di Fabrizio Casari

Il Venezuela è pronto: domenica prossima sceglierà se confermare per la quarta volta la popolarità di Hugo Chavez oppure se votare Henrique Capriles, tornando così ai tempi in cui Washington stabiliva chi e come governava a Caracas. Il presidente, guarito dal tumore, chiamando al voto le classi più povere del paese e il ceto medio, cioè i settori che hanno goduto delle politiche sociali di questi anni, ha annunciato un ulteriore rilancio del suo progetto socialista, fatto d’integrazione latinoamericana e nazionalismo, giustizia sociale e politica economica redistributiva.

I risultati delle politiche economiche e sociali dell’era Chavez indicano del resto come i tempi nei quali i partiti legati a Washington governavano, accaparrandosi le straordinarie risorse petrolifere mentre il 60% della popolazione viveva sotto la soglia della povertà, sono oggi un lontano ricordo. Chavez ha decisamente invertito la tendenza ed il livellamento verso l’alto delle condizioni della parte più povera della popolazione e dello stesso ceto medio, è stato il carburante del motore bolivariano di questi anni. Mai, negli ultimi 60 anni, il paese ha avuto così bassi i tassi di disoccupazione, povertà estrema e povertà generale, mortalità infantile e mortalità materna.

Anche per questo, a leggere i sondaggi, il candidato dell’opposizione - un cartello di venti partiti diversi, ma con un solo padrone - non pare avere particolari possibilità di sconfiggere il Presidente. La regia della sua campagna elettorale, a Miami, informa e avverte che Capriles da il meglio di sé sulle lunghe distanze: sarà curioso vederlo. Perché Chavez sembra titolare di un vantaggio numerico che difficilmente le incognite dell’ultima ora potrebbero concretamente mettere in discussione.

Ma la battaglia, benché da questo lato dell’oceano possa apparire poco credibile, è decisamente tra due opzioni completamente alternative. Gli Stati Uniti, che non hanno mai smesso di tentare di sovvertire il governo venezuelano, arrivando persino a organizzare il golpe del 2002 che per 36 ore depose Chavez (poi reintegrato al palazzo di Miraflores dall’insurrezione popolare che costrinse i golpisti a scarcerarlo e ad imbarcarsi in tutta fretta sui primi voli privati per Miami) sono impegnati pancia a terra nel cercare di interferire con ogni mezzo sulla contesa elettorale.

Rispetto al personale politico-imprenditoriale solitamente utilizzato, Washington stavolta ha scelto una figura relativamente nuova e di qualche successo. Capriles, infatti, dispone comunque di un bagaglio di credibilità elettorale superiore a quello dei vecchi arnesi reazionari venezuelani. Ma il nuovo é solo apparenza: per giovane che sia, Capriles é ben inserito nel sistema di potere storicamente dominante verso il paese e dominato da fuori. E' dunque, per gli USA, la soluzione migliore nella situazione peggiore.

Perché la convinzione che un colpo di stato sia la soluzione migliore per Caracas, a Washington non l’hanno mai persa, ma memori della sberla ricevuta nell’Aprile del 2002, stavolta lavorano più sulle tappe intermedie, privilegiando intanto la via dell’intorbidimento progressivo e costante della campagna elettorale per favorire un clima violento, conveniente alla delegittimazione del risultato ove fosse favorevole a Chavez.

Nulla è lasciato al caso e nulla in mano dell’opposizione venezuelana, incapace cronicamente di sviluppare qualunque iniziativa credibile. Allo scopo, consiglieri militari e d’intelligence statunitensi, oltre che funzionari del Dipartimento di Stato, sono sbarcati negli ultimi mesi in Venezuela. Uno dei nomi più significativi è quello del Colonnello Richard Nazario, aggregato militare dell’ambasciata Usa a Caracas, coinvolto nel golpe del 2002, dove agiva agli ordini di Otto Reich, plenipotenziario di George Bush per l’America Latina.

L’ambasciata statunitense ha messo in piedi un centro di monitoraggio che servirà a realizzare il computo dei voti parallelo e alternativo a quello ufficiale. E’ stato allocato nella casa del suo funzionario James Derham, e ricade sotto la supervisione di David Mueller, specialista in informazione tecnologica. A propostito: anche Mueller, con gli stessi compiti, lavorava nel 2002 durante il golpe.

Sia chiaro: l’installazione di un centro di calcolo elettorale parallelo da parte di uno stato straniero è in aperta e flagrante violazione di tutte le norme che stabiliscono il funzionamento delle rappresentanze diplomatiche all’estero, ma ormai le legalità internazionale è come il debito: si poggia solo sulle spalle dei piccoli.

La stessa ambasciata si è resa poi protagonista di una serie di investimenti economici che fanno pensare: grandi quantitativi di giubbotti antiproiettile e maschere antigas, affitto di diverse macchine blindate e acquisto di grandi quantitativi di cibo in scatola, persino materassi e lenzuola. Si potrebbe dire: ma che c’entrano questi prodotti con le strategie golpiste? C’entrano eccome, giacché acquistarne ora prevede l’impossibilità di farlo nei prossimi giorni e non sarà un caso che esattamente gli stessi prodotti erano stati acquistati in grande quantità alla vigilia del golpe del 2002.

Alcune voci raccolte dalla stampa risultano decisamente inquietanti: rivolte nelle carceri, blocco delle strade e assalti agli aereoporti sarebbero alcune delle opzioni allo studio, mentre Eleazar Diaz Rangel, direttore del quotidiano Ultimas Noticias di Caracas, ha dichiarato che la stessa Conferenza Episcopale appoggia con entusiasmo la strategia sovversiva.

Intanto, sempre nel quadro delle ingerenze Usa, va segnalato che funzionari statunitensi s’incontrano ogni giorno con i vertici del comitato organizzatore di Capriles, con i partiti che compongono la sua coalizione, con i titolari delle agenzie di sondaggi e anche con i manager dei media radio-televisivi e della carta stampata più importanti (Venevision, El Nacional, El Universal, El Siglo, Televen, Globovision, Canal 1, etc.).

A tutti costoro Gregg Adams, addetto stampa dell’ambasciata Usa a Caracas, detta la linea da seguire, impostata negli incontri con Jonh MCnamara e Simon Henshaw, funzionari del Dipartimento di Stato giunti in Venezuela. A questa pletora di questuanti, i funzionari venuti da Washington danno ordini e orientamenti precisi sulla campagna elettorale e su come e cosa fare, prima e dopo il voto, per portare il paese in stallo: dagli slogan alle dichiarazioni, nulla di quello che ruota intorno a Capriles ha a che vedere con lui; si ordina in inglese e si obbedisce in spagnolo.

La strategia statunitense, insomma, si muove su due varianti: quella preventiva e quella successiva al voto. E se preparano lo scenario con le modalità appena accennate, è proprio perché sono consapevoli di come il vantaggio del Presidente sullo sfidante sia difficile da colmare. Per questo, non appena si sono resi conto che i sondaggi non sembrano lasciare speranze al loro candidato Capriles, hanno diffuso in lungo e largo obiezioni e contestazioni sulla regolarità della consultazione; si cerca di alzare una cortina fumogena che costruisca un clima interno e internazionale che disconoscesca e dunque delegittimi l’eventuale vittoria di Chavez. Riferendosi all’attività sovversiva degli Stati Uniti, Vicente Rangel, giornalista ed ex Vicepresidente della Repubblica, ha avvertito che “il fantasma della violenza che passeggia sulla scena potrebbe drammaticamente materializzarsi non appena si conosceranno i risultati elettorali”.

Questa strategia - togliere credibilità e prestigio alle elezioni dove vengono sconfitti i loro candidati, delegittimando il voto, insinuando brogli e irregolarità - è operazione politico-mediatica già tentata in moltissimi paesi (e in alcuni dell’ex Urss riuscita) ma che in questo caso si è scontrata sia con il governo venezuelano e gli altri paesi latinoamericani, sia con il più prestigioso degli osservatori internazionali di marca statunitense: il Centro Carter.

L’ex presidente degli Stati Uniti, infatti, ha definito la macchina elettorale venezuelana “la migliore mai vista”, a prova di “ogni frode” e che “offre le maggiori garanzie per lo svolgimento corretto e ordinato delle operazioni di voto”. Un colpo alla bocca dello stomaco per il Dipartimento di Stato.

Almeno sotto il profilo della propaganda mediatica le dichiarazioni del Carter Center hanno quindi costretto gli Stati Uniti - che comunque tengono in piedi tutte le operazioni interne per condizionare l’esito del voto - a concentrarsi da subito sul “dopo voto”, puntando all’obiettivo di non riconoscere l’eventuale vittoria del Presidente.

E’ con questa finalità che Capriles, obbediente come sempre all’ambasciata Usa, ha rifiutato la proposta di Chavez di firmare un impegno che riconosca - quale che sia - il responso ufficiale del Consiglio Nazionale Elettorale, assegnando alla prestigiosa istituzione dedicata il ruolo di arbitro e giudice indiscusso della consultazione. Chavez, tra l’altro, non solo ha firmato il suo impegno, ma ha anche ripetuto in diverse occasioni che rispetterà i risultati qualunque essi siano.

L’avversità statunitense contro il Venezuela, iniziata con la prima vittoria elettorale di Chavez, è andata crescendo dal 2004, quando venne dichiarato l’antiimperialismo del processo venezuelano e poi rafforzatasi nel 2006, quando il Presidente proclamò il carattere socialista della rivoluzione. Indipendenza nazionale, antiimperialismo e socialismo: tre aggettivi che scatenano la furia di Washington, convinta che il continente sia ancora quello immaginato dalla Dottrina Monroe (l’America agli americani ndr).

Non succedeva dal 1962 a Cuba che un paese latinoamericano si definisse socialista; mezzo secolo di Washington consensus interrotto solo dai Sandinisti in Nicaragua, che improvvisamente veniva messo in discussione da un paese da cui, tra l’altro, gli Stati Uniti importano il 23 per cento del petrolio di cui hanno bisogno.

Chavez è perfettamente conscio anche del rischio che la sua vittoria pronosticata dai sondaggi possa determinare nei suoi elettori un calo di attenzione e mobilitazione, ed è per questo che ieri ha lanciato un appello: "Quello che si gioca in Venezuela nei prossimi cento anni dipenderà dall’esito del voto del 7 Ottobre. E’ una battaglia memorabile, quindi nessuno dovrà abbassare la guardia, perché ci giocheremo la vita della patria”.

Non sembrino solo parole tipiche della propaganda elettorale. Il ruolo di Chavez e il futuro del paese, l’indipendenza latinoamericana, il peso del blocco democratico latinoamericano e lo sviluppo socio-economico dei paesi aderenti all’ALBA, costituiscono i contenuti non scritti ma marchiati a fuoco nelle schede elettorali venezuelane. Su questo e per questo gli Stati Uniti giocano il tutto per tutto a Caracas. Una nuova vittoria di Chavez darebbe un’ulteriore impulso ai processi democratici nel continente, riducendo ancor più il peso geopolitico degli Stati Uniti a sud del Rio Bravo e, a tre settimane dal voto statunitense, aprirebbe anche un ulteriore crepa nel già pericolante castello elettorale dello stesso Obama.

 

di Michele Paris

Con la diffusione dei risultati ufficiali, nella giornata di martedì il presidente della Georgia, Mikheil Saakashvili, è stato costretto ad ammettere la sconfitta del suo partito nelle elezioni parlamentari tenute il giorno precedente nel paese caucasico. Ad ottenere il maggior numero di consensi è stato il nuovissimo partito “Sogno Georgiano”, fondato dall’uomo più ricco del paese, Bidzina Ivanishvili, il quale si appresta ora ad assumere la carica di primo ministro in vista di una difficile coabitazione che condurrà al voto per le presidenziali del prossimo anno.

Il 44enne presidente filo-americano ha dovuto così incassare un chiarissimo attestato di sfiducia da parte degli elettori a quasi nove anni di distanza dalla sua ascesa al potere sull’onda della cosiddetta “Rivoluzione delle Rose”, orchestrata da Washington nella ex repubblica sovietica.

Nonostante i timori di brogli e possibili colpi di mano da parte del partito di governo, il risultato del voto era in qualche modo previsto ed era stato annunciato nelle scorse settimane da una imponente manifestazione popolare di protesta nella capitale, Tbilisi, e dalle reazioni di sdegno causate da uno scandalo legato al sistema carcerario georgiano. Il 18 settembre, cioè, due emittenti televisive vicine all’opposizione avevano trasmesso un video che descriveva in maniera cruenta torture e abusi sessuali commessi dalle guardie carcerarie di una prigione di Tbilisi ai danni di alcuni detenuti.

Secondo i dati ufficiali della Commissione Elettorale Centrale, la coalizione guidata da Ivanishvili ha ottenuto il 55% dei voti, contro il 40% dell’Unione Movimento Nazionale di Saakashvili. Dei 150 seggi parlamentari in palio, i risultati ne assegnerebbero circa 93 a “Sogno Georgiano” e 46 all’ormai ex partito di governo.

Saakashvili rimarrà in ogni caso alla guida del paese fino al prossimo anno quando, completato il numero massimo di due mandati previsto dalla Costituzione, non potrà più ricandidarsi. Attualmente, la carica di presidente dispone di ampi poteri ma, dopo le elezioni del 2013, entreranno in vigore modifiche costituzionali che rafforzeranno il parlamento e l’ufficio del primo ministro.

I cambiamenti alla Costituzione erano stati voluti dallo stesso Saakashvili nell’ambito di un progetto che, una volta vinte le elezioni parlamentari appena concluse, avrebbe dovuto aprirgli la strada alla carica di premier, seguendo l’esempio di Vladimir Putin che nel 2008 cedette temporaneamente la presidenza a Dmitry Medvedev per assumere la guida del governo russo.

Il risultato del voto ha invece sconvolto i piani di Saakashvili, il quale nei prossimi mesi dovrà fronteggiare possibili nuove tensioni politiche, come ha fatto subito intendere Ivanishvili dopo il trionfo alle urne. Sempre martedì, infatti, quest’ultimo ha attaccato in un discorso pubblico il suo rivale, chiedendogli esplicitamente di rassegnare le dimissioni e indire elezioni presidenziali anticipate, ipotesi però già respinta durante un successivo intervento televisivo dal consigliere di Saakashvili per la sicurezza nazionale, Giga Bokeria.

La presidenza Saakashvili era iniziata con grandi aspettative e promesse di trasformazione del paese tramite l’implementazione di “riforme” ultra-liberiste. I suoi due mandati, tuttavia, hanno mostrato chiare tendenze autocratiche senza rimediare alla povertà diffusa in un paese dove un terzo della popolazione vive tuttora al di sotto dell’irrisoria soglia di povertà ufficiale (70 euro al mese) e la disoccupazione, secondo molti analisti, è almeno il doppio di quella ufficiale, fissata al 16%.

L’evoluzione del quadro politico georgiano, inoltre, ha di nuovo ampiamente dimostrato come le “rivoluzioni colorate” patrocinate dal Dipartimento di Stato americano avessero ben poco a che fare con le aspirazioni democratiche di paesi usciti dalla dittatura sovietica e molto di più con la volontà di Washington di portare sotto la propria sfera di influenza i nuovi regimi installati, sottraendoli a quella di Mosca.

Bidzina Ivanishvili, da parte sua, ha fondato il partito uscito vincitore dalle elezioni di lunedì solo lo scorso aprile e per tutta l’estate veniva indicato in svantaggio nei sondaggi rispetto alla formazione guidata dal presidente Saakashvili. Secondo la lista di Forbes, Ivanishvili è il 153esimo uomo più ricco del pianeta e vanta una fortuna personale di 6,4 miliardi di dollari, pari a quasi la metà dell’intero PIL georgiano, messa assieme a partire dagli anni Novanta quando, come gli altri oligarchi russi, grazie ad agganci politici ad altissimo livello seppe approfittare della liquidazione delle aziende statali sovietiche realizzando profitti colossali.

Anche per questa ragione, il prossimo premier georgiano mantiene rapporti molto stretti con la comunità degli affari russa e, nonostante avesse anch’egli opportunamente appoggiato la Rivoluzione delle Rose e Saakashvili nel 2003, la sua campagna elettorale si è basata sulla necessità di cercare un riavvicinamento a Mosca, i cui rapporti con la Georgia sono stati gravemente danneggiati dalla guerra dell’agosto 2008 nell’Ossezia del sud.

Ivanishvili, in sostanza, fa parte di una sezione dell’élite georgiana che, mantenendo intatte le politiche di liberalizzazione dell’economia adottate dal presidente, chiede un riallineamento della posizione del proprio paese sullo scacchiere internazionale, ristabilendo in primo luogo i rapporti commerciali con la Russia. Ivanishvili afferma allo stesso tempo di volere rafforzare anche i legami con gli Stati Uniti e di continuare il processo che dovrebbe portare la Georgia nella NATO.

Il voto per il rinnovo del Parlamento di Tbilisi è stato infine segnato da una certa freddezza dell’amministrazione Obama nei confronti di Mikheil Saakashvili, mentre una folta delegazione del Congresso di Washington si è precipitata in Georgia per monitorare il corretto afflusso alle urne e per fare pressioni sui leader politici locali, così da evitare possibili scontri in caso di dispute elettorali.

La stessa tempestiva ammissione della sconfitta di Saakashvili, che salvo complicazioni segna il primo passaggio di poteri pacifico nel paese, è possibile sia giunta proprio in seguito alla presa di coscienza da parte del presidente di non godere più della piena fiducia di Washington.

Oltre alla crescente impopolarità di Saakashvili nel paese, ciò è dovuto probabilmente anche agli sforzi messi in atto in questi ultimi anni da Tbilisi per costruire rapporti cordiali con l’Iran. La cooperazione tra i due paesi ha infatti portato a svariate visite dei rispettivi rappresentanti nelle due capitali e, soprattutto, ad accordi per investimenti, scambi commerciali e progetti energetici.

Lo scorso marzo, addirittura, in un gesto che non deve avere trovato il gradimento americano, Saakashvili invitò un funzionario del ministero della Difesa iraniano, in funzione presso l’ambasciata di Teheran in Georgia, a partecipare ad una esercitazione militare dell’esercito locale con le forze armate statunitensi.

di Michele Paris

Il Dipartimento di Stato americano ha ufficializzato la settimana scorsa la notizia - già apparsa qualche giorno prima sui media - della rimozione dall’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere dei Mujahideen-e-Khalq (MeK) iraniani. Il successo diplomatico conseguito da questo gruppo che si batte per l’abbattimento della Repubblica Islamica è dovuto sostanzialmente ad una incessante e dispendiosa attività di lobby condotta in questi anni a Washington e alle prestazioni fornite ai servizi segreti di Stati Uniti e Israele nel tentativo di destabilizzare il regime di Teheran.

Come per molti gruppi o governi accusati di terrorismo e poi sdoganati per finire nella lista dei buoni a seconda delle necessità strategiche USA, anche i MeK si erano distinti per attacchi contro militari e diplomatici americani, nel loro caso condotti in territorio iraniano ai tempi dello Shah. Nati come un’organizzazione di ispirazione marxista, dopo aver contribuito al rovesciamento del regime filo-statunitense nel 1979 i MeK intrapresero ben presto una campagna terroristica contro la nuova Repubblica Islamica.

Durante la guerra tra Iran e Iraq del 1980-1988 si offrirono poi a Saddam Hussein, combattendo contro i propri connazionali e, al termine del conflitto, rimasero attivi in territorio iracheno, partecipando alla repressione contro la minoranza curda. Negli anni Novanta vennero aggiunti all’elenco americano delle organizzazioni terroristiche nell’ambito del tentativo di dialogo dell’amministrazione Clinton con il presidente riformista Muhammad Khatami. I MeK vennero infine disarmati dopo l’invasione dell’Iraq del 2003 e di fatto assoldati dagli Stati Uniti per la successiva campagna di destabilizzazione dell’Iran.

Nonostante il marchio terroristico, gli USA e Israele hanno coltivato intensi rapporti con i MeK, fornendo sostegno materiale e logistico per le loro attività. I due governi alleati hanno utilizzato i Mujahideen per ottenere dubbie informazioni di intelligence sul programma nucleare di Teheran e, soprattutto, per condurre operazioni segrete in territorio iraniano, compresi gli assassini di cinque scienziati nucleari a partire dal 2007. Le responsabilità dei MeK in queste morti sono state confermate, tra l’altro, da anonimi funzionari del governo americano citati lo scorso febbraio dalla NBC, i quali hanno anche affermato che l’amministrazione Obama era pienamente consapevole delle operazioni.

Le motivazioni ufficiali che hanno convinto il Dipartimento di Stato USA a prendere la recente decisione sui MeK sarebbero la loro astensione da atti terroristici da più di un decennio e il consenso alla richiesta americana di sgomberare la base di Camp Ashraf in Iraq, dove circa 3 mila Mujahideen trovano rifugio da anni. Costoro dovrebbero ora trasferirsi in un nuova apposita area nei pressi di Baghdad, in un primo passo verso l’abbandono definitivo del territorio iracheno. I MeK, inoltre, sostengono di volere continuare a battersi per il cambio di regime a Teheran, da sostituire con un governo secolare, ma con mezzi pacifici.

Nell’annunciare il loro depennamento dalla lista del terrore venerdì scorso, il Dipartimento di Stato ha affermato che il governo americano è tuttora preoccupato per “gli atti di terrorismo condotti dai MeK nel passato”, così come rimangono “seri dubbi sull’organizzazione, in particolare riguardo alle accuse di abusi commessi contro i propri membri”. Anche se l’amministrazione Obama non sembra dunque considerare i MeK una valida alternativa democratica all’attuale regime di Teheran, alla fine è prevalsa la decisione di assecondare le richieste provenienti da esponenti di entrambi gli schieramenti politici.

Il “delisting” dei MeK consentirà ora lo sblocco dei loro beni congelati in territorio americano, mentre potranno essere stanziati aiuti finanziari da parte del governo, con ogni probabilità per continuare le attività terroristiche e di sabotaggio in Iran in vista di un nuovo probabile aumento delle tensioni sulla questione del nucleare di Teheran.

La decisione americana, tuttavia, potrebbe diventare un boomerang per Washington, dal momento che i MeK, alla luce dei loro precedenti, sono estremamente impopolari tra la popolazione iraniana e gli stessi oppositori interni del regime. Secondo quanto scritto da un sito web vicino al “Movimento Verde” filo-occidentale, infatti, “non esiste organizzazione, partito o culto con una fama peggiore dei MeK in Iran”. Molti analisti ritengono inoltre che i membri dei MeK siano dei fanatici che coltivano una sorta di culto della personalità nei confronti dei loro leader, i coniugi di stanza a Parigi Massoud e Maryam Rajavi.

Per convincere il governo americano a riabilitare la loro organizzazione, già rimossa dalla lista del terrore dell’Unione Europea nel 2009, i MeK hanno in questi anni ingaggiato sostenitori autorevoli, tra cui spiccano l’ex sindaco repubblicano di New York, Rudolph Giuliani, l’ex governatore democratico della Pennsylvania, Ed Rendell, il ministro della Giustizia durante l’amministrazione Bush, Michael Mukasey, l’ex governatore democratico del Vermont e già candidato alla Casa Bianca, Howard Dean, l’ex direttore della CIA, Porter Goss, l’ex capo di Stato Maggiore, generale Hugh Shelton, l’ex comandante NATO, generale Wesley Clark, e tanti altri.

Queste personalità, molte delle quali tra i più accesi sostenitori della guerra al terrore, sono state tutte pagate profumatamente per tenere discorsi pubblici a favore di un’organizzazione definita come terroristica dal loro stesso governo. Alcuni di loro sono stati anche sottoposti quest’anno ad un’indagine del Dipartimento del Tesoro, poiché accettando i compensi dei MeK avrebbero violato la legge americana che vieta il sostegno in qualsiasi forma a gruppi terroristici.

Come ha scritto qualche giorno fa il reporter di Asia Times Online, Pepe Escobar, per ripulire la loro immagine e convincere le autorità americane a rimuoverli dalla lista del terrore, i MeK si sono anche affidati ai servizi di tre importanti studi legali di Washington - DLA Piper, Akin Gump Strauss Hauer & Feld e diGenova & Toensing - ai quali hanno versato 1,5 milioni di dollari nell’ultimo anno per far dimenticare assassini e attacchi terroristici vari.

Forse non a caso, lo sdoganamento dei MeK è giunto proprio nella settimana che ha visto Obama e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, parlare all’ONU in termini minacciosi della crisi costruita attorno al nucleare iraniano, così da aumentare ulteriormente le pressioni su Teheran.

Come hanno scritto sul loro blog Race for Iran Flynt e Hillary Leverett, entrambi ex membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, la lista del terrore degli Stati Uniti è un meccanismo quanto meno discutibile, visto che “negli anni le amministrazioni americane hanno manipolato cinicamente le designazioni, aggiungendo o rimuovendo organizzazioni o paesi per ragioni che poco o nulla hanno a che fare con il loro coinvolgimento in attività terroristiche”, come avvenne appunto con il protettore dei MeK, Saddam Hussein.

Ciononostante, aggiungono i Leverett, anche considerando la lista legittima, la mossa del Dipartimento di Stato di ripulire il curriculum di un’organizzazione responsabile di innumerevoli vittime civili, appare controproducente e finisce per screditare quel che resta dell’immagine tutta esteriore degli Stati Uniti come i protettori della democrazia e dei diritti umani in Medio Oriente.

Dall’Iran, dove si sostiene che le attività dei MeK abbiano causato la morte di 12 mila civili iraniani negli ultimi trent’anni, è subito giunta la condanna della decisione americana. Nella giornata di sabato la TV di stato ha ricordato che “esistono innumerevoli prove del coinvolgimento del gruppo in attività terroristiche”, mentre la riabilitazione dei Mujahideen mostra come gli Stati Uniti “distinguano tra terroristi buoni e cattivi” e “i MeK sono diventati ora i buoni perché Washington si serve di loro contro l’Iran”.

Oltre a rivelare ancora una volta il doppio standard utilizzato da Washington in materia di anti-terrorismo, la rimozione dei MeK dalla lista del terrore conferma infine che l’amministrazione Obama non ha nessuna intenzione di aprire un vero dialogo con l’Iran per risolvere la questione del nucleare. Anche se la retorica elettorale sembra suggerire la volontà della Casa Bianca di puntare ad una soluzione diplomatica, l’atteggiamento del governo USA indica chiaramente come, alle spalle dei cittadini americani, si stia preparando un nuova guerra criminale contro l’Iran, con conseguenze potenzialmente devastanti per l’intero pianeta.

di Michele Paris

Una delle promesse elettorali che permise a Barack Obama di trionfare nelle elezioni presidenziali del 2008 fu quella di rompere senza indugi con le pratiche gravemente lesive dei diritti civili messe in atto dall’amministrazione Bush nell’ambito della cosiddetta “guerra al terrore”. Tra i metodi anti-democratici adottati dal suo predecessore c’erano le intercettazioni, operate senza il mandato di un giudice, dei telefoni e dei dispositivi elettronici dei cittadini americani sospettati di avere legami con la rete terroristica internazionale. Il ricorso a questi sistemi, come rivela un recente studio dell’American Civil Liberties Union (ACLU), è aumentato vertiginosamente nel corso del primo mandato alla Casa Bianca del presidente democratico.

Per ottenere l’accesso alle informazioni del governo sulle intercettazioni, l’ACLU ha dovuto passare attraverso mesi di battaglie legali, dal momento che è stato necessario avviare un procedimento in tribunale secondo il Freedom of Information Act dopo che il Dipartimento di Giustizia aveva respinto la richiesta dell’associazione con sede a New York.

Alla fine, l’ACLU ha ottenuto i documenti che descrivono l’utilizzo per gli anni 2010 e 2011 di due sistemi di intercettazione definiti “pen register” e “tap and trace”, i quali servono rispettivamente a raccogliere informazioni in entrata e in uscita sulle comunicazioni telefoniche. Il materiale in questione indica come questi strumenti abbiano consentito al Dipartimento di Giustizia non solo di monitorare numeri di telefono, date e orari delle conversazioni, ma anche l’accesso ai social network, le e-mail e la navigazione internet in genere.

Complessivamente, le intercettazioni sono aumentate di circa il 60% tra il 2009 e il 2011, anno in cui il Dipartimento di Giustizia d’oltreoceano ha monitorato 37.616 telefonate, mentre il numero delle persone intercettate nello stesso periodo è più che triplicato, tanto che il totale degli ultimi due anni supera quello dell’intero decennio precedente. Per quanto riguarda il monitoraggio delle e-mail e del traffico web, sempre tra il 2009 e il 2011, l’aumento ammonta addirittura al 361%, dal momento che tale pratica era piuttosto rara negli anni scorsi.

Le informazioni così raccolte dal governo non riguarderebbero però il contenuto delle conversazioni telefoniche o della navigazione in rete. Per questo motivo, metodi come “pen register” e “tap and trace”, nonostante diano comunque accesso a dati sensibili degli utenti, possono essere messi in pratica con una certa facilità, visto che al governo è sufficiente sottoporre ad un tribunale un documento nel quale si afferma la necessità di ottenere informazioni rilevanti per un’indagine criminale in corso.

Con questa semplice procedura, l’agenzia governativa di turno può procedere con le intercettazioni senza che nessun giudice sia chiamato ad esprimersi sul merito della richiesta. In caso di intercettazioni per avere accesso al contenuto di conversazioni o e-mail, invece, il governo deve convincere un giudice che esse siano essenziali alle indagini e ottenere un mandato.

La stessa ACLU ha lasciato intendere che il numero delle intercettazioni condotte in questo modo dal Dipartimento di Giustizia sono solo la punta dell’iceberg. Nulla di ufficiale viene infatti reso pubblico relativamente ai programmi di sorveglianza elettronica del Dipartimento per la Sicurezza Interna, dei servizi segreti o delle forze di polizia locali.

I dati resi noti grazie all’ACLU sono solo l’ultima delle rivelazioni sull’invasione della privacy dei cittadini americani da parte del governo. Mentre qualche mese fa è stata confermata l’autorizzazione da parte di Obama all’impiego di droni armati in ricognizione sul territorio americano, ai primi di luglio il New York Times aveva scritto che nel solo 2011 le compagnie di telefonia mobile americane avevano ricevuto qualcosa come 1,3 milioni di richieste di informazioni riservate sui loro clienti dalle varie agenzie governative.

La collaborazione di queste compagnie con il governo per intercettare segretamente i cittadini americani, d’altra parte, va fatta risalire agli albori della “guerra al terrore”. Una collaborazione che nel 2006 portò in tribunale le compagnie telefoniche, prima che l’intervento del Congresso garantisse loro l’immunità da ogni azione giudiziaria. Il governo, in ogni caso, di fronte alle denunce legali sulle violazioni della privacy ha puntualmente posto il segreto di stato o ha fatto riferimento alle prerogative assegnate al presidente come “comandante in capo” in tempo di guerra.

Il programma di spionaggio domestico è dunque un altro esempio del disprezzo mostrato dai governi degli Stati Uniti per i diritti democratici dei suoi cittadini e del dettato costituzionale. Secondo molti giuristi, infatti, le intercettazioni senza il mandato di un giudice violano almeno il Primo e il Quarto Emendamento alla Costituzione americana, i quali proteggono rispettivamente la libertà di parola e da perquisizioni, arresti e confische senza un valido motivo.

I metodi invasivi come le intercettazioni telefoniche, assicura il governo, vengono utilizzati unicamente contro i sospettati di terrorismo, sia pure senza che vengano presentate prove concrete a loro carico, o di altri gravi crimini. Tali sistemi, tuttavia, con il persistere della crisi economica e l’aggravarsi delle tensioni sociali saranno sempre più diretti contro coloro che all’interno dei confini americani si oppongono ad un intero sistema politico al servizio dei grandi interessi economici e finanziari.

di Michele Paris

L’espulsione dal Partito Comunista Cinese dell’ex astro nascente Bo Xilai indica con ogni probabilità la temporanea sospensione delle divisioni interne alla classe dirigente di Pechino in vista dell’imminente decennale avvicendamento ai vertici dello Stato. L’annuncio dell’incriminazione formale di Bo è giunto nella giornata di venerdì e si è accompagnato alla decisione di fissare per l’8 novembre prossimo la data dell’apertura del congresso di un partito che dovrà eleggere una nuova generazione di leader.

Il brusco stop alla più che promettente carriera politica di Bo Xilai è coinciso lo scorso mese di marzo con la sua rimozione dall’incarico di segretario del PCC di Chongqing in seguito al tentativo di defezione dell’ex capo della polizia della metropoli del sud-ovest cinese, Wang Lijun. Quest’ultimo, nel febbraio precedente, aveva chiesto asilo politico presso il consolato americano di Chengdu, cercando di coinvolgere il suo superiore nello scandalo legato alla morte dell’uomo d’affari britannico Neil Heywood.

Per il presunto avvelenamento di Heywood, ad agosto è stata condannata alla pena di morte, subito sospesa, la sua ex partner d’affari, nonché moglie di Bo Xilai, Gu Kailai, mentre lo stesso Wang proprio la settimana scorsa ha ricevuto una condanna a 15 anni di carcere dopo un processo-lampo nel quale era stato accusato di corruzione e di aver sviato le indagini sulla morte di Heywood.

I processi a Gu e a Wang hanno come previsto aperto la strada a quello appena annunciato ai danni di Bo, il quale singolarmente nei due precedenti dibattimenti  non è mai stato nemmeno nominato, in un chiaro segno del disaccordo tra i vertici del partito circa la sua sorte. Alla fine, contro Bo sono state formalizzate numerose accuse, tra cui quella di avere seriamente violato la disciplina del partito, di avere ricevuto tangenti, di avere arricchito illegalmente i suoi familiari e di avere avuto relazioni sessuali “improprie” con un vasto numero di donne.

La cautela con cui il Politburo del PCC si è mosso per incriminare Bo rivela tutta la delicatezza del suo caso, sia per il sostegno di cui gode tuttora all’interno del partito sia perché l’esposizione dei suoi crimini avrebbe potuto rivelare la corruzione diffusa ad ogni livello della burocrazia statale, aprendo un indesiderato dibattito che rischierebbe di alimentare le tensioni sociali nel paese in concomitanza con il rallentamento dell’economia cinese.

Bo Xilai era considerato uno dei leader della cosiddetta “Nuova Sinistra”, fortemente critica delle politiche di aperture neo-liberiste della leadership uscente del presidente, Hu Jintao, e del primo ministro, Wen Jiabao. Il “modello di Chongqing” promosso da Bo combinava manifestazioni esteriori nostalgiche dell’era di Mao con la lotta senza quartiere alla criminalità organizzata e limitate politiche populiste di sostegno alle classi più disagiate. Ciò non ha impedito in ogni caso a Bo e alla sua cerchia di potere di arricchirsi enormemente.

Bo e la “Nuova Sinistra”, vicini alla fazione di Shanghai guidata dall’influente ex presidente Jiang Zemin, si battono inoltre per la protezione dei privilegi delle grandi compagnie statali, opponendosi alla fazione facente capo alla Lega della Gioventù Comunista, che annovera tra le sue fila le prossime due più alte cariche del paese - il presidente e il premier in pectore Xi Jinping e Li Keqiang - e che intende aprire ulteriormente il mercato cinese al capitale occidentale, come richiesto da tempo dagli ambienti finanziari internazionali.

In politica estera, invece, la fazione di Bo Xilai auspica un atteggiamento più severo nei confronti dell’aggressività mostrata dall’amministrazione Obama nel continente asiatico, così come nel fronteggiare le rivalità emerse con i paesi vicini in questi ultimi anni sul fronte delle dispute territoriali nel Mar Cinese Orientale e Meridionale.

Nonostante l’incriminazione di Bo, le divisioni all’interno dell’élite politica cinese sembrano tutt’altro che risolte in maniera definitiva. Lo stesso insolito ritardo con cui è stata comunicata la data del Congresso, così come il mancato annuncio pubblico dei candidati e del numero dei membri che comporranno il potente Comitato Permanente del Politburo del Partito Comunista Cinese, dove Bo Xilai aspirava ad entrare, indicano una persistente crisi politica e fratture ancora non sanate attorno alla leadership e alla direzione da dare al paese nei prossimi anni.

Le crescenti rivalità con Washington e le tensioni nella regione, la stagnazione economica e il raggiungimento di un livello allarmante del conflitto sociale interno, nell’immediato futuro non faranno che acuire lo scontro tra le fazioni che si contendono il potere, minacciando seriamente la stabilità della seconda economia del pianeta.


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