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di Michele Paris
La crescente rivalità tra la Cina e gli Stati Uniti si è da tempo allargata fino ad includere svariate operazioni di pirateria informatica condotte da entrambe le parti. Le accuse rivolte negli ultimi giorni dalle autorità americane al governo di Pechino hanno segnato però una netta escalation del confronto tra le due più grandi economie del pianeta, i cui rapporti sono già caratterizzati da tensioni sempre più marcate a causa della rinvigorita aggressività statunitense nel continente asiatico.
Ad aumentare le pressioni sulla Cina avevano inizialmente contribuito a fine gennaio le rivelazioni del New York Times, secondo il quale degli hacker cinesi si erano più volte introdotti nel sistema informatico del noto giornale americano. Subito dopo, identiche violazioni erano state denunciate anche dal Washington Post e dal Wall Street Journal, scatenando un coro di richieste indirizzate verso la Casa Bianca per adottare iniziative più incisive per contrastare il cyber-crimine internazionale di matrice cinese.
Lo stesso New York Times, qualche giorno fa, ha poi rincarato la dose, pubblicando un lungo articolo nel quale vengono presentate dubbie prove di operazioni di hackeraggio ai danni di aziende private e di uffici governativi americani, messe in atto da una struttura legata direttamente alle forze armate cinesi.
L’indagine del Times è il risultato del lavoro della compagnia americana Mandiant che si occupa di sicurezza informatica sia per il settore privato che per il governo. Nel rapporto di 60 pagine su cui si basano le accuse alla Cina vengono analizzati 141 attacchi informatici ai danni degli Stati Uniti a partire dal 2006, tutti attribuiti allo stesso gruppo di hacker, conosciuto negli USA con il nome di “Comment Crew” o “Shanghai Group”.Utilizzando verosimilmente gli stessi metodi di quest’ultimo, i tecnici di Mandiant hanno individuato in maniera approssimativa la provenienza dei cyber-attacchi, partiti quasi interamente da una località che si trova in un quartiere nell’area di Pudong, alla periferia di Shanghai.
Qui si troverebbe un edificio che ospita l’Unità 61398 dell’Esercito Popolare di Liberazione, cioè le forze armate cinesi, il cui operato rimane avvolto nel mistero e forse anche per questo indicato con quasi assoluta certezza dal Times e dal rapporto di Mandiant come responsabile delle intrusioni nei sistemi informatici americani. Lo stesso giornale, tuttavia, afferma chiaramente come Mandiant non sia stata in grado di localizzare esattamente la provenienza degli attacchi.
Secondo quanto affermato dall’amministratore delegato di Mandiant, Kevin Mandia, o i cyber-attacchi hanno avuto origine “dall’Unità 61398 oppure le persone che gestiscono le reti internet più controllate e monitorate del mondo [il governo e i vertici militari cinesi] non sono a conoscenza dell’esistenza di centinaia di hacker in questo quartiere”.
In realtà, le parole del consulente informatico del New York Times rivelano la mancanza di prove indiscutibili delle responsabilità dell’esercito cinese, come ha successivamente confermato alla testata Christian Science Monitor anche un esperto di sicurezza informatica della compagnia Dell Secureworks. Secondo quest’ultimo, “ancora non ci sono prove schiaccianti” che le attività di hackeraggio in questione abbiano avuto origine dall’edificio che ospita l’Unità 61398, dal momento che quanto è stato messo assieme da Mandiant sono solo “una serie di coincidenze che puntano in questa direzione”.
Da parte sua, il governo cinese ha risposto duramente alle accuse, affermando che esse “mancano di prove certe” e, soprattutto, facendo notare come gli indirizzi dei provider rintracciati da Mandiant non forniscano indicazioni precise circa l’origine degli attacchi, visto che gli hacker se ne appropriano frequentemente per non essere localizzati. Il Ministero degli Esteri di Pechino, inoltre, ha ricordato che i sistemi informatici cinesi sono il costante bersaglio degli hacker, gran parte dei quali operano negli Stati Uniti.Un editoriale pubblicato mercoledì dell’agenzia di stampa cinese Xinhua ha poi accusato la compagnia Mandiant di volere soltanto promuovere i propri interessi commerciali, accennando anche alla possibilità che “politici e uomini d’affari americani stiano come al solito cercando di utilizzare la Cina per perseguire i propri interessi personali, specialmente in un momento in cui il Congresso USA sta per approvare il bilancio del prossimo anno fiscale”.
I motivi principali dietro a questa nuova polemica scatenata dagli Stati Uniti sono infatti da ricercare principalmente nell’atteggiamento sempre più bellicoso dell’amministrazione Obama nei confronti della Cina e, in secondo luogo, nel tentativo di sfruttare le minacce tecnologiche provenienti da paesi ostili per rafforzare il controllo sulle comunicazioni web e fornire alle agenzie governative preposte strumenti più incisivi per lanciare eventuali cyber-attacchi contro i propri nemici.
Come era ampiamente prevedibile, subito dopo l’articolo del New York Times, la Casa Bianca ha annunciato una serie di iniziative per contrastare la presunta cyber-guerra scatenata dalla Cina. Le misure che sarebbero in preparazione vanno dalle pressioni diplomatiche su Pechino a nuove e più severe leggi per punire i colpevoli degli attacchi informatici, ma anche sanzioni e restrizioni in ambito commerciale.
Questo nuovo fronte della campagna anti-cinese era già stato preannunciato dallo stesso presidente Obama la scorsa settimana durante il suo discorso sullo stato dell’Unione, nel quale aveva fatto insolitamente riferimento proprio alla minaccia di sabotaggio a cui i sistemi informatici dei settori nevralgici dell’economia e della sicurezza USA sarebbero esposti.
In precedenza, Obama aveva invece firmato un decreto esecutivo per consentire ai militari di condurre attacchi informatici per prevenire possibili minacce contro gli Stati Uniti, ovviamente ridefinendoli come “operazioni difensive”, mentre il Pentagono aveva approvato un sensibile aumento del personale da impiegare nel proprio comando deputato alle operazioni informatiche.Uno dei più recenti esempi della propaganda di Washington in questo ambito è stato infine registrato mercoledì, quando alla Casa Bianca è stata organizzata una speciale conferenza sul cyber-crimine che ha avuto al centro dell’attenzione le attività degli hacker cinesi, secondo il governo impegnati, con il sostegno delle autorità di Pechino, ad infiltrare le corporation americane per rubare preziose informazioni commerciali, ma anche a violare i sistemi informatici di agenzie federali e delle compagnie che gestiscono i servizi pubblici.
Dai commenti apparsi in questi giorni sui media “mainstream” d’oltreoceano e dalle dichiarazioni allarmate di politici e top manager americani è rimasta invece puntualmente fuori qualsiasi critica delle stesse attività di guerra tecnologica condotte in maniera del tutto illegale dal governo di Washington.
Solo per citare una delle operazioni più note tra le pochissime diventate di dominio pubblico, gli Stati Uniti, in collaborazione con Israele, nel 2010 infiltrarono un’installazione nucleare iraniana con il malware successivamente denominato “Stuxnet”, distruggendo centinaia di centrifughe usate per l’arricchimento dell’uranio.
Questa iniziativa, da considerare un vero e proprio atto di guerra secondo i parametri dello stesso governo americano e, oltretutto, accompagnata da una campagna di assassini di scienziati nucleari in territorio iraniano, non ha rappresentato peraltro un episodio isolato, dal momento che le autorità di Teheran nella primavera del 2012 avrebbero poi scoperto un nuovo virus - “Flame” - riconducibile a “Stuxnet” ma utilizzato principalmente per sottrarre dati classificati relativi al programma nucleare dell’Iran.
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di Michele Paris
Il governo di centro-destra della Bulgaria mercoledì è diventato vittima delle crescenti proteste popolari contro le misure di austerity che stanno causando la devastazione sociale nel continente europeo. Una serie di imponenti manifestazioni, andate in scena negli ultimi giorni in tutto il paese per chiedere la riduzione dei costi dell’energia elettrica, hanno infatti finito per travolgere il sempre più impopolare esecutivo guidato dal premier Boyko Borisov, nonostante una serie di misure messe in atto nel tentativo di placare gli animi dei suoi concittadini e rimanere al potere fino alle elezioni della prossima estate.
A fare esplodere definitivamente la rabbia tra una popolazione bulgara già provata da provvedimenti che, qui come altrove, hanno peggiorato in maniera sensibile le condizioni di vita dei cittadini, sono state le pesanti bollette energetiche in questo rigidissimo inverno nel paese est-europeo. Nella giornata di domenica, decine di migliaia di manifestanti hanno così paralizzato la capitale, Sofia, e le principali città delle altre regioni della Bulgaria, chiedendo la riduzione delle tariffe ma anche le dimissioni del governo, già al centro di polemiche per una serie di scandali e accuse di corruzione.
Ben consapevole che la ragione principale del profondo malcontento diffuso nel paese risiede, più in generale, nelle politiche di austerity, adottate un po’ ovunque in Europa in risposta alla crisi economica, il primo ministro Borisov aveva estromesso dal proprio governo il ministro delle Finanze, l’ex funzionario della Banca Mondiale Simeon Djankov, universalmente identificato come il principale artefice del rigore imposto in questi anni ai cittadini bulgari.
L’allontanamento di un ministro che aveva frequentemente ricevuto gli elogi delle istituzioni europee e degli ambienti finanziari internazionali ha però fatto ben poco per stemperare le tensioni, così che Borisov il giorno successivo è ricorso ad un ulteriore annuncio populista, promettendo un taglio dell’8% delle tariffe elettriche a partire dal primo marzo prossimo. Queste stesse tariffe erano state aumentate di circa il 14% nel corso del 2012.Dal momento che le proteste popolari hanno preso di mira anche una delle compagnie che gestiscono le forniture di energia elettrica in Bulgaria - la ceca CEZ - il premier ha inoltre minacciato di privare quest’ultima del permesso per operare in un paese che rappresenta il suo secondo mercato per fatturato. Borisov ha però respinto le richieste dei manifestanti di nazionalizzare il settore dell’energia elettrica, ormai totalmente in mano ad aziende straniere.
La decisione ha prevedibilmente suscitato le proteste dei vertici di CEZ e del governo di Praga, il quale controlla il 70% della compagnia, anche perché quest’ultima era già stata penalizzata lo scorso mese di gennaio dalla revoca della licenza per operare in Albania, dove detiene ugualmente un’importante fetta del mercato energetico.
Le manovre di Borisov non hanno comunque avuto gli effetti desiderati e, infatti, ancora martedì le proteste si sono intensificate, con le forze di sicurezza che hanno duramente affrontato i manifestanti, facendo alla fine 15 feriti e 25 arresti a Sofia. Mercoledì, il premier ha così deciso di rassegnare le proprie dimissioni, motivandole assurdamente con la sua presunta volontà di “non far parte di un governo sotto il quale la polizia picchia i cittadini”.
Nel suo discorso di fronte al parlamento bulgaro, Borisov ha poi avanzato l’altrettanto assurda pretesa di volere “restituire il potere al popolo dopo che il popolo ce lo ha consegnato”, nonostante i suoi anni di governo siano stai segnati da politiche dettate interamente dagli ambienti finanziari internazionali e che hanno causato un impoverimento diffuso nel paese già più disagiato tra quelli che fanno parte dell’Unione Europea.
La caduta del governo guidato dal partito di Borisov - Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria (GERB) - costringerà ora il presidente Rosen Plevneliev, anch’egli del GERB, ad assegnare un nuovo incarico per un esecutivo provvisorio che, con ogni probabilità, sarà chiamato a traghettare il paese verso elezioni anticipate in primavera, mentre la scadenza naturale della legislatura era prevista per il mese di luglio.
Il rapido deteriorarsi della situazione in Bulgaria ha in ogni caso rimescolato le carte a Sofia, visto che il partito del premier uscente, nonché già sindaco di Sofia ed ex guardia del corpo del dittatore Todor Zhivkov prima del crollo dell’Unione Sovietica, ha visto svanire il vantaggio che i sondaggi gli assegnavano fino a pochi mesi fa e che gli aveva permesso di conquistare chiare vittorie nelle elezioni presidenziali e locali nell’autunno del 2011.Da più di un anno, tuttavia, i segnali del malcontento popolare sono iniziati ad emergere, in seguito all’approvazione di leggi di bilancio nelle quali era stato deciso, tra l’altro, l’innalzamento delle tasse e dell’età necessaria al raggiungimento della pensione, licenziamenti e tagli alla spesa e agli stipendi dei dipendenti pubblici. Queste misure di rigore si sono innestate su una situazione complessiva già segnata da gravi carenze nei servizi pubblici, risultato del processo di privatizzazione seguito al crollo del regime stalinista.
Nonostante le pesanti conseguenze sulla popolazione bulgara delle politiche messe in atto in questi anni, da Bruxelles e dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) non erano state risparmiate lodi per il governo di Boyko Borisov, in grado di ridurre il deficit di bilancio allo 0,5% del PIL nel 2012 rispetto al 2% nel 2011, ma anche di far registrare modesti tassi di crescita dell’economia del paese negli ultimi tre anni.
A differenza delle vicine Romania e Ungheria, le quali avevano dovuto fare riscorso all’intervento di UE e FMI per salvare le proprie economie dal tracollo, la Bulgaria è stata spesso additata a modello per l’Europa Orientale e per i paesi più in affanno all’interno dell’unione, anche se le conseguenze della gestione Borisov sulle condizioni di vita della popolazione sono risultate altrettanto drammatiche e non hanno impedito l’esplosione di tensioni sociali come quelle a cui si sta assistendo in questi giorni.
Uno scenario, quello bulgaro, che conferma ulteriormente come le direttive imposte a paesi sovrani dalle classi dirigenti europee e dalle élite finanziare internazionali per evitare la rovina del sistema si scontrino frontalmente, al di là della retorica, con i bisogni fondamentali delle popolazioni, producendo un susseguirsi di governi che diventano ben presto impopolari e che, frequentemente, finiscono con l’essere costretti alle dimissioni sotto la spinta di oceaniche manifestazioni di protesta.
La crisi del gabinetto Borisov, perciò, sembra aprire ora la strada al ritorno al potere del Partito Socialista (BSP), secondo alcuni sondaggi già in testa al gradimento degli elettori nonostante negli ultimi due decenni sia stato protagonista di esperienze di governo caratterizzate dalle stesse politiche di rigore e di liberalizzazione dell’economia che hanno prodotto la situazione esplosiva che sta vivendo in questi giorni la Bulgaria.
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di Michele Paris
Speculazioni e congetture varie continuano ad emergere sui giornali di tutto il mondo in relazione al vero ruolo svolto all’interno dei servizi segreti israeliani dal cosiddetto “Prigioniero X”, il 34enne Ben Zygier morto suicida poco più di due anni fa in circostanze a dir poco sospette in una cella di massima sicurezza di un carcere nei pressi di Tel Aviv. La vicenda della misteriosa spia con doppia nazionalità israelo-australiana è stata portata alla luce solo qualche giorno fa da un’indagine della TV australiana che ha fatto breccia nell’assoluto riserbo mantenuto finora dalle autorità di Israele.
La trasmissione “Foreign Correspondent” della rete australiana ABC ha rivelato martedì scorso l’identità di Zygier, arrestato per ragioni ancora poco chiare nel febbraio del 2010 e tenuto imprigionato nella massima segretezza nel carcere di Ayalon fino al ritrovamento del suo cadavere il 15 dicembre successivo. Nato in Australia, Zygier aveva ottenuto la cittadinanza israeliana nel 2000 ed era stato successivamente reclutato dal Mossad, la principale agenzia di intelligence dello stato ebraico.
L’identità di Ben Zygier era stata tenuta nascosta anche alle stesse guardie della prigione israeliana, dove era conosciuto appunto come “Prigioniero X”. Su richiesta del governo, un tribunale di Israele aveva emesso un divieto assoluto di discutere pubblicamente o nei media della sua vicenda, considerata una delicatissima questione di sicurezza nazionale. Per questo, le autorità israeliane fino al reportage della TV australiana avevano mantenuto il silenzio assoluto, rifiutandosi anche di ammettere l’esistenza di un’ordinanza del tribunale per mantenere il segreto sulla storia di Zygier.Nel carcere di Ayalon, l’ex agente del Mossad era sottoposto ad un controllo continuo, tanto da rendere poco credibile la versione del suicidio tramite impiccagione. Inoltre, secondo quanto rivelato dal suo legale israeliano, nonostante le condizioni “inumane” di detenzione per quasi un anno, Zygier era rimasto “una persona equilibrata che stava valutando in maniera razionale le sue opzioni legali”. Anche i suoi famigliari hanno respinto l’ipotesi del suicidio, affermando che Zygier non aveva mai manifestato tali inclinazioni e che aveva molte ragioni per vivere, a cominciare da una moglie e due figli, uno dei quali nato proprio alcuni giorni prima della sua morte.
In questa vicenda, a finire sotto la lente d’ingrandimento è stato anche il ruolo del governo australiano, il quale aveva inizialmente negato di essere stato a conoscenza del caso Zygier prima del suo decesso. Di fronte a prove evidenti del contrario, il ministro degli Esteri di Canberra, Bob Carr, ha dovuto però fare marcia indietro, ammettendo che il governo laburista era stato informato del suo arresto dall’intelligence israeliana già il 24 febbraio del 2010. Il governo australiano, tuttavia, come ha fatto con Julian Assange, non ha mosso un dito per assistere Zygier, limitandosi ad accettare le rassicurazioni di Tel Aviv che al detenuto sarebbero stati garantiti tutti i diritti previsti dalla legge di Israele.
Come già ricordato, le ragioni del trattamento riservato al “Prigioniero X” dal governo israeliano rimangono ancora avvolte nel mistero, anche se alcune indiscrezioni sono circolate negli ultimi giorni. Sembra infatti che Ben Zygier fosse stato sul punto di rivelare informazioni altamente riservate relative ad operazioni del Mossad a cui egli stesso aveva preso parte. In particolare, le due piste principali sono legate all’assassinio di un membro di spicco di Hamas e alle attività di sabotaggio nei confronti del programma nucleare dell’Iran.
Nel primo caso, i dettagli sono stati pubblicati settimana scorsa dal quotidiano del Kuwait Al-Jarida, il quale ha citato fonti occidentali che affermano come Zygier avesse fatto parte della squadra speciale del Mossad che il 19 gennaio 2010 uccise in una stanza dell’hotel Al Bustan Rotana di Dubai Mahmoud Al-Mabhouh, responsabile dell’approvvigionamenti di armi per Hamas. Secondo questa versione, Zygier era stato arrestato dalle autorità di Dubai e, in cambio di protezione, aveva acconsentito a rivelare i nomi dei partecipanti e i dettagli di un’operazione nel territorio degli Emirati Arabi Uniti per condurre la quale erano stati utilizzati passaporti falsi di vari paesi europei e dell’Australia. Prima che Zygier avesse potuto parlare, però, il Mossad lo avrebbe rapito e trasferito nel carcere di Ayalon dove sarebbe successivamente morto.
L’altra ipotesi diffusa da alcuni media riguarda invece la creazione da parte del Mossad di una compagnia in Italia per vendere materiale elettronico all’Iran con lo scopo di sabotare le installazioni nucleari della Repubblica Islamica. Zygier sarebbe stato coinvolto in questa operazione top secret, nell’ambito della quale aveva anche richiesto un visto per poter lavorare legalmente in Italia.
Nella giornata di lunedì, la stessa rete televisiva ABC ha inoltre affermato che Zygier sarebbe stato arrestato dal Mossad dopo che aveva rivelato i particolari di questa operazione in territorio italiano e di altre ancora ai servizi segreti dell’Australia (ASIO) nel corso dei suoi frequenti viaggi in quest’ultimo paese per fare visita alla famiglia.
L’autenticità delle varie rivelazioni apparse sulla stampa internazionale attorno al caso del “Prigioniero X” è ovviamente da prendere con le molle, vista l’eventualità tutt’altro che remota di un possibile tentativo di depistaggio messo in atto dallo stesso Mossad. Che dietro al trattamento subito da Zygier ci siano operazioni sotto copertura e illegali dei servizi segreti di Israele appare però del tutto evidente, alla luce soprattutto della riservatezza con cui è stata trattata la vicenda fino alla scorsa settimana.La priorità assegnata dal governo israeliano alla cosiddetta difesa della sicurezza nazionale a tutti i costi, per la quale possono essere sacrificati sia i diritti civili che la vita stessa di persone che vi hanno contribuito, è apparsa d’altra parte chiara dalle parole pronunciate dal primo ministro Benjamin Netanyahu nella giornata di domenica. In risposta alla richiesta di alcuni parlamentari di aprire una commissione d’inchiesta sul caso Zygier, il premier ha difeso fermamente l’operato delle forze di sicurezza del suo paese.
Israele, secondo Netanyahu, non sarebbe infatti “un paese come gli altri” e, pur “essendo un modello di democrazia” che garantisce i diritti di coloro che sono sotto indagine, “siamo esposti a maggiori minacce e dobbiamo fronteggiare maggiori sfide”. Per questa ragione, a detta di Netanyahu, lo stato di Israele dovrebbe garantire alle proprie forze di sicurezza la possibilità di agire in maniera “adeguata”.
Sul fatto che Israele non sia un paese come gli altri, soprattutto come quelli che applicano il diritto e le più basilari norme democratiche, appare indiscutibile, ma le parole di Netanyahu rivelano anche involontariamente come lo stato ebraico sia solo nominalmente una democrazia, visto che i diritti dei cittadini possono essere messi da parte senza troppi scrupoli quando si tratta di salvaguardare la segretezza di operazioni criminali condotte in nome della sicurezza nazionale.
L’intervento del premier ultra-conservatore appare insomma come una difesa totale del diritto attribuito all’apparato della sicurezza dello stato ad operare al di fuori di ogni controllo o supervisione, dal momento che l’attività di un’agenzia come il Mossad consentirebbe ai cittadini israeliani di “vivere in tranquillità e sicurezza” nel proprio paese.
In altre parole, come dimostra la ricostruzione tutt’altro che completa della vicenda di Ben Zygier, le autorità di Tel Aviv intendono continuare ad occultare i propri crimini contro presunti nemici, ma anche mettere a tacere coloro che intendano rivelarli per qualsiasi motivo, facendo appello alla consueta eccezionalità dello stato di Israele e alle minacce esistenziali che graverebbero su di esso, nonostante a costituire una minaccia per i paesi e gli abitanti dell’intera regione mediorientale, e non solo, sia precisamente la condotta del suo stesso governo.
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di Fabrizio Casari
Con oltre il 60 per cento dei consensi, Rafael Correa è stato confermato alla guida dell’Ecuador, che avrà così altri quattro anni di “Rivoluzione dei cittadini” per completare l’ammodernamento e la democratizzazione del paese. E’ la sesta vittoria consecutiva in consultazioni popolari di varia natura dal 2006 ad oggi. Lo slogan della campagna elettorale di Correa “Abbiamo già un Presidente”, è risultato profetico quanto azzeccato.
Non c’erano molti dubbi sulla vittoria di Correa, dato che il suo mandato si è caratterizzato per la sostanziale realizzazione di quanto promesso quattro anni fa. Un programma di riforme sociali ed economiche che ha portato ad una sensibile riduzione della povertà estrema nel paese, e che attraverso opere sociali di straordinario impatto e di grande efficacia, ha scritto la parola fine alla storia dei governi che l’avevano preceduto.
Governi liberisti che avevano disegnato per il paese andino un ruolo da repubblica delle banane al servizio di Washington, senza che però potessero evitare rovesci popolari, dal momento che quattro sui cinque presidenti prima di lui vennero deposti prima della fine del loro mandato sull’onda delle sollevazioni popolari contro le politiche neoliberiste guidate dalla popolazione indigena (30 per cento del totale).
Ben altra storia ha caratterizzato l’Ecuador di Correa, che proprio delle lotte sociali e politiche della parte più umile della popolazione è stato l’espressione. Il segno politico più evidente è stato la modifica della Costituzione: convocò l’Assemblea Costituente e ruppe con il precedente ordinamento su base oligarchica, trasformando l’Ecuador in uno stato plurinazionale dove vengono riconosciute la specificità indigena. Un amalgama ben riuscita tra le radici e la storia millenaria da un lato e la proiezione futura dall’altro, un’irruzione democratica della tradizione storica di un paese che nel prefigurare la direzione verso la quale va, non occulta o dimentica da dove viene.
Il cambiamento radicale della politica nazionale ed estera del paese non è stato del tutto indolore: per aver rifiutato di sottoscrivere il TLC con gli USA, averli espulsi dalla base militare di Manta, essersi scontrato con la Banca Mondiale e il Fondo Monetario ed aver dato vita ad una cooperazione strettissima sia nel campo petrolifero che in quello politico con il Venezuela, Correa è stato vittima di complotti e tentativi di colpo di Stato concepiti a Washington, tutti miseramente falliti proprio grazie alla popolarità di cui ha goduto e gode presso la sua popolazione.Economista e accademico, giunto alla presidenza sull’onda delle lotte sociali che avevano scosso il paese dalle fondamenta, Correa ha decisamente azzerato le politiche neoliberiste che avevano piegato il Paese. Investimenti pubblici finanziati con la rendita petrolifera che hanno certificato il valore di una politica economica anticiclica e che hanno fornito i numeri ad una crescita a doppia cifra.
La decisa inversione di marcia, della quale hanno beneficiato le classi più povere, è stata appunto possibile grazie ad un ruolo sempre più centrale dello Stato nell’economia, nel solco di quanto le democrazie latinoamericane hanno concepito e realizzato in quest’ultima decade.
I dati parlano chiaro: riduzione della povertà costante (solo nel 2012 è passata dal 37,1 al 32,4 per cento), mentre sono state incrementate le quote di PIL destinate all’istruzione (dal 2,5 al 6 per cento) intestando così all’Ecuador il tasso più alto di investimenti in rapporto al PIL di tutta la regione. Le stesse Nazioni Unite hanno riconosciuto che l’Ecuador “ha ora nella missione nazionale nell’educazione una delle priorità di governo”. Stessa marcia anche nella salute: se nel 2006 si spendevano 561 milioni di dollari, Correa ha ampliato enormemente l’area di intervento dalla sanità pubblica e ne ha aumentato il gettito, portandolo a 1774 milioni e posizionandolo così al 6,8% del PIL.
Altrettanto è stato realizzato sul terreno dell’assistenza alla parte più povera della popolazione: basta dire che il “programma di sviluppo umano” decretato dal Presidente ha visto un investimento di centinaia di milioni di dollari e oggi, il “buono di sviluppo umano” prevede l’assegnazione di 50 dollari al mese come sostegno diretto dello stato a circa 2 milioni di cittadini su un totale di 15 milioni di abitanti. I crediti per l’acquisto della casa hanno visto investimenti per centinaia di milioni di dollari.
A queste politiche si sono sommate opere pubbliche di assoluta importanza come la grande rete stradale, che ha agevolato lo spostamento di parti intere del paese precedentemente prive di vie di comunicazione. Il tutto accompagnato da un livello di trasparenza nella comunicazione tra il governo e la popolazione mai conosciuto prima e che è diventato un esempio in tutto il continente latinoamericano.
Dati che sono inseribili all’interno di una potente crescita economica determinata certo anche dall’aumento del prezzo del petrolio, di cui l’Ecuador è tra i primi produttori al mondo. Ma, come già in Venezuela prima di Chavez, anche in Ecuador prima dell’arrivo di Correa le ricchezze derivanti dalla vendita del petrolio non avevano significato null’altro che la messa all’ingrasso della borghesia nazionale mentre la distanza con la parte povera della popolazione diveniva ogni giorno maggiore. Proprio sull’utilizzo pubblico delle risorse energetiche Correa ha scelto politiche opposte a quelle dei suoi predecessori, indirizzando i proventi verso programmi sociali destinati al miglioramento delle condizioni di vita della parte più povera della popolazione.E certo non secondaria, ai fini del raggiungimento di questi obiettivi, è stata la scelta unilaterale di Correa di procedere ad una rivisitazione e ristrutturazione del debito estero, sfidando le ire del Fondo Monetario e della Banca Interamericana dello Sviluppo che ritenevano auspicabile continuare ad ingrassare le banche e i fondi speculativi del Nord che avevano contratto con i governi precedenti accordi a esclusivo vantaggio della depredazione costante delle ricchezze della nazione andina.
Coerentemente con i loro padroni, la grande borghesia imprenditoriale, che ha votato in massa per il suo principale oppositore, Guillermo Lasso, (giunto al 24% dei consensi) non ha riconosciuto l’avanzamento evidente delle condizioni generali dell’economia nazionale e, con essa, della democratizzazione del sistema paese. C’è da capirli: nel nuovo Ecuador i ricchi pagano le tasse, il doppio di quanto pagavano fino al 2006, e la maggior somma è stata quasi interamente destinata ai programmi di assistenza sociale. Una sorta di versamento costante da chi ha troppo verso chi ha troppo poco.
In obbedienza a quanto promesso, anche in politica estera Correa ha disegnato un cammino improntato alla fine della dipendenza dagli Stati Uniti (ai quali appunto ha negato la possibilità di usufruire della base militare di Manta e di mettere le loro manacce su Julian Assange, al quale ha offerto asilo politico nella sua ambasciata di Londra) e alla convinta adesione all’ALBA insieme a tutta l’America Latina di stampo socialista. Legato da profondi vincoli con Cuba, non esitò a disdire la sua partecipazione dal Vertice di Cartagena per protesta verso l’esclusione dell’isola socialista.
Correa si è quindi caratterizzato come uno dei leader più giovani e capaci della riscossa democratica dell’America Latina e nello scegliere per il suo paese la strada dell’indipendenza dagli Usa sostituendola con la stretta relazione di cooperazione economica e politica con i paesi latinoamericani - Venezuela, Cuba e Bolivia in primo luogo. La sua vittoria, che ha scelto di dedicare al suo fraterno amico Hugo Chavez, seppellisce da Quito il Washington consensus, rafforza ulteriormente il progetto d’integrazione latinoamericana e, proclamata nelle stesse ore in cui il Presidente Chavez rientrava a Caracas per continuare le sue cure, disegna uno straordinario, meraviglioso dipinto per la nuova America Latina, figlia della ribellione e madre della sua sovranità.
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di Michele Paris
In occasione del secondo anniversario dell’inizio della rivolta anti-regime in Bahrain, nella giornata di giovedì sono riesplose massicce proteste popolari nel piccolo paese del Golfo Persico. Come è puntualmente accaduto dal 14 febbraio 2011 ad oggi, le forze di sicurezza del regime guidato dal sovrano, Hamad bin Isa al-Khalifa, hanno ancora una volta risposto duramente alle manifestazioni di piazza, mettendo in grave pericolo i negoziati appena riaperti con le opposizioni ufficiali per trovare una qualche soluzione alla più lunga crisi finora registrata tra quelle ascrivibili alla cosiddetta Primavera Araba.
Già dalle prime ore di giovedì, dunque, centinaia di manifestanti sono scesi nelle strade dei quartieri a maggioranza sciita della capitale, Manama, e nelle altre principali città del paese. Secondo quanto affermato dal Ministero dell’Interno, i rivoltosi avrebbero bloccato numerose strade, costringendo la polizia e l’esercito a “ristabilire l’ordine”.
Gli scontri più recenti hanno fatto almeno un morto, un ragazzo di appena 16 anni colpito da un proiettile sparato dalle forze di sicurezza nella località di Diya, non lontano da Manama. La notizia della morte del giovane manifestante è apparsa sul sito web del principale partito sciita di opposizione, Al Wefaq, secondo i cui esponenti ci sarebbero stati anche decine di feriti, principalmente a causa dell’uso di gas lacrimogeni da parte della polizia.
Nuove dimostrazioni sono già state organizzate per la giornata di venerdì, mentre svariati gruppi dell’opposizione hanno invocato uno sciopero generale in tutto il paese per celebrare l’anniversario dell’inizio della rivolta.
Il caos in Bahrain era esploso nel febbraio del 2011 dopo che, almeno inizialmente, un movimento popolare formato sia da sciiti che da sunniti aveva marciato per le strade della capitale chiedendo la fine del regime dittatoriale della famiglia Al Khalifa. Facendo leva sulle divisioni settarie che caratterizzano da secoli questo paese, tuttavia, la casa regnante appoggiata dall’Occidente ha da subito manipolato con successo le proteste, riuscendo a dividere la popolazione.
In particolare, il regime ha ripetutamente puntato il dito contro il vicino Iran, accusandolo senza alcuna evidenza di fomentare le proteste in Bahrain. Ben presto, così, ad animare la rivolta nel paese è rimasta pressoché esclusivamente la maggioranza sciita della popolazione.D’altra parte, il malcontento degli sciiti, che rappresentano circa il 70% degli abitanti del Bahrain, non è cosa nuova, dal momento che essi sono regolarmente discriminati dal regime sunnita ed esclusi dalle posizioni di potere, così come, ad esempio, dagli impieghi governativi, dall’assegnazione di alloggi pubblici e dall’accesso alle migliori strutture scolastiche.
Per bilanciare questa disparità nella composizione della popolazione, inoltre, il regime continua a garantire procedure accelerate per l’ottenimento della cittadinanza a decine di migliaia di persone di fede sunnita provenienti da altri paesi della regione, tanto che degli 1,2 milioni di abitanti attuali solo poco meno di 600 mila risultano essere nativi del Bahrain.
In ogni caso, di fronte ad una comunità internazionale che alla crisi del Bahrain ha dato una rilevanza nemmeno lontanamente paragonabile a quelle di Libia o Siria, la repressione del regime ha finora provocato decine di morti: 35 secondo le stime di una commissione d’inchiesta lanciata dal governo, più di 80 per le opposizioni ufficiali.
A questi numeri, con ogni probabilità sottostimati ma comunque consistenti per un paese delle dimensioni del Bahrain, vanno inoltre aggiunti gli arresti e le torture di migliaia di militanti sciiti e di medici colpevoli solo di avere prestato soccorso ai manifestanti feriti durante gli scontri, ma anche la privazione della cittadinanza per molti militanti che avevano preso parte alle manifestazioni.
La prima fase della rivolta era stata poi soffocata nel sangue già nella primavera del 2011 grazie al contributo decisivo di un contingente militare inviato dalle monarchie assolute del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, il cui regime continua a temere la possibilità di un contagio dell’insurrezione in Bahrain nelle proprie provincie a maggioranza sciita.
La repressione delle manifestazioni da parte della famiglia Al Khalifa è stata resa possibile principalmente grazie al più o meno tacito appoggio degli Stati Uniti, per i quali il Bahrain è un alleato strategico fondamentale, vista la sua posizione nel Golfo Persico a meno di 200 chilometri dalle coste iraniane. Qui, inoltre, si trova il quartier generale della Quinta Flotta della Marina americana, responsabile delle forze navali a stelle e strisce operanti nel Golfo Persico, nel Mare Arabico e al largo delle coste dell’Africa orientale.In seguito alle pressioni internazionali, l’amministrazione Obama ha talvolta emesso blande dichiarazioni di condanna nei confronti della casa regnante del Bahrain, giungendo nel settembre 2011 a sospendere un contratto di fornitura di armi da oltre 50 milioni di dollari a causa delle evidenti violazioni dei diritti umani. Le forniture di armi, tra cui equipaggiamenti utilizzati dalle forze di sicurezza contro i manifestanti, sono però state sbloccate già nel maggio successivo, secondo Washington grazie ai progressi registrati nel paese.
Anche dietro le pressioni degli Stati Uniti, preoccupati per il danno d’immagine causato dal ripetersi degli scontri nel Bahrain, già nel 2011 erano stati lanciati i primi colloqui tra il regime e le opposizioni. Il dialogo si è però quasi subito arenato di fronte alla totale mancanza di volontà del regime di rinunciare anche solo parzialmente al controllo assoluto delle leve del potere.
Le opposizioni, inoltre, risultano divise al loro interno, con il partito Al Wefaq che è attestato su posizioni moderate, mentre i movimenti della società civile, tra cui spicca la Coalizione 14 Febbraio, hanno progressivamente assunto atteggiamenti più radicali fino a chiedere la fine del regime Al Khalifa.
Proprio alla vigilia del secondo anniversario della rivolta, il governo ha invitato le opposizioni a tornare al tavolo delle trattative, così che domenica scorsa il dialogo era ripreso tra i rappresentanti del regime e di alcuni gruppi di opposizione, come Al Wefaq. Le richieste di questi ultimi sono però limitate, come la creazione di una monarchia costituzionale, e volte quasi esclusivamente ad ottenere un qualche ruolo nella gestione del potere.
Tra la popolazione, al contrario, il sentimento di avversione verso il regime ha superato ormai i livelli di guardia e, qualsiasi eventuale “riforma” su cui si accorderanno le due parti, le tensioni nel paese difficilmente potranno essere placate nell’immediato futuro.
Concessioni relativamente limitate da parte del regime erano infatti già state adottate negli anni Novanta del secolo scorso, sempre in risposta a sollevazioni popolari contro il regime. La natura dittatoriale della monarchia Al Khalifa, appartenente ad una tribù originaria del Qatar che invase il Bahrain sul finire del XVIII secolo, è rimasta però stanzialmente invariata, così come l’emarginazione della maggioranza della popolazione sciita, lasciando così intatte tutte le contraddizioni di questo minuscolo ma importante paese dove proteste e repressione hanno caratterizzato quasi ogni giorno degli ultimi 24 mesi.