di Michele Paris

La cancelliera Angela Merkel ha iniziato giovedì una visita di due giorni in Cina, dove, a conferma dei rapporti economici sempre più intensi con Pechino, è giunta assieme a una nutritissima delegazione politica e di uomini d’affari tedeschi. Di fronte ad un’area euro tuttora in grave affanno, le opportunità commerciali in Oriente sembrano giocare infatti un ruolo ormai fondamentale per la Germania e le proprie aziende, influendo in maniera significativa anche sulle scelte di politica estera del governo di Berlino.

Quella in corso è la seconda visita del 2012 in Cina per la Merkel e addirittura la sesta da quando ha assunto la guida del proprio paese. Nella due giorni cinese, il capo del governo tedesco incontrerà le massime autorità del regime di Pechino, inclusi il presidente, Hu Jintao, il premier, Wen Jiabao, e il suo vice, nonché prossimo successore, Li Keqiang. Proprio il primo ministro cinese, secondo quanto riportato da fonti tedesche, avrebbe chiesto esplicitamente la visita della Merkel, così da discutere delle più importanti questioni bilaterali prima dell’avvicendamento previsto a breve ai vertici del Partito Comunista.

I temi da trattare sono in primo luogo quelli economici, compresa la crisi del debito sovrano in Europa, e a farlo con la Merkel ci sono sette membri del suo governo e una ventina di dirigenti di grandi aziende tedesche alla ricerca di nuove opportunità d’affari in Cina. L’impegno di Berlino in questa visita riflette la consistenza dei rapporti bilaterali, evidenziati dai dati ufficiali che indicano come le esportazioni tedesche verso la Cina siano aumentate di oltre il 200 % tra il 2005 e il 2011. Per dare un’idea dell’aumentata importanza del mercato cinese per Berlino, basti ricordare che nello stesso periodo di tempo le esportazioni verso i paesi UE sono salite del 24% e verso gli Stati Uniti di appena il 6,3%.

Nel 2011, la Cina è risultata essere il quarto mercato in assoluto per l’export germanico, dopo Francia, Olanda e Stati Uniti. La Cina dovrebbe inoltre salire al secondo posto entro la fine del 2012, mentre nel 2010 era ancora al settimo. Il totale degli scambi commerciali tra Cina e Germania ha toccato i 145 miliardi di euro lo scorso anno, facendo segnare un aumento di quasi il 19% rispetto al 2010. I settori con la maggiore crescita sono quelli della chimica, delle macchine industriali e dell’automotive. A indicare una certa disparità nei rapporti tra Berlino e Pechino sono gli investimenti diretti, dal momento che quelli tedeschi in Cina ammontavano a 26 miliardi di euro nel 2011, contro appena 1,2 miliardi di quelli cinesi in Germania.

Le sempre più strette relazioni sino-germaniche hanno però creato, come in altri paesi, malumori e divisioni all’interno delle élite economiche tedesche, poiché tali sviluppi favoriscono alcuni settori  a discapito di altri. Per questo, ad esempio, alcuni manager tedeschi si sono lamentati con il loro governo per il vantaggio in termini di competitività di cui godrebbero le aziende cinesi, favorite dall’appoggio dello Stato.

Un’altra questione controversa è quella del rispetto dei brevetti e della proprietà intellettuale, avanzata soprattutto dalle aziende tedesche di medie dimensioni, le quali costituiscono peraltro i tre quarti delle circa 5.000 che operano in Cina. Queste ultime si sono lamentate anche del fatto che la cancelliera ha portato con sé a Pechino solo i rappresentanti delle grandi multinazionali (SAP, Siemens, ThyssenKrupp, Volkswagen), delle quali il governo di Berlino promuoverebbe gli esclusivi interessi e le possibilità di crescita in Cina.

Già nella giornata di giovedì, infatti, è stata annunciata la firma di un contratto di fornitura di 50 aerei Airbus del valore di 4 miliardi di dollari tra il governo cinese e il gruppo aerospaziale franco-tedesco EADS. Inoltre, è stato siglato un ulteriore accordo da 1,6 miliardi di dollari per ampliare la linea di assemblaggio degli Airbus A320 nella località di Tianjin, dove la stessa Merkel si recherà nel corso della sua visita.

La centralità del mercato cinese per l’economia tedesca fa in modo che le più scottanti questioni politiche e le divergenze tra i due paesi rimangano fuori dagli argomenti trattati in questi due giorni. Ugualmente ignorate dalla cancelliera saranno anche le violazioni dei diritti umani in Cina. Ben lontani sono d’altra parte i tempi in cui, come nel 2007, il Dalai Lama veniva ricevuto dalla Merkel a Berlino. Quest’ultima, in ogni caso, non sembra essere nella posizione di impartire lezioni di democrazia a nessun paese, visto il trattamento riservato dal suo governo alla Grecia, dove, nell’ambito della crisi del debito, sono state imposte condizioni durissime senza alcun riguardo per le regole democratiche o il volere della popolazione.

Come già ricordato, i legami economici tra Berlino e Pechino si traducono in un certo avvicinamento anche sul piano politico, come dimostra ad esempio il lancio, avvenuto nel 2011, delle prime consultazioni bilaterali tra i due governi. Quest’ultimo è un meccanismo di comunicazione diretta tra i due gabinetti che, al di fuori dell’Unione Europea, Berlino aveva fino ad allora creato solo con paesi come Israele e India.

Alleata di ferro degli Stati Uniti fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la Germania negli ultimi anni si trova a dover fronteggiare il dilemma - condiviso con molti altri paesi, soprattutto del sud-est asiatico - di aprirsi a rapporti più stretti con Pechino proprio mentre Washington sta mettendo in atto una politica sempre più aggressiva di contenimento dell’espansionismo cinese.

I segnali inequivocabili di un qualche incrinamento del rapporto di fedeltà assoluta agli Stati Uniti sono giunti, tra l’altro, nel marzo del 2011, quando Berlino decise di astenersi durante il voto sulla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che diede il via libera all’intervento militare NATO in Libia per rovesciare Gheddafi. In quell’occasione, la Germania si mostrò inizialmente contraria all’intervento militare, allineandosi di fatto con Cina e Russia.

Gli equilibri nel governo tedesco rimangono però tuttora precari su una questione così delicata, come dimostra l’approccio alla crisi siriana, attorno alla quale da Berlino sono giunte ripetute critiche all’utilizzo del potere di veto di Pechino e Mosca sulle varie risoluzioni presentate al Consiglio di Sicurezza per avallare una nuova aggressione militare in Medio Oriente in nome dei diritti democratici.

Al di là delle singole questioni, la classe dirigente tedesca appare dunque attraversata da profonde divisioni circa il posizionamento del proprio paese sullo scacchiere internazionale. Divisioni che, oltretutto, in una fase di grandi cambiamenti economici su scala globale diventeranno ancora più marcate man mano che la crescente rivalità tra Stati Uniti e Cina spingerà Berlino nella scomoda posizione di dover scegliere, senza ambiguità, da quale parte schierarsi.

di Michele Paris

In ritardo di un giorno a causa dell’arrivo dell’uragano Isaac, la convention repubblicana ha inaugurato martedì a Tampa, in Florida, la tre giorni che si chiuderà con il discorso di accettazione della nomination per la Casa Bianca da parte di Mitt Romney. Al di là delle celebrazioni ufficiali, il tradizionale evento quadriennale vivrà i suoi momenti più importanti in quella che il New York Times ha definito una “convention parallela”, nella quale “politici eletti, delegati e membri del partito offrono a corporation, gruppi di interesse e lobbisti la possibilità di promuovere i loro interessi”.

Il costo complessivo stimato per la convention repubblicana di quest’anno è di 73 milioni di dollari, mentre quella democratica, in programma settimana prossima a Charlotte, in North Carolina, sarà di 55 milioni. Le convention sono in parte finanziate dai versamenti volontari dei contribuenti americani, così che la Commissione Federale Elettorale per il 2012 ha versato ad ognuno dei due partiti più di 18 milioni di dollari in fondi pubblici. Il Congresso, a sua volta, di milioni ne ha stanziati 50 per far fronte alle spese legate alla sicurezza nelle due città che ospitano le convention. Il resto del denaro arriva infine da ricchi finanziatori, dal momento che la legge USA vieta per questo genere di eventi donazioni dirette da parte di corporation o organizzazioni sindacali.

Sul versante democratico, il partito del presidente Obama ha stabilito un codice di autoregolamentazione che fissa a 100 mila dollari il tetto per i contributi individuali durante la convention di Charlotte. Il Partito Democratico ha però creato un’apposita organizzazione “no-profit” (New American City) che, sfruttando le scappatoie permesse dalle regole elettorali, accetterà donazioni senza limiti anche dalle grandi aziende.

Le differenze tra i due partiti, d’altra parte, sono in gran parte solo apparenti. Mentre i repubblicani si presentano apertamente come il partito dei grandi interessi economici e finanziari, da cui accettano senza riserve il sostegno e i contributi, i democratici adottano invece una strategia all’insegna dell’ambiguità. Se da un lato, cioè, pretendono di volere tenersi alla larga dalle grandi corporation per non alienare una parte fondamentale del proprio elettorato, il Partito Democratico ne riceve il pieno appoggio, sia pure in maniera più discreta.

 Dal momento che, come ha scritto settimana scorsa il Wall Street Journal, le convention quadriennali hanno di fatto perso da tempo la propria funzione e i candidati alla presidenza vengono decisi molti mesi prima, gli eventi organizzati sul finire dell’estate dai due partiti servono allora per dare visibilità mediatica agli sfidanti per la Casa Bianca e, soprattutto, per offrire un’occasione ai rispettivi finanziatori di entrare in contatto con i membri del partito.

Quasi sempre lontano dai riflettori, così, a margine del programma ufficiale vanno in scena eventi esclusivi, durante i quali i ricchi finanziatori e le grandi aziende possono avanzare i propri interessi. Tra gli eventi sponsorizzati questa settimana dalle corporation che sostengono il Partito Repubblicano a Tampa spiccano ad esempio quelli di Anheuser-Busch, storica azienda del Missouri nota soprattutto per la birra Budweiser, del colosso farmaceutico Merck & Co., e dell’hedge fund Elliott Management Corporation, il cui fondatore, Paul Singer, ha già donato un milione di dollari ad un’organizzazione che sostiene la campagna di Romney.

A Tampa sono accorsi anche i principali media d’oltreoceano, alcuni dei quali organizzeranno incontri assieme alle stesse corporation. Uno di questi è la testata on-line Politico.com che, come ha scritto l’Associated Press, per tutta la settimana della convention terrà una “Nightly Lounge”, da riproporre poi tra pochi giorni a Charlotte, co-sponsorizzata da compagnie come BAE Systems, Intel e Coca-Cola.

BAE Systems è una multinazionale britannica che opera nel settore aerospaziale e della difesa, nonché una delle dieci aziende che vantano il maggior numero di appalti pubblici ottenuti negli USA. Nel solo 2011, BAE Systems si è aggiudicata contratti con il governo di Washington per quasi 7 miliardi di dollari, nonostante sempre lo scorso anno abbia dovuto pagare una multa da 79 milioni per aver violato le leggi americane sull’esportazione di armi.

Intel, invece, ha già speso in questo ciclo elettorale 1,7 milioni di dollari in attività di lobby al Congresso per promuovere una legislazione fiscale che riduca le tasse che gravano sulle corporation. Allo stesso scopo anche Coca-Cola ha sborsato finora 2,8 milioni di dollari, denaro che dovrebbe servire anche a garantire che nelle mense scolastiche americane si continui a vendere la bevanda di propria produzione.

Tradizionalmente legata al Partito Repubblicano, anche l’industria petrolifera è molto attiva a Tampa, tramite l’associazione di categoria American Petroleum Institute, impegnata nel promuovere la propria campagna “Vote 4 Energy”. Quest’ultima è stata lanciata qualche mese fa per ottenere, tra l’altro, l’approvazione a Washington dell’oleodotto Keystone XL – che dovrebbe collegare il Canada al Texas passando attraverso una falda acquifera in Nebraska e Oklahoma – e l’espansione delle trivellazioni sul suolo americano.

L’influenza maggiore sulla politica d’oltreoceano è esercitata però dall’industria finanziaria. L’associazione che rappresenta le banche di Wall Street, Financial Services Roundtable, ha perciò un ricco programma di eventi questa settimana e la sua presenza indica il cambiamento dell’atmosfera politica negli USA rispetto al 2008, quando il malcontento popolare nei confronti dei colossi finanziari era tale da convincere i due partiti della necessità di prendere le distanze nei loro confronti.

Tra le altre potenti corporation che hanno deciso di sponsorizzare la convention repubblicana spiccano infine anche Chevron, Microsoft e Volkswagen. Tutti gli eventi che consentiranno l’incontro tra esponenti politici repubblicani, lobbisti e rappresentanti delle più grandi aziende statunitensi, vengono invariabilmente presentanti come occasioni per promuovere la crescita economica o le libertà democratiche.

Lo stesso candidato alla presidenza, Mitt Romney, secondo il Wall Street Journal, prima di accettare la nomination presiederà un club esclusivo di 1.500 finanziatori repubblicani che hanno raccolto per la campagna in corso almeno 250 mila dollari ciascuno. Altri lussuosi “benefit” sono previsti poi per un gruppo di finanziatori definito “Consiglio dei 100”, formato da coloro che si sono impegnati a raccogliere almeno un milione di dollari.

Come ha commentato il New York Times qualche giorno fa, le pratiche che vanno in scena durante le convention dei due partiti sono tutt’altro che aberrazioni o anomalie del sistema a cui si assiste ogni quattro anni, bensì riflettono quanto accade quotidianamente a Washington, dove l’influenza dell’élite economica e finanziaria sul sistema politico americano è ormai al di fuori di ogni controllo.

Nonostante corporation e grandi banche abbiano investito massicciamente su entrambi i partiti, la loro preferenza in questa tornata elettorale va decisamente a quello Repubblicano. A confermarlo sono anche le cifre relative ai finanziamenti raccolti finora dai due candidati. Al 31 luglio, infatti, Romney aveva a disposizione poco meno di 186 milioni di dollari, contro i 127 di Obama. Inoltre, circa il 71% delle donazioni andate finora al miliardario mormone sono state fatte da individui che hanno sborsato almeno mille dollari, una percentuale che scende significativamente al 30% per l’attuale inquilino della Casa Bianca.

 

di Michele Paris

Una serie di vertici ad alto livello e di dichiarazioni ufficiali negli ultimi giorni hanno prospettato un prossimo intervento militare esterno da parte degli USA o dei loro alleati in Medio Oriente per rovesciare il regime di Bashar al-Assad e, apparentemente, cercare di risolvere la crisi in Siria. I segnali più significativi in questo senso sono giunti nuovamente dalla Turchia, dove, dopo la recente visita di Hillary Clinton, l’amministrazione Obama ha inviato nei giorni scorsi l’assistente al Segretario di Stato per il Vicino Oriente, Beth Jones, e alcuni esponenti dell’intelligence per pianificare i dettagli di un’operazione militare contro Damasco.

La posizione sempre più aggressiva di Washington è stata poi ribadita lunedì dallo stesso presidente Obama, il quale in una conferenza stampa alla Casa Bianca ha affermato per l’ennesima volta che Assad ha perso ogni legittimità a governare il proprio paese e deve quindi andarsene al più presto, poiché ormai non sussistono più le condizioni per una transizione politica concordata con le forze di opposizione.

Per Obama, l’impegno americano per il momento rimarrà di natura “umanitaria”, vale a dire che gli Stati Uniti continueranno a sostenere, finanziare e armare i ribelli anti-Assad. Secondo il presidente democratico, tuttavia, c’è una “linea rossa” che la Siria non deve oltrepassare e, cioè, l’utilizzo contro i civili delle armi chimiche di cui disporrebbe. Quest’ultimo scenario, così come l’eventualità in cui tali armi cadessero nelle mani sbagliate, costringerebbe gli USA a intervenire militarmente.

In sostanza, dal momento che Washington non riuscirà ad ottenere il via libera ad un attacco militare contro la Siria dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU a causa delle resistenze di Russia e Cina, le parole di Obama confermano come si stia studiano una soluzione che permetta di agire anche senza il mandato delle Nazioni Unite. L’occasione che permetterebbe tale scorciatoia sembra essere sempre più la necessità di mettere al sicuro il presunto arsenale di armi chimiche del regime di Damasco, oppure di prevenirne l’uso.

I piani di Washington sono stati in parte confermati recentemente da fonti del Dipartimento della Difesa citate dal Los Angeles Times. Il Pentagono avrebbe infatti già redatto un piano d’azione per inviare sul campo in Siria le proprie forze speciali con il compito di rispondere ad “una effettiva minaccia di guerra chimica”. L’operazione non verrebbe in ogni caso intrapresa dagli USA unilateralmente, riporta il quotidiano californiano, ma farebbe parte di uno “sforzo internazionale” coordinato con gli alleati europei e mediorientali.

Secondo i servizi di intelligence occidentali, come hanno riportato i media in questi mesi, la Siria disporrebbe di un certo numero di armi chimiche, come quelle al gas nervino (Sarin e VX) o all’iprite, stoccate in cinque depositi, situati anche in località gravemente colpite dagli scontri di questi mesi, come Hama e Homs. Nel sito di Cerin, inoltre, sorgerebbe un centro di ricerca e produzione di armi biologiche.

Il programma siriano per la costruzione di armi chimiche sarebbe iniziato negli anni Ottanta, grazie alla collaborazione con l’Unione Sovietica, per ridurre parzialmente il divario con il potenziale militare di Israele. Le notizie sono però incerte, dal momento che la Siria non è firmataria della Convenzione sulle Armi Chimiche del 1993 e perciò non è tenuta a dichiararne l’eventuale possesso.

La posizione di Damasco è stata finora quella di negare più o meno apertamente il possesso di queste armi, attribuendo le varie indiscrezioni alla propaganda occidentale. Il 23 luglio scorso è arrivata tuttavia una dichiarazione ufficiale che è stata universalmente interpretata come un’ammissione indiretta dell’esistenza di un arsenale chimico in Siria. Quel giorno, infatti, il portavoce del ministero degli Esteri, Jihad Makdissi, ha affermato che eventuali armi di distruzione di massa (WMD) della Siria non verrebbero mai usate contro i propri cittadini bensì solo in caso di invasione esterna.

L’accusa da parte di Washington ad un governo sgradito di possedere o voler utilizzare WMD non è d’altra parte nuova e il precedente più importante e rovinoso è ovviamente quello dell’invasione dell’Iraq del 2003 dopo una deliberata campagna di disinformazione orchestrata dall’amministrazione Bush. Ironicamente, Barack Obama vinse le elezioni presidenziali del 2008 proponendosi come il candidato che più si era opposto alla guerra contro il regime di Saddam Hussein, mentre ora è ad un passo dallo scatenare un nuovo conflitto in Medio Oriente sulla base di quelle stesse menzogne diffuse più di nove anni fa dal suo predecessore per operare un cambio di regime a Baghdad.

Inoltre, Obama e gli uomini a lui vicini, anche grazie ai media, parlano come se l’opinione pubblica fosse all’oscuro dei fatti che stanno accadendo in Siria. Quando cioè il presidente sostiene di voler evitare che le armi chimiche siriane finiscano nelle mani sbagliate si riferisce ai gruppi estremisti attivi da tempo in Siria. Questi stessi gruppi legati ad Al-Qaeda, tuttavia, sono sostenuti direttamente o indirettamente proprio dagli Stati Uniti e dai loto alleati, i quali li ritengono utili in questa fase della crisi per dare una spallata ad Assad che, di fronte alle sole forze ribelli sunnite, in gran parte disorganizzate e indisciplinate, avrebbe garantita una lunga permanenza al potere.

In altre parole, mentre è stata precisamente la politica americana di destabilizzazione nei confronti di Damasco a gettare le basi per l’afflusso in Siria di operativi di Al-Qaeda dai paesi vicini, gli USA affermano ora che il timore che questi stessi estremisti possano entrare in possesso di armi di distruzione di massa potrebbe spingerli ad intervenire militarmente.

Una simile posizione, oltretutto, fornisce credito a quanto ripetuto fin dallo scorso anno da Assad, secondo il quale le sue forze di sicurezza stanno combattendo dei terroristi armati e non civili siriani che si battono per la democrazia. Rigorosamente allineati alla propaganda dei governi occidentali e dei regimi sunniti del Golfo, però, i media “mainstream” si astengono dal sottolineare tale contraddizione.

La retorica di Obama e degli altri leader impegnati sul fronte anti-Assad nasconde a malapena la vera ragione che li spinge ad appoggiare i ribelli siriani, anche se pesantemente infiltrati da membri di Al-Qaeda, e cioè la volontà di rimuovere con la forza il regime di Damasco, tassello fondamentale per l’asse di resistenza mediorientale che comprende anche l’Iran e Hezbollah in Libano. Ciò che guida la politica statunitense sono dunque esclusivamente i propri interessi nella regione, da perseguire anche con una nuova guerra, senza alcun riguardo per gli effetti devastanti che avrebbe su una popolazione civile già duramente provata o per la quasi certa esplosione di un conflitto settario le cui avvisaglie si stanno da qualche tempo osservando drammaticamente in Libano.

La questione delle armi chimiche, possibile casus belli per giustificare un’aggressione contro Assad, è stata discussa intanto anche mercoledì nel corso di un colloquio telefonico tra Obama e il premier britannico, David Cameron. La conversazione è stata ben propagandata dai media che stanno contribuendo allo sforzo dei governi occidentali di preparare l’opinione pubblica per un prossimo attacco contro la Siria.

I due leader hanno concordato nell’affermare che l’uso o la minaccia dell’uso di WM da parte di Damasco è “del tutto inaccettabile”, perciò una tale mossa da parte di Assad li “obbligherebbe a rivedere l’approccio mantenuto finora” sulla crisi siriana.

Queste dichiarazioni allarmate si scontrano con quanto riportato invece dal quotidiano russo Kommersant, secondo il quale il Cremlino ritiene che la Siria non abbia alcuna intenzione di usare armi chimiche nel conflitto interno e che il governo è in grado di proteggere adeguatamente il proprio arsenale.

Rassicurazioni in questo senso la Russia le avrebbe ricevute nel corso di “colloqui confidenziali” con le autorità di Damasco. Lo stesso punto lo ha ribadito poi venerdì anche il vice-ministro degli Esteri russo, Gennady Gatilov, in un’intervista alla Associated Press. Quest’ultimo ha affermato che le autorità siriane stanno collaborando con Mosca per mantenere le armi chimiche al sicuro ed esse rimarranno negli attuali siti che le ospitano.

Il pretesto delle armi chimiche ha come previsto provocato l’ulteriore irrigidimento dei governi vicini a Damasco, a cominciare dalla Cina, aumentando le probabilità di un coinvolgimento delle principali potenze del pianeta in un eventuale conflitto. Nella giornata di mercoledì, infatti, l’agenzia di stampa di Pechino, Xinhua, ha pubblicato un duro editoriale che sembra riflettere il pensiero dei vertici del regime.

L’articolo critica apertamente Obama, accusato di aver utilizzato la presunta pianificazione da parte della Siria dell’uso di WMD come giustificazione per intervenire militarmente. Per Xinhua le parole di Obama sono “pericolosamente irresponsabili”, poiché potrebbero causare un aggravamento della situazione in Siria e allontanare ulteriormente le residue possibilità di trovare una soluzione pacifica alla crisi.

Le accuse cinesi all’amministrazione Obama si allargano fino a comprendere l’intera strategia americana in Medio Oriente e altrove, dal momento che gli Stati Uniti, “con il pretesto dell’intervento umanitario, hanno sempre cercato di rovesciare governi considerati come una minaccia ai propri interessi nazionali per rimpiazzarli con altri meglio disposti” nei loro confronti. Questo, avverte Pechino, è il copione che Washington sta seguendo anche in Siria, dove l’obiettivo ultimo è il cambio di regime, da ottenere con o senza il via libera della comunità internazionale.

di Fabrizio Casari

Bombardamenti e combattimenti a Damasco e Aleppo, emergenza profughi e minacce di contagio al vicino Libano, un nuovo inviato dell’Onu, colloqui diplomatici senza sosta e senza frontiere sono i colori con i quali il disegno siriano viene presentato agli occhi dell’opinione pubblica e vengono utilizzati come pretesto per i recenti scatti in avanti di Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna - cui vorrebbe aggiungersi anche l’Italia - e per il rafforzamento dell’intervento militare diretto e indiretto dell’Occidente che ormai non nega più la sua pesante ingerenza nella crisi siriana.

Ieri i responsabili di Stati Uniti e Turchia si sono riuniti ad Ankara per gettare le basi di un "meccanismo operativo" finalizzato a preparare il post Bashar al Assad in Siria. Stando a  quanto indicato da fonti diplomatiche di Ankara, diplomatici, militari e responsabili dei servizi di sicurezza, diretti dal vice segretario di stato Elizabeth Jones, da parte americana, e il sottosegretario di stato aggiunto agli Affari Esteri Halit Cevik, da parte turca, hanno l'obiettivo di coordinare le risposte di fronte alla crisi siriana in materia militare, politica e di intelligence. Il principio di un meccanismo simile è stato deciso nel corso di una visita a Istanbul, l'11 agosto, del segretario di stato americano Hillary Clinton: gli Stati Uniti hanno annunciato di voler accelerare la fine del regime di Damasco.

Apparentemente i colloqui verterebbero anche su altri due temi: quello dell’arsenale chimico siriano e l’emergenza profughi che comincia a diventare un problema a carattere regionale. E se per quest’ultimo aspetto turchi e americani devono raggiungere un' intesa sulla previsione e la creazione di una zona cuscinetto alla frontiera turca in caso di consistente afflusso di rifugiati siriani, per quanto riguarda l’arsenale chimico di Assad le cose sono decisamente più complicate.

Il rischio che in qualche modo al-Queda possa metterci le mani sopra non è remoto, dal momento che una buona quota dei rivoltosi appartengono all’organizzazione terroristica e un’altra porzione significativa intrattiene con essa legami di riconoscenza ed affiliazione religiosa. Diversamente dalla situazione libica, dove l’intervento di al-Queda è stato in parte ridotto dal peso delle tribù della Cirenaica, in Siria la penetrazione terroristica tra le fila degli insorti può risultare molto più difficile da ridimensionare.

Proprio parlando del rischio di utilizzo di armi chimiche come estrema difesa da parte del regime siriano, Obama ha paventato un intervento militare diretto statunitense, attirandosi non solo le critiche del governo di Damasco, ma anche quelle del governo cinese e di quello russo. Damasco ha parlato espressamente dell’allarme sulle armi chimiche come “pretesto per un intervento militare diretto”.

Critiche sono arrivate anche dalla Cina, attraverso l'agenzia Xinhua, che ha fatto propria la posizione del regime, spingendosi a definire le dichiarazioni di Obama "pericolosamente irresponsabili". Un duro monito è arrivato anche dalla Russia, che ha accusato i Paesi occidentali di fomentare la rivolta, aiutando le forze che combattono Assad.

Ovviamente, le dichiarazioni di Obama sono state immediatamente condivise da Cameron, primo attore sin dall'inizio della guerra contro Assad. A lui ha fatto eco il Ministro degli Esteri italiano Terzi, che in una intervista a La Repubblica ha ricordato come l'Italia "sta operando in maniera attiva e sta considerando la dotazione all'opposizione siriana di strumenti di comunicazione utili per prevenire attacchi".

Insomma, la crisi siriana sembra incamminarsi a passi veloci verso il suo epilogo sul modello di quella libica. Ma, diversamente da quanto avvenuto a Tripoli, l’Occidente dovrà intervenire senza lo scudo formale dell’Onu, dal momento che sia Pechino che Mosca non sono disponibili ad approvare risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che aprano la strada all’intervento militare diretto delle forze militari statunitensi, inglesi e francesi.

Per la santa alleanza del disordine mondiale sarà dunque necessario bypassare le istituzioni internazionali e lo sforzo per coinvolgere l’Organizzazione Islamica Internazionale e Lega Araba sarà l’unica possibilità per Obama di trasformare in un’operazione di polizia internazionale quella che, con ogni evidenza, sarà un arma disperata destinata ad invertire i sondaggi per le presidenziali di Novembre. Accettare un’ulteriore presa di distanza dall’elettorato più liberal, può ben essere bilanciato dall’affrontare le urne con le vestigia del “comandante in capo”.

 

 

di Michele Paris

Tra i temi sui quali Barack Obama e Mitt Romney si stanno scontrando nella campagna elettorale in corso per la Casa Bianca, uno dei più caldi nelle ultime settimane sembra essere quello legato alla sorte di Medicare, il popolare programma pubblico di copertura sanitaria riservato agli americani con più di 65 anni. Mentre i due candidati alla presidenza cercano di proporsi come i difensori di Medicare, i programmi di entrambi i partiti prevedono in realtà un suo drastico ridimensionamento che porterebbe alla riduzione dei servizi attualmente erogati ai beneficiari.

Creato nel 1965, Medicare offre oggi la copertura sanitaria a circa 50 milioni di americani ma, secondo quanto previsto dall’approvazione della riforma di Obama del 2010, verrà privato di 716 miliardi di dollari tra il 2013 e il 2022 tramite la riduzione dei rimborsi federali destinati a ospedali e medici e di altre voci di spesa. La riforma ha istituito delle apposite commissioni, incaricate di individuare sprechi e procedure “inutili” del programma, così da raggiungere l’obiettivo dei tagli previsti, teoricamente senza influire sulla qualità dei servizi offerti.

Questi tagli si sono resi necessari per consentire il finanziamento dei sussidi che la stessa “Obamacare” prevede per quegli americani attualmente senza copertura sanitaria che, all’interno di una certa fascia di reddito, avranno l’obbligo di acquistare una polizza per evitare di incorrere nelle sanzioni federali. Per questo motivo, in questa campagna elettorale i repubblicani stanno accusando il presidente Obama di aver assaltato Medicare per finanziare la riforma sanitaria da lui voluta. Da parte loro, invece, i democratici sostengono che simili tagli sono necessari precisamente per salvare il programma e assicurarne la solvibilità nei prossimi decenni.

Come quasi sempre è accaduto in questa e nelle recenti campagne elettorali americane, il dibattito ha così prodotto una situazione paradossale, nella quale il Partito Repubblicano può in qualche modo presentarsi agli elettori come il principale garante di Medicare. Dopo l’approvazione di Obamacare nel 2010, d’altra parte, i repubblicani vinsero le elezioni di medio termine di quell’anno soprattutto attaccando i democratici per i tagli a Medicare previsti dalla nuova legge.

Tale scenario appare al limite dell’assurdo, poiché la posizione dei repubblicani prevede appunto la sostanziale privatizzazione di Medicare. Al centro del dibattito su quest’ultimo programma c’è proprio il candidato alla vice-presidenza, Paul Ryan, il quale vorrebbe giungere ad uno stanziamento fisso di fondi per ogni singolo beneficiario di Medicare, con cui acquistare una polizza assicurativa sul mercato privato.

Per eventuali prestazioni che eccedano la somma stanziata dal governo, il cittadino dovrà pagare di tasca propria. Per cercare di attenuare l’impatto di tale proposta, i repubblicani sostengono che, secondo il loro piano, il sistema rimarrebbe invariato per gli americani attualmente coperti da Medicare, così come per quelli che hanno oggi almeno 55 anni di età.

In sostanza, le posizioni dei due partiti su Medicare, nonostante la retorica dello scontro elettorale, non appaiono così lontane, soprattutto perché entrambi mettono al centro dei rispettivi progetti sia il settore delle assicurazioni private sia la necessità di contenere i costi del programma, senza tenere in considerazione il razionamento dei servizi e l’aumento delle spese sanitarie per gli americani più anziani.

Se pure il “ticket” presidenziale repubblicano denuncia i tagli per 716 miliardi di dollari previsti da Obamacare, lo stesso Paul Ryan ha recentemente negoziato con il senatore democratico dell’Oregon, Ron Wyden, una proposta di bilancio che contiene, oltre all’ipotesi dello stanziamento di fondi limitati per l’acquisto di polizze private, una riduzione della spesa per Medicare pari a circa 700 miliardi di dollari. Questo progetto rientra alla perfezione nella visione repubblicana e, in buona parte, di quella democratica che prevede per i prossimi anni un netto restringimento della spesa pubblica.

Oltre al delicato tema di Medicare, a tenere banco negli ultimi giorni è stato anche quello dell’aborto, in seguito alle dichiarazioni del deputato repubblicano del Missouri, Todd Akin. Quest’ultimo, nel corso di un’intervista televisiva, ha affermato che “gli stupri veri e propri” raramente portano alla gravidanza. Le parole di Akin, candidato repubblicano al Senato per il suo stato, hanno dato voce al pensiero di molti nella destra repubblicana e hanno scatenato una valanga di polemiche.

Gli stessi colleghi di partito, pur confermando la loro sostanziale contrarietà all’aborto, hanno chiesto ad Akin di rinunciare alla corsa per un seggio da senatore, cosa che il deputato repubblicano si è finora rifiutato di fare. I malumori all’interno del partito sulle dichiarazioni di Akin sono comunque legati ad una questione di opportunità politica.

È probabile infatti che molti repubblicani condividano le posizioni di Akin sull’aborto, ma simili dichiarazioni pubbliche rischiano di danneggiare le chance repubblicane a meno di tre mesi dal voto, soprattutto tra le elettrici donne, secondo i sondaggi già schierate in maggioranza a favore dei rivali democratici.

Le frasi sull’aborto del deputato Todd Akin, in ogni caso, confermano ulteriormente il drammatico spostamento a destra del baricentro politico americano nel corso di questa campagna elettorale, caratterizzata da posizioni sempre più estreme sulle questioni economiche, sia tra i repubblicani che, in varia misura, tra gli stessi democratici.


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