di Michele Paris

In un’atmosfera decisamente più cupa rispetto all’euforia di quattro anni fa, nella giornata di lunedì il presidente Obama ha ufficialmente aperto il suo secondo mandato alla Casa Bianca dopo la vittoria elettorale dello scorso novembre. Il suo breve discorso pubblico tenuto di fronte al Congresso è risultato ancora una volta un concentrato di demagogia e proclami fuorvianti, necessari per occultare la realtà di politiche sempre più reazionarie dietro ad una retorica che ha cercato di prospettare una più che improbabile visione progressista per il futuro degli Stati Uniti.

Il giuramento vero e proprio del presidente democratico era in realtà avvenuto il giorno precedente alla Casa Bianca nel corso di una cerimonia con pochi partecipanti, poiché la scadenza costituzionale del mandato di Obama ricorreva appunto nella giornata di domenica. Se pure a Washington sono giunte centinaia di migliaia di persone per l’inaugurazione presidenziale, il numero è stato nettamente inferiore rispetto al 2009, coerentemente con la presa di coscienza in questi quattro anni da parte di ampie fasce della popolazione americana dell’impossibilità di vedere realizzati i cambiamenti promessi.

Nel suo discorso, Obama ha fatto riferimento sia alle origini della democrazia americana che alle battaglie per l’emancipazione razziale, proponendo un percorso per ridurre le disuguaglianze e ottenere la piena affermazione dei diritti individuali. Pur senza entrare nel merito di proposte specifiche, l’inquilino della Casa Bianca ha affermato poi la necessità di agire sul fronte del cambiamento climatico, della “salvaguardia” dei programmi di assistenza pubblica, della lotta alla povertà, dell’immigrazione e dei diritti degli omosessuali.

La retorica di Obama, in ogni caso, non deve aver convinto più di tanto la maggior parte degli americani che hanno ascoltato il suo discorso, dal momento che lo stesso presidente democratico nei suoi primi quattro anni alla guida del paese non ha rappresentato altro che la continuazione di politiche tese piuttosto a indebolire le garanzie democratiche e alla difesa dei grandi interessi economici e finanziari di cui la classe politica di Washington è espressione unica.

Riguardo alle politiche ambientali, ad esempio, c’è da chiedersi quali iniziative per combattere il cambiamento climatico possa mettere in atto un’amministrazione che poco o nulla di realmente significativo ha realizzato dal 2009 a oggi o che, ancor peggio, ha fatto di tutto per salvare il colosso petrolifero BP dopo il disastro ambientale del 2010 nel Golfo del Messico o che ha aperto alle trivellazioni svariate aree ecologicamente fragili in Alaska e altrove.

Inoltre, in merito alla necessità di “difendere” programmi come Medicare, Medicaid o Social Security, come esige il linguaggio orwelliano della politica americana, va ricordato che questi ultimi sono già stati privati di centinaia di miliardi di dollari per i prossimi anni con l’approvazione della cosiddetta riforma sanitaria di Obama e che nuovi devastanti tagli sono all’orizzonte nell’ambito delle imminenti trattative con i repubblicani per la riduzione del debito federale.

Solo marginale è stato invece il riferimento alla lotta al terrorismo e alle avventure belliche degli Stati Uniti. Ben consapevole dell’impopolarità delle politiche del governo in questo ambito, Obama si è limitato a fare intravedere la fine delle guerre iniziate più di un decennio fa. Mentre il presidente parlava agli americani, tuttavia, l’apparato militare del quale è a capo continuava a discutere dell’opportunità di partecipare attivamente al conflitto in Mali per promuovere gli interessi imperialistici occidentali. Allo stesso modo, i preparativi per un’aggressione illegale contro l’Iran e per un intervento diretto in Siria per rovesciare un regime sgradito proseguono senza sosta.

Il relativo disimpegno prospettato da Obama, in ogni caso, riguarda unicamente l’inopportunità - politica ed economica - di continuare ad inviare all’estero grandi contingenti militari, come in Iraq e in Afghanistan, facendo affidamento piuttosto su operazioni segrete delle forze speciali o su assalti condotti con i droni, come quelli che pressoché quotidianamente seminano il terrore tra i civili in paesi come Pakistan, Afghanistan, Yemen e Somalia.

Particolarmente rivelatrici sono state poi le parole sui diritti degli omosessuali, le quali hanno mandato in visibilio i media liberal, dal momento che Obama sarebbe stato il primo presidente a pronunciare la parola “gay” durante un discorso inaugurale. Questo riferimento appare indirizzato in particolare ai sostenitori di sinistra del presidente, ben disposti a passare sopra a qualsiasi eccesso in cambio di un generico impegno nell’ambito delle politiche identitarie.

Più in generale, come ha evidenziato martedì un editoriale di raro cinismo del New York Times, Obama nel suo discorso si sarebbe concentrato sulla sua “filosofia politica”, la quale in sostanza prevede che la libertà e la prosperità degli Stati Uniti dipendano dalla capacità di “agire collettivamente”.

Assieme all’appello alle politiche identitarie, simili affermazioni servono a confondere le idee circa le vere ragioni della crisi in atto, vale a dire le macroscopiche differenze di classe che caratterizzano la società americana, come se gli interessi di lavoratori, disoccupati, studenti e pensionati siano conciliabili con quelli di una ristretta cerchia che occupa i vertici della politica, dell’economia e dell’industria finanziaria americana.

Il ricorso alla promozione di campagne per l’emancipazione delle minoranze - siano esse di razza o di orientamento sessuale - oppure per la lotta al cambiamento climatico, se pure meritevoli e assolutamente necessarie, hanno in realtà lo scopo di tenere a freno tensioni sociali sempre più evidenti, risultato di politiche di classe messe in atto da almeno tre decenni a questa parte e che hanno prodotto gigantesche differenze di reddito, nonché disoccupazione e povertà dilaganti.

Al di là della retorica pubblica, d’altra parte, Obama ha avuto parole più concilianti verso coloro che si opporrebbero alla sua presunta agenda progressista. In un ricevimento seguito all’inaugurazione, il presidente si è infatti intrattenuto con i leader di entrambi i partiti al Congresso, ricordando come le loro posizioni non siano poi così inconciliabili, visto che hanno lo stesso obiettivo di salvare il capitalismo americano dalla crisi strutturale in atto facendone pagare tutte le conseguenze alla classe media e ai lavoratori.

In ogni caso, la visione “liberal” presentata nel discorso inaugurale da un Obama insolitamente poco incline ai consueti appelli bipartisan è sintomo infine di una più che giustificata preoccupazione negli ambienti di potere americani per un malcontento diffuso nei confronti di politiche volte unicamente a salvaguardare gli interessi dei poteri forti e che stanno causando un continuo peggioramento delle condizioni di vita di decine di milioni di persone. Da qui la necessità di provare a proiettare l’immagine di un presidente pronto a battersi per una società più giusta.

Se la vera natura delle politiche perseguite a Washington non può ovviamente essere discussa apertamente, la retorica progressista di Obama suona però del tutto vuota proprio perché non è in grado e non ha alcuna volontà di individuare le radici della crisi del sistema, facendone perciò, ad esempio, una questione di diritti gay invece che, più opportunamente, una questione di rapporti di classe, argomento da tempo inavvicinabile per tutta la classe dirigente d’oltreoceano.

di Michele Paris

Mentre il bilancio delle vittime del blitz condotto nel fine settimana dalle forze di sicurezza algerine in un impianto di estrazione di gas naturale al confine con la Libia continua a salire, le collegate operazioni militari della Francia nel vicino Mali indicano una possibile escalation del conflitto nel paese dell’Africa occidentale, con possibili gravi ripercussioni per tutta la regione del Sahel e non solo.

Come è noto, l’assalto finale delle forze speciali di Algeri ha avuto luogo nella giornata di sabato e si è risolto in un vero e proprio bagno di sangue. I morti tra gli ostaggi e gli affiliati ad una brigata integralista legata ad Al-Qaeda che aveva preso possesso dell’installazione ammontano a svariate decine, anche se, per stessa ammissione del governo locale, numerose vittime devono ancora essere identificate.

L’azione dei reparti speciali algerini è stata decisa senza consultare i paesi da cui provenivano molti degli operatori della struttura estrattiva di In Amenas ed è avvenuta dopo il rifiuto da parte delle autorità governative di trattare con i leader dei jihadisti per la liberazione degli ostaggi. In un video postato su un sito web nord-africano, infatti, il leader del gruppo che ha rivendicato l’operazione, Mokhtar Belmokhtar, si era detto pronto a negoziare con l’Occidente e con il governo algerino se fossero stati interrotti i bombardamenti francesi in Mali.

Le dichiarazioni del veterano guerrigliero islamista, ben noto ai servizi segreti algerini e francesi ma anche americani, dal momento che aveva mosso i suoi primi passi nel movimento jihadista finanziato da Washington in Afghanistan negli anni Ottanta, confermano dunque i timori di quanti prevedevano serie conseguenze del nuovo fronte di guerra aperto da Parigi una decina di giorni fa.

In Mali, dove la Francia ha inviato finora più di duemila uomini come truppe di terra, gli sviluppi più recenti delle operazioni belliche indicano ripetuti bombardamenti contro le roccaforti degli estremisti islamici nel nord del paese, in particolare nei pressi di Timbuktu. Nella località del Mali centrale, Diabaly, a poco più di 300 km dalla capitale, Bamako, le forze francesi e l’esercito regolare avrebbero invece ripreso il controllo della situazione, con i “ribelli” costretti almeno momentaneamente alla fuga.

Alla luce della strage nella struttura estrattiva in Algeria e di possibili attentati anche in territorio francese, tuttavia, il governo socialista di François Hollande continua ad affermare che l’intervento in Mali sarà di breve durata e che dovranno essere i paesi africani a farsi carico della difficile stabilizzazione del paese, o meglio a dover agire come strumento delle mire neo-colonialiste di Parigi.

A questo scopo, in un summit organizzato nel fine settimana ad Abidjan, in Costa d’Avorio, il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha sollecitato la formazione di una forza multinazionale di intervento in Mali, già autorizzata da una recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Quest’ultima decisione prevedeva in realtà tempi di intervento molto più lunghi ma l’avanzata dei “ribelli” islamici verso il sud del paese ha spinto la Francia a muoversi anticipatamente. In ogni caso, già domenica sarebbero giunti a Bamako almeno 400 soldati provenienti da Nigeria, Togo, Benin e Ciad, un anticipo di un totale di oltre tremila uomini complessivamente promessi assieme ad altri paesi africani.

L’intervento francese in Mali, come ampiamente previsto, è subito diventato un potente strumento in mano ai gruppi integralisti per reclutare nuovi adepti della jihad globale, trasformando con ogni probabilità una minaccia limitata al paese dell’Africa occidentale o, tutt’al più, a quelli confinanti, in un pericolo anche per l’Occidente.

Questa nuova realtà ha già scatenato una serie di commenti e analisi allarmate circa gli scenari che si preannunciano sul fronte della “guerra al terrore”, accompagnati da appelli a nuove inevitabili iniziative di più ampio respiro e di lunga durata. Tra i leader occidentali che si sono pronunciati in questo senso nei giorni scorsi c’è ad esempio il primo ministro britannico, David Cameron, il quale ha definito le attività di gruppi come Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) “una minaccia globale che richiederà una risposta globale” da attuarsi “nei prossimi anni o addirittura decenni”.

In precedenza, il Segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, aveva anch’egli ipotizzato un maggiore impegno in Africa da parte del suo paese, dal momento che Washington “ha preso l’impegno di combattere Al-Qaeda ovunque”. Il capo del Pentagono, che lascerà a breve il proprio incarico al relativamente più moderato ex senatore repubblicano Chuck Hagel, ha poi ricordato minacciosamente che gli Stati Uniti hanno già contrastato i “terroristi” in “Afghanistan, in Pakistan, in Somalia” e che perciò non avranno alcuno scrupolo ad impegnarsi anche in Nord Africa.

La nuova crociata guidata dalla Francia e dagli USA fa parte dunque di una strategia che, in vista del relativo disimpegno in Medio Oriente e in Asia centrale, nei prossimi anni avrà al centro dell’attenzione il continente africano, obiettivo ambito dalle potenze internazionali per le proprie ingenti risorse naturali in buona parte ancora da esplorare e terreno nel quale è già in corso un’accesa competizione con la penetrazione cinese.

L’implementazione di questo disegno ha fatto segnare una netta accelerazione proprio con l’intervento francese in Mali, e prima ancora con l’aggressione della NATO contro la Libia per rimuovere il regime di Gheddafi. Come hanno fatto osservare alcuni analisti, l’inaugurazione di un fronte africano della “guerra al terrore” è stato teorizzato da tempo negli ambienti “neo-con” d’oltreoceano e la militarizzazione del continente per controllarne le riserve energetiche di fronte alla minaccia cinese sarebbe appunto il compito principale, anche se non ufficiale, assegnato al Comando Africano del Pentagono (AFRICOM), creato dall’amministrazione Bush nel 2008.

La minaccia estremista al governo del Mali, esplosa peraltro in seguito alla fine di Gheddafi, il cui governo svolgeva una funzione stabilizzatrice delle forze centrifughe che caratterizzano la ex colonia francese, è stata dunque sfruttata ancora una volta per promuovere gli obiettivi imperialistici degli Stati Uniti e dei loro alleati in Occidente, dietro la consueta e ormai ben consolidata retorica della necessità di contrastare il terrorismo internazionale.

Le forze dell’integralismo islamico, d’altra parte, sono da tempo pedine nelle mani dei governi occidentali, i quali le usano alternativamente e a seconda delle necessità, come alleati più o meno ufficiali per combattere regimi sgraditi, come è accaduto in Libia e come sta avvenendo in Siria, oppure come casus belli per giustificare interventi diretti in aree del pianeta strategicamente fondamentali, come appunto in Mali.

La responsabilità della creazione di queste cellule estremiste è da attribuire all’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti e ai regimi alle loro dipendenze in Africa e in Medio Oriente. Se l’origine di Al-Qaeda, finanziata e armata da Washington e dalle monarchie assolute del Golfo Persico, è da ricercare nel conflitto in Afghanistan per mettere fine all’occupazione sovietica, in questi ultimi anni le crisi create in Libia e in Siria hanno consentito alla galassia jihadista di prosperare ed ampliare i propri obiettivi.

Per quanto riguarda la vicenda del Mali, non solo Al-Qaeda nel Maghreb Islamico - il gruppo islamista che controlla il nord del paese assieme ad Ansar Dine e al Movimento per l’Unicità e la Jihad in Africa Occidentale (MOJWA) - ha beneficiato delle armi fornite dalla NATO ai ribelli libici di matrice islamista (LIFG) in prima linea contro Gheddafi e con i quali sono alleati da anni, ma, secondo alcuni, sarebbe essa stessa una creatura dei servizi segreti dell’Algeria, il cui governo ha ora concesso il proprio spazio aereo ai velivoli francesi che bombardano le postazioni di AQIM nel vicino meridionale.

A sostenere questa tesi, in particolare, è Jeremy Keenan, autorevole esperto di questioni nord-africane e docente presso la London University. In numerose analisi su varie testate internazionali, in questi anni Keenan ha sottolineato come i guerriglieri islamisti che hanno preso possesso dallo scorso anno del Mali settentrionale abbiano goduto dell’assistenza del cosiddetto “Département du Renseignement et de la Sécurité” (DRS) di Algeri, tra l’altro accusato a più riprese di fare regolarmente ricorso a metodi di tortura e a detenzioni illegali.

Per Keenan, il DRS utilizzerebbe questi gruppi estremisti per convincere l’Occidente a continuare a fare affidamento sul regime algerino nella “guerra al terrore” in Nordafrica, mentre in collaborazione con le agenzie di intelligence occidentali avrebbe più volte organizzato operazioni terroristiche fabbricate ad arte per giustificare l’espansione del fronte globale contro il terrorismo nella regione sahariana e del Sahel.

La sempre maggiore presenza militare occidentale in Africa, come già anticipato, è infine anche e soprattutto una risposta ai successi fatti segnare dalla Cina in questo continente, dove Pechino ha costruito partnership che hanno fatto lievitare negli ultimi anni gli scambi commerciali bilaterali. In Mali, ad esempio, le aziende cinesi sono impegnate in vari settori, dalle costruzioni all’industria estrattiva, dall’agricoltura all’industria alimentare, contribuendo allo sviluppo minimo di cui ha beneficiato questo poverissimo paese nel recente passato.

Alcuni progetti di cooperazione con il governo del Mali vennero siglati nel febbraio 2009 durante una visita a Bamako dell’allora presidente cinese, Hu Jintao, invitato personalmente dal suo omologo Amadou Toumani Touré, la cui deposizione nel marzo dello scorso anno ha dato inizio alla crisi in cui è precipitato il paese africano. A rimuovere Touré a poche settimane dalla fine del suo mandato presidenziale fu un colpo di stato militare guidato da Amadou Sanogo, un capitano ribelle dell’esercito debitamente addestrato negli Stati Uniti d’America.

di Michele Paris

I rapporti tutt’altro che amichevoli tra Barack Obama e il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, sono stati messi in luce ancora una volta nei giorni scorsi dalle rivelazioni riportate da un commentatore americano molto vicino alla Casa Bianca. Il presidente democratico avrebbe cioè manifestato ad alcuni suoi collaboratori tutti i timori per un governo, come quello di Tel Aviv, che insiste a tenere una linea di condotta contraria agli interessi americani e di Israele stesso.

Le parole di Obama sono state pubblicate in un commento di Jeffrey Goldberg - da alcuni definito il più influente giornalista in America sulle questioni relative a Israele - pubblicate nella mattinata di martedì dal sito web di Bloomberg News. L’editorialista della rivista The Atlantic ha raccontato di una circostanza avvenuta alla Casa Bianca poco dopo il voto dello scorso novembre all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha riconosciuto la Palestina come stato osservatore non-membro, e la ritorsione del governo Netanyahu, messa in atto con il via libera alla costruzione di circa tre mila nuove unità abitative illegali in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

In riferimento a quest’ultima decisione, Obama avrebbe confidato alle persone presenti di non essere affatto sorpreso dal comportamento di Netanyahu, poiché le sue politiche auto-lesioniste sarebbero ormai una consuetudine.

Inoltre, ha affermato Goldberg, nelle settimane successive al voto ONU, il presidente americano avrebbe più volte detto che il governo di “Israele non sa ciò è che nel proprio interesse” e che, “dopo ogni annuncio di un nuovo insediamento, Netanyahu spinge sempre più il proprio paese verso un quasi totale isolamento”. Per Obama, poi, “se Israele, un piccolo stato situato in una regione inospitale, dovesse diventare una sorta di paria, alienandosi anche gli Stati Uniti, il suo ultimo e fedele alleato, non potrebbe sopravvivere. Mentre l’Iran rappresenta una minaccia immediata alla sopravvivenza di Israele, il comportamento del suo governo è invece una minaccia a lungo termine”.

Secondo Goldberg, Obama avrebbe anche usato toni insolitamente duri nei confronti di Netanyahu, definendolo un “codardo” dal punto di vista politico, poiché non avrebbe la volontà di rischiare di suscitare le ire della “lobby degli insediamenti” e scendere a compromessi per far ripartire un processo di pace sempre più ingolfato con i leader palestinesi. Singolarmente, questa stessa definizione di Netanyahu potrebbe essere applicata al comportamento proprio dello stesso Obama nei confronti di Israele, caratterizzato da un rifiuto ad esercitare qualsiasi pressione in maniera ufficiale su Tel Aviv per evitare gli attacchi delle potenti lobby sioniste negli Stati Uniti.

L’articolo di Jeffrey Goldberg, la cui autenticità è ovviamente impossibile da verificare, ha tutto l’aspetto di una finta rivelazione relativa ad una conversazione riservata, pubblicata con il consenso del presidente Obama per trasmettere un messaggio al capo del governo di Israele alla vigilia delle elezioni parlamentari.

A condividere questa tesi è sostanzialmente anche il quotidiano israeliano Haaretz, il quale martedì ha scritto che l’articolo del giornalista americano su Bloomberg News sarebbe il risultato di “un briefing tra i principali consiglieri della Casa Bianca”. Tanto più che Goldberg, ricorda il commento di Haaretz, in svariate occasioni negli ultimi quattro anni ha fatto da tramite per i messaggi pubblici indirizzati dalla Casa Bianca al primo ministro israeliano, sia riguardo la questione palestinese che quella del nucleare iraniano.

In questa occasione, l’articolo di Goldberg dovrebbe servire a convincere Netanyahu a fare qualche concessione in vista di una possibile riapertura dei negoziati di pace con l’Autorità Palestinese e possibilmente ad ammorbidire la sua posizioni in merito al nucleare iraniano. La condotta israeliana continua infatti ad avere ripercussioni negative sulla posizione degli Stati Uniti in Medio Oriente e Washington non intende danneggiare i rapporti con paesi considerati fondamentali per la difesa dei propri interessi nella regione, come Egitto e Turchia, i quali con Israele hanno avuto più di uno scontro nel recente passato proprio attorno alla irrisolta questione palestinese.

Per rafforzare il messaggio, Goldberg ha delineato anche ipotetici provvedimenti di fronte al persistere della linea dura da parte del governo Netanyahu. In particolare, l’amministrazione Obama potrebbe modificare la propria politica di difesa incondizionata di Israele nei consessi internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite. Come ammette lo stesso Goldberg, simili conseguenze sono però alquanto improbabili, dal momento che, al di là dell’antipatia personale tra Obama e Netanyahu e delle preoccupazioni per gli interessi americani in Medio Oriente, Washington continuerà a schierarsi a fianco del proprio alleato.

Secondo gli osservatori più ottimisti, tuttavia, qualche timida pressione su Tel Aviv potrebbe giungere durante il secondo mandato di un presidente Obama svincolato da preoccupazioni elettorali, come dimostrerebbero le recenti nomine al Dipartimento di Stato e al Pentagono di John Kerry e Chuck Hagel, due politici mostratisi talvolta in passato relativamente critici di Israele.

Il messaggio di Obama inviato tramite il pezzo di Goldberg, prevedibilmente, non è stato accolto con particolare favore da un Netanyahu in piena campagna elettorale. Nel corso di una visita al confine con la striscia di Gaza nella giornata di martedì, il premier, accompagnato dal suo ministro della Difesa, Ehud Barak, ha risposto fermamente al presidente americano, affermando che “soltanto i cittadini israeliani possono decidere chi rappresenti al meglio i loro interessi vitali”.

Netanyahu, inoltre, ha ostentato la resistenza del suo governo negli ultimi quattro anni a “pressioni enormi” in merito all’Iran, al ritorno ai confini precedenti il 1967 e agli insediamenti a Gerusalemme Est, come se fosse un merito avere minacciato lo scoppio di una guerra illegale contro la Repubblica Islamica o continuare a perseguire una politica di espansione delle colonie universalmente condannata e considerata in violazione del diritto internazionale. In un’elezione alle porte segnata dall’ulteriore spostamento a destra del baricentro politico israeliano, d’altra parte, Netanyahu non può per il momento permettersi nessun segno di debolezza o concessioni, nemmeno verso gli Stati Uniti.

Al di là degli obiettivi strategici totalmente condivisi tra USA e Israele, la freddezza che caratterizza i rapporti tra Obama e Netanyahu è in ogni caso reale e, in una certa misura, potrebbe contribuire a modellare quanto meno le sfumature delle politiche decise a Washington e a Tel Aviv. Se effettivamente pronunciate, le dure parole di Obama riportate da Jeffrey Goldberg questa settimana sarebbero così solo l’ultimo dei numerosi episodi che testimoniano l’insofferenza reciproca tra i due leader.

Solo per citare due dei momenti di imbarazzo che hanno trovato ampia eco sulla stampa internazionale, vanno ricordati il rifiuto da parte di Obama di incontrare Netanyahu nel settembre dello scorso anno a margine dell’annuale convocazione dell’Assemblea Generale dell’ONU e il celebre fuori onda del novembre 2011.

In quest’ultima occasione, durante una pausa del G20 in corso a Cannes, l’allora presidente francese Sarkozy, credendo che i microfoni fossero spenti, confidò a Obama di non potere più sopportare Netanyahu, definendolo senza mezzi termini un “bugiardo”. Il presidente americano, allora, non perse tempo a mostrare la propria solidarietà al collega, aggiungendo: “Tu non ne puoi più di lui, ma sono io a doverci trattare tutti i giorni!”.

di Michele Paris

La già precaria situazione interna del Pakistan ha fatto registrare in questi giorni pericolosi passi verso una vera e propria crisi istituzionale, in seguito all’ordine di arresto emesso nei confronti del capo del governo, Raja Pervez Ashraf. Il caos nel paese centro-asiatico a poche settimane da un delicato appuntamento elettorale continua inoltre ad essere alimentato da un nuovo e minaccioso movimento di protesta popolare, ma anche dal riesplodere del conflitto con l’India per il Kashmir e da sanguinosi attentati messi in atto dai gruppi estremisti islamici sunniti contro il governo e le minoranze religiose.

Nella giornata di martedì la Corte Suprema del Pakistan ha dunque ordinato l’arresto del primo ministro, accusato di avere ricevuto tangenti in relazione alla costruzione di centrali elettriche quando era ministro dell’Energia nel 2010. Ashraf aveva sostituito alla guida del governo nel giugno dello scorso anno Yusuf Raza Gilani, anch’egli rimosso dal proprio incarico dalla Corte Suprema e dal suo combattivo presidente, Iftikhar Muhammad Chaudhry, perché rifiutatosi più volte di eseguire un ordine del più alto tribunale pakistano di indirizzare una lettera alle autorità svizzere per riaprire un vecchio caso di corruzione in cui era coinvolto il presidente, Asif Ali Zardari.

Le accuse di corruzione contro l’attuale premier sono note da mesi ma il tempismo dell’ordine di arresto ha sollevato parecchie perplessità. La decisione della Corte Suprema, infatti, è giunta in concomitanza con una manifestazione di protesta organizzata nella capitale, Islamabad, da un religioso e accademico islamico recentemente tornato in patria dal Canada, Mohammad Tahir-ul Qadri.

Quest’ultimo, in un comizio di fronte ad una folla oceanica lo scorso dicembre a Lahore aveva inaugurato una campagna pubblica volta a screditare la già sufficientemente impopolare classe politica pakistana, trovando ampio seguito tra una popolazione costretta a fare i conti con povertà diffusa, disoccupazione e carenza cronica di servizi pubblici.

La manifestazione di Islamabad era invece iniziata lunedì scorso e il giorno successivo i seguaci di Qadri hanno poi marciato verso il Parlamento. Proprio mentre Qadri stava tenendo un discorso nel quale invitava il presidente Zardari e il governo a dimettersi, è giunta la notizia della richiesta d’arresto per il primo ministro Ashraf.

Lo scenario auspicato da Qadri prevederebbe ora la sostituzione dell’attuale esecutivo con un governo di transizione che riceva l’approvazione dei militari, tradizionalmente il centro di potere più influente in Pakistan. Da qui il sospetto nutrito da molti, a cominciare dal Partito Popolare al governo (PPP), che la crociata condotta da Qadri, anche grazie ad una costosa campagna mediatica resa possibile da ingenti donazioni di dubbia provenienza, sia appunto appoggiata dai militari.

Tanto più che, come ha scritto mercoledì la Reuters, Qadri pare avere già avuto un ruolo nel colpo di stato militare del 1999 che depose il governo del primo ministro eletto, Nawaz Sharif, installando al potere il generale Pervez Musharraf.

Ufficialmente, secondo quanto affermato anche dal comandante delle forze armate, generale Ashfaq Parvez Kayani, i militari non sembrano avere intenzione di intervenire direttamente in ambito politico, anche perché in questi anni il loro strapotere è stato oggetto di molte critiche che ne hanno screditato l’immagine.

Con il voto imminente, le forze armate potrebbero essere piuttosto interessate ad una manovra, presentata come un’iniziativa popolare, che consenta loro di favorire il successo alle urne di una formazione politica meno ostile di quanto lo sia stato in questi anni il Partito Popolare del presidente Zardari, anche se ciò potrebbe comportare un rinvio delle elezioni previste per marzo.

Queste scosse del sistema politico pakistano, come già anticipato, giungono in un momento in cui si sono pericolosamente aggravate le tensioni con l’India attorno alla disputa di confine nella regione del Kashmir. Nei giorni scorsi, infatti, una serie di scontri tra le guardie di frontiera dei due paesi ha causato la morte di alcuni soldati da entrambe le parti ed un acceso scambio di accuse reciproche.

Inoltre, questo inizio di anno ha visto aumentare considerevolmente gli episodi di violenza e gli attentati terroristici ai anni di edifici e di personale governativo, così come della minoranza Hazara di religione sciita, residente in gran parte nella provincia occidentale del Belucistan, alimentando proteste e malumori verso una classe dirigente incapace di garantire la sicurezza dei propri cittadini. Solo giovedì scorso, ad esempio, una serie di esplosioni a Quetta, nel Belucistan, e a Mingora, nel distretto di Swat al confine nord-occidentale con l’Afghanistan, ha causato la morte di ben 120  persone.

Di fronte ad una serie di gravi problemi come quelli elencati, e con il timore di un’ulteriore destabilizzazione del paese, le divisioni e gli scontri tra le varie sezioni delle élite pakistane, facenti capo principalmente ai partiti politici, ai militari e alla magistratura, si stanno perciò intensificando. In un paese che registra numerosi precedenti di interferenze dei militari per ristabilire l’ordine, è comprensibilmente diffusa la sensazione che un colpo di mano per sovvertire gli equilibri democratici alla vigilia del voto sia la soluzione più probabile.

L’instabilità del Pakistan rischia infine di mettere ancora più a repentaglio i piani degli Stati Uniti in Afghanistan e in Asia centrale. A creare questo scenario, tuttavia, ha contribuito in maniera decisiva proprio la politica americana in quest’area del globo. L’intervento per deporre il regime talebano e il tentativo di Washington di fare dell’India, il nemico storico del Pakistan, un elemento centrale della propria strategia asiatica per contenere l’espansionismo cinese, infatti, ha scardinato i pilastri della sicurezza pakistana e complicato notevolmente la rivalità tra Delhi e Islamabad.

In particolare, l’appoggio garantito dagli USA all’India in ambito nucleare, negato invece al Pakistan, e l’impulso alla creazione di una partnership strategica tra il governo di Delhi e quello afgano hanno inevitabilmente contribuito ad aumentare il senso di accerchiamento di Islamabad, il cui tradizionale rapporto privilegiato con Pechino, inoltre, ha finito per costituire sempre più un ostacolo nelle relazioni con Washington, da cui riceve annualmente ingenti aiuti economici.

Una situazione, quella in cui si ritrova il Pakistan in ambito internazionale, che viene dunque percepita sempre più come prova di ostilità e di minaccia incombente nei suoi confronti e che, combinata alla crescente crisi politica e sociale domestica, caratterizzata da disuguaglianze colossali e tensioni pronte ad esplodere, rischia di far precipitare la situazione interna, con riflessi allarmanti per l’intera regione centro-asiatica.

di Michele Paris

A poco più di un mese di distanza dalla sparatoria alla scuola elementare Sandy Hook di Newtown, in Connecticut, che ha causato la morte di 28 persone, di cui la maggior parte bambini tra i 6 e i 7 anni, il dibattito politico negli Stati Uniti sul ripetuto verificarsi di massacri di questo genere continua a concentrarsi esclusivamente sulla necessità di adottare misure legislative più severe per la vendita di armi da fuoco.

Questa settimana il presidente Obama ha così ribadito pubblicamente la sua intenzione di adottare un piano di ampio respiro per cercare di far diminuire i livelli di violenza causati dalla diffusione pressoché incontrollata di armi nel paese. Il progetto pensato dall’inquilino della Casa Bianca dovrebbe includere, in linea teorica, maggiori controlli sui precedenti penali e sulla salute mentale di coloro che vogliono acquistare un’arma, ma anche il ripristino del divieto di vendita delle cosiddette armi d’assalto, istituito durante la presidenza Clinton nel 1994 e lasciato scadere dieci anni più tardi grazie all’intensa attività di lobby delle organizzazioni a difesa dei diritti dei possessori di armi.

In realtà, qualsiasi proposta di legge che dovesse approdare al Congresso per regolare la vendita di armi ha ben poche chances di essere approvata. Il Partito Democratico e quello Repubblicano stanno infatti già preparando le complicate trattative sull’innalzamento del tetto del debito pubblico americano che si renderà necessario tra poco più di un mese e, alla luce del duro confronto che si prospetta, difficilmente il presidente Obama vorrà aggiungere un nuovo motivo di scontro politico.

Soprattutto, poi, la potente lobby americana delle armi ha già annunciato battaglia per far naufragare ogni ipotesi di legge. La principale associazione in questo ambito, la famigerata NRA (National Rifle Association), stila periodicamente una valutazione dei politici di Washington, assegnando loro un voto dalla A alla F a seconda del loro impegno nel difendere il dettato del Secondo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, il quale stabilisce appunto il diritto di portare armi, sia pure all’interno di una “milizia ben regolata”. Chiunque non dovesse prestare attenzione alle indicazioni della NRA, votando per norme più restrittive, andrebbe perciò incontro ad una probabile sconfitta nel prossimo appuntamento con le urne.

Vista dunque la difficoltà di vedere approvate nuove leggi sul controllo delle armi al Congresso, la Casa Bianca ha fatto sapere lunedì che il presidente intende utilizzare quanto in suo potere per fare qualche progresso in questo senso, ricorrendo in particolare all’emissione di “ordini esecutivi” che non sono sottoposti al voto di Camera e Senato. Tra le altre, le limitate e inefficaci misure che Obama potrebbe decidere unilateralmente ci sarebbero l’obbligo per le varie agenzie federali di condividere i dati sui cittadini con disturbi mentali, limiti sull’importazione di armi dall’estero ed uno stimolo agli studi sulla violenza causata dalle armi da fuoco.

Per formulare una politica che faccia fronte a tutte le problematiche derivanti dal sistema di vendita di armi negli USA, lo stesso Obama aveva dato vita ad un’iniziativa in larga misura di facciata lo scorso 19 dicembre, cinque giorni dopo i fatti di Newton, nominando una speciale task force guidata dal vice-presidente, Joe Biden, la quale ha presentato le proprie raccomandazioni alla Casa Bianca un paio di giorni fa. Le proposte di Biden, che ha incontrato in un clima di assoluta freddezza anche i rappresentanti della NRA, non si discostano in maniera sensibile dalle misure che auspica il presidente e, come queste ultime, sono anch’esse destinate a rimanere lettera morta.

Per dare un’idea del clima che regna al Congresso, il deputato repubblicano del Texas, Steve Stockman, lunedì scorso ha addirittura minacciato di avviare una procedura di impeachment nei confronti di Obama nel caso dovesse emanare ordini esecutivi volti a regolamentare la vendita o il possesso di armi. L’impeachment, va sottolineato, viene agitato a tale riguardo e non ad esempio, per gli assassini mirati senza alcuna giustificazione legale ordinati dal presidente ovunque nel pianeta, anche contro cittadini americani.

Inoltre, Alan Gottlieb, fondatore di Second Amendment Foundation, un’altra organizzazione a difesa dei possessori di armi, in un’intervista al Wall Street Journal ha ricordato che i membri del Congresso che voteranno per leggi anti-armi andranno incontro a ritorsioni nella prossima tornata elettorale, cioè non riceveranno contributi dalle lobby delle armi oppure dovranno vedersela con campagne di discredito nei loro confronti. Per questo, ha aggiunto Gottlieb, “non si vedrà nessun repubblicano sostenere l’agenda anti-armi di Obama, mentre anche un considerevole numero di democratici finirà per prendere le distanze” dall’iniziativa del presidente.

A livello locale, però, qualche risultato sembra essere già stato raggiunto. Nello stato di New York, tra lunedì e martedì l’Assemblea statale ha approvato un pacchetto nato dalle negoziazioni tra il governatore, Andrew Cuomo, e i leader dei due partiti. La nuova legge, tra l’altro, amplia il numero di armi di cui è vietata la vendita nello Stato - anche se gli attuali possessori potranno conservarle - e richiede agli operatori nel settore della salute mentale di segnalare alle autorità qualunque paziente che mostri tendenze a danneggiare se stesso o gli altri. Una misura, quest’ultima, che ha ricevuto molte critiche, dal momento che le segnalazioni dovrebbero essere effettuate anche per quei pazienti che non posseggono armi o che non intendono acquistarne.

L’intera discussione in corso negli Stati Uniti attorno alla questione delle armi, in ogni caso, ha come obiettivo principale l’occultamento delle vere origini del ripetersi di episodi di efferata violenza come quello di Newtown. Tanto per cominciare, le analisi delle stragi non prendono mai in considerazione né le violenze e gli assassini quasi quotidiani commessi dalle forze di polizia, spesso ai danni di cittadini che raramente rappresentano una minaccia, né tantomeno la promozione del militarismo e della violenza su scala globale da parte del governo americano o i crescenti livelli di ineguaglianza nel paese e il soffocamento di qualsiasi alternativa all’attuale sistema politico ed economico.

Le sia pure timide accuse mosse da alcuni politici e commentatori americani ai metodi della NRA, inoltre, contrastano con il silenzio sul continuo impulso dato alla vendita di armi nel mondo, e quindi all’aumento dei livelli di violenza, da parte del governo stesso.

Su questo punto ha dedicato questa settimana un interessante post Tom Engelhardt sul popolare blog TomDispatch, sottolineando come il Pentagono possa essere considerato “l’equivalente della NRA e, allo stesso modo di questa organizzazione, si sia adoperato incessantemente negli ultimi anni assieme ai principali produttori di armi per fare in modo che ci siano sempre meno controlli su armi sempre più potenti che si desidera vendere all’estero”. Perciò, “la Casa Bianca e il Pentagono, con l’aiuto del Dipartimento di Stato, assicurano agli Stati Uniti il ruolo incontrastato di diffondere il diritto di possedere armi in tutto il mondo”.

Le forniture di armi, che i produttori americani controllano quasi per i quattro quinti del totale mondiale, sono naturalmente dirette ai paesi alleati, spesso dittature come Arabia Saudita o Emirati Arabi Uniti, garantendo loro la possibilità di reprimere nel sangue il dissenso interno o di scatenare guerre rovinose contro i propri nemici.

I maggiori controlli e le restrizioni alle vendite proposte in questi giorni, in ogni caso, anche se attuate non andrebbero ad intaccare il numero enorme di armi già in circolazione negli Stati Uniti e farebbero comunque ben poco, ad esempio, per evitare massacri come quello di Newtown, il cui responsabile, il 20enne Adam Lanza, ha avuto accesso a pistole e fucili detenuti del tutto legalmente dalla madre.

L’insistenza sulle verifiche dei precedenti penali degli acquirenti e, soprattutto, le misure accessorie che spesso vengono implementate per regolamentare la circolazione di armi hanno infine anche l’obiettivo non dichiarato di aumentare i poteri delle forze di polizia e di quello stesso apparato di governo responsabile di quotidiane atrocità in ogni angolo del pianeta.

Questa tendenza era apparsa in tutta la sua evidenza già nell’ultimo significativo sforzo legislativo compiuto a Washington per limitare la diffusione delle armi, avvenuto appunto nel 1994. In quell’occasione, infatti, oltre a proibire la vendita di armi d’assalto per un decennio, il Violent Crime and Law Enforcement Act includeva, tra l’altro, un aumento delle forze di polizia pari a 100 mila unità, la costruzione di nuove prigioni, l’aggiunta di decine di nuovi crimini al codice penale e l’espansione del numero dei reati per cui è prevista la pena capitale.


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