- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Con il discorso del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si è chiusa martedì a New York un’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dominata dall’offensiva diplomatica dell’Iran, culminata con lo storico colloquio telefonico della scorsa settimana tra Barack Obama e il nuovo presidente della Repubblica Islamica, Hassan Rouhani.
Le fondamenta appena gettate di un dialogo diretto tra Washington e Teheran per una possibile risoluzione dell’annosa questione del nucleare iraniano hanno scatenato una valanga di commenti e interrogativi tra i commentatori di tutto il mondo, mentre gli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente non hanno tardato a manifestare tutta la loro opposizione ad una soluzione pacifica della crisi, a cominciare dal governo di Tel Aviv che ha salutato le prove di distensione con reazioni al limite dell’isteria.
Come era ampiamente prevedibile, al Palazzo di Vetro Netanyahu ha sostanzialmente ribadito le dichiarazioni allarmate degli scorsi anni sull’avanzamento del programma nucleare iraniano che, a suo dire e senza nessuna prova, starebbe procedendo verso la costruzione di armi atomiche. Secondo il premier ultra-conservatore israeliano, anzi, l’atteggiamento conciliante della delegazione di Teheran a New York sarebbe servito proprio a fuorviare la comunità internazionale per guadagnare tempo ed evitare attacchi militari contro le proprie installazioni nucleari.
Il giorno precedente l’intervento all’Onu, inoltre, lo stesso Netanyahu aveva incontrato Obama alla Casa Bianca, al quale aveva chiesto di mantenere ferma la minaccia militare e di non abolire le sanzioni economiche contro l’Iran. Da parte sua, il presidente democratico aveva cercato di dare un’immagine di unità con l’alleato, così da non allarmare ulteriormente i sostenitori dello Stato ebraico a Washington, sui quali Tel Aviv conta per far naufragare i negoziati che stanno per aprirsi.
Obama ha così ripetuto il consueto ritornello che accompagna praticamente ogni dichiarazione ufficiale americana sull’Iran e cioè che “tutte le opzioni rimangono sul tavolo” in relazione alla Repubblica Islamica, compresa quella militare, aggiungendo poi che la disponibilità mostrata nei giorni scorsi da Rouhani e dal suo ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, dovrà essere seguita da atti concreti.
Nonostante le difficoltà e le forti pressioni a non abbandonare la linea dura nei confronti di Teheran sia da parte degli ambienti filo-israeliani che dei falchi “neo-con”, l’amministrazione Obama sembra intenzionata a proseguire sul cammino del dialogo con l’Iran, cogliendo l’occasione scaturita dall’elezione a giugno del moderato Rouhani e, soprattutto, dalla necessità di questo paese di allentare al più presto la morsa delle sanzioni che ne stanno strozzando l’economia.
La decisione di Washington, tuttavia, non è scaturita da un’improvvisa volontà di riconoscere i diritti e le legittime aspirazioni iraniane, ma è piuttosto la conseguenza di una scelta strategica obbligata seguita al fallimento del progetto bellico preparato per la Siria. In altre parole, l’impossibilità di risolvere con un’aggressione militare la crisi siriana, a causa di una fortissima opposizione popolare e della fermezza degli alleati di Damasco - a cominciare dalla Russia - nel non lasciare mano libera alla macchina da guerra USA, ha spinto gli Stati Uniti dapprima ad accettare la proposta di Mosca sullo smantellamento delle armi chimiche di Assad e successivamente a rispondere positivamente alle aperture iraniane.
La battaglia condotta per procura contro il regime siriano rientra d’altra parte in un disegno più ampio per il Medio Oriente che ha appunto al centro la Repubblica Islamica e il tentativo ultimo di forzare un cambio di regime a Teheran. Se, dunque, gli USA fossero riusciti nello scatenare l’ennesima “guerra umanitaria” rimuovendo Assad in Siria, la loro attenzione si sarebbe inevitabilmente rivolta all’altro caposaldo della “resistenza” nella regione, vale a dire l’Iran.Con i piani di guerra almeno momentaneamente frustrati, invece, l’amministrazione democratica di Washington si è vista pressoché costretta ad optare per la diplomazia e a trattare con un governo da poco insediato e ben intenzionato ad ottenere un rilassamento delle sanzioni in cambio di concessioni non ancora messe sul tavolo.
Viste poi le disastrose conseguenze di un eventuale conflitto diretto con l’Iran, gli Stati Uniti hanno con ogni probabilità ritenuto di potere ottenere maggiori vantaggi attraverso un qualche dialogo con Teheran, dove a condurre i giochi è oggi una leadership pragmatica e moderata. Sul medio o lungo periodo, infine, il ristabilimento di relazioni normali con un paese che dispone di ingenti risorse energetiche potrebbe servire anche a limitare la partnership che lo lega ai rivali degli USA in Medio Oriente: Cina e, soprattutto, Russia.
In ogni caso, nonostante i rapporti tra i due rivali storici abbiano raggiunto in queste settimane livelli mai visti negli ultimi tre decenni, la delegazione americana che si appresta a recarsi a Ginevra a metà ottobre per il nuovo round dei colloqui sul nucleare sarà ancora una volta ben decisa ad estrarre dagli iraniani le condizioni più favorevoli possibili per Washington e i suoi alleati.
Come sanno bene a Teheran, la necessità degli Stati Uniti di far prevalere i propri interessi su qualsiasi ambizione iraniana e le resistenze ad ogni forma di distensione manifestate da più parti rendono comunque particolarmente accidentato il percorso che potrebbe portare ad un accordo diplomatico in tempi brevi.
Se il Senato di Washington ha infatti deciso di attendere dopo l’incontro tra i P5+1 e i rappresentanti iraniani a Ginevra per discutere in aula il nuovo pesantissimo pacchetto di sanzioni economiche contro Teheran approvato a larghissima maggioranza dalla Camera dei Rappresentanti a fine luglio, queste stesse misure continuano ad essere minacciosamente presenti nel dibattito sull’Iran e, come ha scritto mercoledì la Associated Press citando alcuni membri del Congresso, la loro implementazione sembra “probabile nonostante il disgelo tra i due paesi”.
Sul Congresso confida anche il governo israeliano per ostacolare il processo distensivo in atto, in particolare utilizzando l’attività delle lobbies che rappresentano gli interessi di Tel Aviv a Washington. Proprio il ruolo del Congresso risulterà decisivo, visto che la Camera e il Senato hanno approvato in questi anni le sanzioni economiche in vigore ai danni di Teheran e un’eventuale soppressione dovrà passare nuovamente da un voto dei due rami del parlamento americano. I poteri del presidente, in questo ambito, sono invece limitati alla possibilità di sospendere temporaneamente le sanzioni già esistenti.
Israele stesso, inoltre, nel suo intento di impedire in tutti i modi non tanto l’avanzata di un inesistente programma nucleare a scopi militari quanto l’emergere dell’Iran come legittima potenza regionale che minacci la propria supremazia in Medio Oriente, potrebbe mettere in atto provocazioni per boicottare il dialogo, come conferma il più che sospetto arresto annunciato domenica scorsa di una presunta spia iraniana, guarda caso in possesso di immagini dell’ambasciata statunitense a Tel Aviv.Da parte della Repubblica Islamica, infine, il mandato di Rouhani per trovare un accordo con gli Stati Uniti e l’Occidente appare sempre più legittimato dall’establishment conservatore che fa capo alla Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei.
Dagli ambienti più intransigenti stanno in realtà giungendo alcune critiche nei confronti di qualsiasi apertura agli USA ma, per il momento, i vari centri del potere in Iran sembrano approvare, o quanto meno tollerare, il tentativo del neo-presidente, a riprova delle profonde apprensioni create dalle sanzioni per una possibile esplosione delle tensioni sociali nel paese.
Un attestato della fiducia riposta in Rouhani è giunta così questa settimana al suo rientro da New York, quando 230 dei 290 membri del parlamento iraniano - dominato da fedelissimi di Khamenei - ha firmato una dichiarazione nella quale viene espressa completa approvazione per il tentativo di “discutere e stabilire contatti allo scopo di risolvere le questioni regionali e internazionali”.
L’Iran, in definitiva, sembra unito nella ricerca di un dialogo con i propri rivali storici e toccherà perciò ora a questi ultimi accettare la sfida e trattare finalmente con i leader di questo paese su un piano di uguaglianza.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
L’ennesima crisi costruita attorno alla spesa pubblica negli Stati Uniti che sta mettendo di fronte in questi giorni democratici e repubblicani al Congresso ha alla fine determinato il temuto “shutdown” del governo e la chiusura di buona parte degli uffici governativi per la prima volta da 17 anni a questa parte. La definitiva rottura è avvenuta sulla controversa “riforma” del sistema sanitario di Obama del 2010, la cui entrata in vigore l’ala conservatrice dei repubblicani alla Camera dei Rappresentanti voleva bloccare o quanto meno rimandare in cambio del via libera al bilancio federale per il nuovo anno fiscale iniziato alla mezzanotte di martedì 1° ottobre.
La minaccia di svariate decine di deputati repubblicani legati ai “Tea Party” di bloccare i fondi federali era apparsa in tutta la sua evidenza già un paio di settimane fa, quando la Camera aveva sì approvato il bilancio 2013-2014 aggiungendo però una clausola che avrebbe privato la riforma sanitaria dei fondi necessari per la sua implementazione. Per tutta risposta, la settimana scorsa la maggioranza democratica al Senato aveva tolto dal testo del provvedimento la parte relativa alla riforma sanitaria, nonostante i tentativi di impedire questa mossa da parte soprattutto del repubblicano del Texas Ted Cruz, licenziando a propria volta il bilancio per il nuovo anno finanziario e rimandando il pacchetto legislativo alla Camera.
Nella mattinata di domenica, la leadership repubblicana di quest’ultimo ramo del Congresso aveva rilanciato, approvando nuovamente il bilancio - sia pure provvisorio, così da tenere aperti gli uffici governativi fino a metà dicembre - ma aggiungendo una serie di provvedimenti per colpire la riforma definita “Obamacare” che riassumono quasi tutte le critiche ad essa rivolte dagli ambienti conservatori americani. In particolare, i repubblicani alla Camera avevano chiesto il già ricordato rinvio dell’entrata in vigore previsto sempre per martedì di uno dei punti centrali della riforma sanitaria - l’obbligo di acquisto di una polizza assicurativa privata da parte di quasi tutti gli americani - approvando allo stesso tempo la soppressione di una tassa sui dispositivi medici che dovrebbe generare quasi 30 miliardi di dollari per contribuire a finanziare la riforma stessa.
Di fronte alla linea dura della destra repubblicana, accettata in maniera riluttante dallo “speaker” John Boehner per cercare di evitare ulteriori attacchi alla sua leadership dagli ambienti vicini ai “Tea Party”, il numero uno dei democratici, Harry Reid, si era rifiutato di convocare il Senato nella giornata di domenica per provare a stringere i tempi e trovare una soluzione all’impasse.Così, il tira e molla al Congresso si è concluso come previsto lunedì, con il Senato che ha dato l’OK al bilancio provvisorio stralciando ancora una volta gli emendamenti repubblicani relativi alla riforma sanitaria. Successivamente, la Camera ha passato un ulteriore piano di finanziamento del governo con una proposta per ritardare l’inizio della riforma sanitaria, iniziativa arenatasi meno di un’ora dopo al Senato. La mancanza di un accordo dell’ultimo minuto ha fatto scattare così lo “shutdown”, ordinato ufficialmente poco dopo la mezzanotte dall’Office for Management and Budget.
Le ipotesi circolate nelle ore precedenti di possibili compromessi se i democratici avessero accettato di inserire nel bilancio almeno una delle richieste repubblicane relative alla riforma sanitaria – come la cancellazione della tassa del 2,3% sui dispositivi medici o la fissazione di un limite ai sussidi pubblici previsti per l’acquisto di una polizza sanitaria da parte degli stessi parlamentari e dei membri dei loro staff – sono invece andate a vuoto, rimandando alle prossime ore una possibile misura di emergenza da negoziare però in un’atmosfera avvelenata.
La mancata approvazione del nuovo bilancio ha in ogni caso gravi conseguenze soprattutto per i dipendenti pubblici, dal momento che almeno 825 mila di questi ultimi verranno messi subito in congedo senza stipendio, mentre a un altro milione verrà chiesto di lavorare ugualmente senza retribuzione. I servizi pubblici essenziali continueranno invece ad essere garantiti, così come non verranno intaccate le operazioni dell’apparato della “sicurezza nazionale”, anche se la riduzione del personale di molti uffici governativi potrebbe avere conseguenze sgradite, come ad esempio la sostanziale sospensione delle attività di controllo e regolamentazione dell’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA) e della Food and Drug Administration nell’ambito della sicurezza alimentare.
Implicazioni ancora più preoccupanti, secondo gli osservatori, potrebbe avere poi quella che già si preannuncia come la prossima battaglia al Congresso, quella cioè sull’innalzamento del tetto del debito USA. Se il livello di indebitamento del governo federale non verrà aumentato entro il 17 ottobre, infatti, gli Stati Uniti rischieranno il default per la prima volta nella loro storia e, prevedibilmente, anche in occasione di questa scadenza i repubblicani cercheranno di ottenere concessioni per ridurre la spesa pubblica e riproporranno i loro attacchi alla riforma sanitaria.
Una parte del Partito Repubblicano, peraltro, non condivide la battaglia condotta dai loro colleghi più conservatori su “Obamacare”, poiché teme che l’intransigenza di questi ultimi possa trasformarsi in un boomerang e consentire ai democratici di incolpare il partito stesso per l’eventuale paralisi del governo.
I deputati legati ai “Tea Party” continuano però nel tentativo di avvantaggiarsi della più che legittima ostilità diffusa tra gli americani per la riforma sanitaria voluta da Obama, correttamente vista come una legge che produrrà una riduzione delle prestazioni e un aumento dei costi, anche se i loro attacchi ad essa vengono in realtà portati da destra, visto che essi vorrebbero un sistema sanitario ancora più deregolamentato.
Più in generale, nonostante il livello apparente dello scontro al Congresso, il clima apocalittico che viene creato ad arte da media e politici americani in occasione delle varie scadenze relative al finanziamento del governo o al debito federale finisce puntualmente per risolversi in nuovi e pesantissimi tagli alla spesa pubblica che entrambi i partiti in larga misura condividono.
Come già accaduto in almeno quattro occasioni negli ultimi tre anni - tra cui in occasione del dibattito sul cosiddetto “fiscal cliff” o precipizio fiscale alla fine del 2012 - il teatrino di Washington prevede appunto che i repubblicani propongano misure di austerity estremamente drastiche da implementare il prima possibile. Successivamente, i democratici si atteggiano a difensori delle classi più disagiate che da quei tagli sarebbero maggiormente colpite per poi accettare tagli alla spesa solo leggermente meno devastanti e, se possibile, raccogliere i benefici politici per avere magari salvato qualche simbolico programma pubblico di assistenza.
Nel frattempo, il baricentro politico negli Stati Uniti si è spostato sempre più a destra e durante l’amministrazione Obama non solo sono spariti dal bilancio federale svariate migliaia di miliardi di dollari destinati alla spesa pubblica ma anche programmi come Medicare, Medicaid e Social Security, tradizionalmente considerati intoccabili, sono finiti o finiranno sotto la scure bipartisan.
Tutto ciò proprio mentre gli effetti della crisi economica renderebbero ancora più necessario il sostegno alle fasce più deboli della popolazione e, soprattutto, dopo che la Fed e il governo americano continuano a mettere a disposizione una quantità di denaro virtualmente illimitata alla speculazione di Wall Street.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Emanuela Muzzi
Londra. Approvata la risoluzione ONU che obbliga Assad a distruggere il suo arsenale chimico la domanda di fondo resta: chi ha venduto i prodotti chimici usati dal regime siriano per costruire le armi al gas sarino usate lo scorso 21 agosto nella strage di Ghouta? C’è tempo fino al 4 Ottobre per sapere il nome del "chemical brand" che avrebbe esportato materiali precursori per il gas sarino al paese in rivolta grazie a licenze export "made in Britain".
Se le nazioni sono il soggetto della questione, i composti chimici, i prodotti e le multinazionali sono l’oggetto da definire. Le armi chimiche in sé non esistono se non nel momento in cui due "precursori" reagiscono e si trasformano in gas letale. Di qui il nome: armi binarie.
Dunque anche la risposta potrebbe essere "binaria": Germania e Gran Bretagna. Due nazioni che hanno appena votato la risoluzione ONU sulle armi chimiche sabato 27 settembre, ma che sono sotto accusa per aver munito Bashar al Assad di gas letale sparato contro i civili. Resta il fatto che gli osservatori ONU non hanno prove che il gas sarino che a Ghouta ha ucciso circa 1500 persone, inclusi 426 bambini, sia di provenienza inglese o tedesca.
Nel difendere il governo tedesco dalle accuse di aver venduto tra il 2002 e il 2006 oltre 100 tonnellate di "dual-use" chemicals, la cancelliera Angela Merkel ha dichiarato lo scorso 18 Settembre alla tv pubblica ARD che non c’è alcuna prova che i materiali in questione fossero utilizzati a scopi militari. In questo caso si trattava di fluoruro e cloruro di idrogeno.
Il secondo "agente fumogeno" è il Regno Unito. L’Independent lo scorso 2 Settembre ha rivelato che il ministro per il commercio, Vince Cable, oltre un anno fa (il 17 e 18 gennaio dl 2012) aveva approvato due licenze per l’export di precursori chimici alla Siria quando nel paese era già in corso la guerra civile. Le licenze in questione erano state revocate in seguito al bando sull’export e alle sanzioni alla Siria varate dall’UE nel maggio 2012.
A beneficiare delle licenze valide sei mesi è stata una compagnia che il ministro non ha voluto nominare “perché - ha spiegato un portavoce del ministero - violerebbe il vincolo di confidenzialità con la compagnia responsabile dell’export”. Ma la commissione parlamentare della Camera dei Comuni per il controllo sull’export delle armi lo ha obbligato a rendere noto il nome del ‘brand’ responsabile entro il prossimo 4 ottobre.
Omertà a parte, le dichiarazioni rese del ministro sono state definite “contraddittorie” dagli MPs della House of Commons. Nell’aprile scorso Cable aveva indicato che “una parte” del carico di fluoruro di potassio e di fluoruro di sodio era stata esportata e che c’erano “ancora rimanenze da esportare” sotto la garanzia delle due licenze, chiarendo di non avere dati sulla quantità della merce già sdoganata.
In seguito, dopo che la storia delle licenze è esplosa sulle prime pagine dei giornali, sia il ministero dell’Industria e del Commercio che Downing Street hanno ufficialmente dichiarato che il carico in questione non è mai stato esportato verso un paese mediorientale in rivolta.
Mentre in questi giorni la diplomazia in doppiopetto si specchia nello schermo dei media, le compagnie chimiche lavorano, producono, esportano. Ma si tratta di un export che non si può controllare con facilità.
Le multinazionali chimiche nel Regno Unito non sono migliaia, sono poche e ben note. Solo alcune: Basf Chemicals, Dow Chemicals, Bayer, Shell Chemicals, DuPont, ExxonMobil, accompagnate dalle relative controllate e firme minori.
Sebbene operino su scala industriale globale, non si può dire che producano armi chimiche, ovviamente. Ad esempio, un quintale di fluoruro di sodio non è un’arma chimica in sé e questo rende la questione dell’uso e dell’export di questi materiali molto fumosa perché vengono utilizzati su scala industriale come gas tossici anti-parassitari per l’agricoltura o come solventi per l’alluminio per costruzioni.
Certo qualche quintale di Fluoruro di sodio in viaggio verso la Siria avrebbe dovuto destare i sospetti di qualcuno, ma non degli ispettori della Customs & Excise, l’ufficio centrale della dogana britannica (organo governativo che controlla ed amministra le licenze export) il quali hanno dichiarato che nessuno dei materiali in questione ha lasciato la Gran Bretagna sotto le "licenze Cable".
Resta la "deadline" del 4 Ottobre. Le vie d’uscita per il ministro sono tre: fare il nome della compagnia, negare che l’export sotto le due licenze sia mai avvenuto, oppure usare armi di distrazione di massa perché il ‘chemical gate’ evapori tra le daily news.
Nelle ultime settimane il Business Secretary offre pane per i denti affilati dei giornalisti all’inseguimento delle breaking news: il ministro attacca "l’orribile" governo Tory al congresso del Liberal Democratici; si schiera in favore degli immigrati “una risorsa economica per il paese”, poi sostiene la land tax per i proprietari d’immobili: notizie fresche, altro che export illegale di armi chimiche alla Siria e Commissioni parlamentari...
Adesso è di come Vincent tenta di rubare la poltrona a leader dei Lib Dem Nick Clegg, che bisogna parlare, un nuovo rush della carriera del Business Secretary passata anche per la Shell dove dal 1995 al ‘97 ha ricoperto la carica di Chief Economist: che sia stato il caso, oppure l’anello di congiunzione tra politica e cattive compagnie. Entrambi vendono fumo; e in grandi quantità.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Vincenzo Maddaloni
Vista da fuori questa sessantottesima assemblea generale dell’Onu sempre più appare come un fenomeno paranormale. Hassan Rohani, il presidente della repubblica islamica dell’Iran, dalla tribuna più prestigiosa del Palazzo di Vetro - quella dove fino ad un anno fa tuonava il suo predecessore Ahmadinejad - ha cercato di consegnare al mondo un’immagine diversa della nazione: quella di un Paese di grande tradizione, cultura e che vuole solamente la pace.
E’ il medesimo «pragmatico», «moderato» ma ancora poco conosciuto Rohani, eletto tre mesi fa, che con un tweet ha augurato buon anno ebraico «agli ebrei iraniani» e rilasciato dodici prigionieri politici; è sempre lui che ha scritto una lettera aperta dai toni insolitamente morbidi a un grande giornale americano, stavolta il Washington Post: «È finita l'era delle faide di sangue», è il titolo.
Naturalmente, com’era facile prevedere non c’è stato l’atteso incontro all’Onu con il Presidente Usa Barack Obama, soltanto la conferma ufficiale all’apertura al dialogo da parte di Washington. Che è disposto a iniziarlo purché, come ha ricordato il presidente americano, Teheran dopo tante parole mostri le carte, mostri “fatti concreti”.
In effetti, tante sono le parole che l’ayatollah Rohani scrive sul Washington Post. Rammenta al globo che le troppe sfide alla comunità internazionale - terrorismo, estremismo, interferenze militari dall'estero, traffico di droga, cybercrime e, più interessante, «gli sconfinamenti culturali» - hanno enfatizzato l'uso dell'hard power e della forza bruta. Pertanto assicura il Presidente iraniano se prometto di «interagire col mondo in modo costruttivo» non potrò perseguire un interesse senza considerare quello degli altri. Perché - egli spiega - in un mondo iperconnesso «dobbiamo lavorare insieme per superare le insane rivalità e le ingerenze che portano alla violenza. Dobbiamo prestare attenzione all'identità come tema chiave delle tensioni all'interno ed oltre il Medio Oriente».
Può apparire insolito questo richiamo di Hassan Rohani a «prestare attenzione all’identità» per evitare gli «gli sconfinamenti culturali», che sono all’origine dei conflitti in Medio Oriente. In effetti egli evidenzia un punto di rilevanza cruciale nei rapporti dell’Occidente con l’Islam. E cioè che non ci potrà essere futuro per una coesistenza pacifica senza una convergenza sul rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo così come si afferma nella dichiarazione universale del 1948 delle Nazioni Unite.
Questo implica però l’accettazione da parte di tutte le culture di quel quadro di valori fondamentali e cioè i diritti dell’uomo, i principi di democrazia, la distinzione tra Stati, confessioni religiose e società che sono elementi ineludibili e non sono negoziabili come previsto appunto dalla Carta delle Nazioni Unite.
Pertanto, siccome le culture e le aree culturali non sono dei monoliti, occorre cogliere le culture nel loro dinamismo interno, sia storico che attuale favorendo il dialogo, la conoscenza, in modo che i diritti fondamentali dell’uomo non appaiano più come dei prodotti occidentali, ma radicati nell’orizzonte culturale e spirituale proprio dell’universo culturale che le Nazioni Unite dovrebbero rappresentare. Infatti la Carta individua i principi essenziali della comunità internazionale degli Stati, volti alla protezione degli interessi fondamentali della stessa.Naturalmente l’invito di solito è affatto rispettato. Sebbene tali principi, i quali sono parte dello jus cogens, siano contenuti negli artt.1 e 2 della Carta: il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali (art.1 par.1) insieme al principio del divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali (art.2 par.4); la soluzione pacifica delle controversie; il principio dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli (art.1 par.2); il principio della cooperazione che si estende a ogni problema internazionale di «carattere economico, sociale,e culturale» (art.1 par.3); il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali (art. 1 par.3).
Dopotutto, la Carta potrebbe essere vista come la Costituzione istituzionale della comunità internazionale, in quanto, accanto ai principi fondamentali, individua gli organi competenti ad esprimere, promuovere e tutelare tali principi nelle relazioni internazionali.
Poiché essa conferisce in particolare al Consiglio di Sicurezza «la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionali» e gli Stati membri delle Nazioni Unite «convengono di accettare ed eseguire le decisioni del Consiglio di sicurezza». Ma è proprio su questo punto che la Carta dimostra tutta la sua inadeguatezza e si capisce perché da molti anni a questa parte si parla della necessità di una riforma dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Infatti se il diritto di veto aveva un senso in un mondo “bipolare”, ormai questo diritto non ha più fondamento, poiché il mondo di Yalta, che è stato voluto insieme dall’Occidente all’Oriente, è superato. Quella del veto era una delle forme di garanzia del mantenimento dell’ordine che si crea per la pace, dopo la guerra.
Oggi è quasi soltanto uno strumento di potere o di pre-potere in mano ai popoli “eletti” come gli interventi unilaterali anglo-americani in Medio Oriente stanno a dimostrare. Non a caso l’aspetto centrale della riforma delle Nazioni Unite è costituito dal tema del ruolo, delle competenze e delle procedure del Consiglio di Sicurezza al quale la Carta ha malauguratamente affidato il compito di occuparsi dei problemi politici.
Come si è visto bene in più di una occasione, esso agisce sempre con un collaudato pragmatismo secondo il quale il Consiglio di Sicurezza deve «schierarsi in favore dell’azione» e non impedirla. L’azione, ovviamente, rimane nelle mani della superpotenza americana, secondo la quale se esso non dovesse concedere la sua autorizzazione “all’azione”, il Consiglio dimostrerebbe la sua inconsistenza, irrilevance e quindi potrebbe essere comodamente scavalcato.
Si tenga a mente che il mondo musulmano con il suo miliardo e trecento milioni di fedeli non è rappresentato nel Consiglio di Sicurezza mentre i “cristiani” hanno quattro seggi (il quinto è cinese).
Insomma il vertice delle Nazioni Unite replica un po’quelle scene viste nei film in costume dove gli aristocratici celebrano i loro riti mentre fuori infuria la rivoluzione. Sicché più questa discrasia si acutizza, e più diventa complicato “l’ammodernamento” dell’Onu, con il gran giubilo di chi non vuole cambiare sostanzialmente le cose (Usa, Russia, Cina in prima linea, ma anche Regno Unito e Francia).
Così l’Onu continua ad essere considerato come una realtà artificiale avulsa dal mondo reale nel quale la “verità” sui fatti non è un dato esterno che nasce attraverso il dibattito e l’ascolto delle varie posizioni, ma fa parte della volontà di colui che ha i mezzi per costruirla.
Gli Stati Uniti appunto, che non hanno bisogno di essere informati sulla “verità” dei fatti, perché sono loro che informano le Nazioni Unite sulla “verità” dei fatti. O meglio le mettono di fronte al fatto compiuto com’è avvenuto con l’invasione dell’ Afghanistan, dell’Iraq, l’elenco potrebbe continuare.
Va pure detto che in questi giorni all’Onu non tutti si fidano del presidente Rohani, sebbene egli abbia scritto nella famosa lettera al Washington Post che «il mondo è cambiato»; «la politica internazionale non è più un gioco a somma zero», ma «un'arena multidimensionale dove spesso coesistono cooperazione e competizione».
A mantenere lo scenario incandescente ci pensa il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che, da Gerusalemme ha ordinato alla delegazione israeliana all’Assemblea dell’Onu di comportarsi esattamente come accaduto negli ultimi anni: alzarsi e abbandonare la sala quando a prendere la parola è l’Iran. Non importa se stavolta a parlare sia Rohani e non sia Ahmadinejad. E non importa se da Teheran arrivano chiari segnali di distensione. Per il premier israeliano, il discorso di Rohani all’Onu è solo “cinico”.Sicché non si riesce a capire se - dopo questo scambio di promesse tra l’ Iran e gli Usa - ci attende una nuova apocalisse o un futuro di pacifica coesistenza, di là di stabilire chi siano i vinti e i vincitori. Compito dell’Onu sarebbe di verificarlo poiché abbiamo già l’elenco dei danni provocati quando con la forza si vogliono imporre modelli senza rispettare la cultura dell’Altro.
Insomma, sul nucleare iraniano, sulla guerra siriana, sui mille e uno conflitti che dividono il mondo tra Nord e Sud, diventa indispensabile - per meglio capire - ascoltare e diffondere la voce (non solo ufficiale) dell’altro versante.
Nell’éra di internet dovrebbe essere molto più facile. Non è così. Perché l’Occidente si blocca quando dalla tribuna dell’Onu il presidente Obama assicura che se la trattativa sul nucleare iraniano dovesse andare a buon fine, «tutto nelle relazioni tra i nostri Paesi potrebbe cambiare». Ma se il prossimo inquilino della Casa Bianca fosse un Repubblicano si continuerebbe a pensarla allo stesso modo?
La superpotenza non si pone problemi al riguardo, poiché impone le sue regole quando vuole e dove vuole, Nazioni Unite incluse. In questo scenario com’è visto il «pragmatico», «moderato» Hassan Rohani? «Da parte sua alcuna reale concessione sul nucleare e repressione di chi si oppone alla teocrazia», stigmatizza Raymond Tanter, (membro del National Security Council staff durante l’amministrazione Reagan), in un articolo pubblicato da Foreign Policy. E conclude: «Sebbene Ahmadinejad e Rohani abbiano stili diversi, la sostanza è la stessa». Quanto basta agli europei e ai giapponesi per restare rannicchiati sotto l’”ombrello” statunitense, con i loro territori ancora pieni di basi Usa. Quel che sta fuori è per loro solo un sinistro folklore.
www.vincenzomaddaloni.it
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Un gruppo di milizie che fanno parte dell’opposizione siriana ha rotto questa settimana con il gruppo dirigente della cosiddetta Coalizione Nazionale (CNS) sostenuta dall’Occidente, alleandosi di fatto con le forze affiliate ad Al-Qaeda per rimuovere il presidente Bashar al-Assad e instaurare un regime islamista.
La svolta annunciata relativamente a sorpresa ha rivelato la vera natura delle forze appoggiate dagli Stati Uniti e dai loro alleati, mentre allo stesso tempo ha messo Washington in una posizione imbarazzante proprio mentre appariva sempre più necessaria la promozione di un’opposizione coesa e credibile in vista dei possibili negoziati di pace che dovrebbero scaturire dall’accordo con la Russia per lo smantellamento delle armi chimiche di Damasco.
Tredici formazioni armate operanti in Siria hanno così sottoscritto un documento nel quale si afferma chiaramente che esse non sono in nessun modo rappresentate dai “gruppi creati all’estero”, i cui membri non sono mai tornati nel paese dall’inizio del conflitto. La dichiarazione condanna esplicitamente la Coalizione Nazionale Siriana con sede a Istanbul e invita “tutte le forze civili e militari a unirsi attorno ad una piattaforma islamista basata sulla Sharia”, la legge islamica che viene indicata come “la sola fonte a cui la legislazione dovrebbe ispirarsi”.
Tra le milizie che hanno sottoscritto l’accordo ce ne sono soprattutto tre - Liwa al-Tawhid, Liwa al-Islam e Suqour al-Sham - le quali sono considerate le meglio attrezzate tra quelle finora sotto l’autorità del Consiglio Militare Supremo del Libero Esercito della Siria, anch’esso promosso dall’Occidente. Con la loro fuoriuscita, dunque, il Consiglio rimane sostanzialmente privo di forze armate sul campo.
Significativamente, del gruppo sganciatosi dalla CNS fa parte anche il Fronte al-Nusra, una delle più agguerrite formazioni che combattono Assad e apertamente affiliata ad Al-Qaeda, nonché finita qualche mese fa sulla lista delle organizzazioni terroristiche del governo americano.
Fuori dall’accordo rimane invece l’altro principale gruppo associato ad Al-Qaeda, il cosiddetto “Stato Islamico dell’Iraq e della Siria” (ISIS), protagonista nelle ultime settimane di violenti scontri armati con altre formazioni anti-Assad nel nord del paese.Con ogni probabilità, la mossa che ha visto protagoniste le brigate anti-Assad è la diretta conseguenza del tentativo fallito dell’amministrazione Obama di iniziare una campagna militare in Siria che avrebbe favorito le opposizioni armate, da qualche tempo indebolite dalla controffensiva del regime.
Queste milizie, cioè, hanno deciso di mettere fine alla loro sottomissione nominale alla evanescente leadership coltivata dall’Occidente, dalla Turchia e dalle monarchie del Golfo Persico quando è apparso chiaro che essa non è stata in grado di forzare un intervento armato esterno in Siria per dare la spallata finale al regime di Assad.
Questa evoluzione delle forze di opposizione conferma poi l’assurdità delle pretese americane ed europee di sostenere organizzazioni moderate o secolari che si contrapporrebbero a quelle integraliste affiliate al terrorismo internazionale. In realtà, non appena l’utilità dei legami con la CNS è venuta meno - cioè quando gli USA sono stati costretti ad aprire alla strada diplomatica accettando la proposta russa sulle armi chimiche - anche le brigate più presentabili non hanno esitato ad unire le loro forze con quelle di Al-Qaeda e a dichiarare la loro volontà di creare un regime fondamentalista.
La CNS, quindi, rimane ora del tutto svuotata e il calcolo dell’Occidente smascherato, visto che appare ormai chiaro come l’opposizione considerata affidabile e sulla quale puntare per il dopo Assad non solo non ha alcun seguito in Siria ma non esercita alcun controllo nemmeno su una parte delle formazioni armate attive nel paese.
Con una realtà di questo genere, anche gli sforzi per organizzare la conferenza di pace sulla Siria rimandata da mesi (“Ginevra II”) risultano praticamente inutili. Infatti, in rappresentanza dell’opposizione gli Stati Uniti manderebbero a trattare con il regime un’organizzazione senza alcuna autorità e totalmente impossibilitata a fare applicare qualsiasi condizione fissata in un eventuale accordo.In definitiva, perciò, l’annuncio di questa settimana delle tredici milizie armate e il colpo mortale che ne è conseguito per la Coalizione Nazionale, chiarisce una volta per tutte quale sia la situazione sul campo in Siria, dove il conflitto è determinato in larghissima parte dallo scontro tra le forze del regime e gruppi integralisti sunniti - spesso con inclinazioni terroristiche - che intendono promuovere unicamente la loro agenda fondamentalista.
Come è evidente, la realtà dipinta dai governi Occidentali di un’opposizione in gran parte intenta a combattere per la libertà e la democrazia viene completamente smentita e si rivela soltanto come una strategia propagandistica per fuorviare l’opinione pubblica internazionale, così da giustificare un coinvolgimento sempre maggiore nella crisi in corso.
La nuova realtà all’interno dell’opposizione armata in Siria offre infine più di un argomento a coloro che hanno sempre visto con estrema preoccupazione il sostegno alle forze anti-Assad. Parallelamente, i falchi dell’intervento umanitario troveranno maggiori difficoltà nel chiedere un intervento più incisivo degli Stati Uniti che finirebbe per beneficiare appunto forze estremiste, così come gli inviti ad Assad a farsi da parte potrebbero attenuarsi alla luce dell’alternativa inquietante che si prefigurerebbe per la Siria e l’intero Medio Oriente.
Nel frattempo, già da mercoledì è iniziata a circolare la notizia che i cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono vicinissimi ad un accordo su una risoluzione per l’implementazione dell’accordo sulla consegna e distruzione dell’arsenale chimico di Assad.
Il disaccordo sull’autorizzazione della forza in caso di mancata cooperazione da parte di Damasco sarebbe infatti stata risolta inserendo nel testo la possibilità di ricorrere a misure punitive estreme ma solo in seguito ad una nuova risoluzione ONU, dove Russia e Cina, in ogni caso, porrebbero il veto ad ogni iniziativa che possa spianare la strada ad un’aggressione militare contro la Siria.