- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Le più recenti rivelazioni delle attività spionistiche illegali dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) ai danni dei leader di molti paesi alleati, stanno provocando tensioni senza precedenti nei rapporti bilaterali con Washington, tanto da spingere in questi giorni l’amministrazione Obama e i leader del Congresso a promettere una qualche “revisione” delle pratiche rivelate da Edward Snowden.
Il compito di attaccare l’NSA dopo la pubblicazione dei programmi di intercettazione ai danni della cancelliera tedesca, Angela Merkel, e delle linee telefoniche francesi e spagnole è stato affidato questa settimana alla numero uno della commissione per i servizi segreti del Senato USA, Dianne Feinstein.
La senatrice democratica della California è stata nei mesi scorsi una delle più convinte sostenitrici degli abusi dell’agenzia con sede a Fort Meade, nel Maryland, e le sue critiche nei confronti dell’NSA servono perciò a dare l’impressione di una classe politica impegnata ad evitare o quanto meno a limitare la violazione dei diritti democratici da parte dell’apparato della sicurezza nazionale statunitense.
La Feinstein ha perciò annunciato una “revisione totale” dei programmi di sorveglianza del governo da parte della sua commissione, aggiungendo che la Casa Bianca potrebbe decidere a breve lo stop alle intercettazioni dei leader di paesi alleati.
Dalla cerchia del presidente, tuttavia, quest’ultima notizia è stata già smentita, visto che non sarebbero ancora in vista cambiamenti significativi delle pratiche spionistiche dell’NSA. In un’intervista al Wall Street Journal, un anonimo esponente dell’amministrazione democratica ha ipotizzato, tutt’al più, possibili modifiche caso per caso.
La finta indignazione della senatrice Feinstein di fronte alle rivelazioni sulle intercettazioni della Merkel e di altri leader, inoltre, si scontra col fatto che essa stessa, in quanto presidente della commissione per i servizi segreti della Camera alta del Congresso, riceve briefing in maniera regolare sulle attività dell’NSA.
In ogni caso, i contraccolpi delle rivelazioni di Snowden stanno creando non pochi imbarazzi a Washington, così come risultano ormai diffuse tra la classe politica americana forti preoccupazioni per la crescente impopolarità di agenzie governative fuori controllo responsabili di pratiche chiaramente illegali. La “revisione” dell’attività dell’intelligence annunciata dalla senatrice Feinstein, infatti, è del tutto inedita negli ultimi quattro decenni a Washington, dal momento che l’ultima volta che una simile iniziativa venne adottata dal Congresso fu negli anni Settanta, quando la “commissione Church” indagò sulla guerra in Vietnam e sullo scandalo Watergate.Dalle parole di Dianne Feinstein appare comunque evidente l’intento di consentire all’NSA di proseguire con le proprie attività illegali, limitando se mai qualche eccesso. La senatrice democratica continua d’altra parte a ritenere del tutto legittimi i programmi di intercettazione di massa ai danni dei cittadini americani e stranieri, poiché messi in atto dopo che il governo ne ha messo al corrente il Congresso e in seguito all’approvazione del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), il quale asseconda segretamente ogni richiesta delle agenzie governative.
Non una parola sul calpestamento dei diritti costituzionali è stata così pronunciata dalla Feinstein, la quale ha soltanto chiesto di rafforzare i poteri di controllo sull’NSA della commissione di cui è alla guida. Inoltre, il processo di “revisione” appena annunciato sulle attività dei servizi segreti avverrà dietro le spalle degli americani, come conferma il fatto che le conclusioni finali attese tra alcuni mesi rimarranno classificate.
Le proteste di paesi alleati come Germania, Francia o Spagna in questi giorni sono alla base anche di altre iniziative al Congresso, dove starebbero per essere presentati due disegni di legge che riguardano l’NSA. Uno dei due, tuttavia, non scalfirebbe per nulla le attività illegali di quest’ultima agenzia, celando dietro vaghe misure volte a “rafforzare” la privacy dei cittadini la possibilità di continuare a raccogliere informazioni elettroniche riservate.
L’altro provvedimento - preparato da parlamentari libertari e teoricamente progressisti - intenderebbe invece porre fine alla raccolta di massa dei dati informatici e telefonici degli utenti senza il sospetto di attività legate al terrorismo. Una misura simile, già sconfitta di misura alla Camera dei Rappresentanti nel mese di luglio, secondo i giornali d’oltreoceano avrebbe ora buone possibilità di essere approvata, anche se difficilmente potrà superare l’ostacolo del Senato e l’eventuale veto presidenziale.
L’apertura del dibattito legislativo è stata preceduta martedì dall’audizione al Congresso dei due maggiori responsabili delle pratiche dell’NSA, il direttore della stessa agenzia, generale Keith Alexander, e il suo superiore nominale, il direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper. Le dichiarazioni pubbliche del generale Alexander, in particolare, si sono fatte sempre più inquietanti negli ultimi giorni, fino a giungere alla velata minaccia nei confronti di media e “whistleblowers” come Snowden per interrompere la diffusione di rivelazioni sui crimini dell’intelligence a stelle e strisce.
Tra i paesi bersaglio delle intercettazioni americane continua invece a crescere il malcontento, non tanto per la sorveglianza dei propri cittadini - i quali sono quasi sempre esposti al controllo segreto dei loro stessi governi con metodi simili a quelli degli Stati Uniti - quanto per il timore che Washington sia in grado di ottenere vantaggi diplomatici ed economici in maniera illegale.
Nonostante a Berlino come a Parigi o Madrid le proteste ufficiali nascondano un sostanziale intento di evitare un’escalation dello scontro con il governo americano, alcune iniziative sono già state messe in atto o sono in fase di studio. Lunedì, ad esempio, nove parlamentari europei hanno incontrato a Washington alcuni membri del Congresso ed esponenti dell’amministrazione Obama per esprimere i malumori dei rispettivi governi.
Lo stesso Parlamento Europeo ha poi ipotizzato “conseguenze”, tra l’altro, sulla condivisione con le autorità USA delle informazioni sui passeggeri dei voli internazionali nell’ambito della partnership anti-terrorismo, mentre le preoccupazioni maggiori riguardano possibili intralci alle trattative in corso sul colossale trattato di libero scambio tra Washington e Bruxelles.Lo scandalo intercettazioni, intanto, continua a coinvolgere direttamente lo stesso presidente Obama, il quale, secondo alcune rivelazioni giornalistiche del fine settimana era perfettamente al corrente delle intercettazioni delle comunicazioni telefoniche di leader come Angela Merkel.
Le reazioni della Casa Bianca sono andate finora dal rifiuto delle accuse al no-comment, mentre proprio lunedì il Los Angeles Times ha citato fonti interne all’NSA che assicurano che la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato avevano dato la loro approvazione alle intercettazioni dei leader stranieri.
Dopo mesi di rivelazioni sulle intercettazioni delle comunicazioni elettroniche di virtualmente tutti gli abitanti del pianeta, una crisi sempre più grave sta ora colpendo il governo americano, le cui pretese di mettere in atto programmi di sorveglianza unicamente per combattere la minaccia del terrorismo sono state definitivamente e clamorosamente smentite da quelle più recenti che riguardano i leader di paesi considerati fedeli alleati degli Stati Uniti.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
Nel fine settimana appena trascorso, il livello di discredito raggiunto dal sistema politico della Repubblica Ceca è apparso in tutta la sua evidenza dal fatto che il partito teoricamente vincitore delle elezioni di sabato ha incassato il suo peggiore risultato dalla divisione del paese centro-europeo dalla Slovacchia nel 1993.
A conquistare il maggior numero di seggi è stato il Partito Social Democratico Ceco (CSSD), il quale con il 20,6% dei consensi ha fatto registrare una flessione superiore al punto e mezzo percentuale rispetto al precedente appuntamento con le urne.
Il suo leader, il 42enne Bohuslav Sobotka, dovrebbe comunque ricevere l’incarico di formare un nuovo governo, anche se i 50 seggi conquistati dal suo partito sui 200 totali della Camera bassa del Parlamento di Praga renderà necessaria un’alleanza con almeno altri due partiti.
L’ago della bilancia potrebbe essere così l’Azione dei Cittadini Insoddisfatti (ANO), fondato soltanto nel 2011 dal secondo uomo più ricco della Repubblica Ceca, l’imprenditore Andrej Babis. Questo partito di ispirazione populista ha saputo capitalizzare la profonda ostilità diffusa tra la popolazione per l’intera classe politica del paese, diventando il secondo partito ceco con il 18,7% e 47 seggi.
Il più probabile partner di governo dei Social Democratici rimane però il Partito Comunista di Boemia e Moravia (KSCM) che potrebbe entrare per la prima volta al governo dopo la caduta del regime stalinista nel 1989 e due decenni di isolamento politico. Il KSCM ha sfiorato il 15%, assicurandosi 33 seggi e la seconda migliore prestazione elettorale dal 1990.A complicare gli scenari post-elettorali c’è il dichiarato rifiuto da parte dell’ultramiliardario Babis ad entrare in un esecutivo con partiti di sinistra, così che Sobotka potrebbe optare per la formazione di un governo di minoranza assieme ai Comunisti. Dopo il voto, tuttavia, Babis ha in quache modo ammorbidito i toni, affermando di essere intenzionato ad aprire ad un’iniziativa politica di Sobotka se dovesse essere rispettato il programma del suo partito.
Secondo gli osservatori, in ogni caso, la frammentazione del panorama politico ceco evidenziata dai risultati delle elezioni di sabato non farà altro che prolungare l’instabilità a Praga dopo mesi di tensioni e scandali che hanno scosso l’intero sistema.
Il voto del fine settimana, infatti, era stato indetto con svariati mesi di anticipo rispetto alla normale scadenza in seguito alla caduta nel giugno scorso del governo di centro-destra dell’ex premier, Petr Necas, coinvolto in un clamoroso caso di corruzione e intercettazioni illegali.
L’impopolarità del gabinetto guidato da quest’ultimo era però già risultata chiara nelle elezioni presidenziali del mese di febbraio, quando a imporsi sui cadidati di centro-destra era stato l’ex comunista ed ex socialdemocratico Milos Zeman.I partiti di destra sono stati così puniti in maniera severa dagli elettori. In particolare, il Partito Democratico Civico (ODS) di Necas è passato dal 20,2% del 2010 al 7,7% di sabato, con un’emoraggia di 37 seggi. Sia pure anch’esso in netta flessione, meglio dell’ODS ha fatto il partito TOP09 dell’ex ministro degli Esteri Karel Schwarzenberg con quasi il 12% dei consensi e 26 seggi. Quest’ultimo partito conservatore, secondo alcuni, potrebbe anche diventare un possibile interlocutore di governo del CSSD, visto che i due partiti hanno recentemente dato vita all’amministrazione della città di Praga.
Oltre agli scandali in cui è stato coinvolto, il governo uscente - sostituito da un gabinetto provvisorio nel mese di luglio - e i partiti che lo componevano sono stati penalizzati anche e soprattutto per l’impopolarità delle misure di austerity messe in atto negli ultimi anni in concomitanza con il deteriorarsi della situazione economica della Repubblica Ceca.
Parallelamente, i socialdemocratici e i comunisti, anche se incapaci di suscitare particolari entusiasmi, hanno potuto limitare i danni grazie ad una campagna elettorale nella quale hanno proposto, tra l’altro, un improbabile aumento della spesa pubblica e delle tasse per i redditi più elevati.
Questi due partiti, in definitiva, hanno però ampiamente deluso le aspettative della vigilia, dal momento che i sondaggi pubblicati dopo la caduta del governo Necas avevano a lungo indicato per loro la più che concreta possibilità di ottenere una comoda maggioranza nella camera bassa del Parlamento ceco.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
In concomitanza con la timida denuncia degli attacchi con i droni nel proprio paese da parte del primo ministro pakistano Nawaz Sharif nel corso di un vertice con Barack Obama alla Casa Bianca, sulle pagine del Washington Post è apparsa mercoledì un’esclusiva che ha documentato la stretta collaborazione tra i governi di Washington e Islamabad nella messa in atto di una campagna militare definita sostanzialmente criminale da due rapporti di altrettante organizzazioni a difesa dei diritti umani pubblicate questa settimana.
Se il tacito consenso del Pakistan alle incursioni dei velivoli senza pilota della CIA nelle aree tribali del nord-ovest è cosa nota, le rivelazioni del giornale della capitale americana presentano per la prima volta il contenuto degli accordi tra i due paesi su una questione a dir poco esplosiva.
I documenti in questione riguardano decine di attacchi avvenuti tra la fine del 2007 e la fine del 2011 e la maggior parte di essi sono stati redatti dalla sezione della CIA denominata Centro per l’Antiterrorismo appositamente per essere condivisi con le autorità pakistane.
Secondo il Post, la consegna dei documenti relativi ai droni al governo di Islamabad faceva parte di una vera e propria “routine diplomatica”. Tra il materiale scambiato vi erano mappe e immagini fotografiche relative alle località colpite dai missili, mentre alcuni documenti riportano esplicitamente la richiesta del governo pakistano di agire con i droni sul proprio territorio. In un documento del 2010, invece, vengono descritti una serie di obiettivi identificati in seguito ad un’operazione congiunta della CIA e dei servizi segreti pakistani (ISI).
I contatti tra le autorità americane e quelle del Pakistan avvenivano anche a Washington, dove l’ex vice-direttore della CIA, Michael Morell, era solito fare rapporto all’allora ambasciatore di Islamabad negli USA, Husain Haqqani, sullo svolgimento del programma con i droni nel suo paese.
Queste rivelazioni rappresentano un motivo di imbarazzo per il governo pakistano, il quale esprime frequentemente la propria condanna per operazioni militari profondamente impopolari tra la popolazione. Anche lo stesso Sharif, nonostante fosse all’opposizione durante il periodo coperto dai documenti pubblicati dal Washington Post, deve avere provato un certo disagio durante la conferenza stampa di mercoledì seguita al faccia a faccia con il presidente Obama.Nell’incontro con i giornalisti e in un intervento presso lo US Institute of Peace, il premier pakistano si è sentito in obbligo di sollevare i gravi disagi provocati dai droni tra la popolazione colpita, chiedendo all’amministrazione Obama di porre fine agli attacchi. La richiesta di Sharif, tuttavia, è apparsa chiaramente come un tentativo di mostrare una certa fermezza di fronte alle proteste di una parte della classe dirigente e della popolazione pakistana nei confronti delle operazioni della CIA, visto che il suo governo, come quello precedente, è ben consapevole che le incursioni non cesseranno nel prossimo futuro.
Secondo il reporter del New York Times presente alla Casa Bianca mercoledì, infatti, Sharif avrebbe espresso le proprie “critiche” alle operazioni americane con i droni “in un tono talmente sommesso da essere sentito a malapena dai giornalisti”. Inoltre, per rassicurare Obama della continua collaborazione pakistana, il premier ha subito assunto un tono più conciliante, affermando che la minaccia del terrorismo richiede “sforzi seri senza indulgere in scambi di accuse”.
L’atteggiamento ambiguo mostrato da Nawaz Sharif a Washington è rivelatore delle pressioni in cui si trova ad operare l’intera classe politica pakistana, stretta tra una popolazione visceralmente ostile agli Stati Uniti e la necessità di conservare una partnership militare con questi ultimi che si traduce in consistenti aiuti finanziari.
Sharif, oltretutto, aveva condotto una campagna elettorale all’insegna di un moderato anti-americanismo e denunciando i droni, capitalizzando l’impopolarità del partito di governo dell’ex presidente, Asif Ali Zardari, considerato troppo remissivo di fronte alle richieste degli Stati Uniti.
L’inversione di rotta del nuovo premier nei rapporti con Washington è apparsa chiara dalla relativa riconciliazione in corso con l’amministrazione Obama annunciata dai principali media d’oltreoceano. A conferma di ciò vi sarebbe il recente sblocco di oltre 1,5 miliardi di dollari in aiuti destinati al Pakistan e congelati fin dal 2011 in seguito alle tensioni con gli USA provocate dal blitz che portò all’assassinio di Osama bin Laden e ad altri episodi che hanno rappresentato chiare violazioni della sovranità del paese centro-asiatico.
Le relazioni tra i governi di Pakistan e Stati Uniti rimangono comunque problematiche, sia perché, come già accennato, Islamabad deve assecondare almeno formalmente l’ostilità diffusa nel paese verso Washington sia perché alcune delle organizzazioni fondamentaliste che operano in Afghanistan sono tradizionalmente legate alle proprie forze di sicurezza nonostante le pressioni americane per contrastarne le attività.
A questo proposito, i documenti riservati pubblicati dal Washington Post mercoledì rivelano anche come alcuni esponenti di vertice dell’amministrazione Obama - tra cui l’ex segretario di Stato, Hillary Clinton - abbiano avuto scontri accesi con le autorità pakistane dopo aver presentato loro le prove della collaborazione dei servizi segreti di questo paese con gruppi estremisti coinvolti in attacchi contro le forze di occupazione statunitensi in Afghanistan.Negli stessi documenti, infine, emergono i tentativi da parte della CIA di minimizzare i “danni collaterali” delle incursioni con i droni in Pakistan, anche se gli attacchi vengono condotti sempre più soltanto sulla base di comportamenti dei bersagli ritenuti “sospetti”, spesso senza nemmeno conoscere l’identità dei presunti militanti assassinati.
Ciò ha provocato ripetute stragi di civili innocenti nelle aree tribali al confine con l’Afghanistan, messe in luce da svariate indagini sul campo. Tra di esse, spicca quella resa nota proprio questa settimana da Amnesty International, diffusa in contemporanea con uno studio simile di Human Rights Watch relativo allo Yemen e basata sugli attacchi americani in Pakistan tra il maggio del 2012 e il luglio di quest’anno.
Quelle presentate dall’organizzazione britannica - supportate anche dal relatore speciale per i diritti umani e le attività anti-terrorismo dell’ONU, Ben Emmerson - appaiono come vere e proprie prove di crimini di guerra commessi dal governo americano attraverso l’uso dei droni, strumenti di morte impiegati non tanto per eliminare sommariamente presunti terroristi ma soprattutto per terrorizzare intere popolazioni, costrette ad accettare la presenza e la dominazione degli Stati Uniti in un’area del pianeta cruciale per i loro interessi strategici.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari
La notizia delle intercettazioni da parte della NSA statunitense verso i paesi alleati fa il giro del mondo. Dal Messico alla Francia, dalla Germania all’Italia, non c’è praticamente nessun governo che possa dire di essere stato escluso dalla colossale opera di spionaggio statunitense. Trentacinque leader politici e militari europei hanno subìto le intercettazioni di Washington.
Puntuali, proprio perché inevitabili per non perdere la faccia, le reazioni: Francia e Germania convocano i rispettivi ambasciatori Usa, annunciano iniziative in sede nazionale ed europea a tutela dell’impenetrabilità dei loro dati.
In particolare, propongono la messa all’ordine del giorno di risoluzioni europee al riguardo e avvertono come il comportamento statunitense non potrà continuare, pena una severa incrinatura nelle relazioni bilaterali. Anche l’Italia, addirittura, annuncia proteste. Washington non si scusa, figuriamoci, annuncia solo una revisione del sistema. Legittimo pensare che si rileverà inevitabile, ma solo per aggirare le contromisure che gli europei prenderanno.
E se il Commissario europeo alla Giustizia, Vivian Reding, sostiene che “sul caso Datagate è arrivato il momento di dare una risposta forte e univoca dell'Europa agli americani", addirittura Martin Shultz, Presidente del Parlamento Europeo, propone di bloccare ogni trattato di collaborazione economica e commerciale con gli USA. Auspicabile, ma non avrà seguito: si deve infatti considerare che molti leader europei sono al loro posto anche per la fedeltà agli USA e che Londra, che è il bassotto di Washington, non esiterebbe a bloccare ogni risoluzione europea nel senso indicato dal dirigente socialdemocratico tedesco.
D’altra parte gli inglesi sono stati parte integrante del sistema di spionaggio statunitense; proprio agli spioni del MI5 è stato affidata una parte consistente dell’operazione spionistica su scala globale e sempre loro si sono occupati direttamente di spiare l’Italia, i suoi uomini politici e i suoi imprenditori.
Eppure quanto proposto da Shultz sarebbe una risposta dovuta, dal momento che il motivo per il quale l’Europa è spiata dagli USA non ha niente a che vedere con la lotta al terrorismo. E’ invece parte integrante del controllo statunitense sui paesi terzi, che oltre a individuare complicità ed ostilità nei diversi governi e apparati statali, è principalmente destinato ad accumulare un preziosissimo vantaggio nelle trattative commerciali bilaterali tra USA ed ogni altro paese con cui ntavolano negoziati.Lo spionaggio di massa serve soprattutto a questo: sapere in anticipo strategie e tattiche, contenuti delle proposte, linee generali di accordi possibili e linee di demarcazioni oltre le quali ci sarebbero rotture, per presentarsi con le carte coperte su un tavolo dove gli interlocutori hanno invece le carte completamente scoperte.
Altro che compatibilità tra privacy e sicurezza, il claim preferito dal mainstream in ginocchio. E’ un sunto di pirateria e di truffa ai danni dei propri interlocutori, quint’essenza del modo con il quale Washington gestisce il rapporto con i suoi partner politici e commerciali.
C’è da aggiungere poi che la conoscenza delle conversazioni private dei politici e dei militari permette di conoscerne gli aspetti più riservati di costoro, decisivi nel caso i soggetti fossero non allineati ai desiderata statunitensi. Conoscerne i dettagli più intimi o i segreti serve, all’occorrenza, ad avviare operazioni di ricatti o corruzione al fine di ottenere cooptazioni forzate, ove utili al raggiungimento di accordi graditi.
C’è poi una parte dello scandalo del Datagate che ci riguarda direttamente. Come già in qualche modo riferito - sia pure in contesti diversi e per ambiti diversi - da Assange e da Snowden, il settimanale L’Espresso, in un’inchiesta sul numero oggi in edicola, sostiene che l'Italia non è stata soltanto nel mirino del sistema Prism creato dagli 007 statunitensi. Con un programma parallelo e convergente denominato Tempora, l'intelligence britannica ha spiato i cavi di fibre ottiche che veicolano telefonate, mail e traffico internet del nostro paese.
Le informazioni rilevanti raccolte dal Gchq, il Government communications head quarter, venivano poi scambiate con l'Nsa americana. L'attività di spionaggio globale viene svolta attraverso l'intercettazione di tutti i dati trasferiti da tre cavi in fibre ottiche sottomarini che hanno terminali in Italia. Il primo è il SeaMeWe3, con "terminale" a Mazara del Vallo. Il secondo è il SeaMeWe4, con uno snodo a Palermo, città da cui transita anche il flusso di dati del Fea (Flag Europe Asia).Sarebbero riusciti ad operare senza la collabrazione della nostra intelligence civile e militare? Secondo L’Espresso, i servizi segreti italiani erano perfettamente a conoscenza della perforazione continuata della segretezza delle conversazioni dell’intero governo italiano.
I servizi segreti italiani, stando al settimanale, avrebbero avuto un ruolo nella raccolta di metadati, dal momento che i nostri apparati di sicurezza avevano un "accordo di terzo livello" con l'ente britannico che si occupa di spiare le comunicazioni.
Atteggiamento proattivo o voluta mancata vigilanza sono le due possibilità allo studio per definire il comportamento delle nostre “barbe finte”, anche se dal Copasir smentiscono (e ti pareva). Si ripropone, come sempre, il tema della doppia obbedienza di strutture e uomini allocati nei posti strategici del nostro paese. Ove fossero però comprovate eventuali attività di sostegno diretto o indiretto da parte dei Servizi Italiani (il che sarebbe coerente con la loro storia) ci si troverebbe di fronte ad un comportamento che avrebbe ignorato e sbeffeggiato la stessa mission che li istituisce e che ne stabilisce ruolo, utilità e funzioni.
C’è poco da girarci intorno: i dirigenti dei Servizi Segreti italiani che avessero eventualmente collaborato allo spionaggio USA e GB a danno dell’Italia andrebbero rimossi, arrestati e processati per alto tradimento. Tranquilli, niente di questo succederà. I tarallucci e il vino sono già sul tavolo. Sotto allo stesso, invece, un paio di cimici.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Il rifiuto senza precedenti dell’Arabia Saudita ad occupare il seggio provvisorio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, al quale la monarchia del Golfo Persico era stata eletta la scorsa settimana, continua a far interrogare i commentatori di mezzo mondo e ad essere oggetto di intense discussioni negli ambienti diplomatici internazionali. Come è noto, l’ambasciatore saudita presso l’ONU aveva inizialmente salutato con entusiasmo l’ottenimento di un seggio per il quale il suo governo lavorava da mesi.
Successivamente, però, nella giornata di venerdì una dichiarazione ufficiale del Ministero degli Esteri di Riyadh ha annunciato la clamorosa marcia indietro, denunciando le Nazioni Unite per utilizzare “due pesi e due misure” e per “l’incapacità a svolgere le proprie funzioni”, in particolare in relazione al conflitto in Siria.
L’Arabia Saudita ritiene cioè che la paralisi e i disaccordi all’interno del Consiglio di Sicurezza abbiano consentito al regime siriano di continuare ad “uccidere la propria gente” e ad utilizzare armi chimiche “di fronte al mondo intero senza alcun deterrente o punizione”.
Oltre alla falsità delle accuse rivolte contro Damasco circa un impiego di armi chimiche probabilmente attribuibile ai “ribelli” anti-Assad, che operano proprio grazie all’assistenza saudita, la dura presa di posizione di Riyadh è giunta oltretutto dopo che per la prima volta in oltre due anni il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha trovato l’unanimità sulla Siria approvando la risoluzione 2118 per lo smantellamento dell’arsenale chimico del regime alauita.
In realtà, dunque, il rifiuto del seggio provvisorio al Consiglio di Sicurezza da parte dell’Arabia Saudita è dovuto se mai alla frustrazione diretta verso questo organismo per non essere stato in grado di autorizzare un intervento armato contro la Siria, come auspicato da Riyadh per rimuovere con la forza Bashar al-Assad.
Soprattutto, però, l’insolito gesto dei vertici sauditi, come avrebbe detto ad alcuni diplomatici occidentali lo stesso principe Bandar Bin Sultan, potente capo dell’intelligence di Riyadh e già ambasciatore a Washington per oltre due decenni, appare come “un messaggio diretto agli Stati Uniti”.L’isteria saudita ha infatti raggiunto livelli inediti in seguito alle recenti iniziative dell’amministrazione Obama in Medio Oriente, principalmente riguardo la Siria e l’Iran. L’abbandono almeno temporaneo dei piani di guerra contro Damasco e l’apertura di un confronto diretto con Teheran sul nucleare hanno suscitato le ire della casa regnante a Riyadh che ha visto seriamente minacciati i propri interessi e progetti egemonici nella regione dal comportamento del suo stesso alleato principale.
L’Arabia Saudita, d’altra parte, è uno dei paesi che ha investito maggiormente nel finanziamento e nella fornitura di armi alle milizie integraliste che si battono contro il regime di Assad in Siria. Questo sforzo rientra in una strategia più ampia volta a spezzare l’asse della resistenza sciita anti-americana e anti-saudita in Medio Oriente, al cui centro c’è precisamente la Repubblica Islamica, il cui eventuale riconoscimento come legittima potenza regionale da parte degli USA e dell’Occidente in generale rappresenta un vero e proprio incubo per Riyadh.
L’allarme suonato tra i vertici di uno dei regimi più retrogradi e anti-democratici del pianeta è apparso in tutta la sua evidenza in un dettagliato articolo pubblicato martedì dal Wall Street Journal, nel quale viene descritto come il principe Bandar Bin Sultan starebbe pianificando un certo ridimensionamento della collaborazione con gli Stati Uniti per addestrare e sostenere finanziariamente le formazioni “ribelli” in Siria.
Secondo il quotidiano newyorchese, l’aggravamento delle tensioni tra i due alleati era iniziato alcuni mesi fa e due episodi in particolare nelle ultime settimane hanno ulteriormente allarmato i sauditi. Nel primo caso, dopo che Riyadh aveva chiesto a Washington i piani dettagliati relativi alle navi da guerra USA da posizionare a difesa dei centri petroliferi sauditi in vista dell’aggressione contro la Siria, l’amministrazione Obama ha risposto che le proprie forze navali non sarebbero state in grado di difendere pienamente queste strutture situate nella provincia orientale del paese alleato.
Nel secondo caso, descritto da un anonimo diplomatico occidentale, l’Arabia Saudita avrebbe richiesto invece agli americani la lista degli obiettivi da colpire in Siria nel tentativo di avanzare la partnership militare con Washington, ma senza ottenere risposta.
In conseguenza di questi due incidenti diplomatici, i sauditi avrebbero così comunicato agli americani l’intenzione di valutare possibili alternative alla tradizionale collaborazione in materia di difesa, sottolineando il proposito di “cercare buoni armamenti a prezzi convenienti” da qualsiasi fornitore.
Lo stesso pezzo del Wall Street Journal è pervaso poi da commenti di svariati diplomatici europei e americani che, a conferma delle preoccupazioni ugualmente diffuse a Washington e a Bruxelles per le tensioni tra i due alleati, descrivono ad esempio i sauditi come “adirati” o “molto preoccupati per il fatto di non sapere dove vogliano andare gli Stati Uniti”.Il deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita, in ogni caso, è un’altra delle conseguenze dell’interventismo di Washington in Medio Oriente per promuovere i propri interessi strategici e che, puntualmente, contribuisce ad alimentare le rivalità regionali. Il relativo raffreddamento dei rapporti tra i due alleati potrebbe così aggravare ulteriormente l’instabilità di tutta l’area, dal momento che Riyadh controlla e utilizza secondo le proprie necessità non solo l’arma del petrolio ma anche formazioni fondamentaliste violente, come sta accadendo in Siria.
Più in generale, come ha fatto notare una recente analisi del quotidiano libanese Al Akhbar, la crisi che deve fronteggiare l’Arabia Saudita dipende anche dalla diminuita dipendenza americana dal petrolio di questo paese rispetto a qualche anno fa, soprattutto dopo la scoperta e lo sfruttamento di giacimenti in territorio americano che stanno trasformando gli USA in un esportatore netto di greggio e gas naturale.
Il rapporto con l’Arabia, comunque, rimane per il momento di primaria importanza per gli Stati Uniti, come conferma il tentativo fatto dal Segretario di Stato americano, John Kerry, nella giornata di lunedì, quando ha incontrato a Parigi la sua controparte saudita, principe Saud al-Faisal, per confortare il regime e convincerlo ad accettare il seggio al Consiglio di Sicurezza.
Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha infine fatto sapere di non avere ancora ricevuto alcuna comunicazione formale da parte di Riyadh circa la rinuncia annunciata settimana scorsa, lasciando aperto uno spiraglio per un ripensamento. Uno scenario, quest’ultimo, tutt’altro che da escludere, soprattutto se la monarchia assoluta saudita dovesse essere sufficientemente rassicurata sulle intenzioni ultime degli Stati Uniti di mantenere alta la pressione sia su Damasco che su Teheran al di là dei modesti passi avanti sul fronte diplomatico compiuti nelle ultime settimane.