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di Michele Paris
L’inizio di questa settimana ha segnato un ulteriore pericoloso passo avanti nell’escalation di minacce e contro-minacce nella penisola coreana tra Pyongyang e il governo di Seoul sostenuto dagli Stati Uniti. A scatenare nuovamente le ire del sempre più isolato regime del giovane leader Kim Jong-un sono state le ulteriori sanzioni contro il suo paese approvate settimana scorsa dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in risposta al test nucleare nordcoreano di febbraio, seguite dall’avvio delle annuali esercitazioni militari tra la Corea del Sud e il contingente americano nella penisola.
Innalzando sensibilmente i toni delle consuete minacce, il regime stalinista di Pyongyang aveva avvertito Seoul e Washington a non procedere con le esercitazioni, in caso contrario la Corea del Nord si sarebbe riservata di esercitare il proprio diritto a condurre un attacco nucleare preventivo per difendere il paese.
Con la partecipazione di 10 mila soldati sudcoreani e 3 mila americani, l’esercitazione “Key Resolve” è invece regolarmente iniziata nella giornata di lunedì, aggiungendosi a quella denominata “Foal Eagle”, scattata il primo marzo scorso e destinata a durare fino alla fine di aprile. I comandi delle forze armate di Sud Corea e Stati Uniti hanno fatto sapere di avere avvertito Pyongyang dell’esercitazione già il 21 febbraio scorso, anche se la nuova iniziativa nel bel mezzo della grave crisi diplomatica in atto è comunque suonata come un’ulteriore provocazione per il regime di Kim.
Lunedì, infatti, per tutta risposta quest’ultimo ha annunciato due misure che rischiano di aggravare le tensioni già ben al di sopra dei livelli di guardia. Dando seguito alla minaccia lanciata qualche giorno fa, il principale quotidiano nordcoreano, Rodong Sinmun, ha riferito che il regime avrebbe “dichiarato nullo” l’armistizio del 1953 che pose fine alla guerra di Corea.
Inoltre, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap, Pyongyang avrebbe anche interrotto la linea telefonica diretta con il vicino meridionale nella città di confine di Panmunjom, situata a pochi chilometri dal complesso industriale di Kaesong, dove operano alcune compagnie di Seoul sfruttando manodopera nordcoreana a basso costo.
Le autorità sudcoreane, da parte loro, nei giorni scorsi avevano risposto alle minacce con toni ugualmente aggressivi, anche se il nascente governo della neo-presidente Park Geun-hye nelle ultime ore ha emesso una serie di comunicati relativamente concilianti.Ad esempio, il nuovo ministro degli Esteri, Yun Byung-se, ha affermato di volere “trasformare questa fase di scontro e diffidenza in un’era di fiducia reciproca e di cooperazione con la Corea del Nord”. Il neo-ministro dell’Unificazione, invece, pur ammettendo le difficoltà nel “discutere altre questioni mentre il Nord lancia minacce”, ha dichiarato che il suo governo prenderà in considerazione la ripresa degli aiuti umanitari verso Pyongyang.
Gli avvertimenti e le minacce nordcoreane, in ogni caso, sono tutt’altro che nuove, soprattutto in concomitanza con le provocatorie esercitazioni militari congiunte tra Seoul e Washington.
Inoltre, secondo la maggior parte degli analisti, la Corea del Nord non possiede ancora la necessaria tecnologia per lanciare un attacco preventivo con testate nucleari contro la Corea del Sud né, tantomeno, contro gli Stati Uniti. Un’iniziativa di questo genere, oltretutto, scatenerebbe una durissima reazione da parte dei due paesi alleati, determinando con ogni probabilità la fine del regime di Kim Jong-un.
L’atteggiamento sempre più provocatorio di Pyongyang sembra piuttosto indicare un certo grado di disperazione nel tentativo di bilanciare esigenze di politica interna con la necessità ultima di giungere ad un qualche accordo con gli Stati Uniti per porre fine all’isolamento e all’arretratezza in cui versa il paese.
I più recenti segnali di una disponibilità a trattare con Washington sono stati infatti lanciati in qualche modo ancora nelle ultime settimane, quando Kim ha ospitato nel mese di gennaio il CEO di Google, Eric Schmidt, assieme all’ex ambasciatore USA presso l’ONU, Bill Richardson, nonché più recentemente l’ex stella dell’NBA, Dennis Rodman, al quale avrebbe detto tra l’altro di confidare addirittura in una chiamata del presidente Obama.
Qualsiasi minima apertura da parte di Pyongyang continua però ad essere respinta fermamente dalla Casa Bianca, da dove si insiste ad imporre come condizione preventiva per la riapertura del dialogo lo stop al programma nucleare nordcoreano. Il governo di Washington, d’altra parte, ha tutto l’interesse a vedere aumentare le tensioni nella penisola di Corea, dal momento che l’aggravarsi della situazione giustifica un maggiore impegno delle forze armate americane in questa parte del globo, ufficialmente per difendere Seoul ma in realtà con l’obiettivo di aumentare le pressioni sulla Cina nell’ambito della cosiddetta “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama.Pechino, infatti, si ritrova in una situazione sempre più delicata in seguito all’aggravamento delle tensioni al suo confine nord-orientale. Le provocazioni di Pyongyang sono chiaramente viste con apprensione crescente dal regime cinese, tanto che quest’ultimo ha dato il proprio sostegno anche all’ultimo round di sanzioni ONU seguite al terzo test nucleare nordcoreano, visto che la situazione sempre più tesa nella penisola di Corea consente appunto agli Stati Uniti di mantenere una significativa presenza nel paese alleato e di adoperarsi per la costruzione di uno scudo anti-missile diretto principalmente, anche se non ufficialmente, contro la Cina.
L’eventuale ottenimento di armi atomiche efficaci da parte nordcoreana provocherebbe inoltre una probabile corsa al nucleare nella regione, in particolare da parte dei due principali alleati di Washington: Giappone e Corea del Sud. Di questa possibilità si discute già da qualche tempo a Seoul e a Tokyo, sia in risposta al programma militare di Pyongyang che nell’ambito delle dispute territoriali tra la Cina e svariati altri paesi dell’Asia orientale, anch’esse alimentate dall’offensiva diplomatica e militare statunitense nel continente.
Allo stesso tempo, Pechino non intende però rompere del tutto con la Corea del Nord, così da mantenere una certa capacità di influenzare a proprio vantaggio le decisioni di Pyongyang grazie soprattutto alle relazioni commerciali bilaterali relativamente solide. Un crollo del regime di Kim provocherebbe d’altra parte uno sgradito flusso di profughi entro i confini cinesi e una più che probabile riunificazione della penisola sotto l’influenza americana.
In ultima analisi, dunque, il deterioramento in atto dei rapporti tra le due Coree è in primo luogo il risultato della strategia americana volta ad isolare Pyongyang e a contenere l’espansionismo cinese. Una politica sconsiderata quella dell’amministrazione Obama, che continua a spingere inevitabilmente Kim Jong-un e il suo entourage ad adottare una linea sempre più dura nei confronti di Washington e del vicino meridionale, facendo aumentare vertiginosamente le probabilità di un rovinoso conflitto nella penisola di Corea a 60 anni di distanza dalla fine della guerra che continua a divedere i due paesi.
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di Michele Paris
Il Senato degli Stati Uniti qualche giorno fa ha dato il via libera definitivo alla nomina alla guida della CIA di uno degli uomini più compromessi con le pratiche criminali della “guerra al terrore” inaugurate più di un decennio fa dal presidente George W. Bush. Già funzionario di vertice della più importante agenzia di intelligence americana per un quarto di secolo, John Brennan è inoltre il principale architetto all’interno dell’amministrazione Obama del programma illegale di assassini mirati contro presunti terroristi in ogni angolo del pianeta.
La conferma del nuovo direttore della CIA è giunta dopo una lunga discussione al Senato, caratterizzata dal “filibuster” messo in atto dal senatore repubblicano libertario del Kentucky, Rand Paul. Grazie a questa procedura, il figlio dell’ex candidato alla presidenza, il deputato del Texas Ron Paul, ha di fatto bloccato il voto sulla nomina di Brennan parlando per ben 13 ore consecutive in aula.
La prolungata opposizione di Rand Paul ha messo in luce ancora una volta lo stato di avanzato degrado delle istituzioni democratiche negli Stati Uniti, offrendo al mondo lo spettacolo di una discussione nella camera alta del Congresso sulla facoltà del presidente di assassinare extra-giudiziariamente sul territorio del proprio paese qualsiasi cittadino americano considerato una minaccia per la sicurezza nazionale.
La decisione del senatore Rand Paul di ricorrere al “filibuster” era scaturita dalle sue perplessità e da quelle espresse da una manciata di suoi colleghi repubblicani e democratici dopo la testimonianza del ministro della Giustizia, Eric Holder, di fronte alla commissione Giustizia mercoledì scorso nell’ambito del programma di assassini con i droni, il cui responsabile principale è appunto John Brennan.
Il punto più controverso dell’audizione ha riguardato la mancanza di chiarezza da parte di Holder sulla legittimità di un’eventuale operazione con i droni nel territorio degli Stati Uniti per uccidere senza processo qualsiasi cittadino americano definito dal governo una minaccia imminente per il paese.Andando al cuore della questione, Paul ha invitato Holder a chiarire la posizione dell’amministrazione Obama su un programma che potrebbe facilmente essere utilizzato per colpire oppositori interni, chiedendo se “manifestare obiezioni contro il vostro governo corrisponda a simpatizzare con il nemico”, così che, ad esempio, “un missile Hellfire possa essere lanciato con un drone contro Jane Fonda”, riferendosi all’impegno contro la guerra in Vietnam negli anni Sessanta e Settanta dell’attrice americana.
La risposta di Holder è stata inizialmente ambigua, alimentando l’irritazione di Paul e di altri senatori. Successivamente, lo stesso ministro della Giustizia ha indirizzato una breve lettera a Paul, affermando che il presidente “non ha l’autorità di utilizzare un drone armato per uccidere un americano non impegnato in combattimento sul territorio americano”. In una precedente lettera, tuttavia, Holder non aveva escluso la possibilità di impiegare i droni a questo scopo in circostanze eccezionali, simili a quelle seguite all’attacco di Pearl Harbor nel 1941 o a quello del World Trade Center nel 2001.
Le rassicurazioni offerte dalla Casa Bianca, in ogni caso, sono a dir poco da prendere con le molle, dal momento che gli assassini extra-giudiziari decisi esclusivamente dal presidente Obama avvengono già da tempo in paesi come Pakistan, Yemen o Somalia, anche ai danni di cittadini americani. Soprattutto, la contraddittorietà delle risposte fornite ai senatori da Holder conferma come il dibattito sull’opportunità di assassinare liberamente oppositori politici in territorio americano sia già in atto all’interno dell’amministrazione Obama.Questa inquietante evoluzione verso un vero e proprio stato di polizia è confermato d’altra parte dalla stessa nomina di John Brennan alla direzione della CIA dopo i servizi offerti al presidente democratico nella creazione di una struttura pseudo-legale per l’utilizzo dei droni come arma principale nella “guerra al terrore”.
Nel 2009, inoltre, la candidatura di Brennan per la posizione che si appresta ora a ricoprire era stata ritirata dallo stesso Obama a causa delle polemiche sollevate negli ambienti liberal per il suo coinvolgimento nelle torture e negli altri abusi commessi dalla CIA. Quattro anni più tardi, invece, la nomina di una simile figura dell’establishment della sicurezza nazionale statunitense ha incontrato in definitiva solo una timida opposizione, in gran parte legata all’eccessiva segretezza del programma di assassini mirati con i droni.
Lo stesso ultra-conservatore Rand Paul, infatti, ha alla fine ritenuto soddisfacenti le garanzie dell’amministrazione Obama sull’uso dei droni negli Stati Uniti, interrompendo il “filibuster” e consentendo al Senato di esprimersi sulla nomination di John Brennan, confermato definitivamente nella serata di giovedì con 63 voti favorevoli e 34 contrari.
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di Michele Paris
Il perseguimento degli obiettivi strategici degli Stati Uniti in Asia centrale continua a scontrarsi con una serie di ostacoli che sono il risultato degli interessi contrastanti in gioco in un’area del pianeta ricca di risorse energetiche. Nonostante la netta opposizione di Washington, infatti, i governi di uno stato alleato - il Pakistan - e di un arcinemico - l’Iran - hanno fatto passi avanti significativi negli ultimi giorni verso una possibile partnership strategica che si intreccia con l’espansione dell’influenza cinese nella regione.
Il rimettersi in moto della collaborazione tra Iran e Pakistan è coinciso a fine febbraio con la visita di due giorni a Teheran del presidente pakistano, Asif Ali Zardari, dove assieme alla guida suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei, ha evidenziato l’importanza dei progetti energetici tra i due paesi confinanti. La questione delle violenze subite quotidianamente dalla minoranza Hazara di fede sciita in Pakistan, al contrario di quanto si attendevano molti analisti, è sembrata finire in secondo piano, con Teheran che ha evitato di puntare il dito contro il governo di Islamabad per non aver saputo evitare i più recenti sanguinosi attentati ad opera di estremisti sunniti che hanno fatto decine di morti.
Khamenei, da parte sua, ha invece affermato che “solo la Repubblica Islamica possiede risorse energetiche sicure nella regione” e che il suo governo è preparato a soddisfare le esigenze del Pakistan in questo ambito. Zardari, a sua volta, ha fatto riferimento alle pressioni fatte dalle potenze regionali e internazionali sul suo governo per impedire un avvicinamento a Teheran, respingendo con forza questi tentativi e rivendicando l’adozione di politiche che, nella piena sovranità del suo paese, possano far fronte efficacemente ai problemi del Pakistan.Nel concreto, il summit di Teheran è servito a lanciare definitivamente il cosiddetto “gasdotto della pace” che dovrebbe collegare l’Iran e il Pakistan per trasportare verso quest’ultimo paese più di 20 milioni di metri cubi di gas naturale al giorno per alleviare le carenze energetiche che lo affliggono cronicamente. Secondo i resoconti della stampa locale, a Teheran Zardari ha per la prima volta espresso pubblicamente il proprio sostegno per questo progetto attorno al quale le trattative proseguono da almeno due decenni.
L’ostacolo principale alla realizzazione del gasdotto, oltre ai problemi finanziari di Islamabad e all’instabilità della regione che dovrebbe attraversare, è rappresentato proprio dalla contrarietà ripetutamente espressa dagli Stati Uniti. Washington ha ribadito la propria posizione più recentemente alla fine di gennaio, quando il governo pakistano ha dato l’approvazione finale alla costruzione del gasdotto sul proprio territorio dopo che l’Iran ha assicurato la propria assistenza tecnica e finanziaria.
La sezione iraniana del gasdotto è già stata completata, mentre quella pakistana dovrebbe vedere l’inizio ufficiale dei lavori nel corso di una cerimonia prevista per l’11 marzo prossimo. Il costo totale dell’opera in territorio pakistano sarà di circa 1,5 miliardi di dollari e Teheran ha offerto un prestito agevolato pari a 500 milioni, da erogare se Islamabad non cederà alle pressioni americane.
Lo scorso mese di febbraio, in una conferenza stampa a Washington, la portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, aveva nuovamente avvertito il Pakistan “ad evitare attività proibite dalle sanzioni dell’ONU oppure sanzionabili” secondo la legge USA. Pur mostrando comprensione per i “significativi” bisogni energetici del Pakistan, la Nuland aveva aggiunto che “esistono altre soluzioni a lungo termine che a nostro parere avrebbero maggiore potenzialità di successo” e, perciò, Islamabad non dovrebbe “spendere le proprie scarse risorse in progetti” come il gasdotto proveniente dall’Iran.
Quest’ultimo progetto, va ricordato, avrebbe dovuto inizialmente estendersi fino all’India ma il governo di Nuova Delhi ha alla fine rinunciato proprio in seguito alle pressioni statunitensi e in cambio della firma di uno speciale accordo sul nucleare con l’amministrazione Bush nel 2005.
Se il Pakistan ha deciso di rivolgersi alla Repubblica Islamica contro il parere di Washington alla luce soprattutto della crisi energetica domestica con cui deve fare i conti, anche l’Iran ha un enorme interesse nel progetto, visto il danno causato alla sua economia dalle sanzioni internazionali, nonché il limitatissimo sbocco verso i mercati esteri che trovano finora le proprie ingenti riserve di gas naturale. Tanto più che un altro progetto di gasdotto che avrebbe dovuto attraversare l’Iraq e la Siria per raggiungere il Mediterraneo sembra essere definitivamente naufragato con l’aggravarsi del conflitto in corso in quest’ultimo paese.
Parallelamente al “gasdotto della pace”, i primi giorni di marzo hanno visto poi la promozione di un altro progetto congiunto tra Pakistan e Iran, questa volta per la costruzione di un oleodotto e di una raffineria nei pressi di una città portuale pakistana di grande importanza strategica.La firma di quest’ultimo accordo dovrebbe giungere sempre il prossimo 11 marzo ed è il risultato della recente visita a Islamabad del ministro del Petrolio iraniano, Rostam Ghasemi. Il complesso industriale destinato alla raffinazione di 400 mila barili di petrolio al giorno costerà 4 miliardi di dollari. L’aspetto strategicamente più significativo è però la località in cui la raffineria dovrebbe sorgere, cioè Gwadar, dove il 18 febbraio scorso una compagnia pubblica cinese ha assunto ufficialmente il controllo dei lavori per lo sviluppo delle infrastrutture portuali.
Gwadar si trova nella provincia meridionale pakistana del Belucistan ed è affacciata sul Mare Arabico, a poco più di 300 chilometri dallo Stretto di Hormuz, all’imbocco del Golfo Persico, da cui transitano le principali rotte petrolifere provenienti dal Medio Oriente e dirette verso l’Asia centrale ed orientale. Come ha scritto un recente editoriale del quotidiano pakistano The Express Tribune, il nuovo progetto iraniano, con buona pace degli Stati Uniti, potrebbe dare un impulso decisivo alla ripresa delle operazioni, interrotte qualche anno fa, per costruire un’altra raffineria a Gwadar da parte di Pechino e di un oleodotto per collegare questa città alla Cina occidentale.
L’arrivo dei cinesi a Gwadar va visto nell’ottica della diversificazione delle rotte di approvvigionamento energetico cercata da Pechino nell’ambito dell’intensificarsi della rivalità con Washington. Una via di terra come quella offerta da un oleodotto che colleghi Gwadar al territorio cinese - così come un progetto simile allo studio in Myanmar - consentirebbe infatti di evitare almeno in parte lo Stretto di Malacca a sud-est, dove la massiccia presenza delle forze navali degli Stati Uniti e di quelle dei loro alleati nella regione potrebbe interrompere, in caso di crisi, le rotte di mare che lo attraversano.
Per quanto riguarda la raffineria iraniana, essa sarà completata tramite una joint venture con la compagnia petrolifera pakistana PSO e a sua volta rimpiazzerà un progetto fermo dal 2007 e fino ad allora portato avanti dagli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi, impegnati con l’azienda petrolifera di stato IPIC, avevano sospesi i lavori a causa della precaria situazione del Belucistan, dove è attivo un movimento separatista che, secondo le autorità pakistane, sarebbe sostenuto da India e Stati Uniti.
La sicurezza in Belucistan, assieme alle già ricordate pressioni statunitensi su Islamabad, è uno dei motivi principali anche della riluttanza cinese ad avviare finora lo sviluppo del porto di Gwadar e, allo stesso modo, rimane una minaccia sia sui progetti siglati in queste settimane tra Iran e Pakistan sia sulla nascita di una già non semplice partnership strategica tra i due paesi vicini.
Al di là dell’eventuale riuscita dei piani energetici che dovrebbero avvicinare ulteriormente un complicato alleato degli Stati Uniti, come il Pakistan, a due loro rivali strategici, come la Cina e l’Iran, quel che sembra emergere dal fermento diplomatico di Teheran, Islamabad e Pechino è la conferma del rimescolamento degli equilibri in atto nella delicatissima regione centro-asiatica sullo sfondo della corsa alle sue risorse energetiche e del relativo disimpegno americano dall’Afghanistan alla fine del 2014.
Un’evoluzione il cui esito è ancora tutto da verificare e che si intreccia con le tradizionali rivalità (tra India e Pakistan e tra India e Cina) ed alleanze (tra Cina e Pakistan) che caratterizzano i rapporti tra i principali attori nella regione, rispettivamente aggravate o rafforzate dalle trame messe in atto da Washington fin dall’occupazione afgana del 2001, decisa precisamente per rafforzare la presenza americana in quest’area cruciale del pianeta.
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di Michele Paris
Tra l’entusiasmo a malapena celato dei media istituzionali d’oltreoceano, l’indice Dow Jones di Wall Street ha fatto segnare martedì il livello più alto della propria storia, superando il primato registrato nel 2007 alla vigilia della più devastante crisi economica e finanziaria che ha colpito il sistema capitalistico dagli anni Trenta del secolo scorso. Ben lontano dall’essere un motivo di celebrazioni, il record toccato dal Dow Jones prefigura la probabile esplosione di una nuova rovinosa bolla finanziaria nel prossimo futuro e dimostra in maniera inequivocabile la natura di classe delle politiche messe in atto dall’amministrazione Obama, responsabile in questi ultimi quattro anni di un colossale trasferimento di ricchezza a favore dell’oligarchia parassitaria americana.
Nonostante il Dow Jones tenga in considerazione soltanto il prezzo dei 30 principali titoli quotati a Wall Street, il fatto che abbia superato il precedente primato è altamente significativo della fiducia che pervade gli speculatori finanziari grazie agli interventi della politica di Washington e della Banca Centrale statunitense. Con prospettive di ulteriori picchi nei prossimi giorni, nella giornata di martedì il più vecchio indice della borsa di New York ha guadagnato lo 0,9%, chiudendo a 14.253,77 punti, vale a dire oltre il doppio rispetto al livello più basso mai toccato, risalente al marzo del 2009.
Il sostenuto “rally” della borsa americana in questi quattro anni è andato di pari passo con il peggioramento o quanto meno con il ristagno dell’economia reale, nonché soprattutto con il progressivo deterioramento delle condizioni di vita di decine di milioni di lavoratori, pensionati, giovani e disoccupati. Simbolicamente e forse non a caso, il record del Dow Jones è giunto inoltre a pochissimi giorni di distanza dall’entrata in vigore del cosiddetto “sequester”, cioè i tagli automatici alla spesa pubblica pari a 85 miliardi di dollari scattati in seguito al mancato accordo tra democratici e repubblicani per contenere il debito federale.
Questi tagli dovranno essere implementati entro la fine di settembre e andranno a colpire ancora una volta le fasce più povere della popolazione che fanno affidamento su programmi pubblici sempre più esili. Allo stesso modo, il livello ufficiale di disoccupazione negli Stati Uniti rimane a livelli allarmanti (7,9%) - mentre durante il precedente record del Dow Jones era abbondantemente al di sotto del 5% - e svariate ricerche condotte negli ultimi mesi indicano come le retribuzioni di lavoratori e classe media siano ai livelli più bassi da oltre mezzo secolo a questa parte.In un clima di sfiducia generalizzata e di gravissimo affanno per la maggior parte della popolazione, appare perciò evidente che il motivo dell’impressionante recupero della borsa americana, e non solo, è legato pressoché interamente, come ha scritto mercoledì il New York Times, “all’enorme stimolo monetario offerto dalla Fed e dalle altre Banche Centrali”. Questo fatto conferma il totale scollamento tra il parassitismo finanziario e l’economia reale, risultato delle politiche di deregulation e della distruzione dell’industria manifatturiera negli Stati Uniti per consegnare alle banche e agli speculatori di Wall Street il ruolo di motore, sia pure artificioso, del sistema economico.
Secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali, infatti, a partire dalla fine del 2007 le cinque principali Banche Centrali del pianeta hanno immesso sui mercati qualcosa come 6 mila miliardi di dollari, ufficialmente per tenere a galla l’intero sistema economico. Più recentemente, da parte sua la Fed americana ha messo in atto un’aggressiva politica monetaria, definita “quantitative easing”, una pratica che consiste sostanzialmente nello stampare denaro per mettere a disposizione delle grandi banche una quantità virtualmente illimitata di fondi. La Fed, cioè, acquista attualmente azioni e titoli finanziari per 85 miliardi di dollari ogni mese (più di mille miliardi all’anno), consentendo agli investitori di Wall Street di continuare ad accumulare enormi profitti tramite rischiose operazioni finanziarie.
Una simile pratica, oltre a contraddire clamorosamente la pretesa delle classi dirigenti che non esistono risorse per sostenere i precedenti livelli di spesa pubblica, rischia di innescare una nuova bolla ancora più grande di quella esplosa nell’autunno del 2008 con il tracollo di Lehman Brothers, dal momento che un tale scenario lascerebbe esposte anche le stesse Banche Centrali che oltre quattro anni fa garantirono il salvataggio del sistema venendo in soccorso degli istituti sull’orlo del collasso.
Per questo motivo, il governatore della Fed, Ben Bernanke, solo qualche giorno fa ha confermato il persistere del “quantitative easing” fino a quando, a suo dire, il livello di disoccupazione non sarà sceso sensibilmente. La decisione di proseguire con questa politica monetaria ha ricevuto molte critiche all’interno della Fed proprio per i timori che essa possa alimentare una bolla distruttiva e, recentemente, soltanto l’ipotesi di una sospensione del “quantitative easing” ha fatto registrare una rapida discesa degli indici di borsa.
Questa stessa politica monetaria continua peraltro ad essere adottata anche da altre Banche Centrali nei paesi più avanzati, anche perché contribuisce alla svalutazione della loro moneta, rendendo più competitive le esportazioni a discapito dei rispettivi concorrenti, con il rischio però di scatenare una pericolosa guerra delle valute su scala globale. Il Giappone, in particolare, con il ritorno al potere del premier conservatore Shinzo Abe ha dato inizio in queste settimane all’immissione sul mercato di enormi quantità di denaro per “stimolare l’economia” sull’esempio della Fed americana.Negli Stati Uniti, il rialzo artificioso del Dow Jones, ma anche degli altri indici di borsa più importanti, è da collegare dunque a quella che ancora il New York Times qualche giorno fa ha definito “l’età dell’oro per i profitti delle corporation”, saliti a livelli vertiginosi proprio in concomitanza con l’impoverimento delle masse.
A confermare l’allargamento senza precedenti delle disuguaglianze di reddito in America sono i dati ufficiali che indicano, ad esempio, come i profitti delle compagnie private nel terzo trimestre del 2012 abbiano fatto segnare il livello più alto dal 1950 in termini di percentuale del redito totale del paese (14,2%), mentre le entrate dei lavoratori dipendenti hanno sfiorato il punto più basso dal 1966 (61,7%). Inoltre, il fatturato delle corporation a partire dallo scoppio della crisi nel 2008 è cresciuto alla media annuale del 20,1% contro un misero 1,4% al netto delle tasse per il resto del paese.
A differenza di quanto generalmente scritto in questi giorni dai principali media americani, questa esplosione dei profitti non è giunta nonostante la disoccupazione ancora elevata o i tagli alla spesa pubblica che hanno frenato l’economia, bensì precisamente in conseguenza di tutto questo. Grazie ad una classe politica interamente al loro servizio, l’aristocrazia parassitaria statunitense sta infatti raggiungendo livelli di ricchezza mai visti, appropriandosi delle risorse sottratte a decine di milioni di persone che continuano a pagare a carissimo prezzo una crisi per il cui scoppio non hanno avuto alcuna responsabilità.
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di Fabrizio Casari
La notizia è arrivata in tarda serata, dura, secca, dolorosa come un colpo allo stomaco. Il Presidente del Venezuela, Comandante Hugo Chavez Frias, è morto. E’ l’esito di una lotta lunga due anni contro il cancro e di una battaglia senza sosta lunga una vita intera contro l’imperialismo Usa in America Latina. Stati Uniti che vengono accusati dal vicepresidente Nicolas Maduro di aver complottato contro la vita stessa di Chavez oltre che contro la stabilità politica del Paese.
Si parla di avvelenamento e da Washington, ovviamente, smentiscono sdegnati. Nelle stesse ore, intanto, Caracas ha espulso due alti funzionari della locale ambasciata statunitense per ingerenza negli affari interni del Venezuela. I prossimi giorni ci saranno maggiori elementi per capire la dimensione precisa delle accuse dei vertici della Rivoluzione bolivariana, per ora prevale l’emozione di un paese che è stato colpito direttamente al cuore.
Le decine di migliaia di persone che si riversano in strada a testimoniare l’amore per il loro leader, raccontano di un paese che si troverà da domani alle prese con un necessario riassetto della leadership in grado di far fronte all’offensiva di una destra tra le peggiori del pianeta per corruzione, servilismo e odio sociale nei confronti dei nullatenenti. Una storia che proprio Chavez ha saputo ribaltare, portando alla ribalta le ragioni del suo popolo e mettendo all’angolo, elezione dopo elezione, referendum dopo referendum, le ambizioni di una borghesia nazionale dominante verso l’interno e telecomandata dall’esterno.
Nelle due occasioni che ho avuto di parlargli, l’impressione di avere di fronte un uomo capace di superare i suoi stessi limiti pur di raggiungere gli obiettivi che si proponeva, si sommava a quella di avere di fronte un leader davvero completamente immedesimato con il suo popolo, immerso fino in fondo nel suo destino. Proprio aver incontrato tanti leader di tanti paesi mi facilitava la sensazione di avere di fronte qualcuno di assolutamente diverso.
La lotta dell’impero e dei suoi funzionari contro Chavez non ha avuto sosta, nulla è stato risparmiato per disarcionare il presidente venezuelano dal potere. Ma nemmeno con il colpo di stato del 2002, come sempre deciso e organizzato a Washington, riuscirono ad aver ragione della rivoluzione bolivariana. Chavez, deposto dai militari traditori, nel giro di poche ore venne rimesso al suo posto da una sollevazione popolare e i golpisti dovettero riparare all’estero o finirono agli arresti.Sia il Venezuela che l’intera America Latina sono state sedotte e conquistate da un uomo che ha saputo realizzare una rivoluzione autentica, rovesciando con le due idee e i suoi atti l’ordine preesistente. Capace di comunicare come nessuno mai con il suo popolo, Chavez è stato il nemico giurato dell’oligarchia venezuelana e uno dei più accaniti sostenitori delle ragioni di un nuovo socialismo - il socialismo del terzo millennio - che tanto impulso ha dato al pensiero progressista proprio nella fase storica nella quale la sinistra cominciava a pagare, internazionalmente, il costo di una sconfitta epocale. Ma pur nell’epoca del pensiero unico, il Presidente venezuelano seppe porsi in prima fila nella rielaborazione di una teoria politica socialista, che si compone di indipendenza nazionale, giustizia sociale e solidarietà internazionalista, sul piano regionale come su quello globale.
Dedicò ogni sforzo al consolidamento delle relazioni continentali e non lesinò aiuti e sostegno ai paesi con minori possibilità. Da essi venne sempre ricambiato con la disponibilità totale a combattere le stesse battaglie, a perseguire gli stessi obiettivi, a disegnare un nuovo continente unito, libero dal giogo del Washington consensus. Il suo rapporto straordinario con Fidel Castro ha in qualche modo rappresentato, anche simbolicamente un passaggio di testimone dalla resistenza di un’isola orgogliosa e ribelle ad un intero continente oggi profondamente immerso nella sua nuova storia democratica e socialista.
Nella storia del Venezuela Chavez può ben essere definito l’erede di Simon Bolivar. Una personalità debordante, un carisma raro, una connessione di sentimenti ed emozioni con il suo popolo difficile da riscontrare con frequenza. Un amore verso gli ultimi della sua terra assolutamente ricambiato. Il Venezuela di Chavez, lungi dall’essere un paradiso in terra e pure ancora alla ricerca di una dimensione finalmente libera dalle contraddizioni violente di una società complessa, è stato infatti negli ultimi dodici anni un paese diverso; più giusto, più umano, lontano sideralmente dal covo d’ingiustizia e apartheid sociale ed etnico che decenni di dittatura militare e democrazie fantoccio, entrambe stabilite a Washington e applicate a Caracas come in ogni dove dell’America Latina, avevano caratterizzato. Tutto cambiò nel 1998, quando l’ex ufficiale dei paracadutisti strappò il suo paese al destino di republica petrolera prima nei profitti e ultima nell’equità.Analfabetismo, morti per povertà, fame strisciante e diffusa, mancanza di case e di assistenza sanitaria per i poveri ebbero i mesi contati. La riconversione dei proventi del petrolio in investimenti di politiche sociali a favore degli ultimi in patria, mentre fuori dai confini l’intensa attività di Chavez, ispiratore dell'alleanza bolivariana delle americhe (ALBA) ha dato un enorme, fondamentale contributo alla rete straordinaria di alleanze politiche con i governi progressisti di tutta l’America Latina e che rappresenta oggi la nuova stagione democratica del continente.
Entro trenta giorni verranno convocate nuove elezioni e l'appuntamento elettorale sarà il primo passaggio politico che dirà se la rivoluzione bolivariana potrà continuare senza Chavez. Le parole di Maduro, in lacrime, in rappresentanza del governo e delle Forze Armate, al momento della comunicazione della morte di Chavez, non lasciano dubbi circa l’unità del gruppo dirigente che dovrà raccoglierne, nel modo che potrà e saprà darsi, l’eredità del chavismo: “Noi civili e militari assumiamo la tua eredità, le tue sfide, il tuo progetto; accompagnati dal nostro popolo, le nostre bandiere saranno sventolate con dignità. Grazie Comandante, mille volte grazie”.
Le forze armate del Venezuela sono state dispiegate in tutto il paese, a garantire ordine e a fornire un messaggio chiaro a tutti coloro che, dall’interno e dall’esterno del Paese, fossero accarezzati dall’idea di approfittare della situazione. Sono ore di commozione e di rimpianti, di dolore e sgomento, non di debolezza. Ore nelle quali il popolo prenderà le sue strade e suoi nemici troveranno luogo solo al riparo delle loro case. Senza essere visto, armato della la spada di Bolivar e del suo sorriso aperto, Chavez passeggia e passeggerà ancora a lungo per le strade del suo Venezuela.