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di Michele Paris
Mentre la diplomazia internazionale sta cercando di fissare una data definitiva per l’avvio di improbabili negoziati di pace che dovrebbero gettare le basi per il futuro della Siria, la violenza nel paese mediorientale continua ad essere alimentata da forze integraliste di matrice terroristica scatenate dalle politiche dei governi occidentali e dei loro alleati nel mondo arabo.
L’ennesimo episodio che conferma la vera faccia dell’opposizione più agguerrita nei confronti del regime di Bashar al-Assad, è stato registrato nella giornata di domenica, quando un attacco suicida con un’autobomba ha causato decine di morti, soprattutto civili, a Hama, città sotto il controllo governativo situata nella Siria centrale a poco meno di 200 km a nord di Damasco.
A riferire del sanguinoso attentato è stata non solo l’agenzia di stampa ufficiale, SANA, ma anche l’Osservatorio per il Diritti Umani in Siria, un’organizzazione con sede in Gran Bretagna che appoggia i “ribelli”. Secondo quest’ultimo, i morti causati dall’esplosione sarebbero stati 45, di cui 32 civili, e a condurre l’operazione il Fronte al-Nusra, uno dei gruppi armati affiliati ad Al-Qaeda che opera nel paese spesso a stretto contatto con le milizie “secolari” apertamente appoggiate dall’Occidente.
L’attentato di domenica era stato preceduto sabato da un’altra autobomba, esplosa nei pressi di un check-point delle forze di sicurezza nel quartiere Jaramana della capitale siriana, facendo svariate vittime e feriti.
Simili metodi sono da tempo utilizzati dalle brigate fondamentaliste che trovano molto più del tacito sostegno di paesi alleati dell’Occidente come Turchia o Arabia Saudita, i quali attraverso di esse avanzano i propri interessi strategici in Siria dissimulandoli dietro la retorica umanitaria.Il prevalere delle formazioni terroriste tra la galassia dei “ribelli” in Siria getta dunque un’ombra sempre più cupa sul tavolo dei negoziati che dovrebbero aprirsi a Ginevra nelle prossime settimane. Infatti, i rappresentanti dell’opposizione promossi dall’Occidente riuniti nella cosiddetta Coalizione Nazionale Siriana che dovrebbero presentarsi nella località svizzera risultano sempre più screditati nel paese mediorientale e rappresentano un numero sempre più ristretto di gruppi armati operanti contro le forze di Assad.
Ciò è apparso ancora una volta evidente nei giorni scorsi, quando alcune milizie attive nel sud della Siria hanno annunciato il proprio sganciamento dalla Coalizione, così come avevano fatto in precedenza altre 13 formazioni armate, tra cui almeno tre considerate tra le meglio attrezzate sotto la diretta autorità del Consiglio Militare Supremo del Libero Esercito della Siria.
In questo nuovo scenario, perciò, se anche un qualche accordo dovesse essere partorito durante il summit battezzato “Ginevra II”, i leader della Coalizione non avrebbero praticamente nessuna autorità per farne rispettare i termini e per far cessare le violenze.
Ciononostante, dopo avere contribuito all’afflusso di decine di migliaia di guerriglieri integralisti in uno dei paesi più secolari del Medio Oriente, gli Stati Uniti e i loro alleati stanno ora cercando di dare una qualche apparenza di legittimità agli esponenti filo-occidentali dell’opposizione, nel tentativo di limitare l’influenza del fondamentalismo sunnita e promuovere una nuova e docile classe dirigente per il dopo Assad.
I colloqui da tenersi a Ginevra continuano però a rimanere in forte dubbio, nonostante nella giornata di domenica il numero uno della Lega Araba, Nabil el-Araby, abbia affermato durante un incontro con i giornalisti al Cairo che la conferenza si aprirà il 23 novembre prossimo.
La stessa data era stata indicata settimana scorsa anche dal vice-primo ministro siriano, Qadri Jamil, nel corso di una visita a Mosca, a conferma della disponibilità del regime di Damasco ad aprire una qualche trattativa da una posizione di forza e con un’opposizione sempre più debole e frammentata.Sia in quell’occasione che nel fine settimana, tuttavia, l’inviato speciale delle Nazioni Unite e della Lega Araba, il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi, ha smorzato i relativi entusiasmi, chiarendo che nessuna data certa è stata finora decisa e che i colloqui rimarranno in dubbio fino a che non ci sarà “un’opposizione credibile” disposta a prendervi parte. Lo stesso Brahimi ha in programma questa settimana visite in Turchia e in Qatar, i cui governi sono tra i principali sostenitori dei “ribelli”.
L’apertura di “Ginevra II”, infatti, dipende in gran parte dalla disponibilità dei leader della Coalizione Nazionale Siriana che dovrebbero incontrarsi tra pochi giorni per decidere se partecipare ai colloqui di pace.
I ministri degli Esteri dell’Unione Europea, intanto, si sono riuniti lunedì in Lussemburgo per discutere dei negoziati sulla Siria, mentre martedì sarà la volta degli “Amici della Siria” - o gruppo degli “11 di Londra” - che nella capitale britannica cercheranno di convincere i membri della Coalizione a partecipare alla discussione con i rappresentanti del presidente Assad.
Quest’ultimo, da parte sua, ha da tempo fatto sapere di volere far seguire l’accordo con Russia e Stati Uniti sullo smantellamento del proprio arsenale chimico con la partecipazione a “Ginevra II”. Il fermo rifiuto del presidente a farsi da parte e la più che comprensibile indisponibilità a trattare con i gruppi terroristi continua però a dividere l’opposizione appoggiata dall’Occidente, all’interno della quale in molti avevano posto come condizione imprescindibile proprio le dimissioni di Bashar al-Assad.
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di Michele Paris
I problemi legali del colosso bancario americano JPMorgan Chase non sembrano avere fine. Come diretta conseguenza delle modalità con cui opera l’intera industria finananziaria d’oltreoceano, la principale banca d’investimenti degli Stati Uniti ha infatti collezionato l’ennesima indagine aperta dalle autorità federali, con le quali avrebbe però raggiunto un accordo di massima nel fine settimana per pagare ancora una volta una sorta di tassa sulle proprie attività illegali ed evitare in gran parte i guai giudiziari che ne dovrebbero conseguire.
Il Dipartimento di Giustizia aveva in questa occasione messo sotto accusa JPMorgan per la truffa dei titoli legati ai mutui “subprime”, venduti agli investitori senza informarli dei rischi connessi. Come è noto, questo genere di prodotti finanziari ad alto rischio fu al centro della crisi esplosa nell’autunno del 2008. Molti dei titoli in questione erano stati ereditati da altri due istituti bancari - Bear Stearns e Washington Mutual - acquistati da JPMorgan nel 2008 a condizioni estremamente favorevoli.
Il procedimento ai danni di JPMorgan era scaturito, tra l’altro, dalla denuncia presentata dai giganti dei mutui controllati dal governo federale - Fannie Mae e Freddie Mac - e da un’indagine proprio su Bear Stearns del procuratore generale dello Stato di New York, Eric Schneiderman.
Per risolvere la questione che, assieme agli altri guai giudiziari, rappresenta un ostacolo alla conduzione degli affari di JPMorgan, la banca di Wall Street è in trattativa da tempo con le autorità del Dipartimento di Giustizia. Secondo i giornali americani, a sbloccare la situazione sarebbe stata una telefonata avvenuta nella serata di venerdì tra il Ministro della Giustizia, Eric Holder, e il presidente e amministratore delegato di JPMorgan, Jamie Dimon.
L’accordo con il governo dovrebbe così risolversi in una sanzione-record da 13 miliardi di dollari che, pur essendo la cifra più alta mai pagata da un’azienda privata, ammonta solo a poco più della metà dei profitti raccolti da JPMorgan nel solo 2012.
Secondo il New York Times, l’accordo potrebbe ancora saltare completamente e la sua finalizzazione dipende soprattutto da quanto i vertici di JPMorgan saranno disposti ad ammettere circa le proprie responsabilità sulla truffa dei mutui “subprime”. Se dovesse infatti riconoscere il comportamento illegale di dirigenti e dipendenti, la banca potrebbe assistere ad una valanga di cause legali ai propri danni da parte degli investitori truffati.La questione più problematica sarebbe legata ad un procedimento criminale parallelo aperto dalle autorità federali della California che, secondo i termini dell’accordo, non verrebbe fermato dalla chiusura della causa civile con il pagamento della sanzione.
Lo stesso Dimon avrebbe insistito in prima persona con Holder al fine di far chiudere il caso aperto a Sacramento, ma il ministro di Obama, almeno per il momento, continua a ritenere necessaria una simile azione legale di fronte all’estrema impopolarità di JPMorgan.
Le prime pagine dei giornali americani usciti nella giornata di domenica hanno sottolineato l’eccezionalità della multa, così come la presunta ritrovata fermezza del Dipartimento di Giustizia nel punire gli eccessi di Wall Street. In realtà, tutte le sanzioni pagate finora e quelle a cui dovrà far fronte JPMorgan non hanno alterato significativamente la condotta della banca e, soprattutto, hanno fatto in modo che i suoi massimi dirigenti venissero risparmiati da qualsiasi procedimento penale.
Per stessa ammissione delle autorità di governo, d’altra parte, istituti come JPMorgan sono considerati di fatto al di sopra della legge e l’eventuale processo o arresto dei loro top manager produrrebbe pericolose scosse per l’intero sistema finanziario.
Con la connivenza dello stesso Dipartimento di Giustizia, perciò, JPMorgan e altre grandi compagnie private operanti in svariati settori utilizzano le sanzioni economiche emesse nei loro confronti come un contributo necessario da assolvere per continuare a fare affari spesso al di fuori della legalità.
La sola JPMorgan si è trovata implicata in questi anni in numerose indagini non solo negli Stati Uniti ma anche oltreoceano, come in Gran Bretagna, dove è in corso un’indagine relativa ad una perdita da 6 miliardi di dollari della propria filiale di Londra. Per far fronte a questi fastidi, la banca con sede su Park Avenue, a Manhattan, ha appena stanziato qualcosa come 9,2 miliardi di dollari per coprire le proprie spese legali. Ciò ha determinato il primo trimestre in rosso da quando alla sua guida è stato nominato Jamie Dimon alla fine del 2006.Dei 13 miliardi di dollari che JPMorgan potrebbe pagare, 9 consisterebbero in sanzioni, mentre 4 andrebbero a risarcire sottoscrittori di mutui in difficoltà. Se confermata, la multa sarebbe di gran lunga la più pesante mai concordata con una singola azienda privata negli Stati Uniti, superando quella da 4,5 miliardi ai danni della compagnia petrolifera BP per il disatro nel Golfo del Messico nell’aprile del 2010.
La condotta di JPMorgan, in ogni caso, è tutt’altro che un’eccezione per Wall Street, anche se le vicende ad essa legate hanno puntualmente maggiore risalto viste le dimesioni e l’influenza dell’istituto. Le autorità federali americane sono infatte impegante in una lunga serie di indagini contro i giganti finanziari responsabili della crisi del 2008 e di molti altri crimini.
Meno di tre mesi fa, ad esempio, l’FBI e la procura federale di Manhattan avevano annunciato l’apertura di un procedimento penale ai danni dell’hedge fund SAC Capital, accusato di avere operato un sistematico schema di “insider-trading” tra il 1999 e il 2010. Anche in questo caso, però, i suoi vertici verrano risparmiati, come conferma la trattativa già in corso con il governo per il pagamento di una sanzione da oltre un miliardo di dollari.
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di Michele Paris
L’ennesima crisi andata in scena per oltre due settimane nell’organo legislativo virtualmente più impopolare del pianeta si è conclusa come previsto nella nottata di mercoledì con un voto dell’ultimo minuto per scongiurare il temuto default del governo americano e riaprire gli uffici federali chiusi ormai da 16 giorni. Come raccontano le ricostruzioni ufficiali, il fallimento della maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti nell’estrarre concessioni sulla “riforma” sanitaria di Obama in cambio del via libera al bilancio federale per l’anno 2013/2014 e dell’innalzamento del tetto del debito pubblico ha fatto in modo che l’iniziativa passasse nella giornata di mercoledì ai leader del Senato.
Qui, i numeri uno dei democratici, Harry Reid, e dei repubblicani, Mitch McConnell, si sono alla fine accordati su un pacchetto provvisorio che, senza emendamenti significativi relativi ad altri ambiti, sblocca i finanziamenti per le attività di governo fino al 15 gennaio e assegna al Dipartimento del Tesoro la facoltà di aumentare il livello di indebitamento fino al 7 febbraio. In prossimità di queste date, quindi, non è da escludere che gli americani saranno costretti ad assistere ad un nuovo scontro tra i due partiti.
Le misure trasformate in legge poco dopo la mezzanotte di giovedì dalla firma del presidente avrebbero perciò rappresentato una chiara sconfitta politica per l’ala destra repubblicana che, dopo giorni di battaglia, non ha ottenuto nulla se non il precipitare del proprio indice di gradimento tra la popolazione americana.
L’avvicinarsi della scadenza che avrebbe decretato il primo clamoroso default della storia degli Stati Uniti ha alla fine convinto lo speaker della Camera, John Boehner, a fare ciò che si era rifiutato per due settimane, vale a dire portare in aula un provvedimento su bilancio e debito pubblico privo di elementi che ostacolassero l’implementazione della “riforma” sanitaria. Così, nella serata di mercoledì a Washington la Camera ha finito per approvare con una maggioranza di 285 a 144 il provvedimento licenziato poche ore prima dal Senato, dove i favorevoli erano stati 81 e 18 i contrari, tutti repubblicani.
Alla Camera, tuttavia, sono serviti i voti dell’intera delegazione democratica (198) per garantire l’approvazione del bilancio e l’aumento del debito federale, mentre 144 repubblicani su 231 hanno espresso voto contrario.
Nei giorni successivi all’inizio del cosiddetto “shutdown” del governo federale, in ogni caso, i repubblicani al Congresso avevano progressivamente fatto passare in secondo piano le loro richieste relative alla “riforma” sanitaria, sottolineando invece la necessità di tagli drastici alla spesa, in particolare quella che finanzia programmi di assistenza popolari come Medicare, Medicaid e Social Security, ritenuti “insostenibili” nel lungo periodo.
La resistenza della Casa Bianca e dei democratici al Congresso su “Obamacare”, così come l’inevitabile cedimento repubblicano su tale questione, è stata in gran parte determinata dal sostanziale appoggio garantito sia dalle compagnie di assicurazione sanitaria sia dal mondo imprenditoriale americano ad una “riforma” che consentirà ingenti risparmi sulla spesa sanitaria e porterà decine di milioni di nuovi clienti, obbligati per legge a stipulare una polizza privata.
Parallelamente, la fermezza repubblicana ha cominciato a venire meno e la risoluzione della crisi si è iniziata ad intravedere quando l’industria finanziaria americana ha mostrato tutta la propria apprensione per le conseguenze potenzialmente catastrofiche di un possibile default. Nei giorni scorsi, infatti, gli indici di borsa erano crollati significativamente in assenza di un accordo e l’agenzia di rating Fitch aveva minacciato il “downgrade” del debito USA in mancanza di un’azione del Congresso.
Come le precedenti crisi degli ultimi tre anni, anche quest’ultima risoltasi in extremis spianerà ora la strada ad un nuovo drastico ridimensionamento della spesa pubblica negli Stati Uniti, con attacchi senza precedenti che colpiranno ancora una volta le classi più disagiate.L’accordo negoziato da Reid e McConnell prevede infatti la formazione di un gruppo di lavoro presieduto dalla senatrice democratica Patty Murray e dal deputato repubblicano Paul Ryan -presidenti rispettivamente delle commissioni Bilancio di Senato e Camera - che avrà il compito di trovare un’intesa entro il 15 dicembre per ridurre il deficit federale con severi tagli alla spesa pubblica.
Al centro dei negoziati ci saranno appunto i programmi frutto delle politiche progressiste del New Deal e delle riforme degli anni Sessanta del secolo scorso, considerati fino a poco tempo fa intoccabili per entrambi gli schieramenti politici di Washington. Sotto la scure finiranno inoltre molti altri capitoli di spesa - ad esclusione di quelli relativi all’apparato della sicurezza nazionale - con pesanti tagli, tra gli altri, nel campo dell’edilizia pubblica, dell’assistenza e della sicurezza alimentare, del rispetto delle norme ambientali, dell’educazione e delle infrastrutture.
La disponibilità dei democratici a valutare misure per garantire la “sostenibilità” dei programmi di assistenza pubblici era stata d’altra parte manifestata più volte nelle ultime due settimane anche dallo stesso presidente Obama, il quale aveva chiesto ripetutamente quanto ha alla fine ottenuto mercoledì, cioè l’approvazione incondizionata del bilancio federale e dell’innalzamento del tetto del debito come condizione per aprire un negoziato sui tagli a tutto campo con i repubblicani.
Inoltre, come ha spiegato nell’annunciare l’accordo di mercoledì il leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell, le misure provvisorie approvate dal Congresso faranno proseguire il cosiddetto “sequester”, ovvero i tagli automatici alla spesa scattati nel mese di marzo e che per il solo anno in corso ammontano a 85 miliardi di dollari.
Il punto di partenza delle trattative che si svolgeranno nelle prossime settimane comprenderà poi con ogni probabilità sia gli ulteriori mille miliardi di dollari di tagli alla spesa previsti dal “sequester” per i prossimi otto anni sia una qualche “riforma” del sistema fiscale degli Stati Uniti che, per stessa ammissione di Obama, vedrà una riduzione delle aliquote sulle grandi aziende che già stanno facendo registrare profitti da record.
In definitiva, l’apparente muro contro muro tra democratici e repubblicani propagandato dai media ufficiali in questi giorni è servito a creare un clima da catastrofe imminente, così da giustificare i nuovi assalti che già si annunciano alla spesa pubblica e su cui entrambi i partiti concordano ampiamente.
Le uniche differenze, in realtà, risultano essere di natura tattica, con il partito Repubblicano apertamente schierato contro lavoratori e classe media, mentre quello Democratico, sebbene ugualmente espressione delle élite economiche e finanziarie d’oltreoceano, costretto a cercare di presentarsi come difensore dei programmi pubblici di assistenza per salvaguardare ciò che resta della propria tradizionale base elettorale.
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di Michele Paris
Una nuova serie di documenti riservati dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) pubblicati martedì dal Washington Post hanno rivelato un’ulteriore attività dell’ente governativo con sede a Fort Meade, nel Maryland, che conferma l’avanzato stato di degrado dei diritti democratici negli Stati Uniti. La più recente rivelazione apparsa grazie all’ex contractor della stessa NSA, Edward Snowden, riguarda questa volta la raccolta massiccia e indiscriminata delle liste dei contatti e-mail contenuti negli account personali di posta elettronica e in quelli di messaggistica istantanea di utenti in tutto il mondo, Stati Uniti compresi.
Questa operazione non è mai stata resa nota in precedenza e i documenti forniti da Snowden indicano come l’NSA sia in grado di appropriarsi illegalmente di dati riservati intercettandoli nel momento in cui essi “si muovono attraverso collegamenti globali”, ad esempio quando un utente effettua un log-in, compone un messaggio oppure “sincronizza un computer o un telefono cellulare con le informazioni archiviate su server remoti”.
Come accade regolarmente con gli altri programmi di intercettazione di dati telefonici e traffico internet, anche in questo caso l’NSA non procede con la raccolta mirata di informazioni in caso di utenti sospetti, ma entra in possesso delle liste di contatti in maniera indiscriminata.
La quantità dei dati così ottenuti è perciò impressionante. La sezione dell’NSA denominata Special Source Operations in un singolo giorno ha messo le mani su 444.743 indirizzi e-mail provenenti da account Yahoo, 105.068 da Hotmail, 82.857 da Facebook, 33.697 da Gmail e quasi 23 mila da altri provider. Numeri simili indicano come l’NSA entri in possesso mediamente in un anno di oltre 250 milioni di indirizzi di posta elettronica contenuti nelle liste degli utenti di tutto il mondo.Secondo quanto riportato dal Washington Post, il metodo con cui l’NSA raccoglie questi dati rende superflua qualsiasi notifica alle compagnie informatiche che li ospitano. Portavoce di Google, Microsoft e Facebook si sono infatti affrettati a dichiarare la loro estraneità al più recente programma di intercettazione di dati riservati rivelato da Snowden.
Tuttavia, come spiega ugualmente il quotidiano della capitale americana, la capacità dell’NSA di avere accesso alle liste di contatti “dipende da accordi segreti con compagnie di telecomunicazioni straniere o servizi di intelligence di paesi alleati” degli Stati Uniti.
Teoricamente, l’NSA avrebbe facoltà di raccogliere informazioni solo su cittadini stranieri, ma nella rete dell’agenzia cadono anche in questo caso numerosi contatti conservati nelle liste di utenti americani. Questo genere di dati, d’altra parte, offre preziose informazioni per l’intelligence d’oltreoceano, visto che gli elenchi dei contatti contengono spesso non solo nomi e indirizzi e-mail ma anche numeri di telefono, indirizzi postali e altro ancora.
Assieme ai dati telefonici e a quelli sul comportamento degli utenti su internet, questi ultimi permettono così agli agenti dell’NSA di delineare una mappa esaustiva della vita delle persone intercettate, comprese le loro frequentazioni e le opinioni politiche.
Questo sistema di controllo pervasivo smentisce dunque in maniera clamorosa le ripetute rassicurazioni da parte del governo americano circa le intenzioni dell’NSA, la quale opererebbe in questo modo solo per trovare informazioni legate ad attività terroristiche, mentre non ci sarebbe alcun interesse per le informazioni personali dei cittadini.
Le stesse debolissime regole create appositamente per dare una parvenza di legalità a sistemi da stato di polizia vengono inoltre puntualmente aggirate dall’NSA, dal momento che per ammissione dei vertici dell’intelligence questa agenzia non ha alcuna autorizzazione formale per raccogliere in massa liste di e-mail, così come altri dati informatici o telefonici, di cittadini americani.
L’NSA, tuttavia, ottiene le informazioni in questione da “punti di accesso in tutto il mondo”, da cui transitano appunto anche i dati degli americani, visto che compagnie come Google o Facebook utilizzano impianti situati fisicamente in svariati paesi esteri.
Queste ultime rivelazioni contribuiscono dunque a mostrare la totale assenza di scrupoli democratici del governo americano nelle proprie attività di controllo del dissenso interno e delle minacce agli interessi della propria classe dirigente in ogni angolo del pianeta.
La conoscenza da parte dell’opinione pubblica di simili operazioni non dipende, come è ovvio, dalla trasparenza del governo di Washington, bensì dal coraggio di persone come Snowden, le quali, per le loro azioni che forniscono un servizio di grandissimo valore vengono spesso perseguiti in maniera feroce.A mettere in luce i metodi punitivi adottati dall’amministrazione Obama contro i propri critici e i cosiddetti “whistleblowers”, cioè coloro che dall’interno del governo rivelano abusi e crimini a cui hanno assistito in prima persona, è stata una recente indagine del Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), un’organizzazione che promuove la libertà di stampa con sede a New York.
Secondo l’autore del rapporto, il docente di giornalismo presso l’università statale dell’Arizona Leonard Downie, “la guerra lanciata dall’amministrazione Obama contro le fughe di notizie e i suoi sforzi per controllare l’informazione non hanno precedenti per aggressività”.
Dalle testimonianze raccolte dal CPJ sulla questione, appaiono evidenti, tra l’altro, i tentativi di impedire l’accesso da parte dei giornalisti alle fonti interne al governo, le intimidazioni contro le testate e i singoli reporter e il controllo del flusso di informazioni alla stampa a seconda dei propri interessi.
Il quadro che emerge appare più consono ad una dittatura che ad un paese democratico e questo scenario risulta ancora più allarmante alla luce della promessa di assoluta trasparenza fatta nel 2008 in campagna elettorale da Barack Obama dopo l’eccessiva segretezza dell’amministrazione Bush.
Appena installato alla Casa Bianca, infatti, lo stesso Obama si è rapidamente adeguato ai sistemi ormai consolidati dell’apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, adottando addirittura misure ben più severe del suo predecessore, in linea con le crescenti necessità di controllo delle informazioni di un regime sempre più screditato e impopolare.
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di Michele Paris
I governi di Stati Uniti e Afghanistan sembrano avere fatto nei giorni scorsi un significativo passo avanti verso la stipula di un sofferto accordo militare bilaterale per mantenere un numero significativo di truppe americane sul territorio del paese centro-asiatico dopo il ritiro della maggior parte delle forze di occupazione NATO alla fine del 2014.
L’annuncio di una bozza preliminare di accordo è stato fatto nello scorso fine settimana, in seguito a due giorni di serrate discussioni tra il presidente afgano, Hamid Karzai, e il segretario di Stato americano, John Kerry. La stesura di un testo definitivo approvato da entrambe le parti appare però ancora relativamente lontana e dipenderà, in sostanza, dal grado in cui Washington e Kabul riusciranno a superare o a resistere la diffusa ostilità tra la popolazione locale per una presenza statunitense continuata in Afghanistan.
Secondo quanto riferito alla stampa dai diplomatici americani, il documento su cui Kerry e Karzai avrebbero raggiunto un’intesa di massima dovrà essere sottoposto ad un processo di revisione legale negli Stati Uniti, anche se l’amministrazione Obama vorrebbe mandare in porto l’accordo definitivo già entro la fine di ottobre.
Le maggiori preoccupazioni riguardano tuttavia l’approvazione dell’accordo da parte di un’assemblea tradizionale di leader tribali afgani (“Loya Jirga”) a cui Karzai intende rivolgersi per dare una qualche legittimità ad una misura tutt’altro che gradita alla popolazione e che perpetuerebbe per molti anni la presenza militare americana nel paese.
In particolare, uno dei punti più controversi risulta essere l’immunità legale da assicurare ai militari statunitensi dispiegati sul territorio afgano e su cui le autorità di Washington appaiono irremovibili. Lo stesso Kerry è stato infatti estremamente chiaro, affermando che, “se la questione della giurisdizione [immunità] non dovesse essere risolta, purtroppo non ci sarà alcun accordo bilaterale”.Dal momento che un’occupazione come quella in corso da oltre un decennio in Afghanistan contro il volere della maggioranza della popolazione richiede il ricorso a metodi brutali - evidenziati dagli innumerevoli crimini commessi dai militari stranieri in questi anni - la richiesta di giudicare negli Stati Uniti coloro che violano le leggi locali è una condizione imprescindibile per qualsiasi accordo con Kabul.
Sulle trattative pesa anche il precedente dell’Iraq del 2011, quando la mancata intesa con il governo Maliki sulla stessa questione dell’immunità contribuì a far naufragare le trattative per la permanenza indefinita nel paese che fu di Saddam Hussein di un contingente militare americano dopo il ritiro previsto per la fine di quell’anno.
Un’altra disputa che sta complicando i negoziati tra Washington e Kabul è poi quella legata alle operazioni “anti-terrorismo” condotte dalle forze speciali americane e che si risolvono puntualmente in un motivo di imbarazzo per il governo afgano. Queste operazioni sono profondamente avversate dalla popolazione, visto che consistono spesso in assalti notturni ad abitazioni private con “danni collaterali” di civili tutt’altro che trascurabili.
Sulle operazioni delle forze speciali a stelle e strisce, le quali mettono in discussione anche la sovranità stessa dello stato afgano, Karzai ha spesso dovuto esprimere pubblicamente la propria condanna nei confronti degli Stati Uniti. La delicatezza della questione è apparsa evidente ancora una volta proprio nel fine settimana, quando gli americani hanno “catturato” in territorio afgano un leader dei Talebani pakistani - Latif Mehsud - mentre era sotto custodia proprio del governo di Kabul.
In definitiva, Karzai si ritrova a dover cercare a tutti i costi di finalizzare un accordo militare con gli Stati Uniti di fronte alle resistenze manifestate contro di esso dalla maggioranza degli afgani poiché dalla presenza a lungo termine delle forze di occupazione dipende la sua permanenza al potere e quella della sua cerchia familiare. Anche se non potrà ricandidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo mese di aprile, Karzai ha comunque bisogno del sostegno e della presenza americana per garantire un passaggio di consegne indolore ad un futuro presidente di sua scelta.
La classe dirigente afgana, più in generale, vede con favore la prosecuzione dell’occupazione americana, non solo perché deve a Washington la propria posizione di privilegio ma soprattutto perché la situazione della sicurezza nel paese asiatico è tornata a deteriorarsi negli ultimi tempi. Le forze di sicurezza locali non sono infatti in grado di operare autonomamente e un eventuale abbandono dell’Afghanistan da parte del contingente NATO riporterebbe con ogni probabilità al potere i Talebani, con i quali oltretutto il complicato processo di pacificazione ha subito una nuova battuta d’arresto dopo l’ennesimo annuncio dell’apertura del dialogo qualche settimana fa.Allo stesso tempo, Karzai è ben consapevole che la presenza di una forza occupante in Afghanistan contribuisce ad alimentare l’instabilità e le tensioni nel paese. Come ha spiegato in un’intervista al Wall Street Journal nel fine settimana Shahmahmood Miakhel, responsabile per l’Afghanistan del think tank di Washington U.S. Institute for Peace, Karzai perciò “vuole il trattato bilaterale sulla sicurezza ma non ne vuole la responsabilità”.
Anche per questa ragione, Karzai ha deciso di sottoporre la questione ad un’assemblea tribale che, però, non rappresenta tanto il volere della popolazione quanto i leader locali afgani, spesso fedeli allo stesso presidente e comunque esposti alle pressioni e alle promesse del governo centrale, soprattutto in vista delle elezioni della prossima primavera.
In ogni caso, questa sorta di prova di democrazia tribale per decidere il futuro dell’accordo bilaterale con Washington dovrebbe tenersi entro un mese e ad essa parteciperà qualche centinaia di persone, una parte delle quali hanno già approvato negli ultimi anni svariate iniziative del presidente Karzai, compresa la sua elezione alla guida del paese nel 2002.