- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Tra sabato e martedì prossimo andrà in scena a Pechino il terzo e più importante plenum del 18esimo Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC), aperto nel novembre del 2012. La nuova leadership della seconda potenza economica del pianeta, secondo ogni previsione, presenterà ai quasi 400 membri del Comitato Centrale del partito i propri piani per liberalizzare ulteriormente il sistema economico e finanziario, da implementare tra profonde divisioni interne alla classe dirigente cinese e gravi tensioni che la nuova accelerazione capitalista provocherà tra la popolazione.
Come previsto dal protocollo del regime, le prime due riunioni plenarie del PCC seguite all’inaugurazione di un nuovo Congresso a durata quinquennale riguardano quasi interamente questioni relative alla nomina dei nuovi vertici del partito, mentre il terzo serve a introdurre la visione economica e politica della leadership entrante dopo che essa ha più o meno consolidato il proprio potere.
Le aspettative per l’evento che sta per aprirsi sono altissime sia in Cina che tra i governi e gli investitori stranieri, tanto che in questi giorni si stanno sprecando i paragoni con un episodio cruciale della storia recente di questo paese, vale a dire il terzo plenum nel 1978 quando Deng Xiaoping lanciò il proprio programma di riforme di libero mercato.
Se i contenuti delle proposte del presidente Xi Jinping e del primo ministro Li Keqiang saranno resi noti solo alla chiusura della seduta plenaria, le linee guida per il prossimo futuro del sistema economico cinese appaiono in gran parte scontate. La crescita, cioè, dovrebbe essere favorita attraverso una maggiore competitività, l’incoraggiamento del settore privato, la deregolamentazione del settore finanziario, lo stimolo ai consumi individuali e l’allentamento dei controlli governativi sul flusso di capitali, sui tassi di interesse e sui prezzi delle risorse energetiche.
Alcuni provvedimenti di questo genere erano stati peraltro già adottati lo scorso mese di luglio, quando, tra l’altro, è stato lanciato un progetto pilota per una Zona Economica Speciale a Shanghai per testare alcune delle “riforme” di libero mercato che dovrebbero essere adottate a livello nazionale, sia pure in maniera più laboriosa.
Più in generale, come ha spiegato al New York Times il presidente della compagnia di investimenti cinese Primavera Capital Group, la sfida della nuova dirigenza riguarderà “fondamentalmente il ruolo dello stato in un’economia moderna”. Le attenzioni dei vertici di Pechino saranno concentrate in particolare sui colossi pubblici su cui si è basata gran parte dell’impetuosa crescita della Cina negli ultimi decenni.
I piani del presidente Xi e del premier Li appaiono ovviamente tutt’altro che semplici, come dimostra la cautela dei loro predecessori - rispettivamente Hu Jintao e Wen Jabao - i quali avevano fatto anch’essi simili promesse un decennio fa, nonché le resistenze che un simile percorso sta già provocando nel partito.
Le grandi aziende statali, infatti, sono estremamente potenti ed hanno legami consolidati ad altissimo livello nel PCC. Esse e i loro referenti politici temono principalmente la concorrenza sia degli attori privati che delle compagnie straniere e la fine dei privilegi a loro riservati, come l’accesso al credito a bassissimo costo o la garanzia di operare spesso in regime di monopolio.La disputa interna al PCC per la direzione da dare al paese, risoltasi almeno formalmente con il successo della fazione favorevole all’apertura dell’economia cinese, è apparsa evidente in particolare con la vicenda di Bo Xilai, l’ex potente segretario della città di Chongqing caduto in disgrazia.
La purga ai danni di quest’ultimo ha rappresentato un passaggio cruciale nel superamento almeno temporaneo delle resistenze alla liberalizzazione dell’economia che Bo impersonava. Come è noto, l’ex membro del Politburo è stato condannato all’ergastolo in appello per corruzione proprio un paio di settimane fa dopo che le sue speranze di entrare nel Comitato Permanente del Politburo del partito erano crollate già nel marzo del 2012.
In quell’occasione, Bo e la moglie, Gu Kailai, condannata a morte lo scorso anno con pena sospesa per l’assassinio di un uomo d’affari britannico, erano stati arrestati nell’ambito di un’indagine scaturita in gran parte da motivazioni politiche.
Probabilmente non a caso, poco prima dell’inizio dei guai giudiziari di Bo, la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto denominato “Cina 2030” in collaborazione con il Centro di Ricerca e Sviluppo del Consiglio di Stato (governo) cinese, nel quale venivano delineate con chiarezza le iniziative da perseguire per “ristrutturare” l’economia del paese e aprirla ai capitali stranieri.
Tra le proposte avanzate dallo studio vi era, appunto, lo smantellamento dei monopoli statali nei settori strategici dell’economia, a cui Bo Xilai era legato e che manifestavano una netta opposizione alla strada prospettata dalla Banca Mondiale, a sua volta portavoce degli ambienti economici e finanziari internazionali.
Bo, inoltre, era considerato anche il leader della “Nuova Sinistra” neo-maoista, presa di mira dalle fazioni rivali perché responsabile di avere alimentato tra le fasce più disagiate della popolazione pericolose aspettative legate ad una società più equa attraverso la difesa del ruolo assegnato alle grandi aziende statali.
Queste ultime, in realtà, ben lontane dall’essere gestite nell’interesse pubblico, risultano essere pressoché esclusivamente strumenti per l’arricchimento di una cerchia relativamente ristretta legata ai vertici del Partito Comunista che si oppone perciò ai cambiamenti non per ragioni ideologiche ma esclusivamente per la difesa dei propri interessi. L’eliminazione di Bo ha dunque spianato la strada all’avanzamento delle “riforme” in senso capitalista che attendono la Cina nei prossimi anni.
I cambiamenti che verranno proposti nel corso del plenum del PCC che aprirà i battenti sabato, in ogni caso, sono state salutate in maniera euforica dalla stampa ufficiale di mezzo mondo, impegnata a spiegare come il rallentamento in corso dell’economia cinese abbia inevitabilmente spinto la nuova leadership di Pechino ad imprimere una svolta più decisa verso l’apertura del sistema.
Inoltre, senza timore di cadere in contraddizione, analisti e commentatori continuano a sottolineare come “riforme” che dovrebbero includere, tra l’altro, il ridimensionamento delle aziende pubbliche e una maggiore flessibilità della manodopera, abbiano l’obiettivo di ridurre il gap tra ricchi e poveri e creare maggiore occupazione.
In realtà, le liberalizzazioni si accompagneranno come di consueto ad inevitabili e massicce perdite di posti di lavoro, nonché ad un’ulteriore precarizzazione degli impieghi e ad un aggravamento delle disuguaglianze sociali. Come ha ricordato un’analisi di questa settimana della Associated Press, infatti, la precedente e più significativa fase di “riforme” economiche lanciata sul finire degli anni Novanta durante la premiership di Zhu Rongji, caratterizzata da un’ondata di privatizzazioni e progetti di “modernizzazione” delle compagnie statali, fu seguita dalla rovinosa perdita di milioni di posti di lavoro.
Per questa ragione, oltre a superare l’opposizione interna, la dirigenza cinese si troverà costretta a fronteggiare le resistenze e le tensioni sociali che si diffonderanno ben presto tra una sterminata popolazione che pagherà le conseguenze delle “riforme” stesse.
Assieme alla campagna lanciata dagli organi di propaganda del regime per presentare i piani che saranno in discussione al plenum come un passo avanti verso la creazione di un paese più prospero, i vertici del partito negli ultimi mesi hanno così proceduto a rafforzare il controllo sulla società cinese, intensificando la censura dei media e restringendo gli spazi a disposizione per qualsiasi opinione che possa alimentare pericolose illusioni di liberalizzazioni politiche o di un possibile percorso verso una sistema più equo.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Le previsioni della vigilia nella corsa alla carica di sindaco di New York sono state ampiamente rispettate nel voto di martedì con il candidato democratico, Bill de Blasio, che ha superato in maniera molto netta il suo sfidante repubblicano, Joseph Lhota. I risultati non ancora definitivi sono stati in gran parte determinati dalla diffusissima ostilità verso il primo cittadino uscente, il multi-miliardario Michael Bloomberg, contro il quale il neo-sindaco ha pressoché interamente costruito la sua campagna elettorale all’insegna della retorica progressista.
Il 52enne de Blasio si è imposto con un margine addirittura superiore a quello suggerito dai sondaggi, conquistando il 73% dei consensi contro poco meno del 25% del suo principale rivale. La vittoria di de Blasio è la più larga nella città di New York dal 1985, quando il democratico Ed Koch conquistò la carica di sindaco con oltre 60 punti percentuali di vantaggio. Residente nel quartiere lussuoso di Park Slope, a Brooklyn, De Blasio sarà inoltre il primo sindaco democratico dal 1994 e il primo proveniente da un “borough” diverso da Manhattan dal 1974.
Di evidenti origini italiane, protagonista in passato di severe critiche alla politica statunitense in Centroamerica (venne accusato, tra l'altro, di essere troppo amico dei sandinisti in Nicaragua) de Blasio orbita da tempo attorno all’establishment democratico newyorchese. Nel 2000 guidò con successo la campagna di Hillary Clinton per un seggio al Senato nello Stato di New York per poi essere eletto al consiglio municipale della metropoli di cui è ora diventato sindaco. Nel 2009 ottenne poi una certa popolarità facendosi interprete delle critiche nei confronti di Bloomberg per avere abolito il tetto massimo di due mandati alla carica di sindaco.
Il trampolino di lancio verso l’élite della politica di New York è stato però il ruolo di “public advocate”, una carica elettiva che dovrebbe agire da tramite tra i cittadini e l’amministrazione comunale, a cui è inoltre assegnato il ruolo di controllo sulle agenzie municipali e di indagine sulle segnalazioni degli elettori in merito a disfunzioni dei servizi pubblici.
Inizialmente, tuttavia, de Blasio era considerato tutt’altro che favorito per la conquista della “City Hall”, dal momento che le simpatie dei grandi finanziatori newyorchesi erano andate precocemente alla presidente del Consiglio Comunale, Christine Quinn. Quest’ultima è stata però danneggiata dalla sua sostanziale identificazione con lo stesso Bloomberg, mentre l’altro favorito fino all’estate, l’ex deputato Anthony Weiner, avrebbe visto anch’egli svanire le possibilità di diventare sindaco in seguito ad un nuovo scandalo sessuale dopo quello che in precedenza lo aveva costretto a dimettersi dalla Camera dei Rappresentanti di Washington.
Le primarie democratiche di settembre, così, si sono trasformate in un trionfo per de Blasio, il quale ha addirittura superato la soglia del 40% che gli ha consentito di evitare un secondo turno di ballottaggio. Gli entusiasmi attorno la sua candidatura sono stati però quasi interamente una creazione dei media, come conferma anche il fatto che nelle primarie aveva votato appena il 20% degli elettori registrati, cioè circa il 3% di tutti i newyorchesi.
Pur senza dati ufficiali, anche l’elezione vera e propria di martedì è stata con ogni probabilità segnata da una debolissima affluenza, come hanno affermato ai giornali locali molti degli scrutatori impiegati nei 1.200 seggi cittadini.Se però la vittoria di Di Blasio rappresenta una chiara disponibilità dell’elettorato ad una svolta progressista e, quindi, al rifiuto delle politiche implementate da Boomberg, non si deve per questo ritenere che il nuovo sindaco newyorkese rivolterà come un guanto la città. Al di là della retorica “progressista” e il ripetuto ricorso allo slogan delle “Due Città” per descrivere le gigantesche disparità economiche e sociali che caratterizzano New York, la natura del neo-sindaco de Blasio è d’altra parte apparsa evidente nelle ultime settimane di campagna elettorale.
Una volta assicurata la nomination democratica grazie alle promesse di far fronte al disagio economico di milioni di newyorchesi e alle ingiustizie sociali, de Blasio non ha perso tempo a rassicurare i poteri forti della città. Durante i mesi di settembre e ottobre, infatti, i ricchi newyorchesi si sono precipitati a staccare sostanziosi assegni per il candidato teoricamente più a “sinistra” tra quelli in corsa per la carica di sindaco dopo una serie di incontri con i vertici dell’élite economica e finanziaria.
De Blasio non è stato dunque percepito come una minaccia dai milionari e miliardari che popolano New York, tanto che i loro contributi hanno permesso al candidato democratico di accumulare un vantaggio economico decisivo sui rivali. De Blasio, la cui immagine di politico “liberal” tornerà utile per contenere le tensioni sociali nella metropoli, ha potuto cioè contare su oltre dieci milioni di dollari da spendere in campagna elettorale, contro poco più dei tre milioni di Lhota.
De Blasio, a sua volta, si è dato da fare per proiettare un’immagine di sé tutt’altro che minacciosa, giungendo a definirsi “conservatore sulle questioni fiscali” nel corso di un recente incontro pubblico.
Il neo-sindaco, oltre ad attrarre il voto delle minoranze anche grazie alla puntuale esibizione della sua famiglia multirazziale, ha comunque fatto breccia tra una parte degli elettori che auspicano una svolta nella gestione della città dopo 12 anni di un’amministrazione come quella di Bloomberg che ha favorito pressoché unicamente le fasce di reddito più elevate .
Le proposte avanzate nelle scorse settimane per alzare le tasse su chi guadagna oltre 500 mila dollari l’anno così da finanziare le scuole dell’infanzia, mettere fine all’impopolare pratica della polizia definita “stop-and-frisk” - secondo la quale gli agenti hanno la facoltà di fermare e perquisire chiunque anche senza chiari sospetti che abbia commesso un qualsiasi reato - ed espandere l’edilizia popolare in una città dove gli affitti hanno raggiunto livelli stratosferici, hanno chiaramente risposto ad un’esigenza diffusa tra moltissimi newyorchesi.
Le possibilità di vedere implementate queste promesse sono però scarse, anche perché alcune di esse, come l’aumento del carico fiscale per i più ricchi, dovranno essere approvate dal parlamento statale e dal governatore democratico, Andrew Cuomo, tutt’altro che entusiasti nei confronti di una simile prospettiva.Nella giornata di martedì si sono tenute anche altre importanti consultazioni elettorali negli Stati Uniti, tra cui quelle per la carica di governatore degli stati di New Jersey e Virginia. Nel primo caso, il repubblicano Chris Christie è stato rieletto senza difficoltà anche grazie allo scarso impegno dei democratici dello stato che negli ultimi quattro anni hanno collaborato nell’implementazione delle politiche “pro-business” di un governatore considerato da molti come un possibile pretendente alla Casa Bianca nel 2016.
In Virginia, invece, ad imporsi di misura è stato il democratico Terry McAuliffe, uomo dei Clinton che non aveva mai ricoperto cariche elettive e che ha beneficiato sia del massiccio sforzo del suo partito sia dell’identificazione del suo avversario, il procuratore generale dello stato Ken Cuccinelli, con l’estrema destra dei Tea Party.
A Detroit, infine, è stato eletto il primo sindaco bianco da decenni nonostante la nettissima prevalenza di abitanti di colore nella città del Michigan. L’ex dirigente medico Michael Duggan ha battuto il suo compagno di partito, lo sceriffo democratico della contea di Wayne, Bennie Napoleon, grazie ad una campagna elettorale che ha capitalizzato l’odio nei confronti del commissario speciale Kevin Orr, nominato dal governatore repubblicano per gestire il rovinoso processo di bancarotta che l’ex metropoli dell’auto sta affrontando proprio in queste settimane.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Emanuela Muzzi
Londra. Sembrava, in prima istanza, che i quotidiani britannici avessero accettato silenti la Royal Charter. Ora che è stato posto il sigillo ufficiale di Sua Maestà all’istituzione di un corpo "indipendente" di controllo della stampa nel Regno Unito varata dal Privy Council, (il consiglio degli "advisor" della corona), gli editori d’Oltremanica sono su tutte le furie. Dopo un sonnellino ed una timida reazione, si sono svegliati in corner e hanno tentato il calcio d’angolo appellandosi alla Royal Court of Justice: causa persa.
Sebbene a detta della vice leader dei Labours e ministro ombra per la Cultura Harriet Harman le modalità di l’istituzione dell’organo di controllo creato per assicurare che la stampa inglese aderisca agli standard di legge, sono ancora in fase di discussione e definizione, l’ editto sembra essere ad un passo dal rush finale.
Va chiarito che la Royal Charter non è assolutamente uno strumento legislativo che ha lo scopo di riformare la stampa britannica. Anzi, quotidiani e gruppi editoriali inglesi sono chiamati ad elaborare i propri organi di controllo seguendo il principio della ‘self regulation’.
Il problema è che non si sa ancora con quale modalità verranno effettuate le nomine dei membri di quest’organo di controllo il cui fine, apparentemente, sarebbe quello di evitare il ripetersi di scandali, corruzione, illegalità, intercettazioni selvagge e giù di lì (sempre più in basso) in stile News of the World: il tabloid degli scandali. La stampan "Made in Murdoch", del resto, è un brand indimenticabile, un imprinting alle news a all’informazione tutta di cui non ci potremo mai liberare.
E mentre il cuore di Westminster batte per le vittime della mala stampa, fuori la tradizione dello scandalo continua; l’ultima news in stile Murdoch sbatte i mostri in prima pagina: la "roscia di fuoco", Rebekah Brooks, ex boss di News International e Andrew Coulson, ex responsabile della comunicazione del Primo Ministro David Cameron ed ex editore di News of the World, avevano una tresca. Da sei anni, mica da ieri.
Queste sì che sono news; cose importanti da sapere, informazioni chiave per gli inglesi che ormai non hanno neanche i soldi per pagare le bollette del gas (aumenti del 10%) e per mandare i figli all’università (6.000 pound all’anno), e che registrano un tasso di disoccupazione del 7.7%. Sì meglio non pensarci, pensiamo alla tresca tra i vip, trai potenti, tra la gente che ormai ha creato una upper class coperta dai media e una sottoclasse di affezionati lettori che sognano un mondo che li esclude senza possibilità di appello o ricorso.
Il cuore del problema è questo: la vendita delle news al popolino affamato di evasione. Finché faceva comodo alla politica e ai vip, il sistema delle news violente andava bene; finché non ha infranto pesantemente la legge ed il senso comune, si poteva anche sopportare.
Adesso, nonostante il processo Murdoch sia finito e la Leveson Inquiry abbia raggiunto il suo scopo, i politici inglesi hanno pensato bene di cogliere l’occasione per riesumare la tradizione puritana mettendo un recinto di contenimento alla stampa tutta. Attenzione però: la Royal Charter è un provvedimento emendabile. Si può migliorare in Parlamento, si può sempre trasformare il recinto in filo spinato.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Con una decisione senza precedenti a livello nazionale, il Congresso degli Stati Uniti ha consentito qualche giorno fa la riduzione automatica dei fondi per il programma pubblico di aiuti alimentari (“food stamps”) destinati ad ampi strati della popolazione americana del tutto esclusi dalla “ripresa” economica teoricamente in atto. I tagli ammontano a ben 11 miliardi di dollari nei prossimi tre anni e sono scattati in seguito all’esaurimento dei fondi stanziati da Camera e Senato all’interno del pacchetto di stimolo all’economia approvato in seguito all’esplosione della crisi finanziaria del 2008.
Il programma di assistenza alimentare - ufficialmente denominato Supplemental Nutrition Assistance Program (SNAP) - era nato durante la Grande Depressione e garantisce oggi la possibilità di acquistare cibo a qualcosa come 48 milioni di americani a basso reddito o senza alcuna entrata.
I “food stamps” erano stati originariamente introdotti dall’amministrazione Roosevelt per far fronte ad una situazione di povertà dilagante sul finire degli anni Trenta del Secolo scorso e, in questi anni, sono tornati ad essere per molti un mezzo di sussistenza fondamentale alla luce delle conseguenze della nuova gravissima crisi del capitalismo americano e internazionale.
Nel solo anno fiscale da poco terminato, il governo federale ha così distribuito aiuti alimentari per quasi 75 miliardi di dollari e ogni americano ha ricevuto in media poco più di 134 dollari al mese. A testimonianza delle drammatiche condizioni in cui versano milioni di persone a causa della crisi economica, a tutt’oggi più del 15% della popolazione degli Stati Uniti beneficia dei “food stamps”. Secondo i dati dello stesso governo di Washington, addirittura, circa 7 milioni di americani contano sui “food stamps” come unica fonte di entrate.
A causa dei tagli entrati in vigore nel fine settimana, nei prossimi tre anni una famiglia composta da tre persone perderà 300 dollari all’anno in buoni alimentari. Soprattutto, la ferocia della classe politica d’oltreoceano farà in modo che a breve verrà deciso un ulteriore ridimensionamento di questa voce di spesa. Infatti, nell’ambito della nuova legge relativa al settore agricolo USA - visto che i “food stamps” sono gestiti dal Dipartimento dell’Agricoltura - i due rami del Congresso hanno già approvato separatamente altrettante misure che contengono altri tagli.
Particolarmente dura appare la versione della Camera a maggioranza repubblicana, il cui provvedimento prevede una riduzione dei fondi per 40 miliardi di dollari in dieci anni, escludendo 2 milioni di americani a bassissimo reddito dall’accesso ai programmi alimentari. Il pacchetto votato dal Senato a maggioranza democratica, invece, di miliardi di dollari per i “food stamps” intende tagliarne 4.
La notizia del ridimensionamento dei buoni alimentari è passata sotto silenzio su quasi tutta la stampa americana, impegnata al contrario a celebrare la recente decisione della Federal Reserve di continuare ad immettere sui mercati finanziari 85 miliardi di dollari ogni mese.
Tra i pochi giornali a dare un qualche rilievo alla notizia è stato il News Tribune dello stato di Washington, il quale ha ricordato come, nelle probabili intenzioni del Congresso, la riduzione dei benefit alimentari dovrebbe essere la conseguenza di un’economia in ripresa. Ciò conferma ancora una volta il divario incolmabile esistente tra la classe politica e la grande maggioranza della popolazione, dal momento che la prima misura i progressi economici del paese unicamente con i dati relativi all’andamento della borsa e ai profitti delle corporations, entrambi a livelli da record.Oltre a riportare le drammatiche testimonianze di coloro che, spesso assieme ai loro figli di pochi anni, vedranno minacciata la propria sicurezza alimentare nell’immediato futuro, i reporter del News Tribune hanno poi evidenziato la gravità della situazione in stati come California e Texas, dove in cinque anni i beneficiari di “food stamps” sono aumentati di 2,5 milioni, ricordando inoltre che le stesse statistiche governative avevano già rilevato come l’SNAP raramente garantiva valori nutrizionali adeguati anche prima dei tagli.
Per la testata con sede a Tacoma, l’impatto della riduzione dei “food stamps” non si farà sentire soltanto su coloro che ne beneficiano, visto che alcuni studi hanno dimostrato come ogni 5 dollari spesi in buoni alimentari ne vengano generati 9 in attività economiche collegate.
La classe dirigente americana, dunque, non solo è del tutto insensibile ai bisogni elementari della popolazione americana in difficoltà ma ad essi risulta addirittura ostile, togliendo letteralmente il pane di bocca a milioni di poveri, disoccupati, madri single e disabili, mentre continua ad assicurare un flusso di denaro ininterrotto ai colossi dell’industria finanziaria.
I tagli ai “food stamps”, come è noto, giungono nel pieno di un vero e proprio assalto alla spesa pubblica destinata ai programmi sociali negli Stati Uniti. Proprio la settimana scorsa, tra l’altro, ha tenuto la prima seduta una speciale commissione del Congresso che ha l’incarico di trovare un accordo bipartisan sul debito federale e che potrebbe di fatto gettare le basi per lo smantellamento dei programmi pubblici di assistenza Medicare, Medicaid e Social Security.
Il 31 dicembre prossimo, infine, sempre tra l’indifferenza di politici e media ufficiali, cesseranno definitivamente anche i sussidi di disoccupazione addizionali stanziati a livello federale per far fronte all’interruzione avvenuta già da tempo in molti stati di questo genere di aiuti, gettando nella povertà altri milioni di americani senza la minima speranza di trovare un lavoro ben retribuito.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
Come ha ricordato in una recente intervista il presidente siriano, Bashar al-Assad, il principale ostacolo ad una risoluzione pacifica della crisi nel paese mediorientale rimane il continuo sostegno fornito da potenze regionali come l’Arabia Saudita alle formazioni ribelli anti-regime dominate da forze integraliste violente. Con l’accordo russo-americano sullo smantellamento dell’arsenale chimico di Damasco (processo ben avviato) gli sforzi della diplomazia internazionale si stanno concentrando da settimane su una possibile conferenza di pace da tenersi a Ginevra (“Ginevra II”) e che viene puntualmente rimandata dal mese di maggio scorso.
A boicottare di fatto un percorso di questo genere sono però soprattutto quei paesi mediorientali che, per ragioni legate ai propri interessi strategici, hanno manifestato reazioni al limite dell’isteria alla marcia indietro decisa a settembre dall’amministrazione Obama sull’aggressione militare contro la Siria.
Da allora, l’Arabia Saudita ha in particolare espresso il proprio malcontento in maniera insolita verso Washington, giungendo addirittura a rifiutare un seggio provvisorio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il quale si era battuta da oltre un anno.
Oltre alle apprensioni suscitate dall’ammorbidimento forzato della Casa Bianca sulla Siria, Riyadh teme ancora di più un eventuale accordo tra gli Stati Uniti e l’Iran sul nucleare di Teheran, dal momento che il riconoscimento delle legittime aspirazioni regionali della Repubblica Islamica rappresenterebbe un autentico incubo per la monarchia saudita.
Di fronte al nuovo scenario che si sta sia pure a fatica delineando in Medio Oriente dopo il sostanziale fallimento di quanti intendevano provocare il cambio di regime con la foza a Damasco, i regimi del Golfo Persico, con l’Arabia Saudita in prima linea, stanno perciò cercando di portare avanti il proprio disegno indipendentemente dagli USA o, quanto meno, stanno cercando in tutti i modi di mandare un chiaro messaggio della propria frustrazione a Washington.
Alcuni esponenti di questi governi nel fine settimana hanno così rivelato in forma anonima ai media americani l’intenzione di intensificare i propri sforzi per sostenere finanziariamente e militarmente i “ribelli” siriani, svincolandosi almeno in parte dalla collaborazione con l’amministrazione Obama.
Questa iniziativa era già stata prospettata un paio di settimane fa da una rivelazione del Wall Sreet Journal, basata sulla nuova strategia saudita modellata dal numero uno dell’intelligence di Riyadh, principe Bandar bin Sultan, all’indomani del rifiuto del seggio elettivo al Consiglio di Sicurezza ONU.
Come ha scritto domenica il Washington Post citando come di consueto fonti anonime all’interno dei regimi del Golfo Persico, i sauditi e i loro vicini sarebbero d’altra parte ormai convinti dell’intenzione americana di raggiungere un accomodamento con il nuovo governo iraniano nonostante le resistenze manifestate non solo da Riyadh ma anche da Israele.
Per questa ragione, le iniziative saudite sembrano già ben avviate, non solo relativamente alla Siria con la conseguenza più che probabile dell’intensificazione delle azioni terroristiche da parte delle formazioni estremiste che si battono contro Assad, ma anche riguardo, ad esempio, all’Egitto, il cui regime militare è stato l’obiettivo di critiche relativamente modeste da parte degli USA dopo la durissima repressione ai danni dei Fratelli Musulmani.
Al paese nordafricano, infatti, l’Arabia Saudita si è impegnata a versare svariati miliardi di dollari in aiuti assieme a Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, in seguito alla recente decisione di Washington di sospendere alcune forniture militari al Cairo.
Se l’Arabia Saudita risulta oggi decisamente meno influente sullo scacchiere internazionale rispetto a qualche decennio fa, le inquietudini manifestate nelle ultime settimane non hanno lasciato indifferente il governo americano, tanto che alcuni esponenti dell’amministrazione Obama hanno recentemente incontrato membri della famiglia reale per cercare di rassicurare l’alleato mediorientale.In questo quadro rientra anche la visita in Arabia Saudita di domenica del Segretario di Stato, John Kerry, nell’ambito di una trasferta di nove giorni che lo porterà, oltre che a Riyadh, negli Emirati Arabi, in Giordania, Israele, Cisgiordania, Polonia, Algeria e Marocco.
Come ha affermato la portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki, l’importanza della visita è confermata dal fatto che l’ex senatore democratico incontrerà per la prima volta il sovrano saudita, Abdullah, con il quale “discuterà una vasta gamma di questioni bilaterali e di importanza regionale”.
Soprattutto, Kerry proverà a tranquillizzare un regime in piena crisi a causa sia della situazione internazionale che dei consueti problemi legati alla complicata successione interna, così da “riaffermare la natura strategica delle relazioni tra USA e Arabia Saudita, alla luce dell’importanza della collaborazione tra i nostri due paesi, delle sfide condivise e della leadership che Riyadh continua a garantire in Medio Oriente”.