di Michele Paris

NEW YORK. Il presidente Mohamed Mursi ha sollevato dal proprio incarico di ministro della Difesa il dittatore de facto dell’Egitto post-Mubarak, feldmaresciallo Mohamed Hussein Tantawi, concentrando nelle proprie mani i poteri assoluti finora assunti dal Consiglio Supremo delle Forze Armate. Mursi ha pensionato anche il comandante delle Forze Armate egiziane, Sami Anan, e altre figure importanti tra i vertici militari; ma, soprattutto, ha revocato la modifica costituzionale decisa dalla giunta nel mese di giugno con la quale aveva assunto poteri pressoché assoluti, limitando drasticamente quelli presidenziali.

Con il colpo di mano di domenica, il presidente islamista ha anche assegnato a se stesso il controllo, in precedenza attribuito ai militari, del processo di scrittura della nuova Costituzione. In sostanza, cioè, se l’attuale assemblea non risultasse in grado di produrre una carta costituzionale per qualsiasi motivo, il presidente avrebbe il potere di nominare una nuova.

Oltre a Tantawi e Anan, Mursi ha rimpiazzato a sorpresa anche i comandanti delle forze navali e aeree dell’Egitto. Al posto del maresciallo fino a pochi giorni fa a capo della giunta militare al potere, il presidente ha nominato nuovo ministro della Difesa il capo dell’intelligence militare, Abdel Fattah al-Sissi, un generale con simpatie islamiste, diventato tristemente famoso lo scorso anno per aver difeso i cosiddetti “test di verginità” sulle manifestanti donne nel corso della rivolta.

Il nuovo capo di stato maggiore, al posto di Anan, sarà invece il generale Sidki Sobhi, già comandante delle forze armate egiziane dispiegate a Suez. Mursi ha infine nominato un nuovo vice-presidente, il giudice riformista Mahmoud Mekki.

Se dovesse andare a buon fine, la mossa del presidente Mursi rappresenterebbe una svolta significativa nel panorama egiziano, dal momento che ridimensionerebbe per la prima volta il ruolo dei militari, i quali hanno costituito il fulcro del potere fin dalla rivoluzione degli “Ufficiali liberi”, guidata da Nasser nel 1952. Un ribaltamento degli equilibri, quello tentato da Mursi, che vede oltretutto come protagonista il movimento dei Fratelli Musulmani, considerato ai limiti della legalità fino alla deposizione di Mubarak.

Lo sconvolgimento del quadro politico al Cairo giunge probabilmente non a caso in un momento di grandi tensioni, causate sia dalla crescente impopolarità dei militari e dei partiti politici egiziani nel quadro di un fallimentare processo di transizione democratica, sia dalle polemiche seguite alla recente uccisione di 16 soldati egiziani da parte di integralisti islamici nella penisola del Sinai. Un’azione, quest’ultima, a cui Mursi ha risposto molto duramente, ordinando tra l’altro bombardamenti aerei sul Sinai per la prima volta dalla guerra del 1973.

Proprio la risposta ai fatti del Sinai da parte di Mursi deve avere impressionato gli Stati Uniti, da dove rimaneva ancora qualche perplessità sui Fratelli Musulmani. L’offensiva militare del Cairo avrebbe cioè convinto Washington che il nuovo governo civile egiziano ha a cuore la sicurezza nella regione, a cominciare da quella di Israele. Per questo, è probabile che la mossa di domenica abbia ottenuto almeno il tacito assenso dell’amministrazione Obama.

Per alcuni, poi, la decisione di Mursi sarebbe servita per sventare una possibile azione contro il governo dei Fratelli Musulmani da parte degli ambienti secolari legati al vecchio regime. Secondo i media egiziani, infatti, dietro alla manifestazione di protesta indetta contro gli islamisti il 24 agosto prossimo poteva nascondersi un qualche tentativo di golpe.

In ogni caso, la manovra di Mursi ha contorni ancora non del tutto chiari ed effetti tutti da verificare. Significativo appare, tra l’altro, il fatto che l’estromissione di Tantawi e la nuova “dichiarazione costituzionale” emessa dal presidente sembrano essere state in qualche modo concordate con i militari stessi, i quali infatti non hanno reagito alla limitazione improvvisa del loro potere. Secondo quanto riferito in un’intervista alla Reuters dal neo vice-ministro della Difesa, Mohamed al-Assar, la decisione di Mursi sarebbe stata presa proprio in seguito a consultazioni con la giunta militare. Tantawi e Anan, peraltro, sono stati entrambi nominati consiglieri del presidente.

Dall’evoluzione dei fatti appare dunque possibile che i militari abbiano acconsentito alla cessione dei poteri politici al governo civile in cambio della rassicurazione che i loro enormi interessi economici nel paese non verranno toccati. Lo scontro tra i Fratelli Musulmani e il Consiglio Supremo delle Forze Armate degli ultimi mesi si era consumato proprio sulle questioni economiche, con i primi fattisi promotori di una liberalizzazione del mercato egiziano che potrebbe penalizzare fortemente il potere economico detenuto dai militari.

Le due parti, tuttavia, concordano sulla necessità di evitare l’esplosione di nuove proteste popolari che minaccerebbero la posizione di entrambi. Da qui, dunque, il raggiungimento di un accordo condiviso, giunto con la mossa di Mursi di domenica che, com’è ovvio, ha ottenuto il beneplacito di Washington.

L’assunzione dei poteri semi-dittatoriali finora nelle mani dei militari da parte del presidente è stata singolarmente salutata con entusiasmo da quasi tutti i partiti politici egiziani, compresi quelli di opposizione, come l’Alleanza Popolare Socialista e il movimento dei giovani manifestanti “6 Aprile”. Per tutti costoro i fatti dello scorso fine settimana rappresenterebbero un progresso per la democrazia egiziana.

In molti mettono però anche in guardia dalla concentrazione dei poteri nella figura del presidente, per di più islamista. Per il leader del Partito Social Democratico, Mohamed Abul-Ghar, “il problema ora è che l’Egitto non dispone di una costituzione che definisca i poteri presidenziali”, perciò il rischio è quello di avere “un presidente che concentri tutti i poteri di cui disponeva Mubarak”.

L’ex direttore dell’AIEA e premio Nobel per la pace, Mohamed ElBaradei, da parte sua ha affermato che la fine del monopolio del potere da parte dei militari rappresenta un passo avanti, ma la concentrazione dei poteri esecutivo e legislativo nelle mani di Mursi deve essere temporanea e quest’ultimo andrà conferito al più presto all’Assemblea Costituente.

A criticare duramente la presa di posizione di Mursi sono stati invece alcuni autorevoli giuristi egiziani. Secondo il quotidiano locale Al-Ahram, per molti esperti la revoca da parte del presidente della “dichiarazione costituzionale” fatta dai militari a giugno sarebbe incostituzionale e, anzi, Mursi andrebbe sottoposto ad azione legale.

Da questo punto di vista, dal momento che Mursi, assumendo la presidenza, ha giurato di fronte all’Alta Corte Costituzionale sottomettendosi a quella stessa costituzione modificata dalla giunta militare poco prima, non gli sarebbe consentito ora annullarla o cambiarla. Mursi avrebbe dovuto piuttosto rispettare la costituzione, anche se temporanea, in attesa della scrittura di una nuova carta.

di Michele Paris

NEW YORK. Dopo innumerevoli ipotesi e congetture giornalistiche, Mitt Romney ha finalmente sciolto le riserve sulla scelta del candidato alla vicepresidenza per il Partito Repubblicano, optando per l’astro nascente ultra-conservatore Paul Ryan, giovane deputato cattolico del Wisconsin. La decisione, annunciata ufficialmente nella prima mattinata di sabato, è stata subito accompagnata da una valanga di commenti negli Stati Uniti sui pro e i contro della presenza nel “ticket” repubblicano del 42enne presidente della Commissione Bilancio della Camera dei Rappresentanti.

Secondo la ricostruzione fatta dal Wall Street Journal, Romney avrebbe informato della sua scelta la consigliera Beth Myers, anche responsabile del team per la scelta del candidato vice-presidente, già il primo agosto e si sarebbe incontrato con Ryan poco più tardi. Nell’ultima settimana erano circolati molti nomi di possibili prescelti dal miliardario mormone, anche se nei due giorni precedenti la decisione finale l’ipotesi Paul Ryan aveva cominciato a prendere consistenza. Nella serata di venerdì, poi, i giornali USA hanno diffuso la notizia dell’annuncio imminente, arrivato il giorno successivo durante un evento pubblico di Romney a bordo della nave da guerra “Wisconsin” a Norfolk, in Virginia.

Paul Ryan è una figura estremamente controversa a Washington, amato dai conservatori e dai falchi del deficit, è il bersaglio prediletto di politici e commentatori liberal. Allo stesso modo, Ryan è visto con sospetto dai moderati del Partito Repubblicano, i quali ritengono che la sua presenza al fianco di Romney possa attirare troppo facilmente le critiche dei democratici. Dopo aver conquistato la presidenza della Commissione Bilancio della Camera in seguito alle elezioni di medio termine del 2010, Ryan è stato costantemente al centro del dibattito sulla questione del debito come principale sostenitore della necessità di ridurre il deficit federale tramite il drastico ridimensionamento dei programmi pubblici di assistenza.

Nell’annunciare ai suoi sostenitori la scelta di Ryan, Mitt Romney ha subito tenuto a sottolineare che i due candidati repubblicani, se vittoriosi a novembre, lavoreranno per la salvaguardia di Medicare - il programma pubblico di assistenza sanitaria riservato agli over 65 - e Social Security (pensione), anche se il possibile futuro vice-presidente ha più volte sostenuto la necessità di privatizzare entrambi i programmi. Romney ha anche significativamente definito Ryan uno dei “leader ideologici” repubblicani, confermando così di avere ormai abbracciato completamente l’ala conservatrice del partito, una mossa che gli consentirà ora di avere tutto l’establishment repubblicano al suo fianco dopo i dubbi del passato nei confronti di un candidato ritenuto troppo moderato.

Se la selezione del candidato vice-presidente, in genere, difficilmente ha un effetto decisivo sull’esito del voto a novembre, quella operata da Romney lancia però un segnale chiarissimo circa il suo spostamento a destra in questa campagna per la Casa Bianca. Con Ryan al suo fianco, infatti, Romney sembra annunciare che una sua eventuale futura amministrazione opererà senza scrupoli nell’ambito dei tagli alla spesa pubblica, mentre si adopererà per garantire nuovi benefici fiscali ai redditi più elevati.

La decisione presa da Romney rappresenta perciò anche una concessione alla fazione più radicale del proprio partito che nell’ultimo periodo aveva aumentato le pressioni sul candidato alla presidenza per scegliere un “running mate” dalle credenziali rigorosamente conservatrici. Paul Ryan è oltretutto apprezzato da testate molto influenti a destra, come il Wall Street Journal e il Weekly Standard, le quali entrambe nei giorni precedenti la nomina avevano pubblicato editoriali molto benevoli nei suoi confronti.

Per i giornali d’oltreoceano, la scelta del candidato alla vice-presidenza da parte di Romney avrebbe potuto ricadere su un repubblicano di basso profilo, come l’ex governatore del Minnesota, Tim Pawlenty, o il senatore dell’Ohio, Rob Portman, così da non sconvolgere le dinamiche della competizione, oppure su una figura, come appunto Paul Ryan, in grado di animare una parte dell’elettorato ma anche portatrice di rischi perché considerata troppo faziosa.

Quest’ultimo è infatti immediatamente identificabile come uno dei più accesi sostenitori a Washington delle ricette ultra-liberiste che hanno prodotto sia la crisi economica in atto che le crescenti diseguaglianze sociali negli Stati Uniti. In ogni caso, oltre ai già citati Pawlenty e Portman, Ryan ha dovuto superare la concorrenza anche di altri possibili candidati ben visti dalla destra del partito, come il senatore cubano-americano della Florida, Marco Rubio, e i governatori di Louisiana e New Jersey, rispettivamente Bobby Jindal e Chris Christie.

Paul Ryan è salito alla ribalta delle cronache di Washington nell’aprile del 2011, quando presentò un progetto di bilancio, chiamato “Percorso verso la prosperità”, che conteneva tagli alla spesa pubblica pari a 6.200 miliardi di dollari in dieci anni e la sostanziale liquidazione di Medicare, da trasformare in un programma sovvenzionato con fondi limitati per acquistare prestazioni sul mercato delle assicurazioni private.

Proprio l’identificazione di Ryan con lo smantellamento di Medicare potrebbe trasformare il voto di novembre in una sorta di referendum su questo programma pubblico, come temono in molti nel Partito Repubblicano, spostando il dibattito dalla prestazione di Obama in ambito economico.

Gli attacchi a Medicare sono infatti tradizionalmente un tema molto delicato nelle campagne elettorali americane, tanto che, ad esempio, i repubblicani vinsero le elezioni del 2010 soprattutto presentandosi come difensori di questo programma di fronte ai tagli contenuti nella riforma sanitaria approvata dai democratici qualche mese prima.

Le posizioni di Ryan sui programmi di assistenza pubblica non sono peraltro così lontane da quelle di alcuni membri democratici del Congresso. Nella versione della proposta di budget per il 2013, infatti, il parlamentare del Wisconsin ha presentato una proposta relativa a Medicare in parte modificata rispetto all’anno scorso dopo averla concordata con il senatore democratico dell’Oregon, Ron Wyden. Inoltre, lo stesso Obama lo aveva incluso tra i tre deputati repubblicani scelti per far parte della speciale commissione sulla riduzione del debito istituita nel 2010.

Ryan, infine, è anche attestato su posizioni di estrema destra sui temi sociali, essendosi in questi anni mostrato favorevole ad un emendamento costituzionale che definisca il matrimonio come un’unione tra persone di sesso opposto e fermamente contrario all’aborto in tutti i casi, alla legge che proibisce la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale sui luoghi di lavoro e all’adozione per coppie omosessuali.

Solo 42enne, Paul Ryan dovrebbe in teoria portare, almeno in termini di immagine, una ventata di freschezza ai vertici del Partito Repubblicano, anche se tutta la sua carriera si è svolta finora esclusivamente all’interno dell’istituzione più screditata nel panorama politico americano, il Congresso, dove è entrato per la prima volta nel 1999.

In termini più concreti, nelle aspettative del team di Romney la candidatura di Paul Ryan alla vice-presidenza dovrebbe aiutare i repubblicani a conquistare i voti elettorali del Wisconsin, stato considerato in bilico quest’anno dopo che Obama lo aveva vinto a mani basse nel 2008. Dal momento che Romney è nato nel vicino Michigan, dove suo padre era stato governatore, il candidato repubblicano spera così di ribaltare gli equilibri elettorali nei fondamentali stati manifatturieri del Midwest.

 

di Michele Paris

NEW YORK. Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, sta ultimando un tour di quasi due settimane in Africa che l’ha portata a visitare svariati paesi, tra cui Senegal, Sudan del Sud, Uganda, Kenya e Sud Africa. In tutte le sue mete, la ex first lady ha invariabilmente cercato di promuovere maggiori legami politici ed economici con Washington, nel tentativo di contrastare gli interessi e i progetti commerciali cinesi nel continente.

In Senegal, tappa iniziale della sua trasferta africana, Hillary ha fatto ricorso al consueto appello al rispetto dei diritti umani e per l’avanzamento della democrazia, due obiettivi a cui gli Stati Uniti darebbero la precedenza assoluta nei rapporti con i propri partner stranieri, mentre altri paesi, come appunto la Cina, ritengono “sia più facile e redditizio fare finta di nulla”.

Secondo la Clinton, inoltre, il suo paese sarebbe determinato nel perseguire “un modello di partnership sostenibile che contribuisce ad aggiunge valore” al continente africano invece di estrarne soltanto. Anche in questo caso appare più che evidente il riferimento alla Cina, le cui attività in Africa nell’ultimo decennio sono state prevalentemente nel settore estrattivo.

Da simili dichiarazioni traspare tutto il cinismo di Hillary Clinton e della diplomazia americana, non solo perché gli Stati Uniti e i loro alleati europei sono in gran parte responsabili del saccheggio ai danni del continente africano durante e dopo il periodo coloniale, ma anche perché Washington intrattiene legami molto stretti con svariati regimi repressivi in ogni angolo del pianeta, senza scrupolo alcuno per i diritti democratici dei rispettivi abitanti.

Quello che gli USA intendono contrastare in Africa, in ogni caso, è un traffico commerciale diventato negli ultimi anni sempre più consistente, tanto da risolversi in un rapporto di semi-dipendenza per più di un paese del continente. La Cina, che già nel 2007 aveva rimpiazzato gli Stati Uniti come principale partner commerciale dei paesi africani, ha infatti scambiato con questi ultimi merci per ben 166 miliardi di dollari nel 2011. Recentemente, inoltre, Pechino ha annunciato l’apertura di una linea di credito riservata all’Africa pari a 20 miliardi di dollari.

La seconda tappa del tour di Hillary è stato il Sud Sudan. Sull’indipendenza di questo paese, ottenuta da poco più di un anno, gli USA e l’Occidente hanno investito enormi risorse economiche e diplomatiche, principalmente per contrastare la Cina, che risulta essere uno dei principali acquirenti del greggio sudanese.

Per questo motivo, essi intendono evitare lo scivolamento in un rovinoso conflitto con il Sudan, preannunciato dagli scontri degli ultimi mesi tra i due paesi. A questo scopo, la Clinton ha invitato Juba a trovare un accordo con Khartoum sul transito del petrolio estratto dai giacimenti del Sud e trasportato all’estero tramite oleodotti situati nel territorio controllato dal presidente Omar al-Bashir.

La presenza americana in Africa, a differenza di quella cinese, si fa sentire anche sul piano militare. In Uganda, altro paese toccato dalla trasferta di Hillary Clinton e guidato dall’autoritario presidente filo-americano Yoweri Museveni, il capo della diplomazia di Washington ha ad esempio visitato una base che ospita un contingente di soldati USA e da dove partono i droni utilizzati nel conflitto in Somalia tra il governo di transizione e i ribelli islamisti.

Nella stessa area, inoltre, lo scorso anno il presidente Obama aveva dato il via libera al dispiegamento di un centinaio di soldati delle forze speciali, operanti tra la Repubblica Centrafricana, la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan con il pretesto di contrastare le operazioni del cosiddetto Esercito di Resistenza del Signore, formazione di guerriglieri comandata da Joseph Kony.

Nel fine settimana scorso Hillary è stata poi in Kenya, dove ha esortato il presidente, Mwai Kibaki, e il primo ministro, Raila Odinga, a fare di tutto per evitare il ripetersi delle violenze che avevano seguito le elezioni del 2007 nella tornata elettorale in programma nel marzo 2013.

Il Kenya è un paese di grande importanza strategica, non solo perché vanta la più grande economia dell’Africa orientale ma anche per la sua posizione che consente l’accesso e il controllo sulla Somalia, dove gli USA, sia direttamente che tramite le forze dell’Unione Africana, sono coinvolti nella guerra civile che da oltre due decenni dilania il vicino nord-orientale.

Il Kenya dovrebbe essere anche la destinazione finale di un oleodotto in fase di studio per collegare il Sud Sudan con la città costiera di Mombasa. Il progetto è fortemente appoggiato da Washington, poiché permetterebbe di trasportare verso i mercati il petrolio di Juba, svincolando il Sud Sudan dalla dipendenza dal Sudan, dove la Cina ha operato cospicui investimenti negli ultimi anni.

La penultima tappa del tour di Hillary, che si chiuderà il 10 agosto in Ghana, è stata infine il Sud Africa, anche per il quale il primo partner commerciale è la Cina. Qui, il Segretario di Stato USA, oltre all’incontro con Nelson Mandela, ha discusso dei possibili nuovi investimenti americani che, hanno assicurato i vertici del governo di Pretoria, verrebbero accolti da un’ulteriore apertura del mercato locale alle compagnie straniere.

Dopo il confronto innescato in Estremo Oriente fin dall’inizio del proprio mandato, dunque, l’amministrazione Obama appare sempre più intenzionata a contrastare gli interessi cinesi anche nel continente africano. Il più recente viaggio di Hillary Clinton, dopo quello nel mese di maggio in Asia, si inerisce in questa strategia aggressiva e, proprio come in Asia, minaccia di innescare anche in Africa pericolose tensioni tra le due principali potenze del pianeta.

di Michele Paris

NEW YORK. In concomitanza con l’aggravarsi della situazione in Siria e con la crescente minaccia di una soluzione militare esterna per rovesciare il regime di Damasco, la retorica bellicista del governo israeliano nei confronti dell’Iran, il principale alleato del presidente Assad, negli ultimi giorni sta assumendo toni sempre più minacciosi. Anche se importanti esponenti dell’apparato militare e dell’intelligence israeliana si sono mostrati contrari ad un attacco unilaterale contro le installazioni nucleari della Repubblica Islamica, il premier Netanyahu e il suo ministro della Difesa, Ehud Barak, sembrano intenzionati a ricorrere all’uso della forza in tempi brevi.

Un’operazione militare contro l’Iran, tuttavia, secondo molti analisti non risulterebbe nell’annientamento delle capacità di Teheran di giungere alla realizzazione di un’arma nucleare, bensì ritarderebbe questo processo di un periodo compreso tra sei mesi e un anno. Dal momento che Israele non dispone del potenziale bellico per raggiungere l’obiettivo finale, vale a dire il cambio di regime a Teheran con il pretesto dell’inesistente minaccia nucleare, il governo di estrema destra guidato da Netanyahu punterebbe dunque a trascinare in un conflitto con l’Iran gli Stati Uniti, cioè l’unica potenza teoricamente in grado di assestare danni permanenti a questo paese.

Per raggiungere questo scopo di fronte ad un’amministrazione Obama che non intende intraprendere nuove avventure militari prima del voto di novembre, secondo un articolo apparso martedì sul quotidiano israeliano Haaretz, il governo Netanyahu starebbe studiando un piano ben preciso. In sostanza, nell’immediata vigilia delle elezioni presidenziali americane, verosimilmente in una situazione di equilibrio tra Barack Obama e Mitt Romney, Israele potrebbe decidere di sferrare un attacco contro l’Iran.

In questo modo, l’inevitabile risposta iraniana causerebbe numerose vittime civili tra gli israeliani, costringendo il presidente democratico ad intervenire nel conflitto per non essere accusato dal suo sfidante di abbandonare a se stesso un alleato così importante e, con ogni probabilità, finire per perdere le elezioni.

Nel caso invece Obama decidesse di non mobilitare le proprie forze armate contro l’Iran, la scommessa di Netanyahu prevede appunto la vittoria elettorale del repubblicano Romney, il quale una volta insediato alla Casa Bianca si affretterebbe a concludere le operazioni militari contro Teheran.

L’impazienza del premier israeliano è risultata d’altra parte evidente da svariate dichiarazioni e prese di posizione nel recentissimo passato. La settimana scorsa, ad esempio, Netanyahu ha riferito al Segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, che la strategia delle sanzioni non è stata in grado di fermare il programma nucleare iraniano e che ora sono necessarie azioni concrete.

Lo stesso concetto era stato anticipato qualche giorno prima dallo stesso Netanyahu a Romney nel corso della visita di quest’ultimo in Israele. In un’intervista televisiva, inoltre, il primo ministro conservatore ha affermato di non tenere in grande considerazione le resistenze dei vertici delle forze di sicurezza israeliane ad un’aggressione contro l’Iran, poiché in ultima istanza è il governo che deve prendere una decisione finale sulla questione.

Nonostante la sicurezza mostrata da Netanyahu, il parere contrario ad un intervento armato di personalità come il capo di stato maggiore, Benny Gantz, o il numero uno del Mossad, Tamir Pardo, nonché quello del presidente Shimon Peres, potrebbe pesare sulle decisioni del governo. Le differenze di vedute tra Netanyahu e Barak da una parte e i vertici militari e dell’intelligence dall’altra non vanno però sopravvalutate, dal momento che, oltre al fatto che questi ultimi hanno assicurato di volersi sottomettere all’autorità civile, la loro opposizione è più che altro di natura tattica. La contrarietà espressa nei confronti di un attacco contro l’Iran non sembra infatti di principio, visto che un’aggressione militare sarebbe vista positivamente, ad esempio, se concordata e messa in atto assieme agli Stati Uniti.

La stessa amministrazione Obama, inoltre, ha sempre sostenuto che riguardo alla questione iraniana “ogni opzione rimane sul tavolo”, compresa quella militare, e nei vertici sul nucleare degli ultimi mesi tra i rappresentanti di Teheran e quelli dei cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania) gli Stati Uniti si sono adoperati per far naufragare ogni possibilità di negoziato, così da prolungare la situazione di stallo e giustificare un’eventuale prova di forza contro la Repubblica Islamica.

L’intera vicenda costruita attorno al programma nucleare dell’Iran sta assumendo toni sempre più paradossali, dal momento che Teheran è da tempo il bersaglio di una incessante campagna mediatica del tutto fuorviante volta a dipingere il paese mediorientale come una minaccia imminente alla sicurezza di Israele e degli stessi USA.

In realtà, oltre a condurre una campagna di destabilizzazione più o meno segreta, questi ultimi stanno perfezionando un vero e proprio accerchiamento militare del territorio iraniano, mentre Israele, come è noto, è l’unico paese della regione a disporre di un arsenale nucleare, sia pure non dichiarato, senza mai aver sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione, come ha invece fatto l’Iran.

La strategia americana nei confronti dell’Iran è da mettere in relazione alla crisi siriana in corso e fa parte di un più ampio disegno volto a sostituire governi che non intendono piegarsi ai diktat di Washington con regimi meglio disposti verso le mire egemoniche statunitensi in un’area fondamentale per il controllo di buona parte delle risorse energetiche del pianeta.

di Fabrizio Casari

Cuba non assassina. Non tortura. Non sequestra. Non conosce desaparecidos. Non ci sono renditions. Non ci sono detenuti all’insaputa dei familiari. Non ci sono esecuzioni extra-giudiziali. Per tutto questo, o malgrado questo, è una dittatura che patrocina il terrorismo internazionale. Firmato: Dipartimento di Stato USA.

Potrebbe ben essere questo il testo della deliberazione con la quale gli Stati Uniti, pochi giorni orsono, stilando la loro classifica annuale dei paesi che non combattono il terrorismo, hanno inserito Cuba. L’isola socialista, che di terrorismo s’intende visti i tentativi d’invasione,  le migliaia di vittime (3 478 morti e 2 099 feriti) e le centinaia di miliardi di dollari di danni subìti grazie proprio al terrorismo filo-statunitense che in Florida si organizza e vive con la copertura delle agenzie federali e locali statunitensi, subisce così la beffa oltre il danno.

Appare quantomeno singolare che gli Stati Uniti, il paese cioè che da 53 anni investe miliardi di dollari e ogni tipo di azione terroristica per sovvertire Cuba, accusi l’Avana di non combattere sufficientemente il terrorismo. Proprio a Washington dovrebbero sapere, invece, come e quanto Cuba è impegnata con successo contro il terrorismo, viste le innumerevoli figuracce che la Cia da più di cinquanta anni raccoglie nella maggiore delle isole delle Antille.

Ed è quantomeno stravagante che gli Stati Uniti, che scatenano guerre, invasioni di altri stati, bombardano popolazioni inermi con aerei con e senza pilota, che torturano e sequestrano i sospetti, che tengono aperti dei lager come Guantanamo e che rifiutano di uniformarsi alle più elementari norme del diritto internazionale, non riconoscendo né le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia quando le sono avverse (mine nei porti del Nicaragua) né il Tribunale Penale Internazionale per i crimini di guerra, assegnino pagelle al resto del mondo in termini di affidabilità nella lotta al terrorismo.

L’accusa di quest’anno formulata nei confronti di Cuba è che il suo sistema bancario non sarebbe trasparente e, con ciò, si presterebbe al riciclaggio del denaro sporco. E’ un’accusa ridicola nel suo contenuto e penosa negli scopi che nasconde. Solo pochi giorni orsono, infatti, il Dipartimento del Tesoro USA ha sanzionato tre banche (una olandese, un’altra svizzera e una terza australiana) accusandole di aver operato transazioni finanziarie con L’Avana.

Dunque in cosa consisterebbe la scarsa trasparenza se è possibile individuare le operazioni bancarie del paese sull’ estero? Eppure, il problema è proprio questo: gli Stati Uniti vorrebbero che Cuba documentasse a Washington tutti i suoi movimenti bancari, così da rendergli più semplice e agevole comminare sanzioni a chi, operando con gli USA, opera anche con Cuba.

Washington lamenta una scarsa cooperazione con L’Avana sui movimenti bancari, cioè un difetto di comunicazione (unilaterale) di Cuba nei confronti degli Usa, come se questo fosse obbligatorio e non una pretesa imperiale. In realtà Cuba ha proposto inutilmente agli USA (l’ultima volta nel febbraio 2012) un programma bilaterale di lotta al terrorismo, ma la Casa Bianca non ha mai risposto. Fa bene dunque L’Avana a ricordare che sono gli USA il principale centro internazionale di riciclaggio del denaro sporco e che la loro ipocrita richiesta di trasparenza bancaria è una presa in giro, visti gli scandali dei suoi istituti di credito che hanno determinato dal 2008 la crisi finanziaria più grave della storia. La misura statunitense, invece, è ovviamente destinata a rendere più complicata l’attività commerciale dell’isola, perseguitando i suoi affari in ogni dove del pianeta e non ha nulla a che vedere con le norme sulla trasparenza bancaria.

C’è poi da ricordare un antecedente illuminante in termini di cooperazione tra Cuba e USA: quando Cuba decise di consegnare agli Stati Uniti un dossier sui terroristi in Florida, che organizzavano attentati contro Cuba e nell’intero panorama latinoamericano, il FBI non solo ignorò la denuncia, ma anzi decise immediatamente di arrestare i cubani residenti negli USA che si occupavano di smascherare la rete occulta terroristica e che avevano procurato le informazioni contenute nel dossier.

Condannati con processi farsa a pene detentive mostruose, i cinque cubani sono ancora prigionieri (uno è in libertà vigilata) e nemmeno la relazione di Gabriela Knaul, relatrice della commissione dell’Onu che analizza l’indipendenza dei giudici e degli avvocati e che si è pronunciata con critiche severe verso i processi sommari che si sono susseguiti contro i cinque cubani, ha avuto ascolto. Con quale coraggio si chiede "collaborazione"? Una ingenuità basta e avanza.

Quanto alla obiettività della lista non c’è niente di nuovo rispetto a quella degli anni precedenti e serve solo a costruire processi mediatici e politici funzionali a ulteriori sanzioni. Nello scorrere la lista dei cattivi, si può infatti facilmente notare come essi siano, casualmente, tutti paesi che non obbediscono a Washington, che non ne apprezzano la leadership indiscussa a livello planetario. Che non hanno cioè consegnato le loro ricchezze e la loro sovranità alla Casa Bianca e, soprattutto, che non riconoscono la volontà politica statunitense come fondamento del nuovo diritto internazionale de facto.

Eppure non c’è angolo del pianeta dove le bombe e le truppe statunitensi non abbiano operato. Non c’è avversario degli USA che non abbia conosciuto embarghi, terrorismo e invasioni militari. E non c’è episodio di brutalità gratuita contro le popolazioni civili commesso dai suoi soldati che sia stato giudicato e sanzionato. Ciononostante, con una sfacciataggine degna di un impero (in decadenza), Washington assegna pagelle agli altri paesi in termini di democrazia, rispetto dei diritti umani e di lotta al terrorismo.

Un paese che in poco più di duecento anni di storia ha utilizzato armi atomiche contro i civili, che ha inviato le sue truppe fuori dai suoi confini duecentosedici volte, che spaccia il suo espansionismo con il ristabilimento della democrazia e che definisce le vittime innocenti della sua foga imperiale come “danni collaterali”, meriterebbe di essere imputato perenne per reati di terrorismo e crimini contro l’umanità, più che ergersi giudice di altri. E’ questa la confusione che alberga: nell’unipolarismo coatto dei nostri tempi, il colpevole diventa giudice e la vittima diventa il colpevole. La traccia più evidente del paradosso esistente nell’era nefasta del nuovo disordine mondiale.

 

 


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