’accordo con l’Iran che l’autonomia operativa di Tel Aviv davanti a minacce, vere o così considerate che siano.

Ma lo stesso premier israeliano sa perfettamente che un ingresso iraniano nel consesso internazionale priva parzialmente Israele della sua principale arma propagandistica. Ovvio che le rassicurazioni statunitensi non dovrebbero lasciare adito a dubbi circa il mantenimento del legame storico con Israele, ma un governo razzista e guerrafondaio come quello in carica a Tel Aviv avverte ogni dialogo politico con il mondo arabo e musulmano una minaccia diretta o indiretta al suo dominio

La firma ha quindi indubbiamente un valore geopolitico di assoluta rilevanza. Da parte degli Stati Uniti il tentativo è stato sì quello di agire a favore dei suoi interessi diretti ma, nello stesso tempo, di garantire in qualche modo i suoi alleati nella regione, ovvero le monarchie del Golfo e il governo israeliano. A parziale garanzia della monarchia saudita, oltre l’impegno a vigilare sull’esclusivo uso a carattere civile dell’uranio di Persia, resta il mantenimento delle sanzioni sulle esportazioni petrolifere, che consentono a Ryad di mantenere inalterata la quota di greggio destinata alle esportazioni e priva di sostanziale concorrenza con l’Iran.

D’altra parte, la pretesa della famiglia reale di garantirsi tramite le armi statunitensi la leadership del mondo sunnita e porsi come primo e più importante livello di contenimento dell’Islam sciita, sul quale Teheran esercita una leadership ormai trentennale, aveva già subito delle importanti battute d’arresto con i contrasti tra le monarchie del Golfo e Washington nella gestione prima delle cosiddette “primavere arabe” e poi nel negoziato sulla crisi siriana. Giova ricordare che i sauditi seppero dell’accordo tra USA e Russia che fermava l’escalation militare attraverso la CNN. Non proprio quel che si potrebbe definire una fonte diretta dell’Amministrazione.

Del resto, per Washington il ruolo di Ryad nell’area è ormai difficilmente sostenibile: l’ipertrofica ambizione della famiglia reale si scontra con la realtà di un piccolo regno a modello medievale, fatto di miliardari privi di ogni senso delle proporzioni prima ancora che di vision politica. Inoltre, ogni giorno che passa il controllo sul petrolio saudita si riduce d’importanza, dal momento che le recenti conferme alla vastità enorme dei giacimenti di gas in territorio statunitense rendono oggettivamente meno strategico l’approvvigionamento petrolifero dal Golfo Persico. Di contro, il mantenimento di un impegno militare così massiccio, adeguato alle ambizioni saudite, diventa ogni giorno meno sostenibile sul piano dell’impegno finanziario.

La firma dell’accordo avrà ovviamente ripercussioni anche all’interno dell’Iran, dove si vanno parzialmente riducendo i margini di manovra dell’ala dura del regime. Crisi economica e riduzione del consenso, insieme all’insostenibilità delle sanzioni, hanno prodotto nelle urne un nuovo gruppo dirigente che sta progressivamente spostando il Paese in direzioni inedite. Il 1979 è storia vecchia. Il Grande Satana, se serve, può trasformarsi in un buon interlocutore.

di Mario Lombardo

Le crescenti tensioni tra Cina e Giappone nel quadro di una contesa territoriale al largo dei due paesi dell’Estremo Oriente hanno fatto registrare una nuova escalation in questi giorni a seguito di una decisione presa in maniera relativamente inaspettata dal regime di Pechino e duramente condannata sia da Tokyo che dagli Stati Uniti. Nella giornata di sabato, il ministero della Difesa cinese ha annunciato la creazione di una “zona di identificazione per la difesa aerea” (ADIZ) che copre il Mar Cinese Orientale e si estende fino a circa 130 km dalle coste nipponiche, includendo le isole Diaoyu (Senkaku in giapponese), controllate da Tokyo e al centro appunto di un’accesa disputa con Pechino.

La “zona di identificazione” cinese si sovrappone in parte a quella già fissata dal Giappone, così che quest’ultima questione promette di creare ulteriori contrasti tra la seconda e la terza economia del pianeta. Tanto più che la Cina ha minacciato di prendere iniziative militari se i velivoli stranieri che entreranno in quest’area non dovessero rispettare i termini della sua implementazione stabiliti da Pechino.

Una “zona di identificazione per la difesa aerea”, come ha spiegato l’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua, è un’area situata “al di fuori dello spazio aereo di un determinato paese” e che consente a quest’ultimo di avere tempo a sufficienza per identificare possibili minacce e prendere le misure necessarie a prevenirle. Un aereo che entra in questa zona è tenuto a fornire informazioni in merito alla sua rotta, destinazione o qualsiasi altro dettaglio richiesto dalle autorità del paese in questione. I primi a stabilire una “zona di identificazione” furono gli Stati Uniti negli anni Cinquanta del secolo scorso e a tutt’oggi una ventina di paesi hanno fissato tali spazi.

La mossa di Pechino ha prevedibilmente suscitato le dure reazioni giapponesi, scatenando un susseguirsi di critiche e minacce di ritorsioni che hanno immediatamente coinvolto anche l’amministrazione Obama. Il ministero degli Esteri di Tokyo ha dapprima definito la decisione cinese “deplorevole e totalmente inaccettabile, visto che [la zona di difesa] include territorio facente parte dello spazio aereo giapponese al di sopra delle isole Senkaku”.

Il governo conservatore del premier Shinzo Abe ha poi espresso una protesta formale a Pechino tramite i canali diplomatici ufficiali. La questione è stata inoltre ripresa dallo stesso primo ministro durante un intervento in Parlamento lunedì, durante il quale ha sollecitato i cinesi a tornare sui propri passi per evitare “pericolosi e imprevisti incidenti” tra gli aerei di entrambi i paesi che conducono regolari ricognizioni nell’aera contesa.

In precedenza, lo stesso governo cinese aveva manifestato il proprio malcontento per le prese di posizione di Tokyo e degli stessi Stati Uniti, invitati a non interferire nelle dispute territoriali nel Mar Cinese Orientale.

Da Washington, infatti, le critiche nei confronti di Pechino erano giunte ancora prima delle dichiarazioni ufficiali di Abe. Il segretario di Stato americano, John Kerry, aveva denunciato da Ginevra la creazione della “zona di difesa aerea”, definita come una “azione unilaterale che costituisce un tentativo di modificare lo status quo nel Mar Cinese Orientale”, aumentando “le tensioni nella regione e il rischio di incidenti”.

A conferma ulteriore del coinvolgimento americano nelle rivalità che mettono di fronte la Cina agli alleati di Washington in Estremo Oriente, un altro esponente di spicco dell’amministrazione democratica si è aggiunto al coro delle proteste contro Pechino. Il numero uno del Pentagono, Chuck Hagel, ha così ricordato che i termini dell’alleanza tra USA e Giappone comprendono anche le isole Senkaku/Diaoyu, lasciando intendere che, in caso di guerra con la Cina, gli Stati Uniti si schiererebbero automaticamente al fianco di Tokyo.

Una fonte anonima del governo USA ha poi rivelato alla stampa che nei prossimi giorni ci sarà con ogni probabilità una non meglio specificata dimostrazione da parte dei militari americani, volta a chiarire che questi ultimi continueranno ad operare nell’area in questione senza accettare interferenze da parte cinese.

Per sottolineare la delicatezza della situazione, nella giornata di sabato il governo nipponico ha fatto infine alzare in volo i propri aerei da guerra nel Mar Cinese Orientale dopo che due velivoli militari di Pechino erano entrati nella “zona di identificazione per la difesa aerea” del Giappone.

Il confronto in corso è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di provocazioni e dispute attorno alle isole Senkaku/Diaoyu che, per il momento, hanno provocato solo sporadici scontri tra i due paesi vicini, i quali hanno però visto peggiorare sensibilmente le proprie relazioni diplomatiche ed commerciali.

Nel corso degli ultimi mesi, la Cina ha innalzato il livello della retorica attorno alla contesa territoriale con il Giappone, inviando frequentemente navi e aerei da guerra a pattugliare l’area. In uno dei momenti più delicati dello scontro, la Marina cinese era giunta addirittura a puntare le armi delle proprie navi militari su obiettivi giapponesi prima di fare opportunamente marcia indietro.

Se la presunta maggiore aggressività cinese in Estremo Oriente, così come il sensibile incremento delle spese militari da parte di Pechino, viene definita dai media occidentali e nipponici come la conseguenza dell’espansione economica e dell’aumentata influenza di questo paese nella regione, una simile evoluzione ha in realtà molto di più a che fare con la necessità di rispondere alla crescente invadenza statunitense in questa parte del globo.

Con l’annunciata “svolta” asiatica da parte dell’amministrazione Obama, gli USA hanno infatti inaugurato da qualche anno una politica più aggressiva in funzione anti-cinese, incitando i propri alleati nella regione (Giappone, Filippine, Corea del Sud) ad intraprendere a loro volta un percorso fatto di militarizzazione e di provocazioni contro la Cina, concretizzatosi in un clima esplosivo anche a causa del riemergere di innumerevoli dispute territoriali mai del tutto sopite.

In questo senso, un ruolo importante dovrebbe svolgerlo proprio il Giappone, dove il premier Abe sta cercando di modificare la costituzione pacifista del paese per consentire una maggiore intraprendenza delle proprie forze armate.

Forse non a caso, l’annuncio di Pechino del fine settimana in relazione alla “zona di identificazione per la difesa aerea” è giunto poco dopo la fine di un’esercitazione militare giapponese su vasta scala nei pressi dell’isola di Okinawa e che, secondo gli analisti, avrebbe simulato un attacco contro le forze navali cinesi.

La “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama, inaugurata per garantire agli USA una ancora maggiore presenza militare in un’area cruciale del globo, così da far fronte al declino della propria economia, rischia dunque di trasformarsi in un boomerang, facendo riesplodere vecchi conflitti che minacciano di sfociare in una guerra dalle conseguenze potenzialmente devastanti per tutti gli attori coinvolti.

Il rischio che le provocazioni si trasformino in uno scontro vero e proprio, infine, non riguarda soltanto la Cina da una parte e gli alleati di Washington dall’altra, ma anche esclusivamente questi ultimi. Proprio nel fine settimana è apparso infatti un articolo allarmato sul New York Times che ha ricordato come i governi di Corea del Sud e Giappone siano ai ferri corti attorno ad una polemica che risale al periodo coloniale nipponico nella penisola di Corea.

La disputa continua ad ostacolare il raggiungimento di un accordo - voluto dagli USA - che dovrebbe sancire una partnership militare e in materia di intelligence tra i due pilastri della strategia americana in Asia orientale. Ad impedire l’esito voluto da Washington sono però proprio i timori suscitati a Seoul dal ritorno a politiche all’insegna del militarismo da parte del governo giapponese, a loro volta messe in atto con il pieno sostegno degli Stati Uniti.

di Michele Paris

Dopo cinque giorni di intense trattative, i rappresentanti della Repubblica Islamica dell’Iran e dei cosiddetti P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) hanno raggiunto nella mattinata di domenica a Ginevra un accordo transitorio di sei mesi per cercare di risolvere l’annosa questione del programma nucleare di Teheran. Il compromesso tra le due parti prevede una serie di rassicurazioni richieste dalle potenze occidentali in cambio di un modesto allentamento delle sanzioni internazionali che gravano sull’economia iraniana.

Le due settimane trascorse dal precedente summit nella località svizzera sembravano avere complicato i negoziati, fornendo agli oppositori dell’accordo negli Stati Uniti e in Medio Oriente nuovi argomenti per far naufragare del tutto le trattative in corso. Nei giorni scorsi, tuttavia, le dichiarazioni delle varie delegazioni giunte a Ginevra erano risultate sostanzialmente all’insegna dell’ottimismo.

Lo stesso ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, aveva sostenuto che l’accordo era stato raggiunto ormai al 90%, così che l’arrivo a Ginevra dei suoi omologhi dei P5+1 ha finalmente spianato la strada ad una soluzione condivisa.

Il punto più controverso nel corso delle trattative del fine settimana era sembrato essere il riconoscimento del diritto all’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran in quanto firmatario del Trattato di Non Proliferazione. Secondo i media e la delegazione della Repubblica Islamica, tale accordo sarebbe stato finalmente riconosciuto, mentre gli Stati Uniti hanno negato una simile concessione.

In realtà, sulla questione sarebbe stato raggiunto un compromesso, visto che il testo dell’accordo indica la possibilità da parte dei P5+1 di riconoscere tutti i diritti previsti dal Trattato di Non Proliferazione se l’Iran dovesse collaborare pienamente con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) e fugare i dubbi circa il proprio programma nucleare. La comunità internazionale, in ogni caso, non sarà obbligata a riconoscere formalmente il diritto iraniano all’arricchimento dell’uranio.

Sostanzialmente rimandata è anche un’altra questione che aveva impedito un accordo già due settimane fa, cioè la sorte dell’impiano per la produzione di plutonio di Arak. L’Iran si è per ora impegnato a sospenderne i lavori e ad accettare ispezioni più severe da parte dell’AIEA.

Il governo iraniano ha poi accettato di limitare il livello di arricchimento di uranio al di sotto del 5%, anche se quello già arricchito al 20% - e, quindi, considerato tecnicamente vicino al livello necessario per essere utilizzato per scopi bellici - non dovrà essere trasferito all’estero. Allo stesso modo, gli impianti di arricchimento di Natanz e Fordo continueranno ad operare.

In cambio, Teheran otterrà un alleggerimento delle sanzioni che, secondo le stime americane, dovrebbe consentire al paese mediorientale di recuperare tra i 6 e i 7 miliardi di dollari di mancate entrate nei prossimi mesi.

In particolare, i P5+1 faciliteranno il rimpatrio di proventi legati alla vendita di petrolio congelati su conti esteri a causa delle sanzioni. Secondo gli analisti, l’Iran dispone attualmente di qualcosa come 50 miliardi di dollari generati dall’esportazione di greggio a cui non può accedere a causa delle misure punitive implementate in questi anni.

Inoltre, la Repubblica Islamica potrà tornare a commerciare in oro e metalli preziosi, così come verranno sospese alcune sanzioni relative al settore automobilistico, aereo e petrolchimico. L’Iran, secondo quanto affermato da diplomatici occidentali sentiti dal Wall Street Journal, nei prossimi sei mesi perderà comunque più di 25 miliardi di dollari a causa delle sanzioni che rimarranno in vigore.

Come ha confermato il capo della delegazione iraniana, il ministro degli Esteri Zarif, l’intesa siglata domenica “è solo il primo passo” che dovrebbe servire nei prossimi sei mesi a raggiungere un accordo di più ampio respiro sia per legittimare definitivamente il programma nucleare di Teheran a fini pacifici sia, possibilmente, per reinserire la Repubblica Islamica a pieno titolo nella comunità internazionale.

L’obiettivo finale rimane comunque non facilmente raggiungibile, viste le forze che si oppongono ad una soluzione di questo genere. Le reazione dell’amministrazione Obama all’annuncio dell’accordo sono sembrate riflettere queste preoccupazioni, con il segretario di Stato, John Kerry, che, per rassicurare i falchi di Washington, ha ad esempio ricordato come il processo di parziale allentamento delle sanzioni sia del tutto reversibile se l’Iran non manterrà gli impegni presi.

Lo stesso presidente democratico ha a sua volta prospettato un intensificarsi delle pressioni su Teheran se i termini dell’accordo non verranno rispettati. Nonostante la retorica, tuttavia, le minacce principali all’accordo raggiunto a Ginevra saranno rappresentate proprio dai governi occidentali - intenzionati ad estrarre il masso in termini di concessioni dall’Iran - e dai loro alleati in Medio Oriente, i quali vedono come una gravissima minaccia alle loro posizioni strategiche un riavvicinamento tra Teheran e Washington.

Le prime risposte alla notizia arrivata dalla Svizzera da parte dei tre principali centri di opposizione all’accordo sul nucleare - Israele, Arabia Saudita e Congresso USA - sono state infatti tutt’altro che confortanti.

Da Israele, l’ufficio del primo ministro Netanyahu ha rilasciato un comunicato ufficiale nel quale vengono criticati i P5+1 per avere garantito all’Iran “esattamentre ciò che cercava: un sostanziale allentamento delle sanzioni e il mantenimento del proprio programma nucleare”. Il ministro dell’Industria di Tel Aviv, Naftali Bennett, in un’intervista alla radio israeliana IDF ha invece affermato che il suo paese non si sente vincolato ad alcun accordo con l’Iran, lasciando aperta perciò la strada dell’aggressione militare. Lo stesso premier ultra-conservatore ha poi bollato l’accordo come uno “sbaglio storico” che dà la possibilità “al regime più pericoloso del mondo” di costruire “l’arma più pericolosa del mondo”.

Ugualmente, l’ambasciatore dell’Arabia Saudita in Gran Bretagna ha detto al quotidiano Times che la monarchia assoluta del Golfo Persico non intende stare a guardare le potenze internazionali nel loro fallimento di fermare il programma nucleare iraniano.

Ancora più assurde sono apparse infine le dichiarazioni del senatore repubblicano dell’Illinois Mark Kirk - uno dei più accesi sostenitori delle sanzioni contro l’Iran al Congresso americano - il quale ha sostenuto che l’accordo “offre al principale sponsor del terrorismo nel mondo miliardi di dollari in cambio di concessioni puramente cosmetiche”.

Il Senato degli Stati Uniti nei giorni scorsi aveva minacciato di adottare un nuovo pacchetto di sanzioni per congelare virtualmente tutto l’export petrolifero iraniano nei prossimi anni, così da “convincere” Teheran ad assumere una posizione più malleabile nel corso dei negoziati.

Le reazioni a Teheran alle notizie provenienti da Ginevra sono state al contrario estremamente positive. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale IRNA, la guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, ha ad esempio indirizzato una lettera al presidente, Hassan Rouhani, per elogiare il lavoro svolto dalla delegazione guidata da Zarif.

Lo stesso ministro degli Esteri, invece, pur mettendo in guardia dagli ostacoli che rimangono sulla strada di un accordo più ampio e dal rischio rappresentato da coloro che intendono “sabotare il percorso diplomatico”, ha rilasciato una serie di dichiarazioni entusiaste sia ai media sia sui social network, dove il risultato raggiunto a Ginevra ha ottenuto il gradimento di decine di migliaia di iraniani.

L’establishment della Repubblica Islamica, dunque, nonostante l’opposizione degli ambienti più intransigenti sembra essere compatto attorno alla ricerca di una soluzione diplomatica alla crisi del nucleare.

I benefici per l’Iran - così come per gli Stati Uniti - non sono d’altra parte trascurabili sia in termini strategici che economici, come ha confermato qualche giorno fa un articolo del Wall Street Journal nel quale è stato rivelato come le autorità di Teheran si siano già mosse per contattare alcune delle principali compagnie petrolifere occidentali interessate a tornare ad operare nel paese una volta cancellate interamente le sanzioni internazionali.

di Michele Paris

I governi di Stati Uniti e Afghanistan hanno annunciato questa settimana il raggiungimento del tanto sospirato accordo bilaterale per la sicurezza (BSA) che garantirà una presenza prolungata di un significativo contingente militare americano nel paese centro-asiatico dopo la presunta fine delle operazioni belliche prevista per il 31 dicembre 2014. La definitiva approvazione rimane però in dubbio dopo che il presidente afgano, Hamid Karzai, nella giornata di giovedì ha chiesto pubblicamente di attendere fino al prossimo mese di aprile, quando si terranno le elezioni per scegliere il suo successore.

L’intesa è giunta dopo che il presidente, Hamid Karzai, aveva posto una serie di condizioni a Washington per dare il via libera ad un trattato controverso e tutt’altro che gradito alla popolazione afgana. Tuttavia, la versione che è all’attenzione in questi giorni di un’assemblea tradizionale di leader tribali afgani (“loya jirga”), che la dovrà approvare prima del Parlamento di Kabul, non contiene praticamente nessuna concessione di rilievo da parte delle forze occupanti.

I punti più controversi sulla strada dell’accordo riguardavano sostanzialmente due questioni, quella dell’impunità da garantire alle truppe americane di fronte alla legge afgana e la facoltà delle forze speciali degli Stati Uniti di continuare gli odiati raid notturni “anti-terrorismo” che consentono l’irruzione indiscriminata nelle abitazioni private.

Consapevole dell’opposizione tra gli afgani ad entrambe le richieste americane, Karzai aveva cercato di manifestare una certa fermezza nel chiedere l’esclusione di entrambe dal trattato bilaterale. Il presidente ha però dovuto prendere atto dell’irremovibilità di Washington, accontentandosi di “esigere” una lettera firmata dal presidente Obama, nella quale gli USA avrebbero dovuto riconoscere gli “errori” commessi in 12 anni di guerra.

Alla fine, non solo gli Stati Uniti hanno ottenuto la possibilità sia di evitare ai propri militari di essere perseguiti dal sistema giudiziario afgano in caso di qualsiasi reato che di condurre pressoché liberamente le operazioni delle proprie forze speciali, ma anche la formalità della lettera di scuse è sparita dalle trattative e dai comunicati ufficiali di questi giorni.

Sulla questione dei raid nelle abitazioni afgane, il testo dell’accordo cerca di assegnarne la responsabilità formale alle forze di sicurezza locali, affermando che quelle americane durante le operazioni “anti-terrorismo” svolgeranno funzioni di “complemento e supporto” nel “pieno rispetto della sovranità dell’Afghanistan e della sicurezza della popolazione”.

L’immunità dalle leggi afgane, invece, sarà assicurata soltanto alle forze armate americane e ai civili alle dirette dipendenze del governo di Washington, ma non ai “contractor” privati che operano nel paese centro-asiatico. Questa clausola aveva determinato la rottura dei negoziati per un simile trattato bilaterale con l’Iraq nel 2011, portando al ritiro di tutto il contingente USA dal paese mediorientale.

Così, il segretario di Stato John Kerry, dopo almeno un paio di conversazioni telefoniche con Karzai per sbloccare la situazione, ha annunciato mercoledì il raggiungimento di un accordo definitivo, escludendo qualsiasi forma di scusa al governo afgano. La Casa Bianca, però, ha successivamente confermato di volere esprimere tutte le rassicurazioni del caso nei confronti di Kabul.

Il testo finale del trattato, pubblicato nella nottata di mercoledì sul sito web del ministero degli Esteri dell’Afghanistan, definisce eufemisticamente il quadro entro il quale rimarrà una presenza di militari americani in questo paese fino almeno al 2024 con il compito di addestrare le forze di sicurezza locali, di svolgere funzioni di consiglieri e di operare missioni “anti-terrorismo”.

La quantità di truppe che resteranno in Afghanistan dopo il 2014 è ancora da stabilire, anche se fonti locali e americane indicano un numero compreso tra gli 8 e i 12 mila soldati, di cui una minima parte di altri paesi della NATO.

In un allegato della bozza di accordo vengono poi elencate le strutture nelle quali saranno ospitati i militari stranieri. In particolare, nove basi sarebbero già state individuate, tra le quali spiccano alcune per la loro posizione strategica, come quelle di Shindand e Jalalabad, non lontano rispettivamente dai confini con Iran e Pakistan.

L’esito della trattativa per un accordo che, contro il volere della maggioranza della popolazione locale, rende pressoché definitiva la presenza degli Stati Uniti in un paese fondamentale per i loro interessi strategici, rappresenta un motivo di disagio per il presidente Karzai, come confermano le esitazioni, le accuse agli americani e le richieste avanzate e poi abbandonate degli ultimi mesi.

La stessa decisione di sottoporre il testo del trattato all’approvazione della “loya jirga” rivela la necessità da parte del presidente afgano di cercare una qualche copertura politica per una decisione impopolare.

Karzai, infatti, parlando nella mattinata di giovedì di fronte ai circa 2.500 delegati all’assemblea tribale riuniti per alcuni giorni a Kabul, ha cercato di ostentare ancora una volta la sua presunta diffidenza nei confronti degli americani, con i quali tuttavia ha affermato di essere costretto a siglare un trattato bilaterale per la sicurezza del paese.

Il presidente afgano, in realtà, nonostante i tentativi di mostrarsi in sintonia con il popolo afgano non è meno interessato degli americani al raggiungimento di un accordo sulla presenza di questi ultimi nel suo paese. D’altra parte, Karzai deve a Washington la sua posizione di potere e le ricchezze accumulate da lui e dalla sua cerchia familiare in questi anni.

Inoltre, Karzai e il resto della classe politica afgana sono ben consapevoli che la sopravvivenza del fragile stato costruito dopo l’invasione del 2001 - e, dunque, il mantenimento delle loro posizioni di privilegio - dipende in larga misura dal flusso di aiuti finanziari internazionali superiori ai 4 miliardi di dollari all’anno e dalla continuata protezione offerta dalle truppe americane, senza le quali con ogni probabilità i Talebani sarebbero in grado di riprendere rapidamente il potere.

L’approvazione del trattato con gli USA da parte della “loya jirga” appare comunque pressoché scontato, vista la composizione dell’assemblea stessa, formata da delegati scelti dalle autorità delle varie provincie dell’Afghanistan e approvati proprio da Karzai.

Ciononostante, durante l’intervento del presidente giovedì a Kabul in occasione dell’apertura della riunione non sono mancate manifestazioni di protesta, in particolare con qualche delegato che ha definito l’accordo appena stipulato con Washington come una svendita del paese agli americani.

Alla luce di questi malumori, secondo gli analisti, è possibile quanto meno che alcune condizioni fissate nel trattato possano essere congelate dall’assemblea tribale e rimandate quindi a Karzai per essere nuovamente negoziate con l’amministrazione Obama.

di Michele Paris

Le relazioni bilaterali tra Indonesia e Australia stanno facendo registrare un rapido deterioramento in questi giorni dopo lo scoppio di un’accesa polemica seguita ad alcune recenti rivelazioni dell’ex contractor della CIA e dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), Edward Snowden. A scatenare le ire di Jakarta è stata la notizia di un programma della sezione dei servizi segreti australiani deputata alle intercettazioni - Australian Signals Directorate (ASD) - per mettere sotto controllo i telefoni del presidente indonesiano, Susilo Bambang Yudhoyono, e di altri leader del paese del sud-est asiatico nel mese di agosto del 2009.

I documenti, datati novembre dello stesso anno, indicano come per almeno due settimane l’ASD australiano abbia intercettato il telefono personale del presidente, di sua moglie e di altre otto importanti personalità indonesiane, tra cui il vice-presidente, Boediono, l’ex vice-presidente e già candidato alla presidenza, Yusuf Kalla, l’ex capo delle forze armate, Widodo Adi Sutjipto, e l’ex ambasciatore a Washington, Dino Patti Djalal. In relazione al presidente Yudhoyono, nei documenti viene descritto anche il tentativo di intercettare una telefonata e ascoltarne il contenuto tra quest’ultimo e un utente tailandese.

Le rivelazioni hanno sollevato un polverone nell’establishment politico di Jakarta, tanto che il governo ha ritirato il proprio ambasciatore a Canberra e lo stesso presidente ha dapprima inondato i suoi account sui principali social media con attacchi all’Australia e richieste di spiegazioni, mentre nella giornata di mercoledì è apparso in diretta alla televisione nazionale per annunciare una serie di iniziative diplomatiche e non solo.

Yudhoyono ha così fatto sapere di avere ordinato la sospensione dei programmi di cooperazione militare e di intelligence con l’Australia, nonché delle esercitazioni militari e dei pattugliamenti congiunti per impedire l’arrivo di profughi via mare sulle coste del vicino meridionale. Secondo quanto riferito alla Reuters da un portavoce dell’esercito indonesiano, queste misure dovrebbero diventare effettive a partire dal prossimo mese di gennaio. Il presidente ha poi chiesto al governo di Canberra guidato dal neo-premier conservatore, Tony Abbott, una “spiegazione chiara” dell’accaduto e “una presa di responsabilità” per le intercettazioni.

Le decisioni di Yudhoyono sono state prese dopo una nottata di consultazioni con alcuni ministri del suo governo e, sempre mercoledì, quello del Commercio, Gita Wirjawan, ha lasciato intendere che potrebbero esserci conseguenze anche per gli scambi commerciali tra i due paesi, superiori agli 11 miliardi di dollari nel solo 2012. L’Indonesia importa svariati prodotti agricoli dall’Australia, mentre quest’ultimo paese è il decimo mercato delle esportazioni di Jakarta.

Significativamente, l’ex generale durante la dittatura di Suharto non ha mancato di esprimere il proprio auspicio per una risoluzione immediata della crisi diplomatica, coerentemente con gli sforzi passati, descritti in questi giorni da svariati membri del suo governo, di stabilire rapporti più solidi con l’Australia.

A motivare la reazione particolarmente dura di Jakarta è anche il fatto che le ultime rivelazioni sono giunte poco dopo la diffusione di altre notizie relative alle attività dei servizi segreti australiani in collaborazione con gli Stati Uniti.

Documenti forniti sempre da Snowden avevano infatti rivelato come l’Australia avesse condotto intercettazioni illegali dalle proprie missioni diplomatiche in Asia, compresa quella in Indonesia, e, assieme all’NSA, messo sotto controllo i partecipanti ad una conferenza ONU sul cambiamento climatico tenuta a Bali nel 2007.

Da parte sua, il premier australiano ha contribuito a gettare benzina sul fuoco, dal momento che le dichiarazioni rilasciate finora sono risultate alquanto provocatorie. Abbott ha rifiutato di scusarsi, facendo appello alla necessità del suo governo di “proteggere il paese” e “gli interessi nazionali”. L’unico rincrescimento il primo ministro lo ha espresso per “l’imbarazzo” creato a Yudhoyono, provocando l’immediata risposta del ministro degli Esteri indonesiano, Marty Natalegawa, il quale ha sostenuto che l’imbarazzo dovrebbe essere soltanto per il governo di Canberra.

Dietro la linea dura di Abbott, in ogni caso, circolano profonde inquietudini tra la classe dirigente australiana per i possibili danni che le rivelazioni di Snowden possono provocare alla partnership strategica con l’Indonesia, considerata uno dei pilastri della cosiddetta “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama in funzione anti-cinese.

Per questa ragione, ad esempio, il nuovo leader del Partito Laburista all’opposizione, Bill Shorten, ha espresso estrema preoccupazione per la crisi diplomatica tra i due paesi e, in un articolo firmato mercoledì per il britannico Guardian, ha sollecitato il governo a ristabilire i rapporti con Jakarta, visto che la cooperazione con l’Indonesia risulta essere “fondamentale per i nostri interessi nazionali”. Il nervosismo manifestato da Shorten, peraltro, si scontra con il fatto che proprio il precedente governo laburista aveva presieduto alle intercettazioni ai danni dei vertici dello stato indonesiano nel 2009.

La classe politica australiana, dunque, teme sia che lo scontro in atto si traduca in sostanziali danni economici per il paese sia che venga meno la collaborazione con Jakarta in materia di “anti-terrorismo” e sulla delicata questione dei rifugiati intenzionati a chiedere asilo a Canberra, provenienti in gran parte dal territorio indonesiano.

Soprattutto, però, le tensioni con il governo del presidente Yudhoyono rischiano di complicare i disegni australiani e americani di coinvolgere l’Indonesia nell’escalation militare in atto in Asia sud-orientale con l’obiettivo di contenere l’espansionismo cinese.

Questo paese, oltre ad essere il più popoloso e ad avere la prima economia della regione, occupa una posizione geografica di primaria importanza strategica, essendo al centro di rotte da cui passa una quota significativa dei traffici commerciali del pianeta e buona parte di quelli da e verso la Cina. Gli Stati Uniti, infatti, nei loro piani di guerra contro Pechino considerano come fondamentale il controllo in caso di crisi di vie d’acqua come gli stretti di Malacca e di Lombok, entrambi parte del territorio indonesiano.

Per Washington e Canberra, quindi, la collaborazione con Jakarta risulta fondamentale per il successo di qualsiasi futura operazione militare nella regione e ciò dipende appunto dalla disponibilità e dall’orientamento del governo indonesiano al momento dell’esplosione di un’ipotetica “crisi” con la Cina.

La conoscenza della predisposizione e dei processi decisionali della classe politica del più popoloso paese musulmano del pianeta risulta perciò cruciale sia per gli Stati Uniti che per l’Australia. Da qui, la necessità di creare un programma di intercettazioni che includa i vertici stessi del governo. Tanto più che alcuni dei politici sottoposti al controllo dei servizi segreti australiani nel 2009 sono probabili candidati alla successione di Yudhoyono nelle elezioni presidenziali del 2014, a cominciare dall’ex ambasciatore indonesiano negli USA, Dino Patti Djalal.

L’attuale amministrazione al potere, d’altra parte, non appare ancora del tutto allineata agli interessi strategici americani e australiani. Infatti, pur avendo stabilito solidi rapporti militari con Stati Uniti e Australia, il governo Yudhoyono continua a mantenere una certa indipendenza per quanto riguarda la propria politica estera. A differenza di alcuni paesi vicini, infatti, l’Indonesia  ha coltivato rapporti cordiali con Pechino, mentre i traffici economici tra i due paesi hanno fatto registrare una netta impennata negli ultimi anni, con la Cina che è diventata ormai il secondo mercato per le esportazioni indonesiane e la prima fonte delle importazioni di Jakarta.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy