di Michele Paris

Nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione dopo avere ottenuto un secondo mandato alla Casa Bianca, Barack Obama ha parlato martedì di fronte ai due rami del Congresso USA facendo ancora una volta ricorso ai toni populisti che hanno caratterizzato le sue più recenti uscite. Come già accaduto nel discorso di inaugurazione dello scorso mese di gennaio, il presidente democratico ha infatti avanzato una serie di improbabili proposte che dovrebbero beneficiare la classe media d’oltreoceano, rivelando così un’apprensione crescente in alcune sezioni della classe dirigente di Washington per le resistenze diffuse nel paese nei confronti delle politiche messe in atto in questi anni esclusivamente a favore di una ristretta cerchia di privilegiati.

Secondo i commenti ufficiali seguiti all’intervento di Obama, il punto centrale del discorso sarebbe stato il tentativo di rilanciare il ruolo del governo nella promozione della crescita economica e, ancor più, nella riduzione delle disuguaglianze di reddito prodotte da oltre tre decenni di deregolamentazione dell’economia e dell’industria finanziaria americana e ulteriormente aumentate dal 2009 a oggi.

Obama ha dunque invitato il Congresso ad innalzare per legge il livello infimo dello stipendio minimo negli Stati Uniti, attualmente fissato a 7,25 dollari l’ora. Per l’inquilino della Casa Bianca, la paga minima dei lavoratori americani dovrebbe salire progressivamente a 9 dollari l’ora entro la fine del 2015 e successivamente essere ancorata al livello di inflazione.

Questo provvedimento, fortemente avversato dagli ambienti conservatori, contrari a qualsiasi intervento che possa intaccare i profitti delle compagnie private, dovrebbe riguardare 15 milioni di lavoratori negli USA, anche se, ad esempio, un nucleo familiare monoreddito di tre persone con un salario a 9 dollari l’ora rimarrebbe comunque al di sotto dell’irrisoria soglia ufficiale di povertà.

Inoltre, la paga oraria minima proposta martedì da Obama risulta inferiore ai 9,5 dollari che l’allora senatore dell’Illinois aveva chiesto in campagna elettorale quasi cinque anni fa e, tenendo in considerazione l’inflazione, ben al di sotto anche dei livelli raggiunti negli anni Sessanta e Settanta.

Assieme all’assurda affermazione che gli americani “uniti” hanno “spazzato via le macerie della crisi”, Obama ha poi elencato una lunga serie di provvedimenti da adottare in vari ambiti, dall’immigrazione alla riduzione delle emissioni in atmosfera, dal controllo sulla vendita delle armi all’educazione pubblica, ben consapevole però dell’improbabilità di vederli approvati da un Congresso diviso tra i due principali partiti.

Nel gioco delle parti di una politica americana totalmente al servizio dei poteri forti, la consueta replica al discorso sullo stato dell’Unione del presidente è stata affidata quest’anno al senatore repubblicano ultra-conservatore della Florida, Marco Rubio, da molti già considerato come un probabile candidato alla Casa Bianca nel 2016.

Il contro-intervento di Rubio ha prevedibilmente bocciato le misure avanzate da Obama, ispirate, a suo dire, dalla solita tendenza dei democratici ad aumentare le tasse e ad assegnare un ruolo eccessivo al governo federale. Una posizione quella esposta dai repubblicani che conferma l’impraticabilità politica del percorso tracciato da Obama, a parte forse sulla questione dell’immigrazione, vista da molti nel partito del senatore cubano-americano come un’occasione per conquistare qualche consenso tra l’elettorato ispanico.

Le parole di Obama hanno invece mandato quasi in delirio media e commentatori liberal, precipitatisi a scrivere di come il presidente democratico abbia delineato il futuro di un paese che non deve obbligatoriamente rimanere impantanato perennemente nelle politiche di austerity ma che abbia il coraggio di liberare risorse da investire nell’educazione o in un massiccio programma di lavori pubblici. Il tutto, ovviamente, senza aumentare un deficit già ben oltre i livelli di guardia.

Come ha recitato l’editoriale di mercoledì del New York Times, Obama avrebbe spiegato “ad una vasta platea quello che potrebbe essere realizzato se solo si raggiungesse un minimo di consenso a Washington”. Un’affermazione, quest’ultima, che rivela la solita fantasia liberal di come sia sufficiente trovare un punto d’incontro tra i politici dei due schieramenti per correggere le imperfezioni del sistema e raggiungere un livello accettabile di giustizia sociale nel paese, tralasciando deliberatamente di evidenziare la crisi strutturale del capitalismo americano, il cui tentativo di salvataggio è la ragione principale delle politiche anti-sociali implementate dopo il crollo dell’economia a partire dall’autunno del 2008.

Come hanno ampiamente dimostrato le principali iniziative intraprese dall’amministrazione Obama nel corso del suo primo mandato, inoltre, il ruolo attribuito al governo federale dall’attuale presidente difficilmente coincide con una visione progressista. Solo per citare uno degli esempi più lampanti, l’intervento deciso nel 2009 per “salvare” i giganti dell’auto di Detroit ha avuto infatti come scopo il ritorno all’accumulazione di profitti per questi ultimi tramite lo smantellamento dei diritti degli operai e il dimezzamento delle retribuzioni.

Allo stesso modo, l’utilizzo degli strumenti a disposizione del governo per il vantaggio dei poteri forti è risultato evidente anche nell’ambito della cosiddetta riforma del sistema sanitario, il cui fine non è mai stato il diritto alle cure mediche di ogni cittadino, bensì la riduzione dei costi attraverso il razionamento dei servizi e la messa a disposizione di decine di milioni di nuovi clienti per le compagnie assicurative private.

Nonostante l’ampio spazio riservato da Obama alle questioni economiche, il momento probabilmente più significativo del suo discorso è giunto quando il presidente ha citato, sia pure velatamente, le manovre in corso attorno al programma di assassini mirati con i droni. Il pubblico americano ha infatti dovuto assistere allo spettacolo sconcertante di un presidente che, di fronte al Congresso di un paese considerato la culla della democrazia, ha proclamato, senza suscitare alcuna reazione, l’assunzione nelle mani dell’esecutivo di poteri di fatto da stato di polizia.

Parlando di sicurezza nazionale, Obama ha cioè spiegato che, “quando si renderà necessario, attraverso una serie di misure, continueremo ad agire in maniera diretta contro quei terroristi che rappresentano una grave minaccia per gli americani”. Il riferimento agli assassini extra-giudiziari tramite i velivoli senza pilota è risultato evidente a tutti i presenti nell’aula che ospita la Camera dei Rappresentanti.

Obama ha poi ribadito la volontà della sua amministrazione di “creare stabili fondamenta legali” per simili operazioni svincolate da ogni supervisione giudiziaria, così da istituzionalizzarle e dare un’impressione di trasparenza alla gestione di un programma criminale e palesemente contrario ai principi fondamentali della Costituzione.

L’assenza di obiezioni tra i politici o i giudici della Corte Suprema che hanno ascoltato queste affermazioni del presidente sono state seguite dalla stessa mancanza di commenti su questo punto nei media d’oltreoceano, impegnati piuttosto a celebrare la presunta sterzata progressista del presidente agli albori del suo secondo mandato. Un silenzio assordante quello a cui si è assistito martedì che la dice lunga sullo stato di decomposizione delle istituzioni democratiche dell’Unione nell’era Obama.

di Michele Paris

Dando seguito ad una minaccia lanciata sul finire dello scorso anno, nella giornata di martedì la Corea del Nord ha portato a termine il suo terzo test nucleare in violazione di svariate risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’esplosione controllata, condotta nel nord del paese, è stata immediatamente seguita da una valanga di condanne da parte dei governi di tutto il mondo, compreso quello dell’unico alleato di Pyongyang, la Cina, i cui spazi di manovra per contenere le tensioni nella penisola coreana rimangono però estremamente limitati vista la vitale rilevanza strategica del vicino nord-orientale.

L’azione intrapresa dal regime nordcoreano sarebbe la diretta conseguenza del nuovo round di sanzioni adottate dall’ONU nel dicembre scorso in risposta al lancio di quello che l’Occidente ha descritto come un missile balistico di lunga gittata, mentre per Pyongyang era soltanto la messa in orbita di un satellite ad uso civile. L’annuncio del test è stato dato dall’agenzia di stampa ufficiale della Corea del Nord, KCNA, secondo la quale sarebbe stato utilizzato “un dispositivo nucleare miniaturizzato e più leggero ma con un potenziale esplosivo maggiore rispetto ai precedenti… senza causare alcun impatto negativo sull’ambiente circostante”.

Dopo aver rilevato un evento sismico di magnitudo 5,1, pari a circa il doppio di quello provocato dall’esperimento del 2009, l’esplosione è stata successivamente confermata anche dagli Stati Uniti, così come dalla Corea del Sud e dall’agenzia con sede a Vienna che si occupa del monitoraggio dei termini del trattato che bandisce i test nucleari. Il primo test nordcoreano, anch’esso di portata inferiore rispetto a quello di martedì, era stato condotto invece nel 2006.

Il test è stato subito sfruttato dagli Stati Uniti per esercitare ulteriori pressioni sulla Corea del Nord. La Casa Bianca ha infatti parlato di “un atto altamente provocatorio” che danneggia la stabilità della regione. Simili prese di posizioni sono giunte prevedibilmente anche dal neo-primo ministro conservatore giapponese, Shinzo Abe, e dal presidente-eletto sudcoreano, Park Geun-hye, per la quale il più recente test nucleare non farà che isolare ulteriormente un paese già sottoposto a pesanti sanzioni internazionali.

Proprio nuove sanzioni sono state minacciate da molti governi, anche se la Corea del Nord non ha praticamente legami commerciali con paesi esteri ad eccezione della Cina, mentre il suo principale alleato impedirebbe in ogni caso l’adozione di misure più incisive che potrebbero destabilizzare il regime stalinista di Pyongyang.

Nella giornata di martedì, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha emesso un comunicato di condanna che ha citato le sanzioni approvate nel mese di gennaio, promettendo inoltre nuove iniziative nella riunione di emergenza che è stata convocata.

Come già anticipato, quella che è stata descritta come una nuova provocazione da parte di Pyongyang ha spinto la Cina ad emettere una condanna insolitamente dura e a convocare l’ambasciatore nordcoreano a Pechino per manifestare il proprio malcontento. Apparentemente, infatti, il test condotto dal giovane leader nordcoreano, Kim Jong-un, sembra rappresentare uno schiaffo per Pechino, da dove nelle ultime settimane erano stati lanciati ripetuti inviti a non procedere con nuovi esperimenti nucleari. Nei giorni scorsi, inoltre, i giornali cinesi avevano apertamente avvertito la Corea del Nord che, in caso avesse scelto di procedere, il regime avrebbe “pagato a caro prezzo” la propria decisione.

Nonostante i toni piuttosto duri assunti da Pechino in risposta al test nordcoreano, appare comunque inverosimile che la Cina giunga ad adottare misure estreme nei confronti dell’alleato, come richiesto da più parti in Occidente. Se il regime della Corea del Nord deve la sua sopravvivenza in gran parte all’assistenza cinese, è altrettanto vero che la stabilità di questo paese risulta di estrema importanza per gli interessi di Pechino.

La Cina, inoltre, ha dato il proprio consenso a molte delle sanzioni finora approvate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU ma ha respinto l’implementazione di provvedimenti più duri per evitare di destabilizzare Pyongyang. In ultima analisi, d’altra parte, un eventuale crollo del regime della famiglia Kim potrebbe materializzare uno scenario da incubo per Pechino, vale a dire una penisola coreana unificata e alleata degli Stati Uniti.

Questa preoccupazione, con ogni probabilità, continuerà quindi a prevalere a Pechino, soprattutto alla luce del fatto che, come ha ricordato un’analista di stanza in Cina in un’intervista rilasciata martedì al New York Times, la politica nordcoreana viene in gran parte decisa ancora dai “tradizionalisti all’interno dell’Esercito e del Dipartimento Relazioni Internazionali del Partito Comunista”, le cui priorità relativamente alla penisola consistono, nell’ordine, nell’evitare un conflitto, ridurre al minimo l’instabilità e, solo da ultimo, impedire la proliferazione di armamenti nucleari.

Allo stesso tempo, tuttavia, la presunta mancanza di disciplina della Nord Corea non solo continua ad essere un motivo di grave imbarazzo per il regime di Pechino, ma fornisce anche la giustificazione agli USA per intensificare la propria presenza militare in Estremo Oriente. In questo scenario, la Cina deve perciò destreggiarsi in modo da mantenere in vita un regime che rappresenta un cuscinetto strategico fondamentale contro la rinnovata aggressività americana nella regione, ma anche cercando di esercitare un certo controllo su Pyongyang, evitando provocazioni eccessive che finiscano per innescare un confronto aperto con gli Stati Uniti e la Corea del Sud.

Il difficile equilibrio che la Cina sembra costretta a mantenere nei confronti di Pyongyang è risultato evidente dalle stesse reazioni al test nucleare di martedì. Oltre alle parole di condanna, infatti, il Ministero degli Esteri di Pechino ha invitato “tutte le parti ad abbassare i toni e a risolvere la questione della denuclearizzazione della penisola coreana attraverso il dialogo e le consultazioni” nel quadro dei cosiddetti “Colloqui a Sei” tra le due Coree, gli USA, la Cina, il Giappone e la Russia, lanciati nel 2003 e arenatisi nel dicembre del 2008.

Più in generale, alcuni giornali cinesi hanno cercato di mettere in luce le ragioni che hanno spinto la Corea del Nord a condurre tre test nucleari negli ultimi sette anni, mentre la maggior parte dei media occidentali continuano ad offrire motivazioni legate, ad esempio, ai cambiamenti ai vertici dei governi di Corea del Sud e Cina, alla transizione verso la seconda amministrazione Obama, al desiderio di Pyongyang di rimanere al centro dell’attenzione internazionale se non addirittura alla totale irrazionalità del regime di Kim Jong-un.

In questo senso, un editoriale apparso martedì sul quotidiano cinese filo-governativo Global Times ha affermato che, “in apparenza, Pyongyang ha ripetutamente violato le risoluzioni dell’ONU ed usato il proprio programma nucleare come un’arma per sfidare la comunità internazionale, mentre in realtà il comportamento della Corea del Nord ha profonde radici nel forte senso di insicurezza che pervade il regime dopo anni di duro confronto con Seoul, con il Giappone e con un paese molto superiore militarmente come gli Stati Uniti”.

“Agli occhi della Corea del Nord”, continua il pezzo dell’organo del Partito Comunista di Pechino, “Washington non ha risparmiato sforzi per contenere Pyongyang e mostrare ripetutamente i muscoli, tenendo esercitazioni militari nella regione assieme alla Corea del Sud e al Giappone”. Perciò, “l’ultimo test nucleare sembra essere un’altra manifestazione del tentativo da parte di una disperata Corea del Nord di allontanare questa minaccia”.

In sostanza, mentre l’Occidente bolla puntualmente come propaganda le consuete dichiarazioni del regime stalinista, secondo cui il test di martedì sarebbe “un atto di auto-difesa nei confronti dell’ostilità degli Stati Uniti”, esse indicano al contrario la sensazione prevalente all’interno della cerchia di potere nordcoreana, isolata e accerchiata da decenni da una minacciosa superpotenza come quella americana.

Una percezione non del tutto ingiustificata, quella di Pyongyang, che contribuisce a spiegare anche la persistente chiusura del regime e che andrebbe tenuta in qualche considerazione per aprire una qualsiasi ipotesi di dialogo.

Le politiche basate sulle pressioni, le minacce e le ripetute sanzioni, d’altra parte, non hanno fatto altro che irrigidire la posizione della Corea del Nord fino a provocare tre test nucleari, tralasciando puntualmente, e forse volutamente, di rimuovere le ragioni che hanno alimentato il clima di estrema diffidenza reciproca che caratterizza i rapporti con Seoul e Washington fin dall’armistizio che pose fine alla Guerra di Corea nel 1953.

In un clima di tensioni sempre più evidenti in Estremo Oriente, causate principalmente dalla cosiddetta “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama e dal conseguente ricorso al nazionalismo più spinto da parte di tutti i governi della regione, la strategia degli Stati Uniti continua però andare esattamente in senso opposto, aggravando ulteriormente lo scontro nella penisola di Corea, con conseguenze che potrebbero andare ben oltre i confini dei due paesi divisi dal 38esimo parallelo.

di Michele Paris

La settimana appena conclusa ha fatto registrare una serie di importanti annunci relativi alle trattative sulla questione del nucleare iraniano e alla possibile apertura di un qualche colloquio tra Washington e Teheran. Gli incerti passi avanti prospettati dalla stampa internazionale, tuttavia, sembrano essere contraddetti dall’atteggiamento sempre più intimidatorio degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali, tanto che a chiudere la porta a qualsiasi negoziato diretto per il prossimo futuro è stato alla fine il leader supremo della Repubblica Islamica in prima persona, l’ayatollah Ali Khamenei.

Un grande risalto era stato dato dai giornali americani una decina di giorni fa alla cosiddetta offerta di dialogo diretto avanzata dal vice-presidente, Joe Biden, nel corso dell’annuale Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera, alla quale era presente anche il ministro degli Esteri iraniano, Ali Akbar Salehi. Tuttavia, non solo la proposta di Biden era giunta con i consueti ammonimenti al regime di Teheran per piegarsi al volere americano, ma le vere intenzioni degli USA sono state chiarite solo pochi giorni più tardi, quando il Dipartimento del Tesoro ha annunciato l’adozione di nuove pesanti sanzioni contro entità e organismi iraniani che non hanno praticamente nulla a che vedere con il discusso programma nucleare.

I più recenti provvedimenti prendono di mira infatti l’autorità delle telecomunicazioni IRIB e il suo direttore, Ezzatollah Zarghami, due agenzie che secondo le autorità di Washington gestiscono il traffico internet in Iran bloccando l’accesso ai siti web sgraditi al governo e le Industrie Elettroniche dell’Iran, un’azienda statale che produce, sempre secondo il Tesoro USA, apparecchiature destinate al monitoraggio e all’intercettazione delle comunicazioni elettroniche nel paese.

Per il sottosegretario al Tesoro, David Cohen, queste sanzioni colpiscono entità responsabili dell’abuso dei diritti umani, “in particolare negando al popolo iraniano le basilari libertà di espressione e di assemblea”. Singolarmente, l’implementazione di queste nuove misure è giunta più o meno in concomitanza con la pubblicazione negli Stati Uniti di un documento riservato del Dipartimento di Giustizia che stabilisce le basi pseudo-legali per assegnare al presidente l’autorità incontestata di assassinare cittadini americani sospettati di terrorismo ovunque nel mondo, facendo carta straccia della Costituzione e dei fondamentali diritti individuali in essa contenuti.

Inoltre, gli scrupoli democratici che avrebbero spinto l’amministrazione Obama ad adottare le nuove sanzioni si scontrano sia con la pratica ormai ultra-decennale da parte del governo americano, nell’ambito della “guerra al terrore”, di intercettare le comunicazioni dei propri cittadini senza passare attraverso un tribunale, sia con il sostegno incondizionato garantito da Washington a regimi dittatoriali e repressivi nel mondo arabo, a cominciare dall’Arabia Saudita, come è noto il principale rivale di Teheran nella regione.

Le persone e gli enti così colpiti dalle sanzioni, in ogni caso, si vedranno confiscati tutti gli eventuali beni di cui dispongono in territorio statunitense e chiunque intratterrà rapporti con essi verrà escluso dal sistema finanziario americano.

In aggiunta ai provvedimenti annunciati mercoledì scorso, il Dipartimento del Tesoro ha anche ricordato l’entrata in vigore ufficiale di sanzioni adottate in precedenza e che avranno un impatto devastante sull’economia iraniana, dal momento che renderanno pressoché impossibile trasferire in patria i proventi derivanti dall’export petrolifero. Il denaro corrisposto per le vendite di petrolio iraniano dovranno cioè rimanere su un conto del paese acquirente e l’Iran lo potrà utilizzare solo per acquistare in questo stesso paese beni da importare.

Con simili premesse, è dunque facile prevedere quale sarà l’esito del nuovo round di negoziati sul nucleare tra la Repubblica Islamica e i cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania), previsto per il 25 febbraio ad Almaty, in Kazakistan.

Oltretutto, indiscrezioni di vari diplomatici occidentali nei giorni scorsi hanno lasciato intendere che la proposta che i P5+1 metteranno sul tavolo tra due settimane sarà sostanzialmente identica a quella dei precedenti incontri e che non ha fatto muovere alcun passo verso un possibile accordo. Gli Stati Uniti e i loro alleati intendono cioè imporre all’Iran, tra l’altro, lo stop all’arricchimento dell’uranio al 20% e l’invio in un paese terzo di quello già arricchito perché venga trasformato in combustibile per i propri reattori, così da non poter essere utilizzato a scopi militari.

Inoltre, Teheran dovrebbe garantire accesso illimitato agli ispettori internazionali ad un sito militare dove, secondo più che dubbi rapporti di intelligence occidentali, sarebbero stati condotti in passato esperimenti su armi nucleari. In cambio, l’Iran riceverebbe contropartite insignificanti, come la fornitura di parti di ricambio per la propria flotta aerea e, solo se verranno soddisfatte le imposizioni dei P5+1, un graduale allentamento delle sanzioni meno gravose.

In questo scenario, l’ayatollah Khamenei ha alla fine riportato con i piedi per terra quanti si erano illusi di assistere ad un possibile cambio di prospettiva dell’amministrazione Obama dopo le elezioni del novembre scorso. Nella giornata di giovedì, infatti, la guida suprema della Rivoluzione ha pubblicamente affermato che “l’Iran non intende negoziare sotto pressione”, visto che “gli Stati Uniti tengono un’arma puntata contro di noi e pretendono che noi parliamo con loro”. “La nazione iraniana”, ha poi concluso Khamenei, “non si farà intimidire da simili azioni”.

La stessa posizione di Khamenei è stata ribadita lunedì anche dal capo delle Forze Armate iraniane, generale Hassan Firouzabadi. Quest’ultimo, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa semi-ufficiale Fars, ha sottolineato che “l’offerta di dialogo degli Stati Uniti in contemporanea con l’intensificarsi delle sanzioni è una contraddizione” e dimostra “la mancanza di sincerità” da parte di Washington.

La questione del nucleare e dei rapporti con gli Stati Uniti si è però inevitabilmente innestata sullo scontro politico interno in Iran tra le fazioni di potere che fanno capo a Mahmoud Ahmadinejad e allo stesso Khamenei, complicando la situazione, tanto che il presidente domenica scorsa ha invece ribadito la sua disponibilità ad aprire un dialogo diretto con Washington se cesseranno le pressioni sul suo paese.

Intervenendo nel corso di una cerimonia per festeggiare l’anniversario della rivoluzione del 1979, Ahmadinejad ha comunque fatto ricorso alla stessa immagine utilizzata qualche giorno prima da Khamenei, invitando gli Stati Uniti a togliere la loro “arma dal volto degli iraniani” se desiderano realmente avviare un negoziato bilaterale.

In ogni caso, per il momento entrambe le parti sembrano intenzionate a prendere tempo in attesa dell’esito delle elezioni presidenziali in Iran del giugno prossimo. Al di là dell’inevitabile atteggiamento inflessibile adottato pubblicamente dalle autorità di Teheran, infatti, come ha scritto domenica la Reuters, l’Iran ha ripreso la conversione di modeste quantità di uranio ad alto livello di arricchimento in combustibile per i reattori nucleari, riducendo così la quantità di materiale teoricamente utilizzabile per costruire un’arma atomica.

Questo piccolo segnale distensivo proveniente dalla Repubblica Islamica è stato confermato dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), la quale a fine febbraio dovrebbe inoltre rendere noto il proprio rapporto sullo stato dell’attività nucleare iraniana.

Come dimostrano le nuove sanzioni, però, le settimane che precederanno le presidenziali in Iran saranno utilizzate con ogni probabilità dagli Stati Uniti per aumentare ulteriormente le pressioni su Teheran e cercare di destabilizzare un sistema già attraversato da gravi tensioni in vista del voto. Washington, d’altra parte, utilizza da tempo i negoziati con i P5+1 per lanciare ultimatum inaccettabili alla Repubblica Islamica, al preciso scopo di suscitare inevitabili reazioni negative e giustificare ulteriori minacce, compresa quella di una possibile aggressione militare.

A questo scopo, infatti, i preparativi per un eventuale conflitto sono apparsi evidenti nel fine settimana scorso, quando ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, gli USA hanno organizzato un’esercitazione militare con una trentina di altri paesi, ufficialmente per impedire il transito di “armi di distruzione di massa” nel Golfo Persico.

Infine, il Comando Centrale americano - responsabile delle operazioni militari in Medio Oriente - ha annunciato qualche giorno fa una nuova esercitazione multinazionale nelle stesse acque per il mese di maggio, con lo scopo di addestrare la propria marina e quella di altri venti paesi alleati per neutralizzare qualsiasi tentativo di chiusura dello Stretto di Hormuz, da cui transita circa un quinto della produzione petrolifera globale. Un’azione, quest’ultima, più volte minacciata dall’Iran come ritorsione per un eventuale attacco degli Stati Uniti o di Israele.

di Michele Paris

L’assassinio avvenuto mercoledì scorso di un leader dell’opposizione secolare in Tunisia ha fatto precipitare nel caos un paese che continua ad essere attraversato da profonde tensioni sociali a oltre due anni dalla deposizione del presidente e autocrate Zine el-Abidine Ben Ali. Nonostante la pretesa, propagandata da media e governi occidentali, di una transizione relativamente pacifica e indolore, additata come modello per gli altri paesi sconvolti dalla Primavera Araba, il nuovo regime non ha infatti risolto nessuna delle contraddizioni che avevano fatto esplodere le proteste tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, lasciando intatto un sistema economico e sociale che non ha nulla da offrire alla vasta maggioranza della popolazione tunisina.

Come è ormai noto, il 47enne Chokri Belaid è stato ucciso nella mattinata di mercoledì mentre stava salendo in auto fuori dalla propria abitazione in un elegante quartiere di Tunisi. Secondo il ministro dell’Interno, dei testimoni avrebbero visto due uomini armati sparare quattro colpi contro il politico tunisino prima di fuggire.

Nonostante il modesto risultato del suo partito dei Patrioti Democratici nelle elezioni seguite alla rivoluzione, Belaid era emerso come uno dei più attivi leader dell’opposizione e da tempo stava cercando di creare un blocco unitario delle forze di centro-sinistra da opporre al governo guidato dal partito islamista moderato Ennahda. Nei giorni precedenti il suo assassinio, Belaid aveva intensificato le critiche nei confronti dell’esecutivo, accusandolo in particolare di non avere fatto abbastanza per contenere l’influenza nel paese degli integralisti islamici salafiti.

Quello che è stato definito come il primo assassinio politico dalla caduta di Ben Ali ha fatto dunque esplodere nuovamente le proteste contro il governo in tutto il paese, con violenti scontri tra polizia e manifestanti registrati in particolare mercoledì di fronte alle sedi del Ministero dell’Interno tunisino e di Ennahda, soprattutto dopo che i familiari di Belaid avevano espressamente accusato il partito al potere per la sua morte.

Le ripercussioni politiche dell’omicidio e delle proteste di piazza si sono fatte subito sentire, così che il primo ministro islamista, Hamad Jebali, ha annunciato nella tarda serata di mercoledì le dimissioni del suo governo. Al posto di quest’ultimo, Jebali ha invocato la formazione di un esecutivo “tecnico” che dovrebbe ricevere il sostegno di tutte le forze politiche tunisine e rimanere in carica fino alle prossime elezioni, da tenersi il più presto possibile.

L’iniziativa di Jebali, secondo quanto riportato giovedì dalla Reuters, è stata però respinta dal vice-presidente di Ennahda, Abdelhamid Jelassi, poiché il premier non si sarebbe consultato con i vertici del suo partito prima di annunciare la propria volontà di formare un governo di unità nazionale.

Per Jelassi, il paese continua ad avere bisogno di un governo politico, possibilmente sostenuto da una coalizione più ampia di quella attuale. I principali partiti dell’opposizione, in ogni caso, hanno per ora negato di essere interessati ad appoggiare un governo tecnico ma non hanno escluso la possibilità di entrare a far parte di un nuovo gabinetto politico.

I membri del governo e i leader islamisti stanno inoltre lanciando una serie di appelli alla calma, dal momento che la nuova classe dirigente tunisina è ben consapevole della profonda inquietudine che attraversa da tempo il paese. Per questo, il premier e i suoi più stretti collaboratori hanno cercato di placare la rabbia della popolazione facendo riferimento alla rivoluzione e all’unità nazionale. Lo stesso Jebali ha così affermato che il vero obiettivo dell’assassinio di Belaid “è la rivoluzione tunisina nel suo insieme”, mentre il ministro dell’Interno, Ali al-Areed, ha definito la morte del leader dell’opposizione “un attacco contro tutti i tunisini”.

Il panico diffusosi rapidamente tra gli esponenti del governo e di Ennahda dimostra a sufficienza come la loro rappresentazione della Tunisia “rivoluzionaria” odierna sia distante anni luce dalle aspirazioni della gran parte della popolazione. Nonostante la retorica, l’appello del capo del governo e dei vertici del partito islamista per la difesa della rivoluzione, infatti, è volto in realtà alla salvaguardia di un sistema che ha lasciato intatti i rapporti di classe precedenti alla cacciata di Ben Ali, installando semplicemente una nuova classe dirigente borghese ben decisa ad inserire stabilmente il paese nord-africano nei circuiti del capitale internazionale.

In un momento di estrema tensione, dunque, l’invito fatto alle forze dell’opposizione a serrare i ranghi e sostenere un nuovo governo serve precisamente a placare i malumori diffusi nel paese ed evitare che la situazione sfugga di mano alle élite politiche tunisine. Nuovi disordini potrebbero però riesplodere già nella giornata di venerdì, quando, in concomitanza con i funerali di Belaid, i più importanti sindacati tunisini hanno indetto uno sciopero generale.

Gli stessi partiti di opposizione intendono comunque sfruttare le proteste popolari solo per fare pressioni sul governo ed entrare eventualmente in un nuovo esecutivo. Le dichiarazioni di vari leader dell’opposizione secolare in questi giorni riflettono precisamente questa posizione. Maya Jribi del Partito Repubblicano, ad esempio, ha affermato che “ora sono necessarie consultazioni con tutte le forze politiche”, mentre l’ex primo ministro, Beji Caid Essebsi, da parte sua ha chiesto le dimissioni di tutto il governo, incluso il primo ministro.

Per l’opposizione, insomma, la crisi innescata dall’assassinio di Chokri Belaid serve solo per i propri calcoli politici, dal momento che i suoi leader, come quelli del governo islamista, temono fortemente l’esplosione di una nuova rivolta nel paese.

La continua implementazione di politiche neo-liberiste da parte del governo di Ennahda, d’altra parte, ha causato negli ultimi mesi un aumento vertiginoso di scioperi e proteste in tutta la Tunisia. Queste manifestazioni sono state spesso affrontate duramente sia dalle forze di sicurezza che da organizzazioni legate agli islamisti al potere, alimentando ancora di più il risentimento popolare nei confronti di un governo incapace di far fronte a disoccupazione e povertà diffusa.

Sui principali media internazionali, tuttavia, la crisi in cui sembra essere nuovamente precipitata la Tunisia è stata collegata pressoché esclusivamente alla crescente influenza nel paese dei gruppi islamisti radicali salafiti, tra le cui fila secondo alcuni andrebbero cercati gli autori dell’assassinio di Belaid. Secondo questa interpretazione, infatti, sarebbero i salafiti i responsabili principali degli ostacoli che sta incontrando un processo di transizione altrimenti fondato su solide basi democratiche.

di Michele Paris

A distanza di oltre quattro anni dal crollo dell’industria finanziaria americana, il governo degli Stati Uniti ha finalmente avviato una causa civile contro uno dei principali responsabili del disastro economico. Nella giornata di lunedì, infatti, il Dipartimento di Giustizia ha annunciato l’apertura di un procedimento legale presso un tribunale di Los Angeles ai danni della più grande agenzia di rating del pianeta, Standard & Poor’s, accusata di avere truffato gli investitori assegnando intenzionalmente valutazioni gonfiate a titoli tossici legati ai mutui subprime.

Standard & Poor’s, così come le altre due principali agenzie private operanti in questo ambito, Moody’s Investors Service e Fitch Ratings, non solo ha presentato come sicuri dei prodotti finanziari estremamente rischiosi ma, grazie ad essi, ha incassato ingenti profitti tra il 2004 e il 2008. Queste agenzie hanno fatto a gara nell’ottenere lucrosi contratti con le banche di Wall Street per valutare i cosiddetti RMBS (“Residential mortgage-backed securities”) o i CDO (“Collateralized debt obligations”), complessi prodotti finanziari derivanti da mutui che in gran parte non sarebbero mai stati rimborsati e poi offerti e venduti ad altre banche e investitori in tutto il mondo.

In questa competizione per accaparrarsi i clienti più importanti, S&P e le sue omologhe avevano tutto l’interesse ad assegnare la tripla A a questo genere di titoli, dal momento che le istituzioni finanziare da controllare preferivano optare per i servizi dell’agenzia di rating più disponibile ad emettere valutazioni positive per i propri prodotti.

L’indagine del Dipartimento di Giustizia che ha portato alla causa contro S&P è stata resa possibile anche grazie alla lettura di un vastissimo numero di e-mail interne che hanno dipinto un quadro chiarissimo della volontà deliberata di frodare gli investitori da parte dei vertici dell’agenzia di rating con sede a Manhattan.

Lo stesso ministro della Giustizia americano, Eric Holder, nell’annunciare la causa, martedì scorso ha affermato che “i dirigenti di S&P hanno presentato agli investitori e alle istituzioni finanziarie una realtà falsificata” e, allo stesso tempo, si sono resi responsabili di “altre iniziative volte a manipolare i criteri di rating e i modelli di valutazione, al fine di aumentare i guadagni e la loro fetta di mercato”.

Uno degli assistenti di Holder al Dipartimento di Giustizia, Tony West, ha poi aggiunto che, “a partire dal 2007, le maggiori banche si sono adoperate assiduamente per creare CDO dai mutui subprime più problematici, così da scaricarli sugli investitori e toglierli dai loro bilanci”. Secondo lo stesso West, il governo disporrebbe delle prove per sostenere “non solo che S&P sapeva quello che le banche stavano facendo, ma che le ha anche aiutate a farlo”.

Infatti, soprattutto tra la primavera e l’estate del 2007, “S&P ha assegnato la tripla A a quasi tutti i CDO valutati, nonostante i suoi rapporti interni mostrassero come le obbligazioni sui mutui, dalle quali dipendeva la qualità di questi stessi CDO, non avrebbero tenuto”.

La pubblicazione di svariate e-mail scritte da analisti di S&P contribuisce inoltre a comprendere quale fosse il clima all’interno dell’agenzia poco prima dell’esplosione della crisi nell’autunno del 2008. Già nel dicembre del 2006, ad esempio, un dipendente di S&P scriveva in una comunicazione interna che “le agenzie di rating continuano a creare un mostro sempre più grande, che è il mercato dei CDO. Speriamo solo di esserci tutti arricchiti ed in pensione quando questo castello di carte crollerà”.

Nel luglio del 2007, invece, un manager di una banca di investimenti ricordava ad un analista di S&P in una e-mail che “noi vi paghiamo e voi date un giudizio ai nostri prodotti; più il giudizio è positivo più soldi facciamo… Com’è possibile che siate imparziali ?”. Nello stesso anno, infine, un dipendente da poco assunto da S&P rispondeva così ad una persona che gli chiedeva del suo nuovo impiego: “Il lavoro va alla grande. A parte il fatto che il mercato degli MBS [Mortgage-backed securities] sta crollando, che gli investitori e i media ci odiano e noi stiamo tutti cercando di salvare la faccia… non ho di che lamentarmi”.

Da altri messaggi interni si evince poi come alcuni funzionari dell’agenzia fossero preoccupati per i metodi utilizzati nel valutare i prodotti finanziari, così che in molti spingevano per cambiarli, non prima però di avere sentito il parere “di un adeguato numero di banche di investimenti” a causa delle implicazioni che una tale modifica dei criteri di rating poteva comportare. Lo scrupolo principale di S&P non era dunque di utilizzare modelli efficaci e imparziali, bensì le reazioni dei clienti e l’impatto che essi avrebbero avuto sui suoi profitti.

Una e-mail del maggio 2004, nel pieno del dibattito interno sull’opportunità di cambiare i metodi di valutazione, metteva infatti in guardia da una mossa di questo genere, poiché S&P aveva appena visto svanire la possibilità di assegnare un rating ad un importante prodotto finanziario a causa della sua inflessibilità nel chiedere maggiori garanzie collaterali per esprimere un giudizio positivo. Per Mizuho, la banca giapponese che aveva creato il prodotto in questione, offrire maggiori garanzie avrebbe significato ridurre i profitti, così che il contratto di rating venne alla fine stipulato con Moody’s.

La causa intentata dal governo USA contro S&P, in ogni caso, si basa esclusivamente su una quarantina di CDO valutati dall’agenzia tra marzo e ottobre del 2007. Il Dipartimento di Giustizia intende chiedere una sanzione di 5 miliardi di dollari - una somma circa cinque volte superiore ai profitti realizzati dall’agenzia nel 2011 - per compensare le perdite subite da investitori, banche e fondi pensione.

Nonostante l’evidenza della condotta criminale di Standard & Poor’s e le durissime parole del ministro della Giustizia nei giorni scorsi, la causa aperta è però soltanto di natura civile e nessun top manager dell’agenzia risulta coinvolto penalmente. Ciò è perfettamente in linea, d’altra parte, con l’atteggiamento tenuto finora dall’amministrazione Obama, ben intenzionata ad evitare che uno solo dei responsabili della devastante crisi finanziaria esplosa nel 2008 paghi per i crimini commessi.

Le indagini avviate dal governo in questi anni contro svariate banche di Wall Street, accusate ugualmente di avere truffato i propri clienti, si sono infatti sempre risolte in patteggiamenti e sanzioni irrisorie. Che le cose non andranno troppo diversamente per quest’ultimo caso è confermato anche dal fatto che il Dipartimento di Giustizia ha trascorso gli ultimi quattro mesi cercando un accordo con S&P per evitare il tribunale. I negoziati si sono alla fine interrotti dopo che l’agenzia di rating si è rifiutata di ammettere le proprie responsabilità e di pagare una multa superiore ai 100 milioni di dollari.

Il procedimento legale annunciato martedì, inoltre, risulta a dir poco tardivo, visto che le responsabilità di S&P, così come di Moody’s e Fitch Ratings, per le quali non è chiaro se siano in corso indagini federali, erano già state messe in luce da inchieste commissionate dal governo. Il loro ruolo di “facilitatori del tracollo finanziario” tramite la valutazione positiva di titoli tossici per non mettere a rischio i propri profitti era stato scritto nero su bianco nel gennaio e nell’aprile del 2011 con la pubblicazione dei rapporti sulla crisi di Wall Street realizzati rispettivamente da una apposita commissione di indagine del Congresso e da una speciale sotto-commissione del Senato.

Anche di fronte alla palese evidenza di un sistema di rating totalmente manipolato e sottratto a qualsiasi regolamentazione, le agenzie come Standard & Poor’s continuano comunque ad incassare compensi milionari per i propri servizi, con ogni probabilità nascondendo tuttora la vera natura di complessi e rischiosi strumenti finanziari che minacciano di fare esplodere una nuova e ancora più rovinosa crisi economica in tutto il pianeta.


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