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di Emanuela Muzzi
Londra. Qui la chiamano "royal charter". E’ un decreto legge sulla regolamentazione dei quotidiani inglesi, ma il senso, nonostante il fascino del sound anglosassone, resta sempre quello: legge bavaglio. Il voto sul disegno di legge che propone l’introduzione di un’autorità di controllo sull’autoregolamentazione della carta stampata, è atteso per il prossimo 30 Ottobre. Nel frattempo la polemica impazza e sconfina nei blog: nel piovoso weekend i giornalisti inglesi si sono chiusi in casa a twittare contro la “press regulation”.
Il vento freddo che spiffera dalle porte dell’inverno ha portato con sé la brutta notizia della bozza in arrivo. Una proposta “tripartisan” sottoscritta di buon grado dai tre leader di partito; il Premier David Cameron (Conservatori), il vice premier Nick Clegg (Liberal Democratici, partito di coalizione), ed il leader dell’opposizione Ed Miliband (Labour). Mai visti i tre così sorridenti, d’amore e d’accordo: del resto, quando si tratta di dare a stampa e giornalisti il “giusto ed etico codice di condotta” non si tirano indietro. Nel caso venisse approvata, la legge potrebbe anche subire degli emendamenti approvati con i tre quarti dei voti sia ai Lords che ai Comuni.
Background: l’esigenza di imporre una forma di "press regulation" risale allo scandalo “phone hackings”, quelle che chiameremmo volgarmente intercettazioni: i “giornalisti” di News of the World e testate affini (come il The Sun tra gli altri) di proprietà di Rupert Murdoch, hanno fatto per anni un uso sicuramente non etico e poco limitato di piccoli dispositivi sensibili al suono, dimenticandosi di avvertire centinaia di vittime - come ad esempio i genitori della bimba scomparsa Madeleine McCann, fino a Prince William - che i loro telefoni, segreterie telefoniche, cellulari e così via erano costantemente monitorati da giornalisti, e in nei casi più gravi, anche da Scotland Yard.
Con l’ammissione da parte dei giornalisti dell’allora The News of the World di aver intercettato il telefono dell’adolescente inglese Milly Dowler nel lasso di tempo tra il rapimento e l’assassinio, nel 2002, si è infine toccato il fondo: è un punto di non ritorno, una pagina nera della storia del giornalismo.
Il phone hacking scandal era finito su tutti i giornali, anche su quelli di Murdoch: la faccia rugosa del patron di Sky e la chioma rossa al vento della ex executive di News International, Rebekah Brooks, hanno tenuto banco dalla prima pagina del Financial Times. Sulla fonte privilegiata della finanza anglosassone ed internazionale si approfondiva l’ipotesi del tentativo da parte del governo inglese di evitare tramite la Leveson Inquiry l’offerta di acquisto da parte di Murdoch su BskyB per impedirgli di acquisire una posizione di monopolio sui media britannici.
La notizia campeggiava però fino sulle pagine patinate di Vogue, dove chi voleva sapere se Hugh Grant mentre protestava a squarciagola contro il phone hacking di fronte al Parlamento avesse perso qualche chilo, poteva trovare soddisfazione.
Il Gran Finale: i protagonisti sono, quasi tutti, finiti sul banco degli imputati di fronte al giudice Leveson. Sì, gli arresti ci sono stati, i Murdoch hanno subito un parziale ridimensionamento dell’impero con un danno d’immagine fino alla seconda generazione: in seguito all’inchiesta James Murdoch aveva lasciato al poltrona di Ceo del gruppo NGN News Group Newspapers, la holding che controlla il Sun e il Times.Ma tutto questo a Westminster oggi non basta; bisogna estirpare la mala erba dalla radice: ci vuole legge che regoli il Quarto potere, ma che sia applicabile a tutta la stampa e non solo ai responsabili che hanno ridotto ruolo, prassi e contenuti del giornalismo, nonché la figura del giornalista, al livello dei dilettanti di X Factor e degli “zori” del Grande Fratello.
Un giornalismo d’intrattenimento e di consumo mutuato dal modello televisivo di Sky e sconfinato sui quotidiani che pagina dopo pagina rincorrono a fatica il nonsense delle news minuto per minuto. Questi sono i danni che ancora paghiamo nell’era post-Murdoch.
Lo scenario: Fare una regolamentazione ad hoc non è possibile del resto, né nel Regno Unito né altrove e certamente ogni forma di regolamentazione non deve certo venire dal Parlamento e dall’establishment. Va detto che un codice etico del giornalismo già esiste ed una chiara legge sulle intercettazioni è già in vigore in Inghilterra. La parola resta ai gruppi editoriali dei quotidiani che sono comunque chiamati a sottoscrivere la "royal charter". Sembra che non siano intenzionati a farlo.
Bob Satchwell, a capo della Società degli editori (che include anche televisioni e radio britanniche) ha rivendicato l’indipendenza della stampa; tuona dagli schermi della BBC con una voce degli anni Cinquanta che è un tuffo nel passato delle democrazie post Seconda Guerra. Quando tutto, anche i diritti fondamentali, era da ricostruire.
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di Michele Paris
Con l’inizio di questa settimana si è aperto negli Stati Uniti il nuovo anno giudiziario della Corte Suprema che, come nei due precedenti, finirà per valutare ed eventualmente deliberare su una serie di importanti questioni costituzionali emerse durante i dibattimenti nei tribunali inferiori. Come è ormai consueto per la Corte guidata da otto anni dal giudice capo (“chief justice”), John Roberts, i prossimi mesi vedranno con ogni probabilità una serie di sentenze in gran parte destinate a comprimere i diritti democratici individuali e a promuovere gli interessi delle corporations e delle classi privilegiate.
Il caso sul quale potrebbe concentrarsi la maggiore attenzione mediatica riguarda i limiti delle donazioni che singoli individui possono elargire ai candidati a pubblici uffici e che minaccia di abbattere definitivamente i limiti imposti per legge alla quantità di denaro destinata alle campagne elettorali dei politici americani.
La Corte Suprema aveva già affrontato questo tema nel 2010 con la storica sentenza nel caso “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale”, nella quale era stato cancellato il tetto massimo dei contributi a favore di gruppi o associazioni che sostengono determinati candidati, purché le loro campagne non vengano coordinate con questi ultimi.
Nel nuovo caso che il tribunale ha iniziato a discutere già martedì - “McCutcheon contro Commissione Elettorale Federale” - in pericolo è invece il limite stabilito per le donazioni dirette ai candidati e ai partiti, basato a sua volta su un verdetto della Corte Suprema del 1976 (“Buckley contro Valeo”). L’appello era scaturito da una causa intentata da un uomo d’affari dell’Alabama (Shaun McCutcheon) che riteneva incostituzionale, perché lesivo del diritto di espressione, il tetto di 123 mila dollari che ogni singolo donatore può versare complessivamente a candidati per cariche federali in un periodo di due anni.
L’attuale Corte a maggioranza conservatrice, secondo gli osservatori, appare decisamente propensa ad abbattere una delle residue barriere alla totale influenza del denaro sulla vita politica americana e, per raggiungere questo obiettivo, potenti forze politiche si sono già attivate, come dimostra l’intervento a favore della cancellazione di ogni limite alle donazioni fatto di fronte ai nove giudici supremi nella giornata di martedì da un legale del leader di minoranza al Senato, il repubblicano Mitch McConnell.All’attenzione del supremo tribunale degli Stati Uniti arriverà poi anche un altro caso di estrema rilevanza e con il potenziale di ridefinire alcuni dei poteri attribuiti al presidente (“National Labor Relations Board contro Noel Canning”). La questione verte attorno alla facoltà degli inquilini della Casa Bianca di nominare membri del governo o di agenzie governative senza il voto costituzionalmente richiesto del Senato.
Il presidente, in realtà, è autorizzato a fare i cosiddetti “recess appointments” quando il Senato non è riunito ma queste nomine, per risultare definitive, devono essere confermate da un voto della stessa camera alta del Congresso entro la fine della sessione successiva. Anche in questo caso, l’appello alla Corte Suprema è stato promosso dagli ambienti di destra negli Stati Uniti in seguito alla nomina da parte di Obama di alcuni membri del National Labor Relations Board - l’agenzia governativa che dovrebbe contrastare le pratiche illegali messe in atto contro i lavoratori dalle aziende - in un periodo in cui il Senato non era in sessione, così da superare l’ostruzionismo repubblicano.
La scottante questione dell’aborto potrebbe inoltre essere affrontata dai giudici della Corte Suprema, i quali si ritroveranno a decidere sull’ammissibilità di due casi: “McCullen contro Coakley” e “Cline contro Oklahoma Coalition for Reproductive Justice”. Il primo riguarda la costituzionalità di una legge dello stato del Massachusetts - simile ad un’altra del Colorado ritenuta legittima dalla Corte Suprema nel 2000 - che limita le manifestazioni di protesta nei pressi di strutture mediche che praticano le interruzioni di gravidanza, mentre il secondo ha a che fare con la facoltà dei singoli stati di restringere il ricorso a medicinali che inducono l’aborto.
Il diritto all’aborto, sancito con la storica sentenza “Roe contro Wade” del 1973, è sotto attacco ormai da alcuni anni negli Stati Uniti, soprattutto a livello statale con provvedimenti messi in atto da amministrazioni repubblicane che, ad esempio, stanno imponendo regolamentazioni difficili da rispettare per le cliniche mediche o riducono drasticamente il numero di settimane di gravidanza oltre le quali l’aborto viene dichiarato illegale.In molti tra gli anti-abortisti americani spingono però per portare la questione all’attenzione della Corte Suprema, nella speranza che lo spostamento a destra del tribunale durante la presidenza Roberts possa quanto meno gettare le basi per un futuro smantellamento del diritto stabilito con la già ricordata sentenza del 1973.
Dopo la sostanziale conferma della legittimità della “riforma” sanitaria di Obama durante l’anno giudiziario appena terminato, la Corte Suprema potrebbe tornare ad occuparsi di questo argomento, questa volta per valutare un aspetto caro all’integralismo religioso d’oltreoceano. Ribaltando il senso stesso del dettato costituzionale - che stabilisce la laicità della repubblica - sulla base della libertà di religione, coloro che promuovono il caso in questione vorrebbero vedere abolito l’obbligo previsto dalla “riforma” sanitaria che le aziende americane hanno di includere la fornitura di contraccettivi all’interno dei piani di assicurazione offerti ai loro dipendenti.
La laicità delle istituzioni civili sarà in gioco anche nel caso “Città di Greece contro Galloway”, nel quale i nove giudici potrebbero considerare la pratica delle autorità della località dello stato di New York di iniziare ogni assemblea pubblica con una preghiera religiosa.
Tra i numerosissimi casi che la Corte Suprema dovrà decidere se discutere o meno ce n’è infine uno che potrebbe assestare un ulteriore colpo al diritto alla privacy negli Stati Uniti. In “Stati Uniti contro Wurie”, infatti, verrà valutato se il Quarto Emendamento della Costituzione consente alla polizia di esaminare senza l’autorizzazione di un tribunale il contenuto del telefono cellulare di una persona arrestata legalmente.
Sull’esito delle cause che verranno discusse, infine, peserà l’orientamento sempre più conservatore e pro-business dell’attuale Corte Suprema, in particolare in seguito alla nomina da parte di George W. Bush del giudice Samuel Alito nel 2006 al posto della moderata Sandra Day O’Connor. Gli equilibri interni, però, nella maggior parte dei casi più delicati continuano ad essere decisi dal cosiddetto “swing justice” Anthony Kennedy, il quale si schiera alternativamente con i quattro giudici moderati (Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Sonia Sotomayor, Elena Kagan) o, sempre più spesso, con i quattro ultra-conservatori (Roberts, Alito, Clarence Thomas, Antonin Scalia).
I casi che la Corte Suprema deciderà di discutere nei prossimi mesi saranno comunque come di consueto soltanto alcune decine sulle migliaia che vengono sottoposti alla sua attenzione e i criteri di selezione risponderanno sempre più a ragioni di ordine politico, dettate in gran parte dall’agenda conservatrice della maggioranza dei giudici che fanno parte del più alto tribunale degli Stati Uniti d’America.
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di Michele Paris
Pur senza particolare entusiasmo, nella giornata di mercoledì il presidente Obama ha nominato ufficialmente l’economista Janet Yellen alla guida della Federal Reserve degli Stati Uniti. L’attuale vice del presidente uscente, Ben Bernanke, non ha infatti legami particolarmente solidi con l’amministrazione democratica ma era recentemente diventata l’unica candidata per dirigere la Banca Centrale più influente del pianeta in seguito al ritiro di Larry Summers.
Jenet Jellen, 67enne nativa di Brooklyn, dopo gli studi in economia a Yale, ha insegnato all’università di Berkeley per un decennio prima di entrare a far parte, nel 1994, del consiglio direttivo della Fed. Nel 1997 lasciò quest’ultimo incarico per diventare la prima consigliera economica del presidente Clinton, mentre a partire dal 2004 ha guidato la sede della Banca Centrale americana di San Francisco per poi essere promossa, nel 2010, all’incarico attualmente ricoperto che l’ha infine proiettata verso la presidenza di quella che viene universalmente considerata come l’istituzione finanziaria più importante del pianeta.
Il naufragio della candidatura di Summers é stato la diretta conseguenza dei malumori espressi dalle banche di Wall Street nelle ultime settimane per il possibile ritiro in tempi brevi delle misure di “stimolo” all’economia che il controverso segretario al Tesoro durante l’amministrazione Clinton si era permesso di ipotizzare.Janet Yellen è considerata invece una degli architetti dell’aggressiva politica monetaria messa in atto dalla Fed di Bernanke da qualche tempo a questa parte (“quantitative easing”) e fondata principalmente su tassi di interessi prossimi allo zero e sull’immissione nei mercati finanziari di liquidità pari a 85 miliardi di dollari al mese tramite l’acquisto di bond.
Questa strategia, secondo la versione ufficiale, dovrebbe servire a stimolare la crescita economica e a ridurre il livello di disoccupazione ma si risolve in realtà in una promozione della speculazione finanziaria, come dimostra la crescita artificiosa dei mercati con il rischio di una nuova bolla pronta ad esplodere nel prossimo futuro. Se confermata dal Senato, colei che dovrebbe diventare la prima donna a capo della Banca Centrale di una delle prime economie del pianeta, garantirà dunque quasi certamente la prosecuzione del “quantitative easing” gradito da Wall Street.
Per questo motivo, sia i democratici che alcuni repubblicani stanno già esprimendo il loro gradimento per la scelta di Obama, facendo intravedere perciò un processo di conferma tutt’altro che faticoso. Molti compagni di partito del presidente, d’altra parte, avevano manifestato durante l’estate la loro opposizione alla candidatura di Summers, ufficialmente per il suo coinvolgimento durante l’amministrazione Clinton nel processo di deregolamentazione dell’industria finanziaria, spianando di fatto la strada a Janet Yellen.
Obama, da parte sua, facendo cinicamente riferimento alle credenziali “liberal” della neo-nominata alla presidenza della Fed, nel dare l’annuncio della sua decisione ha definito la Yellen come “una campionessa delle famiglie e dei lavoratori americani”, quando la scelta è stata determinata invece dalle pressioni fatte più o meno apertamente dai colossi finanziari di Wall Street, spaventati per le conseguenze di un eventuale rallentamento delle misure di “stimolo” di cui essi stanno ampiamente beneficiando.Come già anticipato, inoltre, i senatori democratici appaiono entusiasti per la scelta di Janet Yellen, tanto che qualche settimana fa una ventina di loro aveva preso un’iniziativa insolita a favore di quest’ultima, inviando cioè una lettera a Obama per chiedergli di optare per la vice di Bernanke alla guida della Fed.
Con l’ormai quasi certezza della nomina di Janet Yellen, così, già martedì gli indici di borsa avevano fatto segnare sensibili rialzi, anche se i segni negativi sono riapparsi in fretta per l’effetto dello stallo al Congresso sul bilancio federale e l’innalzamento del tetto del debito pubblico.
Sulla sponda repubblicana sembra esserci maggiore freddezza, in particolare per il timore che l’aggressiva politica monetaria messa in atto in questi anni possa far risalire i livelli di inflazione e riesplodere una rovinosa bolla speculativa. L’approvazione per la Yellen mostrata da Wall Street, tuttavia, dovrebbe garantirle l’ottenimento dei 60 voti al Senato necessari per farla succedere al suo attuale superiore a partire dal primo febbraio prossimo. Se così sarà, Janet Yellen sarà la prima presidente della Fed installata da un presidente democratico dal 1979, quando Jimmy Carter scelse Paul Volcker.
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di Michele Paris
Mentre la chiusura degli uffici governativi americani entra martedì nella seconda settimana, a Washington non sembra essere in vista nessun accordo tra democratici e repubblicani sull’approvazione del bilancio federale che metta fine al cosiddetto “shutdown”. Anzi, l’impasse attuale appare destinata sempre più a confluire in un’altra questione controversa e ancora più delicata, cioè quella dell’innalzamento del livello del debito pubblico che dovrà essere autorizzato poco dopo la metà di ottobre per evitare il primo clamoroso default della storia degli Stati Uniti.
A respingere ogni ipotesi di sbloccare la situazione con un pacchetto di emergenza per finanziare il governo almeno per alcune settimane è stato nel fine settimana lo speaker della Camera dei Rappresentanti, John Boehner. Apparso domenica sulla ABC, il leader repubblicano ha ribadito la posizione dell’ala più conservatrice del suo partito, la quale è disponibile a dare il via libera al bilancio 2013/2014 solo in cambio di consistenti concessioni da parte democratica che limitino l’entrata in vigore della “riforma” sanitaria di Obama.
La battaglia condotta dai deputati repubblicani vicini ai Tea Party non è in realtà condivisa da tutto il partito, all’interno del quale sono in molti a temere le ripercussioni politiche causate dalle responsabilità per la paralisi del governo iniziata ufficialmente alla mezzanotte di martedì scorso.
Non pochi tra gli stessi repubblicani, infatti, vorrebbero che Boehner mettesse in calendario un voto alla Camera per approvare il bilancio licenziato dal Senato senza emendamenti relativi alla “riforma” sanitaria, poiché certi che esista una maggioranza trasversale. Il deputato di New York, Peter King, lo ha ad esempio confermato domenica alla stampa USA, rivelando che i repubblicani disposti a rompere con i compagni di partito più intransigenti sarebbero tra i 50 e i 75, se non addirittura 150 in caso di voto segreto. Numeri simili, sommati ai deputati democratici, consentirebbero il passaggio senza difficoltà del nuovo bilancio secondo la versione già approvata dal Senato.
Boehner, tuttavia, continua ad affermare il contrario e, in ogni caso, ha ribadito di non volere portare in aula un provvedimento di questo genere, rimanendo per ora sulla linea dei suoi colleghi conservatori, verosimilmente per non danneggiare ulteriormente la sua leadership con nuovi attacchi dalla destra del partito.Mostrando un ulteriore irrigidimento della propria posizione, Boehner ha inoltre confermato che la Camera non approverà nemmeno l’innalzamento del tetto del debito federale senza concessioni da parte della Casa Bianca e dei democratici al Congresso. Con un cambiamento di strategia estremamente significativo, lo speaker ha però lasciato intendere che l’obiettivo repubblicano in questo caso non sarà tanto la “riforma” sanitaria, bensì programmi pubblici come Medicare e Social Security.
Dal momento che l’amministrazione Obama ha mostrato una totale chiusura sulla legge del 2010 destinata a tagliare i costi, la quantità e la qualità dei servizi sanitari negli Stati Uniti, i due partiti potrebbero così accordarsi sulla riduzione della spesa pubblica, attorno alla quale i democratici continuano a mostrare più di un’apertura.
La necessità di intervenire per rendere “sostenibili” sia i programmi di assistenza sanitaria destinati agli americani più anziani che l’insieme di benefit di cui godono i pensionati, è stata perciò ripetuta da Boehner nella giornata di domenica, quando contemporaneamente il segretario al Tesoro, Jacob Lew, ha confermato la disponibilità del presidente democratico a trattare con i repubblicani su questi temi.
Nel linguaggio della politica di Washington, com’è ovvio, la garanzia della “sostenibilità” di questi popolari programmi pubblici nel lungo periodo si traduce in tagli sostanziali che ne alterino la natura stessa o nel restringerne drasticamente l’accesso. Il tutto, come ha tenuto a spiegare lo stesso Boehner, senza concedere in cambio alcun aumento del carico fiscale per i redditi più elevati.
Ciò che i democratici proporranno nelle trattative sul tetto del debito - il cui sforamento è previsto per il 17 ottobre - sarà invece una sorta di riforma fiscale, che dovrebbe concretizzarsi in una riduzione delle aliquote per i redditi più elevati da compensare con la cancellazione di trascurabili scappatoie legali che consentono alle corporation e ai più ricchi di abbattere le tasse da pagare.In definitiva, lo stallo sul bilancio federale e sul livello di indebitamento degli Stati Uniti viene nuovamente sfruttato ad arte dai due partiti di Washington per creare il consueto clima di crisi come è già stato fatto più volte negli ultimi tre anni, così da trasformare una situazione apparentemente di scontro in un esito condiviso che spiani la strada a nuovi attacchi a programmi pubblici essenziali da cui dipende la sopravvivenza di decine di milioni di persone.
Non a caso, infatti, nei corridoi di Washington comincia a circolare una nuova ipotesi relativa al cosiddetto “grande accordo” bipartisan, continuamente evocato nel recente passato e mai andato in porto. In uno scenario sufficientemente drammatico, questa opzione potrebbe essere presa finalmente in considerazione da entrambi gli schieramenti, in modo da combinare in un unico pacchetto il nuovo bilancio federale, l’innalzamento del tetto del debito, la “riforma” del fisco e, soprattutto, i tagli alla spesa pubblica che ridimensionerebbero i programmi destinati alle fasce più deboli della popolazione.
A riproporre il “grand bargain”, secondo quanto riportato dalla testata on-line Politico.com, sarebbe stato lo stesso John Boehner nel corso di un incontro con Obama alla Casa Bianca. Se l’idea sarebbe stata accolta con ironia dai presenti visto il fallimento nel raggiungere un accordo di questo genere in passato, essa starebbe raccogliendo sempre maggiore seguito sia tra i repubblicani che i democratici, entrambi intenzionati ad uscire quanto prima dallo stallo in corso e a far segnare passi avanti verso lo smantellamento di programmi pubblici che, dal loro punto di vista, non rappresentano altro che uno spreco di risorse da indirizzare piuttosto ai grandi interessi a cui fanno unicamente riferimento.
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di Mario Lombardo
Con il presidente Obama costretto ad annullare almeno parzialmente il suo viaggio della settimana prossima in Asia sud-orientale, altri due membri di spicco dell’amministrazione democratica di Washington sono stati inviati in questi giorni in una regione fondamentale per gli interessi americani sempre più in competizione con quelli di Pechino.
Il segretario di Stato, John Kerry, e quello alla Difesa, Chuck Hagel, hanno così siglato nella giornata di giovedì il rinnovo della partnership militare che lega il loro paese al Giappone. I termini dell’alleanza tra Washington e Tokyo erano stati rivisti per l’ultima volta nel 1997 e il nuovo accordo - ufficializzato alla presenza del ministro degli Esteri nipponico, Fumio Kishida, e di quello della Difesa, Itsunori Onodera - contiene alcune disposizioni che produrranno più di un malumore tra i vertici cinesi.
In particolare, gli Stati Uniti il prossimo anno installeranno un nuovo sistema radar di difesa missilistica presso la base aerea giapponese di Kyogamisaki, nella prefettura di Kyoto, mentre per la prima volta in assoluto verranno impiegati dei droni a scopo di “sorveglianza” in territorio nipponico. Inoltre, i due paesi si sono accordati per incrementare la cooperazione al fine di combattere le crescenti minacce informatiche e gli americani condurranno ricognizioni con velivoli di ultima generazione nelle aree marittime contese tra Tokyo e Pechino.
Quasi tutte le nuove iniziative sono state presentate come necessarie per far fronte alla presunta minaccia per il Giappone e gli interessi americani proveniente dalla Corea del Nord. In realtà, tutto ciò rientra nella cosiddetta “svolta” asiatica lanciata da qualche anno dall’amministrazione Obama, il cui scopo centrale è quello di contenere l’espansionismo cinese.
In questo quadro si colloca anche l’impulso marcatamente militarista impresso dal governo conservatore di Tokyo guidato dal primo ministro, Shinzo Abe. Il tentativo di quest’ultimo di superare il carattere pacifista della Costituzione del Giappone, assegnando un ruolo più attivo alle forze armate, serve infatti alla promozione degli interessi del paese sullo scacchiere internazionale e va di pari passo con il rilancio della presenza statunitense in Estremo Oriente.
Questa evoluzione degli equilibri strategici in Asia ha già creato pericolose tensioni non solo tra la Cina da una parte e gli alleati degli Stati Uniti dall’altra (Giappone, Filippine), principalmente a causa di dispute territoriali relative ad una serie di isole rivendicate da più parti, ma anche tra governi allineati di Washington.
Giappone e Corea del Sud si sono così scontrati più volte nei mesi scorsi, soprattutto a causa dell’eredità tossica lasciata dal periodo coloniale nipponico nella penisola di Corea ma anche, come è successo proprio questa settimana, per un’altra disputa territoriale non risolta tra Tokyo e Seoul. Queste frizioni sono viste con estrema preoccupazione a Washington, da dove l’unità degli alleati in Asia orientale viene considerata come una condizione indispensabile per la creazione di un fronte anti-cinese sufficientemente compatto.
Oltre a far riemergere vecchi dissapori tra paesi schierati sullo stesso fronte internazionale, il cosiddetto “pivot” degli Stati Uniti in Asia suscita spesso l’opposizione delle popolazioni interessate, anche perché si concretizza quasi sempre con una maggiore presenza di forze americane nel continente.
In Giappone, ad esempio, il riallineamento del governo conservatore agli interessi di Washington dopo le incertezze del gabinetto guidato dal Partito Democratico (DPJ) risulta tutt’altro che popolare, specialmente in quelle località che da decenni devono convivere con le basi militari americane, come Okinawa. Proprio qui, infatti, le proteste degli abitanti si sono moltiplicate, tanto che i due paesi hanno finito per includere nell’accordo firmato giovedì una clausola che prevede il trasferimento di 9 mila marines americani, 5 mila dei quali destinati all’isola di Guam, nell’Oceano Pacifico, a spese dei contribuenti giapponesi.
In ogni caso, a dare un potente segnale della volontà degli Stati Uniti di rafforzare la propria presenza in Asia orientale avrebbe dovuto essere la trasferta di Barack Obama. In seguito alla chiusura parziale iniziata martedì degli uffici governativi americani, tuttavia, la Casa Bianca ha annunciato la cancellazione delle visite in Malaysia e nelle Filippine.Il presidente democratico dovrebbe invece prendere parte regolarmente a due summit regionali previsti per la settimana prossima, il primo a Bali (Cooperazione Economica dell’Asia e del Pacifico, APEC) e il secondo in Brunei (Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico, ASEAN). Con lo scontro che prosegue al Congresso tra democratici e repubblicani sul bilancio federale, anche questa seconda parte del viaggio inizialmente programmato da Obama risulta però in forte dubbio.
L’assenza di Obama rischia così di assestare un colpo molto pesante alla credibilità americana in quest’area del pianeta, dove svariati governi - a cominciare da quello filippino del presidente Benigno Aquino - si aspettavano una dichiarazione senza riserve dell’appoggio degli Stati Uniti nell’ambito delle dispute e delle tensioni esplose negli ultimi anni con la Cina.
Proprio la finalizzazione dei preparativi per la presenza di un contingente militare americano nelle Filippine - in contravvenzione con quanto stipulato dalla Costituzione di questo paese - doveva essere uno dei punti centrali del viaggio di Obama per promuovere la “svolta” asiatica della sua amministrazione.
Le altre questioni in agenda che verranno comunque discusse da Kerry, oltre al già concluso rinnovo della partnership militare con il Giappone, saranno almeno la promozione della cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP), cioè il controverso trattato di libero scambio tra alcuni paesi di Asia, Americhe e Oceania da cui sarà esclusa la Cina, e l’ennesimo tentativo di “mediare” una soluzione multilaterale delle dispute territoriali che oppongo Pechino ad alcuni paesi membri dell’ASEAN.
Nonostante le rassicurazioni degli esponenti del governo americano che le intenzioni dietro alla “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama sono pacifiche, questa strategia passa principalmente attraverso un’aumentata presenza militare, come confermano, tra gli altri, l’accordo siglato lo scorso anno con l’Australia e quello già ricordato con le Filippine, ma anche, più in generale, la decisione di Washington di dispiegare entro il 2020 ben il 60 per cento delle proprie forze navali nell’area Estremo Oriente/Oceano Pacifico.I piani degli Stati Uniti, però, come dimostra la parziale cancellazione della visita di Obama, troveranno sempre maggiori ostacoli nel prossimo futuro, specialmente di fronte alla pressoché inarrestabile avanzata di una Cina che continua a far registrare sensibili progressi nei rapporti commerciali con quasi tutti i paesi del sud-est asiatico.
Proprio mentre Obama viene costretto a Washington dallo scontro sul bilancio USA, infatti, il presidente cinese, Xi Jinping, sta preparando i summit di APEC e ASEAN con una trasferta che lo ha portato in Indonesia e in Malaysia, dove, tra l’altro, il primo ministro Najib Razak è alla ricerca di legittimazioni internazionali per rafforzare la sua posizione interna dopo la deludente prestazione elettorale della sua coalizione qualche mese fa.
In Indonesia, invece, Xi ha finalizzato una serie di accordi commerciali per il valore di oltre 30 miliardi di dollari, mentre nella giornata di giovedì ha tenuto un discorso al parlamento di Jakarta, significativamente il primo in assoluto di un leader straniero di fronte ai membri dell’assemblea legislativa di questo paese.