di Michele Paris

L’amministrazione Obama ha ottenuto qualche giorno fa la prima condanna di un membro dell’apparato della sicurezza nazionale americana coinvolto nel programma di interrogatori con metodi di tortura, introdotto da George W. Bush più di un decennio fa, ai danni di presunti sospettati di terrorismo. In linea con la condotta tenuta in questi quattro anni dal presidente democratico, tuttavia, la condanna dell’ex agente della CIA John Kiriakou non è giunta per le sue eventuali responsabilità in queste pratiche abusive, bensì per averle rivelate al pubblico americano.

Secondo le carte del processo a suo carico, il 48enne della Virginia era finito nei guai per avere rivelato ad un giornalista nel 2008 il nome di un collega della CIA ancora sotto copertura e che aveva preso parte agli interrogatori. Inoltre, allo stesso giornalista e ad un reporter del New York Times, Kiriakou aveva fatto il nome anche di un altro agente dell’intelligence che aveva partecipato alla cattura di Abu Zubaydah, cittadino saudita ritenuto erroneamente membro di alto livello di Al-Qaeda e uno degli organizzatori degli attacchi dell’11 settembre.

Da parte sua, Kiriakou ha sempre sostenuto di non sapere che gli agenti di cui aveva smascherato l’identità erano ancora attivi sul campo e che, se ne fosse stato al corrente, non lo avrebbe fatto.

Il tribunale federale che ha presieduto al suo caso ha comunque accettato venerdì scorso il patteggiamento raggiunto tra Kiriakou e la pubblica accusa, infliggendogli 30 mesi di carcere. Il giudice distrettuale ha poi respinto il tentativo della difesa di caratterizzare le azioni del proprio assistito come quelle di un “insider” che aveva cercato di fare luce sulle pratiche illegali del governo, aggiungendo che la condanna è a suo dire “fin troppo leggera”, dal momento che Kiriakou “ha tradito la solenne fiducia” della CIA, “mettendo a rischio gli agenti e la capacità dell’agenzia stessa di raccogliere informazioni”.

Come ammonimento ad evitare future rivelazioni, i pubblici ministeri hanno poi affermato che il caso appena discusso in aula è solo “la punta dell’iceberg” e che l’analisi della corrispondenza dell’accusato ha evidenziato come egli avesse passato a svariati giornalisti i nomi di altre decine di agenti sotto copertura. Per l’accusa, Kiriakou avrebbe operato in questo modo per ottenere una qualche notorietà mediatica, così da incrementare le vendite di un suo libro sulla guerra al terrore, uscito nel 2010.

Al di là degli effettivi danni causati da John Kiriakou agli agenti esposti, il suo caso è di fatto una vera e propria vendetta messa in atto dall’amministrazione Obama per altre rivelazioni che egli stesso aveva fatto in precedenza. Nel dicembre del 2007, infatti, Kiriakou aveva rilasciato un’intervista a ABC News, nella quale con una certa ambiguità aveva raccontato della cattura di Abu Zubaydah e del ricorso da parte della CIA nei confronti di quest’ultimo alla pratica del “waterboarding”, o annegamento simulato.

La sua rivelazione fu la prima ammissione pubblica da parte di un funzionario del governo circa l’esistenza di un programma di interrogatori basato sulle torture e sanzionato dai vertici di Washington.

Le parole di Kiriakou, così, hanno inevitabilmente messo in moto la macchina della vendetta del governo, dal momento che esse hanno coinvolto in seri crimini numerosi membri al suo interno. Per quanto riguarda Zubaydah, inoltre, venne in seguito appurata la sua estraneità ai fatti dell’11 settembre e alla stessa organizzazione fondata da Osama bin Laden, non prima però che il detenuto venisse sottoposto in almeno 83 occasioni a “waterboarding” e ad una lunga serie di altre torture che gli hanno causato la perdita di un occhio e danni cerebrali permanenti.

Se le rivelazioni di Kiriakou, supportate anche da quanto descritto nel sul libro di memorie (“The reclutant spy: my secret life in the CIA’s war on terror”), hanno contribuito a fare luce sulle pratiche illegali del governo, così come ad identificare alcuni dei responsabili materiali, negli Stati Uniti di Bush e Obama a finire sotto processo non sono stati però questi ultimi, ma l’autore delle rivelazioni stesse, permessosi di mettere in piazza i crimini commessi in nome della guerra al terrore.

L’attuale presidente, d’altra parte, oltre ad avere garantito la prosecuzione di molte attività extra-giudiziarie inaugurate dal suo predecessore, si è adoperato assiduamente per evitare che un solo responsabile di esse venisse sottoposto a processo. Per scoraggiare qualsiasi rivelazione imbarazzante, oltretutto, l’amministrazione Obama ha avviato una campagna senza precedenti per punire i cosiddetti “whistleblower”.

Durante la sua presidenza, infatti, il Dipartimento di Giustizia ha aperto un numero record di processi contro funzionari che hanno divulgato informazioni riservate sui crimini dell’imperialismo americano. Quello di John Kiriakou, il primo ad essere condannato in 27 anni per avere violato l’Intelligence Identities Protection Act, è il sesto caso per il quale il governo ha deciso l’incriminazione di un “whistleblower” dal 2009 a oggi, vale a dire il doppio di quelli perseguiti da tutte le precedenti amministrazioni combinate.

La relativa lievità della pena inflitta all’ex agente della CIA non deve in ogni caso far passare in secondo piano l’atteggiamento intimidatorio del governo, i cui pubblici ministeri avevano minacciato Kiriakou con una possibile condanna fino a 45 anni di carcere. Quest’ultimo si è perciò alla fine accordato per 30 mesi, ammettendo le sue responsabilità in crimini di minore gravità, per scrupolo nei confronti della sua famiglia, secondo i media d’oltreoceano costretta per un certo periodo a fare affidamento su buoni alimentari e gravata da qualcosa come mezzo milione di dollari di spese legali.

Qualche sparuto commentatore ha infine fatto notare la disparità di trattamento riservata dal governo a John Kiriakou e, ad esempio, all’ex capo di gabinetto dell’ex vice-presidente Dick Cheney, Lewis “Scooter” Libby, anch’egli condannato per avere rivelato l’identità dell’agente della CIA Valerie Plame, la cui vicenda è stata tra l’altro raccontata nel 2010 dal film Fair Game di Doug Liman.

Libby aveva smascherato l’identità della spia americana come gesto di ritorsione per le dichiarazioni del marito di quest’ultima, l’ex ambasciatore Joseph Wilson, il quale aveva denunciato pubblicamente l’infondatezza delle accuse rivolte dall’amministrazione Bush a Saddam Hussein di possedere armi di distruzione di massa alla vigilia dell’invasione dell’Iraq nel 2003.

Nel giugno del 2007 l’ex funzionario della Casa Bianca venne condannato a 30 mesi di carcere, una pena però interamente amnistiata da George W. Bush nemmeno un mese più tardi.

di Michele Paris

Nel ballottaggio della prima elezione diretta per la presidenza della Repubblica Ceca, il candidato di centro-sinistra, l’ex premier Miloš Zeman, ha staccato di quasi dieci punti percentuali l’attuale ministro degli Esteri, Karel Schwarzenberg, correttamente identificato dagli elettori con le politiche impopolari messe in atto dal governo di Praga. Il risultato del voto nel secondo turno di venerdì e sabato ha così evidenziato una chiara opposizione nel paese mitteleuropeo per le misure di austerity che una serie di deboli governi di centro-destra ha messo in atto per contrastare la crisi economica.

A dare un’idea del sentimento popolare nei confronti dell’esecutivo era stato, già nel primo turno dell’11 e 12 gennaio scorso, vinto di misura da Zeman, anche il risultato disastroso del candidato alla presidenza per il partito del premier Petr Ne?as (Partito Democratico Civico, ODS). In quella tornata elettorale, l’ex presidente del Senato, P?emsyl Sobotka, si era infatti piazzato ottavo su nove candidati, raccogliendo poco meno del 2,5% dei consensi.

La sfida tra i due candidati che hanno conquistato l’accesso al secondo turno - Zeman e Schwarzenberg - si è dunque risolta in una sorta di referendum per le politiche del governo, sonoramente bocciate dall’elettorato malgrado la chiara preferenza della maggior parte dei media locali e degli ambienti di potere internazionali per il ministro degli Esteri in carica. I dati definitivi hanno assegnato a Miloš Zeman il 54,8% dei voti contro il 45,2% del rivale conservatore.

A pesare sulla sorte di Schwarzenberg in tempi di crisi e di assalti alle condizioni di vita delle classi più disagiate, è stata forse anche la sua appartenenza ad una famiglia multi-miliardaria dell’aristocrazia boema, tornata in Cecoslovacchia solo nel 1989 dopo l’auto-esilio in Germania e in Austria seguito all’instaurazione del regime stalinista a Praga nel 1948. Quest’ultimo periodo della vita di Schwarzenberg è stato anche utilizzato in campagna elettorale per suscitare sentimenti nazionalisti, sia da Zeman che dal presidente uscente, Václav Klaus, schieratosi apertamente con il vincitore nonostante le presunte differenze ideologiche.

Proprio la fine dell’era del discusso Klaus dopo un decennio alla presidenza, secondo i media internazionali, dovrebbe segnare ora una distensione nei rapporti della Repubblica Ceca con le istituzioni europee. Klaus, infatti, è sempre stato un fiero oppositore dell’integrazione europea ed ha inoltre un rapporto estremamente burrascoso con il primo ministro Necas, anche se il partito di quest’ultimo è stato fondato proprio dall’attuale presidente.

Le relazioni tra la più alta carica dello stato e l’esecutivo non promettono comunque nulla di buono dopo la conquista della presidenza da parte di Zeman, il quale poche ore dopo l’annuncio dei risultati definitivi ha infatti immediatamente invocato elezioni anticipate. Il governo di minoranza di Necas è d’altra parte in crisi da tempo, essendo costretto a fare affidamento sul sostegno di alcuni deputati indipendenti dopo aver perso la propria maggioranza in parlamento lo scorso anno in seguito ad una serie di scontri tra i partiti che lo appoggiavano.

Le politiche di austerity messe in atto dietro indicazione degli ambienti finanziari internazionali hanno poi prodotto un crollo di consensi nel paese per il governo, come avevano confermato le elezioni per il rinnovo del Senato dello scorso novembre. A questa tornata elettorale aveva partecipato solo il 36% degli aventi diritto e i partiti della coalizione di governo erano stati severamente puniti. L’ODS di Necas, ad esempio, aveva fatto segnare il peggiore risultato della sua storia, mentre il partito TOP 09 di Schwarzenberg aveva ottenuto appena tre senatori su 81.

Il colpo di grazia alla popolarità del governo e alle chance di installare un proprio uomo alla presidenza, infine, è giunto probabilmente poche settimane fa, quando in accordo con il presidente Klaus è stata decisa un’amnistia per oltre sei mila detenuti con pene inferiori ai dieci anni, tra i quali molti condannati per corruzione e frode finanziaria.

Dal canto suo, alla luce del primo voto popolare per il capo dello stato, Zeman potrà contare su un mandato presidenziale più solido rispetto ai suoi predecessori e per questo ha promesso in campagna elettorale di adoperarsi per un improbabile allentamento delle misure di rigore e per un altrettanto inverosimile aumento della spesa pubblica. La sua opposizione alle misure di austerity è stata d’altra parte la carta vincente in una sfida che ha avuto al centro del dibattito proprio il deficit dello stato e i metodi per affrontarlo.

Fino al 2008, il presidente ceco era sempre stato eletto dal parlamento, finché una modifica costituzionale approvata lo scorso anno ha introdotto l’elezione diretta. I poteri del presidente della repubblica non sono comunque soltanto cerimoniali, dal momento che questa carica ha la facoltà, tra l’altro, di nominare il capo del governo, il governatore e i membri del direttivo della Banca Centrale, i giudici della Corte Suprema e Costituzionale, ma anche di porre il veto alle leggi promulgate dal parlamento.

68 anni compiuti lo scorso settembre, Miloš Zeman fu membro del Partito Comunista Cecoslovacco per un breve periodo, prima di esserne espulso nel 1970 per avere criticato l’invasione sovietica del suo paese. Impegnato in prima persona nella cosiddetta “Rivoluzione di Velluto” del 1989, Zeman ha occupato la carica di primo ministro per il Partito Social Democratico (?SSD) in un governo di minoranza tra il 1998 e il 2002, conducendo le trattative per il futuro ingresso della Repubblica Ceca nell’Unione Europea, avvenuto nel 2004.

Nel 2003, Zeman sarebbe stato poi sconfitto nella corsa alla nomination del suo partito per la presidenza, quando il parlamento optò per Klaus, e nel 2007 lasciò il Partito Social Democratico in polemica con la nuova leadership, per formare due anni dopo il Partito dei Diritti Civili (SPO). Politico populista e senza peli sulla lingua, Zeman è anche famoso per imbarazzanti uscite pubbliche anti-islamiche e caratterizzate da un certo scetticismo verso le teorie universalmente accettate del riscaldamento globale.

Nonostante le promesse di invertire la rotta rispetto all’austerity promossa in questi anni dal governo in carica, non è chiaro come l’annunciato perseguimento di politiche espansive e progressiste possa conciliarsi con la volontà di Zeman di integrare maggiormente il suo paese nell’Unione Europea e di adottare la moneta unica nel prossimo futuro.

Eventuali elezioni anticipate, in ogni caso, potrebbero portare alla formazione di un governo maggiormente in sintonia con il presidente eletto. I più recenti sondaggi indicano infatti la possibilità di conquistare una comoda maggioranza in parlamento per l’alleanza di centro-sinistra ora all’opposizione e formata dal Partito Social Democratico, dal Partito Comunista (KS?M) e, appunto, dal Partito dei Diritti Civili di Miloš Zeman.

di Michele Paris

Sotto la spinta di molteplici fattori, nel 2012 l’affiliazione dei lavoratori americani ad un’associazione sindacale è crollata ai livelli più bassi da quasi un secolo a questa parte. A mettere in risalto questo dato preoccupante è stato un recente rapporto pubblicato qualche giorno fa dall’ufficio statistiche del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti.

I numeri ufficiali indicano che i lavoratori iscritti ad un sindacato lo scorso anno sono stati appena l’11,3% del totale, vale a dire mezzo punto percentuale in meno rispetto al 2011. Questo ulteriore crollo è stato registrato nonostante l’economia americana nello stesso periodo abbia aggiunto 2,4 milioni di posti di lavoro. Secondo gli economisti della Rutgers University che hanno condotto lo studio, solo nel 1916 il livello di sindacalizzazione negli USA era ad un livello più basso di quello attuale.

Il calo per il 2012 ha riguardato sia il settore privato che, più sorprendentemente, quello pubblico. Nel primo caso, le iscrizioni ad un sindacato sono scese in un anno dal 6,9 al 6,6%, una quota irrisoria se si pensa che negli anni Cinquanta era attorno al 35%. Tra i dipendenti pubblici, invece, si è passati addirittura dal 37% del 2011 al 35,9% dello scorso anno, per un calo totale di iscrizioni pari a 234 mila lavoratori. Complessivamente, i lavoratori americani nel settore privato con una tessera sindacale nel 2012 erano 7 milioni, contro i 7,3 milioni in quello pubblico.

Per quanto riguarda il settore pubblico, una delle ragioni di questo tracollo è da ricercarsi nell’adozione negli ultimi anni di politiche anti-sindacali e, in particolare, delle cosiddette leggi “per il diritto al lavoro” in svariati stati controllati dal Partito Repubblicano. Questi provvedimenti proibiscono la stipulazione di contratti collettivi che prevedano l’iscrizione al sindacato o il pagamento della quota associativa come condizione di impiego.

Simili leggi sono state approvate di fronte ad una forte opposizione popolare e delle associazioni sindacali soprattutto in alcuni stati industriali del Midwest come Michigan, Indiana e Wisconsin, dove il livello di adesione ad una “union” era tra i più elevati del paese. In Wisconsin, così, la quota di lavoratori iscritti al sindacato è scesa del 13% tra il 2011 e il 2012, mentre in Indiana addirittura del 18%.

La situazione delineata dall’ufficio statistiche del Dipartimento del Lavoro è però il risultato anche dei massicci licenziamenti di dipendenti pubblici decisi sia a livello statale che federale da entrambi gli schieramenti politici nell’ambito delle politiche di riduzione della spesa.

Nel privato, inoltre, i nuovi posti di lavoro creati nell’ultimo periodo sono risultati essere soprattutto nella vendita al dettaglio e nella ristorazione, settori tradizionalmente poco sindacalizzati. Le grandi aziende manifatturiere che hanno investito negli Stati Uniti in questi mesi, invece, hanno spesso prediletto stati dove la presenza dei sindacati risulta trascurabile.

Secondo lo studio del governo USA, gli stati con il livello più basso di sindacalizzazione sono la North Carolina (2,9%) e l’Arkansas (3,2%), mentre quelli con il più alto sono New York (23,2%) e l’Alaska (22,4%). Tra i lavoratori a tempo pieno, poi, quelli iscritti ad un sindacato avevano nel 2012 un salario settimanale medio di 943 dollari contro 742 dollari dei loro colleghi non sindacalizzati.

La ragione principale della crescente crisi delle “union” negli Stati Uniti, come altrove, risiede comunque nella funzione degli stessi sindacati negli ultimi decenni e, in particolare, in questi anni di crisi economica. Da tempo queste associazioni di categoria hanno in sostanza svolto il ruolo di esecutori delle politiche industriali decise dai vertici aziendali, così come di facilitatori degli assalti ai diritti dei dipendenti pubblici da parte del governo federale e delle amministrazioni locali, sia democratiche che repubblicane.

Come ha riassunto in un’intervista al New York Times questa settimana il professore Gary Chaison, esperto di relazioni industriali della Clark University, “i lavoratori dovrebbero guardare maggiormente ai sindacati vista la precarietà dei loro impieghi e la stagnazione delle retribuzioni, ma in realtà non lo fanno”, visto che proprio i sindacati hanno favorito la creazione di queste condizioni di lavoro, diventate ormai permanenti.

Che il declino dei sindacati dipenda principalmente dall’incapacità di questi ultimi di offrire risposte ai lavoratori è confermato anche dal fatto che il calo delle iscrizioni è coinciso con il riesplodere delle tensioni sociali negli Stati Uniti, concretizzatesi con numerosi scioperi e mobilitazioni spontanee in risposta agli attacchi contro diritti acquisiti in decenni di durissime lotte.

Di fronte a queste manifestazioni, come sta accadendo proprio in questi giorni con lo sciopero degli autisti dei mezzi scolastici di New York, i sindacati si sono puntualmente adoperati per isolare le proteste e farle sfociare in azioni inoffensive, finendo così per neutralizzare qualsiasi possibile minaccia alla classe dirigente.

Questo ruolo dei sindacati, che sta portando alla loro virtuale estinzione negli Stati Uniti, è testimoniata e al tempo stesso causata anche dal loro allineamento al Partito Democratico e all’agenda interamente pro-business avanzata da quest’ultimo. Le limitate proteste e gli scioperi orchestrati dai sindacati nel settore pubblico, infatti, sono sempre diretti contro le amministrazioni repubblicane, che spesso mettono in atto legislazioni simili a quelle a guida democratica, assicurando che qualsiasi mobilitazione sfoci esclusivamente in un maggiore impegno a favore del partito di Obama nella successiva tornata elettorale.

Il collaborazionismo dei sindacati americani nella distruzione delle condizioni di vita dei lavoratori è risultata particolarmente evidente in occasione del cosiddetto salvataggio di General Motors nel 2009. In quell’occasione, il ritorno al profitto del gigante dell’auto di Detroit venne garantita dall’intervento del governo di Washington e dalla decisiva collaborazione del principale sindacato del settore automobilistico (United Auto Workers, UAW), il quale in cambio di una consistente quota nella proprietà dell’azienda, che ha permesso ai suoi dirigenti di arricchirsi considerevolmente, ha assicurato l’accettazione del dimezzamento degli stipendi per i nuovi assunti e lo smantellamento di gran parte dei diritti che avevano permesso una vita dignitosa a generazioni di operai.

di Michele Paris

Nel quadro dell’indagine aperta dal Congresso americano sui fatti che hanno portato all’assassinio dell’ambasciatore USA in Libia lo scorso settembre a Bengasi, questa settimana il Segretario di Stato uscente, Hillary Clinton, ha risposto alle domande di deputati e senatori, assumendosi la piena responsabilità dell’accaduto.

L’apparizione della ex first lady, tuttavia, ha confermato come l’intero processo di inchiesta parlamentare sia stato messo in piedi allo scopo di evitare un dibattito pubblico sulle questioni fondamentali relative alla situazione libica e al conseguente assalto al consolato americano nel paese nord-africano che era costato la vita ad un totale di quattro cittadini statunitensi.

La testimonianza di Hillary Clinton di fronte alle commissioni Esteri di Camera e Senato era stata inizialmente programmata per lo scorso dicembre, prima di slittare di un mese a causa dei problemi di salute della numero uno del Dipartimento di Stato. La vicenda di Bengasi è da tempo al centro di polemiche a Washington e, in particolare, alla vigilia delle elezioni presidenziali di novembre era stata sfruttata dai repubblicani per attaccare l’amministrazione Obama.

Le accuse erano state rivolte soprattutto all’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Susan Rice, la quale subito dopo l’attacco al consolato di Bengasi aveva sostenuto che esso era la conseguenza delle proteste spontanee esplose nel mondo arabo dopo l’apparizione in rete di un filmato amatoriale che irrideva il profeta Muhammad e non, come sarebbe poi emerso, un’operazione studiata a tavolino e portata a termine da milizie islamiste.

Secondo i leader repubblicani, la Casa Bianca aveva occultato deliberatamente la verità per evitare imbarazzi ad un Obama che in campagna elettorale stava celebrando i progressi americani sul fronte della guerra al terrore. Dopo il voto, la controversia avrebbe fatto anche naufragare la candidatura della stessa Rice alla successione di Hillary Clinton alla guida del Dipartimento di Stato, costringendo il presidente rieletto ad optare per il senatore democratico del Massachusetts, John Kerry.

La discussione di mercoledì, in ogni caso, è ruotata pressoché esclusivamente attorno all’inadeguatezza delle misure di sicurezza adottate per proteggere il consolato di Bengasi, la cui responsabilità ultima ricade appunto sul Segretario di Stato. La Clinton, perciò, ha affermato di sentirsi responsabile non solo per l’accaduto, ma anche per “i quasi 70 mila dipendenti” del suo dipartimento, aggiungendo tuttavia, relativamente ai fatti dell’11 settembre scorso, che “specifiche richieste riguardanti la sicurezza a Bengasi erano state gestite da professionisti della sicurezza all’interno del dipartimento”.

Tali richieste, evidentemente rimaste inascoltate, secondo Hillary non erano mai giunte alla sua attenzione, anche se essa ha poi ammesso di essere stata al corrente di una serie di eventi precedenti l’assassinio dell’ambasciatore, J. Christopher Stevens, che indicavano il deterioramento della situazione nella città libica.

L’assunzione di responsabilità da parte di Hillary Clinton si è dunque prevedibilmente limitata alle questioni della sicurezza nella struttura consolare di Bengasi, dove peraltro era presenta anche una folta delegazione di agenti della CIA. Nessun membro del Congresso presente all’audizione di mercoledì ha invece ritenuto opportuno sollevare le responsabilità legate al finanziamento, all’addestramento e alla fornitura di armi a quegli stessi gruppi terroristici che hanno condotto l’assalto al consolato.

In questo ambito si era distinto in particolare proprio l’ambasciatore Stevens, giunto precocemente in Libia nella primavera del 2011 per stabilire contatti con i cosiddetti “ribelli” libici, sui quali gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e nel mondo arabo avrebbero poi puntato per rovesciare il regime di Gheddafi, senza alcuno scrupolo per le ben note attitudini estremiste di molte fazioni al loro interno.

Gli assassini dei quattro cittadini americani a Bengasi, perciò, provengono con ogni probabilità dalle file dell’opposizione armata che gli stessi Stati Uniti hanno sfruttato per i propri interessi imperialistici in Libia, salvo poi vedersi sfuggire la situazione di mano ed assistere allo sprofondamento nel caos di uno dei paesi più stabili, secolari e relativamente floridi di tutto il continente africano.

Alla luce di questo scenario, risulta particolarmente ipocrita, anche per gli standard della politica americana, la commozione mostrata sempre mercoledì da Hillary Clinton quando ha raccontato di avere assistito assieme al presidente Obama all’arrivo a Washington delle salme degli americani morti a Bengasi, nonché di avere confortato personalmente i loro familiari.

Ipocrisia e cinismo hanno però caratterizzato tutto l’intervento del Segretario di Stato davanti alle commissioni del Congresso, trasformando la sua apparizione in un esempio dei metodi utilizzati dalla classe dirigente americana per ribaltare la realtà dei fatti e distogliere l’attenzione popolare e dei media dalla conduzione dei propri affari nel mondo.

Questo comportamento è apparso evidente quando la Clinton è passata ad affrontare la crisi in corso in Mali e la recente strage nell’impianto estrattivo di In Amenas, in Algeria. Senza alcun accenno di imbarazzo, la ex first lady ha infatti affermato che gli islamisti responsabili dell’azione in territorio algerino e quelli che da quasi un anno hanno preso il controllo del nord del Mali - affiliati al gruppo jihadista Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) - si sono procurati le loro armi in Libia.

Se il legame evidenziato dalla Clinton tra la situazione di anarchia libica e i fatti d’Algeria della scorsa settimana è corretto, ciò che però ha mancato di aggiungere è che il flusso di armi a beneficio di gruppi terroristici è stato reso possibile precisamente dall’intervento della NATO per rimuovere Gheddafi. Tanto più che i legami tra AQIM e alcune milizie estremiste attive in Libia, a cominciare dal cosiddetto Gruppo dei Combattenti Islamici Libici (LIFG), sono noti da tempo.

Inoltre, la Clinton ha attribuito il precipitare della situazione in Africa settentrionale, compreso l’assalto a Bengasi, ai fatti della Primavera Araba. Caratterizzando il proprio paese quasi come uno spettatore ininfluente, Hillary ha provato a ricostruire secondo il suo punto di vista le vicende degli ultimi due anni nel mondo arabo, affermando che “le rivoluzioni hanno rimescolato le dinamiche di potere e indebolito le forze di sicurezza nella regione”. Di conseguenza, a suo dire, “l’instabilità in Mali ha finito per creare un rifugio per i terroristi intenzionati ad estendere la loro influenza e a tramare nuovi attacchi come quelli a cui abbiamo assistito settimana scorsa in Algeria”.

Il quadro dipinto in questo modo esclude dalla ricostruzione dei fatti degli ultimi due anni il ruolo di Washington, principale responsabile della destabilizzazione dell’intera regione per il perseguimento dei suoi obiettivi strategici. Il rimodellamento degli equilibri nel continente africano - a favore degli Stati Uniti e dei loro alleati e a discapito di Russia e, soprattutto, Cina - è iniziato proprio dall’operazione in Libia, dove un movimento di protesta limitato ma spontaneo è stato ben presto dirottato e manipolato dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo Persico.

La destituzione e il brutale assassinio di Gheddafi hanno gettato la Libia nel caos, trasformandola in un vero e proprio incubatore di gruppi estremisti, finiti poi a combattere con il sostegno occidentale in Siria, ma anche in Mali, dove, al contrario, hanno fornito la giustificazione per il recente intervento militare della Francia che ha segnato l’apertura ufficiale del nuovo fronte africano della “guerra globale al terrore”.

La falsificazione della realtà da parte di Hillary Clinton è stata però smascherata sempre nella giornata di mercoledì dal ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, nel corso di una conferenza stampa a tutto campo. Contraddicendo la sua omologa a Washington, il capo della diplomazia di Mosca ha in sostanza assegnato la responsabilità della crisi nel paese dell’Africa occidentale agli Stati Uniti e ai loro alleati, ricordando opportunamente agli spettatori più distratti delle questioni internazionali che “le forze contro le quali si stanno battendo i francesi e gli americani in Mali sono le stesse che questi governi hanno armato per rovesciare il regime di Gheddafi”.

“La situazione in Mali”, ha aggiunto Lavrov, “appare perciò la conseguenza degli eventi libici, mentre la presa degli ostaggi in Algeria è da considerarsi un avvertimento” per le ripercussioni indesiderate che potrebbe avere nel prossimo futuro l’irresponsabile strategia africana di Washington e Parigi.

di Michele Paris

Le elezioni anticipate andate in scena martedì in Israele e fortemente volute da Benyamin Netanyahu si sono risolte, nonostante l’obiettivo minimo raggiunto di conquistare un terzo mandato alla guida del governo, in un imprevisto e umiliante rovescio per il primo ministro conservatore. L’alleanza di destra tra il Likud e Israel Beiteinu ha infatti registrato la perdita di una decina di seggi rispetto al 2009, mentre il sostanziale equilibrio che si prospetta tra i due blocchi contrapposti in parlamento (Knesset), contraddistinti peraltro da sensibili differenze anche al loro interno, potrebbe complicare non poco il tentativo di Netanyahu di mettere assieme una stabile coalizione di governo.

Lo scioglimento della legislatura era stato deciso dallo stesso premier lo scorso mese di ottobre in seguito all’impossibilità di trovare un accordo all’interno della sua maggioranza sul bilancio per il 2013. Ad ostacolare l’adozione di misure volte a ridurre il deficit tramite pesanti tagli alla spesa pubblica erano stati in particolare i partiti ultra-ortodossi, il cui elettorato appartiene alle fasce più disagiate del paese e che fa appunto ampio affidamento sull’assistenza dello stato.

Il calcolo di Netanyahu era quello di ottenere in fretta un nuovo solido mandato elettorale per implementare misure di austerity senza dovere scendere a compromessi con la destra religiosa, presentando perciò una lista unica con il partito dell’ex ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman. La sicurezza di un netto successo del primo ministro, anche grazie a partiti di opposizione appena nati o moribondi, era tale che il Likud non aveva nemmeno approvato una piattaforma programmatica per la campagna elettorale.

Con i media israeliani e occidentali impegnati da settimane a dipingere un elettorato sempre più spostato a destra, una nettissima vittoria del Likud e di Israel Beiteinu appariva perciò scontata. La sicurezza di Netanyahu ha finito però per svanire, tanto che, prima della chiusura delle urne, il premier israeliano ha addirittura sentito la necessità di lanciare un appello allarmato su Facebook ai sostenitori del Likud, invitandoli ad andare a votare “per il bene del paese”.

I risultati pressoché definitivi hanno attribuito a Likud e Israel Beiteinu 31 seggi sui 120 totali in palio, contro i 42 che i due partiti controllavano nella precedente Knesset e ben al di sotto di quanti erano stati loro attribuiti alla vigilia del voto. A penalizzare la destra israeliana è stata soprattutto l’elevata affluenza, che ha sfiorato il 67%, sintomo di una diffusa ostilità nei confronti dei partiti di governo, sia per le politiche economiche messe in atto in questi anni che per le posizioni relative alla questione palestinese e alla presunta minaccia del nucleare iraniano.

A sorpresa, del voto di protesta ha beneficiato soprattutto il partito di centro Yesh Atid (“C’è un Futuro”), fondato solo lo scorso anno dal noto giornalista televisivo Yair Lapid, figlio di un ex ministro della Giustizia israeliano. Oltre a sfruttare la popolarità del proprio leader, Yesh Atid ha saputo capitalizzare in qualche modo il malcontento della società israeliana, facendosi portavoce di una classe media in affanno e combinando un messaggio populista con posizioni relativamente moderate sul processo di pace con i palestinesi.

Con 19 seggi conquistati, Yesh Atid è diventato il secondo partito in Parlamento e viene ora descritto come uno dei candidati ad entrare nel nuovo governo Netanyahu. Quest’ultima ipotesi è infatti già stata discussa dai leader dei due partiti, anche se una coalizione con Lapid comporterebbe più di un attrito con gli alleati di estrema destra del Likud, sia sulla questione palestinese sia attorno ai benefici garantiti dallo stato agli ultra-ortodossi, producendo una maggioranza alquanto instabile.

Alla destra del Likud ha fatto segnare un discreto risultato, anche se inferiore alle aspettative, il partito Habayit Hayehudi (“Focolare Ebraico”), guidato dall’imprenditore di origine americana ed ex capo di gabinetto di Netanyahu, Naftali Bennett. Questo movimento di estrema destra e il suo leader avevano occupato gran parte delle cronache giornalistiche durante la campagna elettorale, anche se gli 11 seggi ottenuti appaiono in buona parte il risultato dell’emorragia di consensi per il Likud, in particolare tra l’elettorato religioso non fondamentalista che vede con sospetto il secolarismo del partito di Lieberman. Bennet, in ogni caso, si oppone apertamente alla creazione di due stati per risolvere la questione palestinese e propone l’annessione del 60% della Cisgiordania, così che, appunto, una coesistenza del suo partito con il centrista Lapid appare problematica.

Quella che secondo alcuni commentatori sarà una necessità per Netanyahu di guardare al centro per formare il suo nuovo governo, al contrario di quanto auspicava dopo avere sciolto il Parlamento, potrebbe far considerare al premier un’alleanza con altre due formazioni moderate, come Kadima e Hatnuah (“Il Movimento”). Il risultato di questi due partiti è stato però tutt’altro che entusiasmante e anche un eventuale accordo con entrambi obbligherebbe Netanyahu a fare comunque affidamento almeno su un altro partner alla propria destra.

Kadima, in particolare, ha raccolto appena due seggi dopo che nelle elezioni del 2009 era risultato il primo partito della Knesset con 28. Screditato da una breve esperienza nel governo Netanyahu la scorsa primavera, Kadima aveva successivamente assistito anche alla defezione di uno dei suoi membri più autorevoli, l’ex ministro degli Esteri, Tzipi Livni, la quale con il suo nuovo partito, Hatnuah, martedì ha ottenuto 6 seggi.

L’avversione per l’attuale governo ha prodotto poi qualche beneficio anche a sinistra. Il Partito Laburista ha fatto segnare un modesto incremento della propria rappresentanza in Parlamento (da 13 a 15 seggi), mentre il social-democratico Meretz è passato da 3 a 6. Infine, rimangono come al solito fuori da ogni calcolo politico i partiti che rappresentano una popolazione araba-israeliana sempre più alienata all’interno dello stato ebraico. Tre formazioni che fanno riferimento a questa fetta di elettorato si spartiranno un totale di 12 seggi.

Il brusco risveglio di Netanyahu lo costringerà così a fare i conti con un elettorato israeliano spostato decisamente a sinistra, a dispetto di una classe politica orientata sempre più a destra di fronte all’inasprirsi delle difficoltà economiche interne e all’aumento delle tensioni nella regione mediorientale. Una realtà che finirà con ogni probabilità per pesare in maniera significativa su un nuovo esecutivo che, qualsiasi sarà la sua composizione, si preannuncia estremamente instabile.

Oltre alle difficili scelte di politica economica che Netanyahu sarà chiamato a mettere in atto in un paese già segnato da elevatissimi livelli di povertà e disuguaglianze sociali, a pesare sul futuro del governo saranno soprattutto il moribondo processo di pace con i palestinesi, il nucleare iraniano e la crisi in Siria, tutte questioni che si incroceranno con i rapporti con gli Stati Uniti. Una relazione quella con il principale alleato di Tel Aviv che sarà in parte da ricostruire, alla luce delle frequenti incomprensioni del recente passato e dell’attitudine teoricamente meno servile verso Israele mostrata dalle forze nuove volute dal presidente Obama per guidare il Pentagono e il Dipartimento di Stato.


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