di Mario Braconi

L’eccellente pezzo di Rania Khalek su Salon costituisce un contributo importante sul tema del terrorismo negli Stati Uniti. Innanzitutto, il fenomeno viene largamente sopravvalutato: secondo una ricerca effettuata dall'Università di Syracuse, dal 2001 al 2011 ci sono stati circa 320 episodi terroristici negli Stati Uniti, che hanno provocato in tutto 32 morti (15 di matrice “bianca” e 17 legati all'estremismo islamico).

In secondo luogo, gli organi governativi deputati alla repressione continuano a concentrare i loro sforzi sul terrorismo di matrice jahdista, ignorando l'ovvio: ovvero la terrificante esplosione del terrorismo “bianco”, il cui brodo di coltura sono le centinaia di gruppi e gruppuscoli che si rifanno ad ideologie neonaziste e legate alla superiorità dei bianchi.

Infine, a dispetto di quanto sembrano ritenere le intelligence statunitensi, la comunità islamica americana tende ad essere più vittima che incubatore di terrorismo (senza dimenticare che, oltre ai musulmani, dal 2001 sono a rischio tutte le persone che vanno in giro vestite in un modo che ad un citrullo neonazista può apparire musulmano, ad esempio gli induisti Sikh, che, con il loro perenne turbante, terrorizzano qualche debole di mente ariano dal grilletto facile).

Khalek si avvale della testimonianza di Daryl Johnson, ex analista del Department of Homeland Security (DHS), che nel 2009 fece scoppiare un caso con un suo report dal titolo “Estremismo di destra: come l’attuale clima economico e politico alimenta una recrudescenza nella radicalizzazione e nel reclutamento”. Nel suo rapporto di tre anni fa, Johnson spiegava come, in certi ambienti, l’elezione di un presidente non bianco sia stata letta come una circostanza favorevole ad un ammorbidimento delle politiche sull’immigrazione. Ciò avrebbe potuto provocare attacchi “isolati e di modesta entità, diretti principalmente contro obiettivi legati all’immigrazione”.

Un serbatoio di braccia utili alla “causa”, continuava Johnson, era costituito da veterani delle varie guerre americane, particolarmente ricercati tanto per la loro condizione psicologica che per l'esperienza nel combattimento. Un ottimo catalizzatore, concludeva Johnson, era la crisi economica: soggetti con modesta istruzione, estromessi dal circuito socio-economico dal pignoramento della casa che avevano tentato di acquistare con mutui impossibili e dalla preclusione del credito personale, sarebbero stati i candidati ideali.

A dispetto di questa situazione allarmante e documentata, il DHS continuava a dedicare al terrorismo non-islamico un quantitativo di risorse ridicolo. Secondo Johnson al DHS vi era una sola persona dedicata a coprire il rischio terrorismo non-islamico, contro i circa 25 che seguivano quello di matrice jahdista. In effetti, per un certo periodo, il team di Johnson aveva contato una decina di persone, che comunque facevano fatica a gestire tutte le attività dell'ufficio.

Quando il rapporto, ad uso interno, divenne di dominio pubblico, i blogger destrorsi gridarono al “complotto della sinistra”, finalizzato a dipingere Tea Party e simili come potenziali terroristi. Tanto fecero che alla fine il dipartimento di Johnson venne azzerato, nonostante al comando della DHL fosse nel frattempo subentrata la democratica Janet Napolitano: attualmente, un solo analista è assegnato alle analisi sul terrorismo americano di estrema destra.

Nei tre anni successivi alla pubblicazione del report-bomba di Johnson, si sono moltiplicati gruppi e gruppuscoli dediti all’odio razziale pronti ad applicare le loro deliranti teorie, mentre il DHL al massimo è riuscito a sfornare un paio di stiracchiati report sull’allarme terrorismo “bianco”, niente di più. Eppure, il materiale su cui lavorare non mancherebbe, in un paese che, come gli Stati Uniti, registra un incremento del 69% in undici anni (2000-2011) nel numero dei gruppi dediti all’odio verso il diverso (dati Southern Poverty Law Center, SPLC); nel quale, nei primi tre anni dell’amministrazione Obama, si sono moltiplicati di otto volte i gruppi cosiddetti “patriottici” (tra cui milizie armate); o nel quale, tra il 1990 e il 2010 si sono registrati ben 145 omicidi  ideologici per mano di estremisti di destra.

Secondo Johnson, “la violenza motivata da ragioni ideologiche è un dato ricorrente nei contesti caratterizzati dalla costante mortificazione di un determinato gruppo da parte di politici o personalità mediatiche”: un esempio lampante è quello dei consultori americani dove si pratica l'aborto. Dapprima sono stati messi nel mirino dai Repubblicani più estremisti, decisi a tagliar loro i fondi pubblici. Una volta fallito il piano “parlamentare”, il battage sui media ha contribuito  a  gettare benzina sul fuoco, fino a che qualche debole di mente non ha ritenuto una buona idea cominciare ad appiccare fuoco agli ambulatori, e magari ad abbattere medici e paramedici coinvolti nelle pratiche di interruzione di gravidanza.

Il terrorismo americano legato all’estremismo islamico è solo una parte del problema, ma grazie al martellare di politici e stampa sul jadhismo “made in USA”, il numero degli attacchi ai danni di musulmani (veri o apparenti) è aumentato del 50% dal 2009 al 2010, (da 107 a 160 episodi secondo il FBI). Secondo le statistiche del SPLC, il numero di gruppi di odio antimusulmano sarebbe addirittura triplicato, passando da 10 a 30 dal 2010 al 2011.

Insomma, secondo la statistica, la situazione è molto chiara: il rischio viene dall'estrema destra. Ed è un rischio molto grave, dato che quasi tutte le persone che tra il 2001 e il 2011 sono state arrestate per aver tentato di organizzare attacchi terroristici con armi chimiche o batteriologiche (antrace compreso) vengono dal mondo dell'estremismo di destra. Se solo i politici avessero il coraggio di prenderne atto e di colpire i focolai di questa infezione che rischia di far implodere il Paese.

di Michele Paris

NEW YORK. La settimana scorsa, la polizia sudafricana si è resa responsabile di un orribile massacro che è costato la vita a decine di minatori che, nella regione di Nordovest, stavano scioperando per ottenere migliori condizioni di vita. Con il pieno appoggio del partito di governo, l’African National Congress (ANC), la strage è stata messa in atto con metodi degni di quel regime dell’apartheid che quest’ultimo ha contribuito in maniera decisiva a rovesciare poco meno di due decenni fa.

I fatti di sangue hanno avuto luogo giovedì scorso, il sesto giorno consecutivo di uno sciopero indetto da un sindacato indipendente attivo nella miniera di platino di Marikana, appartenete alla compagnia britannica Lonmin. I minatori, molti dei quali immigrati dai paesi vicini, intendevano denunciare condizioni di lavoro spesso drammatiche, stipendi che non superano i 500 dollari al mese e l’assenza di abitazioni decenti, dal momento che essi vivono spesso in baracche senza elettricità o acqua corrente.

Gli scioperanti stavano perciò chiedendo il raddoppio del loro stipendio dopo anni di promesse mai mantenute. Ad infiammare una situazione già tesa, poi, è stata la dirigenza di Lomin che giovedì ha lanciato un ultimatum ai minatori, avvertendoli che chi non avrebbe ripreso immediatamente il lavoro sarebbe stato licenziato. Allo stesso tempo, la polizia ha iniziato a minacciare l’uso della forza per mettere fine allo sciopero.

Alla fine, circa 3 mila minatori si sono riuniti su una collina e poco prima del massacro della polizia hanno respinto l’appello dei leader del loro sindacato a disperdersi. Con la tensione alle stelle, i lavoratori si sono fatti più aggressivi e molti dei quali si sono armati di machete e bastoni. La polizia ha così accerchiato un gruppo di manifestanti lanciando contro di loro gas lacrimogeni prima di aprire il fuoco e lasciare sul terreno più di 30 morti.

Il bilancio ufficiale di quello che un giornale di Johannesburg ha definito “un attacco ben pianificato”, è stato di 34 morti tra i minatori, anche se altre fonti parlano di almeno una cinquantina di vittime, mentre molti feriti sono tuttora ricoverati in gravi condizioni.

Dietro alla drammatica vicenda c’è la rivalità sempre più marcata tra la principale organizzazione sindacale del settore minerario - National Union of Mineworkers (NUM) - legata all’ANC, e la formazione indipendente AMCU (Association of Mineworkers and Construction Union).

Quest’ultima è riuscita recentemente a reclutare un numero consistente di iscritti grazie ad un atteggiamento più combattivo e al malcontento diffuso tra i lavoratori per la passività del NUM e il suo sostanziale allineamento alle posizioni dei proprietari delle miniere. Gli scontri tra gli affiliati ai due sindacati rivali avevano caratterizzato i giorni precedenti il massacro di Marikana, durante i quali c’erano già stati dieci morti.

Alla luce della situazione, dunque, è stata tutt’altro che sorprendente la posizione assunta dal NUM e dall’ANC, i cui vertici hanno cercato in qualche modo di giustificare il comportamento della polizia, attribuendo la responsabilità dell’accaduto ai minatori stessi. Il presidente sudafricano, Jacob Zuma, da parte sua si è detto “scioccato per l’inutile violenza”, anche se ha confermato di aver dato egli stesso indicazione alle forze di sicurezza di utilizzare ogni mezzo per riportare l’ordine tra i lavoratori della miniera. Scrupolo immediato di Zuma, inoltre, è stato quello di rassicurare gli investitori stranieri sulla stabilità del Sudafrica.

Anche i vertici del NUM hanno difeso la polizia che, a loro dire, sarebbe stata costretta a ricorrere alla forza per far fronte ai disordini causati dagli scioperanti. Il NUM, d’altra parte, è affiliato alla federazione sindacale COSATU (Congress of South African Trade Unions), a sua volta una delle più potenti e influenti organizzazioni che sostengono l’ANC. Queste associazioni sindacali, così come il partito che fu di Nelson Mandela, sono sempre più impopolari in Sudafrica perché considerate troppo vicine agli interessi delle corporation che operano nel paese.

A quasi vent’anni dalla fine dell’apartheid, infatti, il Sudafrica rimane uno dei paesi con le maggiori disuguaglianze, dove il 40 per cento della popolazione è costretta a vivere con meno di tre dollari al giorno. La responsabilità di questa situazione è da ricercare in rimo luogo tra i vertici dell’African National Congress, le cui promesse di costruire una società più equa rimangono ampiamente disattese.

In definitiva, nonostante l’indiscutibile aumento della spesa pubblica in programmi per la riduzione della povertà, il Sudafrica modellato da 18 anni di governo ANC ha sostituito le disuguaglianze razziali con quelle economiche, creando una nuova minoranza di neri arricchitisi enormemente, compresi quelli alla guida dei principali sindacati, grazie alla connivenza con i grandi interessi economici locali ed esteri.

Esempio lampante di questo intreccio di potere è la carriera di uno dei leader dell’ANC, Cyril Ramaphosa. Attivista anti-apartheid, quest’ultimo fu tra i protagonisti della creazione del sindacato dei minatori negli anni Ottanta, durante i quali vennero organizzati numerosi scioperi. Successivamente, Ramaphosa è passato alla carriera politica entrando nell’ANC dove, grazie alla posizione di spicco ricoperta, è diventato uno degli uomini d’affari più ricchi del Sudafrica e siede oggi nel consiglio di amministrazione di Lonmin.

Sui fatti della settimana scorsa, intanto, ha aperto un’inchiesta l’Ufficio per le indagini interne della polizia, mentre il presidente Zuma ha creato un’apposita commissione. Alla luce del coinvolgimento dei più alti livelli politici, sindacali e delle forze di sicurezza, tuttavia, appare improbabile che alle indagini faccia seguito l’individuazione dei veri responsabili del massacro.

di Michele Paris

NEW YORK. La minaccia britannica di irrompere nell’ambasciata dell’Ecuador per arrestare Julian Assange segna una nuova preoccupante tappa nello scivolamento verso una deriva autoritaria comune a tutto l’Occidente. L’annuncio di giovedì da parte del governo del presidente Rafael Correa di garantire l’asilo politico al fondatore di WikiLeaks era stato preceduto da un vero e proprio ultimatum per la consegna di Assange alle autorità di Londra, così da poter eseguire l’ordine di estradizione verso la Svezia dove quest’ultimo deve fronteggiare un caso di stupro privo di alcun fondamento.

Una volta consegnato a Stoccolma, il 41enne cittadino australiano verrebbe con ogni probabilità spedito negli Stati Uniti, dove pare sia stato già istituito un Gran Jury segreto in Virginia che lo dovrebbe giudicare per la pubblicazione di centinaia di migliaia di documenti riservati del Dipartimento di Stato. Questo scenario, nonostante le smentite del governo di Washington, è stato confermato tra l’altro da alcune e-mail dell’influente think tank americano Stratfor, rese note qualche mese fa da WikiLeaks, e potrebbe costare ad Assange la detenzione indefinita in un carcere d’oltreoceano con l’accusa di terrorismo.

A Londra, invece, nella giornata di giovedì l’Ecuador ha annunciato ufficialmente la concessione dell’asilo politico a Julian Assange, il quale si era rifugiato presso l’ambasciata del paese sudamericano il 19 giugno scorso per sfuggire all’estradizione in Svezia, diventata definitiva dopo che la Corte Suprema britannica aveva respinto l’ultimo appello dei suoi legali.

Prima di prendere una decisione finale, l’Ecuador aveva chiesto la rassicurazione che Assange non sarebbe stato trasferito negli Stati Uniti, cosa che il governo di Stoccolma si è rifiuto però di garantire. Allo stesso modo, ai magistrati di Stoccolma è stata offerta la possibilità di interrogare Assange di persona o in video-conferenza dall’ambasciata ecuadoriana di Londra, come lui stesso si era offerto di fare nei mesi scorsi, ma anche in questo caso la proposta non ha trovato accoglienza.

La fermezza del paese scandinavo conferma ulteriormente la natura tutta politica del caso Assange, fabbricato ad arte attorno alle incerte accuse di due donne svedesi, di cui una legata a gruppi anti-castristi americani stanziati in Florida, che avrebbero avuto rapporti sessuali con il leader di WikiLeaks. Il caso, peraltro, era stato inizialmente archiviato in fretta dalle autorità giudiziarie di Stoccolma per essere riaperto in seguito grazie all’intervento di un influente politico socialdemocratico.

In ogni caso, già nella serata di mercoledì la polizia britannica ha iniziato a circondare l’ambasciata ecuadoriana di Knightsbridge, dopo che, come già ricordato, il governo di David Cameron aveva concesso una settimana di tempo per la consegna di Assange ed evitare un blitz per arrestarlo. Immediatamente, numerosi manifestanti si sono recati sul posto per esprimere il proprio sostegno ad Assange. Nelle ore successive sono stati segnalati alcuni scontri e svariati arresti sono stati effettuati dalla polizia.

La vicenda e l’atteggiamento di Londra hanno prodotto un aperto scontro diplomatico con l’Ecuador, il cui ministro degli Esteri, Ricardo Patiño, ha affermato in una conferenza stampa da Quito che il suo paese “respinge fermamente la minaccia esplicita contenuta nella comunicazione ufficiale della Gran Bretagna”. Il ministro ha poi definito le stesse minacce “inopportune per un paese civile e democratico”.

Se l’irruzione nell’ambasciata verrà eseguita, ha continuato Patiño, “sarà interpretata dall’Ecuador come un atto inaccettabile e ostile, nonché come un attentato alla nostra sovranità che ci obbligherà a rispondere”, dal momento che “non siamo una colonia britannica”.

Nella propria lettera-ultimatum, il “Foreign Office” britannico sostiene di essere tenuto ad eseguire l’ordine di estradizione contro Assange e che il continuo utilizzo di un edificio diplomatico per offrire rifugio a quest’ultimo “è incompatibile con la Convenzione di Vienna” del 1961 che regola appunto le relazioni diplomatiche tra paesi sovrani. Dopo la decisione presa da Quito, perciò, il governo di Londra ha affermato che la situazione non è cambiata per nulla e l’asilo ad Assange non verrà preso nemmeno in considerazione.

Senza timore di essere accusata di ipocrisia, la Gran Bretagna accusa dunque Quito di aver violato la Convenzione di Vienna proprio mentre minaccia di irrompere in un’ambasciata che, secondo lo stesso trattato, viene definita come uno spazio inviolabile sul quale al paese straniero che lo occupa è assicurata sovranità assoluta. All’interno di essa, le forze di polizia locali possono avere accesso solo dietro consenso del capo della missione diplomatica (ambasciatore).

Per dare un fondamento legale alle proprie minacce, Londra ha sostenuto che potrebbe ritirare il riconoscimento dell’ambasciata ecuadoriana. Tuttavia, la legge del 1987 a cui il governo fa riferimento, dice chiaramente che una tale azione può essere presa solo se soddisfa quanto previsto dal diritto internazionale. Inoltre, come ha detto l’ex ambasciatore della Gran Bretagna in Russia, sir Tony Brenton al Daily Telegraph, “il ritiro dello status garantito all’edificio dove Assange ha chiesto rifugio per evitare l’estradizione renderebbe la vita impossibile ai diplomatici britannici all’estero”.

Il ministro degli Esteri, William Hague, ha comunque fatto sapere che il suo governo non permetterà in alcun modo ad Assange di lasciare il paese, poiché esso non riconosce il principio di “asilo diplomatico”. Se quest’ultimo uscirà dall’ambasciata, la polizia britannica procederà immediatamente al suo arresto.

Sulla vicenda è intervenuto anche l’ex giudice spagnolo Baltasar Garzón, diventato celebre nel 1998 per aver chiesto senza successo l’estradizione del dittatore cileno Augusto Pinochet mentre era proprio in Gran Bretagna, secondo il quale Londra sta agendo al di fuori dei propri poteri, poiché Assange è un rifugiato politico a tutti gli effetti che ha ottenuto l’asilo da un paese sovrano. Per queste ragioni, la Gran Bretagna è obbligata a riconoscere tale situazione in accordo con la Convenzione ONU del 1951 sullo Status dei Rifugiati.

Garzón, che si è da poco aggiunto al collegio dei difensori di Assange, ha aggiunto che, se al cittadino australiano non sarà permesso di lasciare la Gran Bretagna, potrebbe essere aperto un procedimento presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

La sorte di Assange non sembra invece preoccupare il governo australiano che continua a mantenere un vergognoso silenzio di fronte agli abusi commessi contro un suo cittadino.

Nonostante sia giunto nelle ultime ore un timido annuncio che per Assange è disponibile l’assistenza consolare, fin dall’inizio della vicenda Canberra ha più o meno apertamente preso le parti dei governi che stanno facendo di tutto per zittire Assange.

Mentre rimane la minaccia della polizia di entrare con la forza nell’ambasciata ecuadoriana, le forze di sicurezza britanniche anche venerdì continuano a presidiare l’edificio di Knightsbridge. Julian Assange, da parte sua, ha ringraziato il governo di Quito per l’asilo concessogli e ha ricordato Bradley Manning, il giovane soldato americano accusato di aver passato i cablo del Dipartimento di Stato a WikiLeaks, detenuto da oltre 800 giorni senza processo né condanne in un carcere militare statunitense.

Il trattamento riservato a Manning e quello che attende verosimilmente Assange, in caso di estradizione, è il risultato della persecuzione messa in atto senza scrupoli dai governi di Washington, Londra e Stoccolma per mettere a tacere definitivamente qualsiasi voce critica e indipendente che cerchi di rivelare i loro crimini nel mondo, perpetuati alle spalle dei cittadini per la difesa esclusiva dei propri interessi imperialistici.

di Michele Paris

NEW YORK. Qualche giorno fa, il blogger americano Richard Silverstein ha pubblicato un memorandum segreto prodotto dall’ufficio del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che conferma le intenzioni di quest’ultimo di lanciare un attacco militare preventivo contro l’Iran in tempi brevi. Il documento coincide con una valanga di articoli apparsi negli ultimi giorni sui media israeliani e occidentali su un imminente blitz e sarebbe stato preparato nel tentativo da parte di Netanyahu, così come del suo ministro della Difesa, Ehud Barak, di convincere il Consiglio di Sicurezza Israeliano della necessità di passare all’azione contro la Repubblica Islamica.

Secondo la traduzione in lingua inglese del memorandum, “l’operazione israeliana inizierà con un’offensiva coordinata che include un attacco informatico per paralizzare totalmente il regime iraniano”, in modo da bloccare tutte le comunicazioni tra i vertici del governo di Teheran, l’esercito e le installazioni nucleari. Questa prima fase sarebbe accompagnata dal lancio di missili balistici e missili Cruise, diretti verso le strutture di difesa iraniane, quelle nucleari e di comando, ma anche verso le residenze dei membri dell’élite politica e militare di Teheran.

Successivamente, prosegue il documento, sarebbe la volta di “incursioni aeree contro quei bersagli che richiedono ulteriori attacchi”. Un piano, quello dettagliato da Netanyahu, che provocherebbe un numero enorme di vittime civili in Iran e scatenerebbe con ogni probabilità un conflitto di più ampie dimensioni nella regione mediorientale.

Simili preparativi appaiono la logica conseguenza delle posizioni sempre più minacciose assunte da esponenti di spicco del governo di Tel Aviv negli ultimi tempi. Mercoledì, ad esempio, il neo-ambasciatore in Cina, ed ex ministro della Difesa Interna, Matan Vilnai, in un’intervista al quotidiano Maariv ha reso note le previsioni del governo sull’impatto in Israele della guerra contro l’Iran. Per Vilnai le stime indicano perdite civili israeliane pari a circa 500 persone, causate dalla risposta iraniana all’aggressione militare.

Cinicamente, lo stesso Vilnai ha anche affermato che i cittadini del suo paese non hanno scelta, poiché “come i giapponesi devono rassegnarsi a convivere con i terremoti, gli israeliani devono essere preparati ad essere il bersaglio di attacchi missilistici”, dal momento che questa è l’ovvia reazione alla politica guerrafondaia del loro governo. La guerra dovrebbe durare una trentina di giorni e sarebbe combattuta “su più fronti”. Israele, infatti, si aspetta il coinvolgimento nel conflitto di Hezbollah in Libano e di Hamas nella Striscia di Gaza.

A gettare benzina sul fuoco è stato poi giovedì l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Michael Oren, il quale ha detto al Jerusalem Post che il suo governo è pronto ad attaccare l’Iran anche se un’eventuale operazione militare dovesse ritardare la produzione di armi nucleari da parte di Teheran di appena un anno. Per giustificare il blitz, l’ambasciatore ha fatto riferimento ad un’altra azione illegale nella storia di Israele, cioè l’incursione aerea del 1981 contro il reattore nucleare di Osirak, in Iraq.

Oren, per il quale la minaccia nucleare iraniana è senza precedenti anche se in realtà inesistente, sostiene che un anno è un periodo lungo per il Medio Oriente e molte cose possono accadere in dodici mesi tra cui, come auspica Israele, un cambio di regime a Teheran, obiettivo a cui Tel Aviv e Washington lavorano peraltro da tempo sia apertamente che in maniera clandestina.

Ribaltando poi completamente la realtà, nella sua intervista il capo della missione diplomatica israeliana a Washington ritiene che un’azione militare contro l’Iran sia necessaria perché la Repubblica Islamica non ha mostrato finora alcuna flessibilità nelle trattative sulla questione del programma nucleare. In realtà è vero esattamente il contrario, visto che sono gli USA, in accordo con Israele, ad aver assunto una posizione inflessibile nel corso dei vertici sul nucleare, allo scopo di far irrigidire i rappresentanti iraniani e giustificare l’adozione di misure sempre più dure contro Teheran.

L’escalation delle minacce israeliane delle ultime settimane, va detto, non è la conseguenza di nuove valutazioni dell’intelligence che indicano progressi dell’Iran verso la costruzione di ordigni nucleari, ma è piuttosto una decisione politica di Netanyahu e Barak che, come ha sostenuto un recente articolo del quotidiano Haaretz, sarebbero intenzionati ad attaccare unilateralmente l’Iran alla vigilia delle elezioni americane per trascinare Washington nel conflitto.

Di fronte alla ritorsione iraniana, infatti, l’amministrazione Obama si vedrebbe costretta ad intervenire per evitare di subire gli attacchi dei rivali repubblicani a pochi giorni dal voto. Di una possibile offensiva repubblicana contro la Casa Bianca in caso di blitz israeliano deve avere discusso proprio il candidato alla presidenza, Mitt Romney, nel corso di una recente visita a Tel Aviv.

L’innalzamento dei toni del governo di Israele, secondo alcuni, avrebbe invece lo scopo di spingere gli Stati Uniti ad assumere una posizione ancora più dura nei confronti dell’Iran, anche se in ultima analisi una tale strategia prevede comunque una soluzione militare, sia pure in futuro relativamente più lontano. Il giornalista investigativo americano, Gareth Porter, ha scritto ad esempio sull’agenzia di stampa IPS News che Netanyahu e Barak vogliono per ora solo un cambiamento della posizione ufficiale di Washington.

I due leader israeliani, cioè, desiderano che Obama affermi apertamente che gli USA valuteranno l’opzione militare non più se il regime di Teheran prenderà la decisione di costruire armi nucleari ma anche solo se otterrà le capacità tecniche per fare questa scelta, trovandosi in una situazione peraltro simile a quella di molti altri paesi.

Le pressioni di Israele sugli Stati Uniti, alimentate dai media, derivano dal fatto che l’amministrazione Obama ritiene inopportuna un’azione militare contro l’Iran prima delle elezioni presidenziali di novembre. L’ansia di Netanyahu di far cambiare idea alla Casa Bianca si accompagna poi anche alla necessità di convincere coloro che in Israele sono contrari ad un’aggressione unilaterale.

Ai vertici delle forze di sicurezza di Tel Aviv persistono infatti forti resistenze contro una simile avventura e, come ha sostenuto Richard Silverstein, anche tra gli otto membri del Consiglio di Sicurezza Israeliano al momento c’è una maggioranza contraria ad un’operazione militare contro Teheran.

Per ribaltare questo equilibrio dovrebbe servire appunto il piano dettagliato descritto dal memorandum di Netanyahu, nel quale il premier singolarmente si astiene dal descrivere gli effetti di una reazione iraniana per il proprio paese, forse perché vuol far credere che l’operazione israeliana paralizzerebbe del tutto il governo di Teheran.

Una prospettiva, quest’ultima, alquanto improbabile, come di certo si rende conto lo stesso Netanyahu. Il primo ministro conservatore, tuttavia, non sembra avere alcuno scrupolo per le possibili vittime civili israeliane e appare piuttosto convinto a perseguire il rovesciamento del regime iraniano attraverso un’operazione che andrebbe contro quel diritto internazionale che  il suo paese dimostra quotidianamente di ignorare.

di Michele Paris

NEW YORK. Gli agenti dell’Amministrazione per la Sicurezza dei Trasporti americana (TSA), in servizio presso l’aeroporto internazionale Logan di Boston, hanno ripetutamente distorto il programma utilizzato al fine di individuare potenziali terroristi per schedare passeggeri appartenenti a minoranze etniche. A rivelarlo è un recente articolo del New York Times basato sulle dichiarazioni segrete di una trentina di agenti federali impiegati nel terminal della metropoli del Massachusetts.

Secondo gli agenti che hanno presentato una formale protesta alla stessa TSA, un’agenzia federale che fa parte del Dipartimento per la Sicurezza Interna, quei passeggeri che corrispondono ad un determinato profilo hanno maggiori possibilità di essere fermati e sottoposti a più scrupolosi controlli di sicurezza da parte dei loro colleghi, incaricati invece di monitorare esclusivamente comportamenti sospetti. Tali passeggeri risultano essere, nella grande maggioranza dei casi, ispanici, neri, mediorientali o di altre minoranze etniche.

Uno degli agenti che hanno denunciato la situazione a Boston ha dichiarato che “chiunque abbia un aspetto che non piace agli agenti della TSA - cioè, ad esempio, se è una persona di colore che indossa abiti o gioielli costosi, oppure se è ispanico - viene con ogni probabilità fermato e sottoposto a controlli più severi”.

In seguito alla pubblicazione dell’articolo del New York Times, la TSA ha aperto un’indagine all’aeroporto Logan, mentre il deputato del Massachusetts, William Keating, membro della commissione per la Sicurezza Interna, ha chiesto un’audizione al Congresso per fare luce sulla vicenda.

Le più recenti rivelazioni riguardano Boston ma è altamente probabile che i programmi utilizzati dalla TSA, che teoricamente dovrebbero servire a prevenire minacce terroristiche, vengano distorti allo stesso modo anche in altri aeroporti statunitensi. Già lo scorso anno, infatti, erano emersi episodi simili, sia pure su scala minore, presso gli aeroporti delle Hawaii e di Newark, il terzo aeroporto di New York.

I metodi messi in atto a Boston, oltretutto, dovrebbero essere da modello per gli altri aeroporti americani. In questi ultimi sono in realtà già in funzione programmi per valutare il comportamento dei passeggeri ma nel prossimo futuro è prevista l’adozione di quelli sperimentati al Logan perché ritenuti innovativi e più efficaci. A Boston, ad esempio, il programma non prevede solo l’osservazione dei passeggeri in coda ai controlli ma anche una serie di domande individuali per studiare le risposte e le loro reazioni emotive.

Metodi simili sono tuttavia messi in dubbio dagli esperti, poiché non darebbero alcuna indicazione certa delle eventuali intenzioni di natura terroristica dei passeggeri. I programmi di studio del comportamento dei passeggeri negli aeroporti, spiega il Times, erano stati adottati per la prima volta nel 2003 proprio a Boston e si basavano sulle tecniche utilizzate dai servizi di sicurezza in Israele. Le basi scientifiche erano quanto meno approssimative e dopo nove anni la situazione, da questo punto di vista, rimane pressoché invariata.

Secondo le stime fornite dagli agenti che hanno denunciato i loro colleghi, pur senza statistiche precise, circa l’80% dei passeggeri fermati a Boston farebbe parte di minoranze etniche. Di fronte ad una tale sproporzione, anche la polizia della città ha chiesto alla TSA il motivo del così alto numero di casi riguardanti passeggeri mediorientali, neri o ispanici che vengono portati alla propria attenzione.

Per il New York Times, gli agenti della TSA agirebbero in questo modo in seguito alle pressioni esercitate dai loro superiori, i quali chiedono il raggiungimento di un certo numero di passeggeri fermati in tempi prestabiliti. Scegliendo appartenenti alle minoranze etniche, ritengono gli agenti, aumenterebbero le probabilità di scoprire reati legati al narcotraffico o a violazioni delle leggi sull’immigrazione.

In questo modo, ai politici di Washington viene fatto credere che il programma funziona, ma il tutto è solo una cortina fumogena che calpesta i diritti civili dei passeggeri e non fa nulla per individuare eventuali reali minacce di terrorismo.

I controlli effettuati in base al profilo razziale all’aeroporto di Boston confermano dunque ancora una volta come le misure di sicurezza adottate negli Stati Uniti per combattere la cosiddetta “guerra al terrore” dopo l’11 settembre vengano puntualmente manipolate per indebolire i diritti democratici dei cittadini e tenere sotto controllo gli appartenenti a gruppi sociali o etnici che la classe dirigente americana, sempre più impopolare, percepisce come una minaccia al proprio potere.


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