di Michele Paris

Il Senato statunitense lunedì ha bocciato un provvedimento fiscale presentato dai democratici che conteneva la cosiddetta “Buffett Rule”, promossa da Barack Obama come uno dei punti centrali del suo programma elettorale nella corsa ad un secondo mandato alla Casa Bianca. La legge in questione avrebbe dovuto teoricamente alzare le tasse per i redditi più elevati, anche se lo stesso presidente aveva in sostanza riconosciuto la natura puramente propagandistica della proposta.

Tecnicamente, con il voto dell’altro giorno la legge (“Paying a Fair Share Act”) non è stata respinta, bensì è stato impedito il suo approdo in aula per la discussione. Secondo le norme del Senato, infatti, qualsiasi proposta, per poter essere presa in considerazione, deve preliminarmente superare un ostacolo procedurale (“filibuster”) che richiede almeno 60 voti su 100.

La “Buffett Rule” ne ha invece raccolti appena 51, mente 45 senatori hanno votato per bloccarla. Tutti i senatori democratici presenti, tranne uno (Mark Pryor dell’Arkansas), hanno votato a favore, così come tutti i repubblicani, tranne uno (la moderata Susan Collins del Maine), si sono opposti. Quattro sono stati gli astenuti.

Il nome della legge deriva da quello del finanziere miliardario Warren Buffett, il quale tempo fa aveva rivelato pubblicamente che il suo carico fiscale era inferiore a quello della sua segretaria. Perciò, la proposta avanzata da Obama prevedeva l’innalzamento dell’aliquota minima almeno al 30% per i redditi al di sopra del milione di dollari.

Nel fermare il provvedimento, i repubblicani hanno come di consueto fatto riferimento all’inopportunità di alzare le tasse per chiunque durante una crisi economica e tanto meno per i presunti “creatori di posti di lavoro”. Giovedì, inoltre, la Camera si esprimerà su una proposta relativa al fisco preparata dagli stessi repubblicani e che comprende, per il 2012, un taglio alle tasse del 20% per le aziende con meno di 500 dipendenti.

La misura presentata dal leader di maggioranza alla Camera, Eric Cantor, costerebbe alle casse federali ben 46 miliardi di dollari, mentre la “Buffett Rule” ne avrebbe fatti incassare 47 nei prossimi dieci anni. Anche la misura repubblicana non ha in ogni caso alcuna possibilità di essere approvata dal Senato.

Il voto negativo di lunedì sulla “Buffett Rule” era comunque scontato, a conferma del fatto che essa era unicamente una manovra elettorale per permettere ai democratici di presentarsi come difensori della classe media e di accusare i repubblicani di essere legati indissolubilmente ai grandi interessi economici e finanziari del paese.

La strategia per la rielezione di Obama è d’altra parte caratterizzata da una netta virata in senso populista della sua retorica. Una misura come quella appena bocciata, così, oltre a fare leva sulla popolarità nel paese di qualsiasi proposta che alzi le tasse per i più ricchi, appare come un’arma di propaganda contro il rivale per la Casa Bianca, Mitt Romney, il quale recentemente aveva rivelato di aver pagato nel 2010 poco meno del 14% di tasse sulle sue entrate milionarie.

Che la “Buffett Rule” non abbia nulla a che fare con un progetto di riforma del sistema fiscale americano che tenti di correggere anche in minima parte le enormi disuguaglianze sociali prodotte in questi ultimi tre decenni lo ha confermato lo stesso Obama nel corso di una conferenza stampa tenuta domenica sera a Cartagena, in Colombia, al termine del summit dell’Organizzazione degli Stati Americani.

Quando un reporter ha chiesto al presidente se la “Buffett Rule” fosse assimilabile alle politiche populiste dei governi latinoamericani di sinistra, Obama ha tenuto a precisare che questa legge “non ha nulla a che fare con la redistribuzione” della ricchezza.

La “Buffett Rule” conferma dunque come il Partito Democratico d’oltreoceano non sia interessato a ristabilire una tassazione progressiva negli Stati Uniti, dal momento che essa, anche se adottata, si limiterebbe ad equiparare l’aliquota minima riservata ai più ricchi con quella dei redditi più bassi, anziché far gravare sui primi un carico fiscale ben più alto rispetto ai secondi.

Per dare un’idea del colossale trasferimento di ricchezza promosso dalle classi dirigenti americane negli ultimi decenni, vale la pena ricordare che attualmente l’aliquota fiscale massima prevista negli USA è del 35%, anche se la maggior parte dei più ricchi e le grandi aziende pagano di fatto molto meno, mentre negli anni Cinquanta e Sessanta era al 91% e durante la presidenza Reagan ancora al 50%.

In ogni caso, la “Buffett Rule” rimarrà al centro del dibattito politico di Washington nei prossimi mesi e servirà solo a creare una cortina di fumo per far digerire i nuovi tagli alla spesa sociale che attendono le classi più disagiate dopo le elezioni di novembre, indipendentemente dal partito che se le aggiudicherà.

Gli stessi democratici non hanno infatti nessuna intenzione di far pagare la crisi e il risanamento del bilancio federale alle classi privilegiate, come aveva già confermato lo scorso febbraio un’altra proposta fiscale lanciata dal presidente Obama. Secondo quest’ultimo piano, l’aliquota per le corporation doveva scendere dal 35% al 28% e, per le grandi aziende manifatturiere, addirittura al 25%.

di Fabrizio Casari

Nata da un’idea di Bush padre e chiamata pomposamente “Vertice delle Americhe”, anche la riunione di Cartagena tra i capi di Stato americani (dal Canada al Cile) è stato l’ennesimo flop della politica statunitense a livello continentale. Dopo il fallimento del vertice del 1994 a Miami, dove Clinton venne sonoramente sconfitto dal blocco democratico latinoamericano nel suo tentativo di far passare l’ALCA, (prolungamento continentale del NAFTA tra Usa, Messico e Canada) i successivi - nel 2005 a Mar del Plata e nel 2009 a Trinidad - avevano fatto registrare altrettante rovesci per il comando Usa sul continente.

Emanazione diretta dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), i vertici sono riusciti ad evidenziare come nel corso degli ultimi anni la crescente aggregazione politica ed economica - con tratti riguardanti anche gli aspetti finanziari e militari - tra i paesi del Cono Sud abbia considerevolmente cambiato il quadro d'insieme della realtà coninentale e, con ciò, messo fortemente in discussione lo schema sulla base del quale l’OEA era nata e gli stessi Vertici erano stati pensati, cioé vetrine per gli Usa che - magnanimamente - si prestavano al dialogo con i loro sudditi.

Dalla creazione dell’ALBA (nata nel 2005) a quella più recente della CELAC (Comunità di stati latinoamericani e caraibici, nata nel 2010), passando per il rafforzamento della cooperazione regionale e lo sviluppo del MERCOSUR, le ultime due decadi latinoamericane sono state improntate alla crescita dell’autonomia politica e finanziaria dagli stati Uniti. In ragione di questo, della miopia politica statunitense che non riesce a leggere i profondi mutamenti politici del patio trasero, i vertici richiesti dagli Usa hanno prodotto un effetto boomerang per Washington, dal momento che hanno evidenziato al mondo intero la creazione, solidificazione e crescita progressiva di un blocco latinoamericano non più soggetto al Washington consensus.

Ormai ogni vertice diventa così l’occasione per una dimostrazione concreta di come l’egemonia statunitense sulla regione sia diventato un ricordo del passato, abbarbicato alla disponibilità di ormai pochissimi paesi - Messico, Panama, Cile e Colombia - a dipendere politicamente dal gigante del Nord. E anche la storia di questo vertice, tra defezioni e scontri, tra toni aspri e colloqui poco amichevoli, hanno confermato l’impraticabilità da parte statunitense di tornare svolgere un ruolo di dominus politico nel continente.

Ma veniamo all’incontro di Cartagena. Preceduto da un generale scetticismo, il vertice aveva già dovuto annoverare le assenze di Ecuador e Nicaragua, in solidarietà con Cuba che, per volontà di Stati Uniti e Canada, continua ad essere esclusa dalle riunioni tra stati dove Washington è presente tra gli organizzatori. Come già nelle riunioni dell’OEA, la presenza del governo dell’Avana viene esclusa in ragione del veto statunitense.

A dare la misura di come davvero la questione democratica sia irrilevante nella sua sostanza, va detto che l’anfitrione Santos, presidente colombiano con un curriculum in tema di diritti umani da far drizzare i capelli, (ma impegnato a dare una spolverata di democrazia dopo il genocida Uribe allo scopo di promuovere la Colombia agli occhi degli investitori statunitensi) ha giustificato l’assenza di Cuba con il meccanismo procedurale che prevede le decisioni all’unanimità sulla convocazione dei vertici.

Inutili si sono rivelate le rimostranze degli altri paesi latinoamericani, che giudicano l’assenza di Cuba come un pegno dovuto all’anacronistica e ossessiva politica Usa contro L’Avana: tanto Obama come Harper, il canadese che altro non è se non l’appendice dello statunitense, non hanno voluto sentire ragioni. “Cuba non ha ancora fatto passi avanti sul terreno della democrazia”, ha spiegato Obama al riguardo, mentre non provava nessun imbarazzo a sedersi affettuoso con il presidente honduregno, messo al suo posto da elezioni truccate in seguito al colpo di Stato che depose il legittimo Presidente Zelaya.

D’altra parte va ricordato che, storicamente, l’interpretazione tutta statunitense della democrazia prevede che i colpi di stato militari siano legittimi (e spesso sostenibili) mentre le rivoluzioni popolari siano deprecabili sempre e comunque. Un conto è mettere i paesi in mano ai primi, un altro è vederli in mano agli ultimi. Cuba, dunque, è stata uno dei tre paesi assenti dal vertice, al quale per diverse ragioni (anche di salute) non hanno partecipato altri presidenti, tra cui Chavez.

Sul piano strettamente politico della rappresentanza, assenti Cuba, Ecuador e Nicaragua, c’era  quindi la sola Bolivia a rappresentare l’ALBA, il blocco di sinistra dei paesi latinoamericani. Ma è stato anche l’ultimo dei vertici così concepiti, dal momento che la stessa Bolivia, così come Argentina e Brasile, hanno già dichiarato che non si parteciperanno ad ulteriori, future riunioni, ove Cuba non fosse invitata.

Liberalizzazione delle droghe leggere, apertura alla presenza di Cuba nel consesso e prese di posizione chiara a favore di Buenos Aires nella disputa sulle Malvinas, sono stati i punti significativi su cui si è misurata la distanza incolmabile - e consumato lo scontro - tra Usa e Canada da un lato e la maggior parte del blocco latinoamericano dall’altro.

Sul permettere o no a Cuba di far parte del consesso si è già detto, mentre sulla questione spinosissima della sovranità di Buenos Aires sulle Isole Malvinas, Obama, riproducendo le scelte di Washington all’epoca del conflitto armato tra Londra e Buenos Aires, ha scelto di sposare la politica britannica, che rivendica il possesso delle isole argentine alla corona. Le polemiche e le minacce inglesi di questi ultimi due mesi hanno però visto l’intera America latina schierarsi al fianco della presidente Cristina Fernandez nella rivendicazione della sovranità territoriale argentina sulle isole. Dunque anche qui nessun accordo, nemmeno la possibilità di partorire una proposta comune di mediazione, resa impossibile del resto dalle completamente divaricate posizioni di partenza.

Ed anche in relazione alla delicatissima questione della lotta al narcotraffico, di fronte alla richiesta latinoamericana di riconsiderare strategie e obiettivi, non c’è stata nessuna possibilità di dialogo. Obama ha confermato l’assoluta indisponibilità statunitense a rivedere le sue politiche ultra-proibizioniste, nonostante la prova del loro fallimento, visto che non solo non hanno impedito la produzione di oppiacei nel mondo, ma hanno anche fatto raggiungere agli Usa il non felice record di maggior consumatore planetario di sostanze stupefacenti. I paesi latinoamericani, dal canto loro, oltre a ritenere che la produzione di coca e di cannabis sia l’unica produzione possibile per i contadini latinoamericani, distrutti dall’abbattimento operato dal WTO del valore dei prodotti alimentari sul mercato mondiale, le sostanze possano essere utilizzati a scopi scientifici e terapeutici oltre che al consumo personale per il quale, comunque, non vengono identificate come dannose o addirittura letali.

Ma la politica ultraproibizionista statunitense risulta indifferente alle verifiche sulla propria efficacia. Il fatto è che la produzione, distribuzione e consumo clandestino (perché illegale) rende possibile la nascita e lo sviluppo imperioso dei cartelli dei narcos, con le note implicazioni sul piano della sicurezza e sulla circolazione di denaro illecito, che obbligano a dover fronteggiare un fenomeno che ormai può definirsi letale per la istituzioni e la vita democratica in diversi paesi. In molti paesi - Messico in primo luogo - si sono create infatti organizzazioni talmente potenti dal configurare veri e propri stati paralleli.

E non c’è dubbio che si sono creati, grazie all’immensa disponibilità di denaro ottenuto con i proventi del traffico di narcotici, divenendo così organizzazioni interne ai singoli paesi (ed internazionali) che mettono in discussione dalle fondamenta lo stesso ordine democratico. Sarebbe quindi necessario che le politiche di contrasto si muovessero nella direzione di depotenziare ruolo e affari dei narcos. E solo la legalizzazione delle sostanze meno nocive ed il loro commercio regolato dagli stati potrebbe, di colpo, azzerare i proventi delle organizzazioni criminali, che prive di risorse straordinarie vedrebbero venir meno la ragione della loro stessa esistenza.

Ma il presidente statunitense non ha ritenuto nemmeno possibile l’apertura di un dialogo sul tema. Ufficialmente perché la posizione politica statunitense di guerra aperta a tutto ciò che non condividono non consente margini di trattativa e ripensamenti, ma in realtà a nessuno sfugge quanto con i cartelli dei narcos sempre più protagonisti della vita politica e sociale, la sovranità messicana sia in forte dubbio. Anche per questo il problema viene lasciato a marcire: un paese vicino, produttore di petrolio e di braccia a basso costo, se impedito nella sua sovranità, offre al vicino potente maggiori e migliori strumenti per il suo controllo politico.

Senza contare poi che il traffico di armi dagli Usa verso il Messico e quello degli stupefacenti dal Messico verso gli Usa, consente a Washington di agire - in nome della sicurezza delle sue frontiere - come commissario straordinario con pieni poteri nei confronti del Messico, con un livello d'ingerenza insopportabile per qualunque relazione tra stati. Un modo tutto sommato efficace e redditizio di dirigere dal di fuori un altro paese, peraltro strategicamente ed economicamente importante. Viene quindi facilmente identificato dai latinoamericani il tentativo statunitense di utilizzare la guerra ai narcos per incrementare ulteriormente il suo dispositivo militare nella regione e la conseguente influenza politica di natura squisitamente coloniale ai danni dei paesi latinoamericani.

Dunque nessun consenso, nessun documento comune, nessuna dichiarazione di chiusura unitaria da Cartagena. Se la volontà di Obama era quella di presentarsi alla comunità latinoamericana come leader di una ritrovata sintonia tra Nord e Sud - elemento da utilizzare nel voto degli elettori latinos nella prossima campagna elettorale - il vertice ha dimostrato l’esatto contrario. Il Presidente Usa, che proprio ai latinoamericani si era presentato in una delle sue prime uscite dopo l’insediamento alla Casa Bianca, era stato all’epoca accolto con la speranza che potesse aiutare a costruire una inversione di rotta nel rapporto tra Nord e Sud del continente. Ma quattro anni dopo, preso atto del suo continuo abbandono nei fatti di quanto promesso a parole, di averlo visto procedere solo a rinforzare la presenza militare nel continente (ultima la base nel sud del Cile) senza offrire nessun dialogo politico, oltre che una buona parte degli elettori Usa anche i governi a sud del Rio Bravo hanno deciso di sfiduciarlo.

di Michele Paris

Mentre il complicato cessate il fuoco previsto dal piano Annan, entrato in vigore giovedì scorso in Siria, sembra resistere sia pure a fatica, un primo piccolo contingente di osservatori militari delle Nazioni Unite è finalmente entrato nel paese mediorientale per monitorare il rispetto della tregua. Sei osservatori sono giunti a Damasco nella giornata di domenica, un’altra trentina arriverà a breve e il totale di 250 sarà raggiunto in seguito alle trattative con il governo siriano e una nuova autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dopo quella approvata all’unanimità sabato scorso.

Il portavoce dell’ex Segretario Generale dell’ONU, Ahmad Fawzi, in un comunicato ufficiale da Ginevra ha detto che i sei osservatori sono sotto la guida del colonnello marocchino Ahmed Himmiche e che lunedì hanno incontrato a Damasco il ministro degli Esteri siriano, Walid Muallem, per discutere delle regole da seguire nel corso della missione e della libertà di movimento che avranno nel paese.

Negli ultimi giorni, in ogni caso, le notizie provenienti dalla Siria parlano ancora di svariati scontri a fuoco, in particolare nel quartiere Khaldiyeh di Homs, a Hama, nelle vicinanze di Aleppo e in alcuni villaggi al confine settentrionale con la Turchia. Il ritiro pressoché totale delle forze di sicurezza dai centri abitati, come richiesto dal piano Annan, ha inoltre scatenato in qualche città manifestazioni di protesta contro il regime del presidente Bashar al-Assad.

Nonostante il cosiddetto piano Annan sia stato presentato dalla maggior parte dei media occidentali come un estremo tentativo fatto dalla comunità internazionale per trovare una soluzione pacifica ad una sanguinosa crisi che infuria da più un anno, a giudicare dall’atteggiamento degli Stati Uniti, dei governi europei, delle monarchie assolute del Golfo Persico e della Turchia, esso appare piuttosto come una nuova tappa per giungere ad un intervento armato esterno in Siria e rovesciare il regime di Assad.

Per cominciare, anche se lo stesso piano - approvato da Russia e Cina, oltre che da Damasco - chiede lo stop alle violenze sia da parte del governo siriano che dell’opposizione armata, gli USA e i loro alleati hanno finora esercitato pressioni esclusivamente su Assad. Non solo questi governi evitano di chiedere alle opposizioni di fermare gli attacchi e le violenze contro le forze del regime, ma continuano ad appoggiarle materialmente con armi, denaro ed equipaggiamenti vari. Tutto ciò malgrado Annan e l’attuale Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, abbiano invece invitato esplicitamente il Consiglio Nazionale Siriano e il suo braccio armato, il Libero Esercito della Siria, a rispettare il cessate il fuoco.

In sostanza, dunque, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno da un lato fornito il loro sostegno ad una risoluzione che dovrebbe pacificare la Siria sotto la guida di Assad, mentre dall’altro si adoperano contemporaneamente per rovesciarlo. In questo modo, vengono più o meno tacitamente promosse le iniziative dei “ribelli” armati, così da provocare la reazione delle forze di sicurezza del regime e denunciare il mancato rispetto della tregua da parte di Damasco.

Fin dall’inizio del ritiro delle forze armate dalle città siriane martedì scorso, infatti, sono state registrate numerose operazioni in risposta agli attacchi e alle imboscate dell’opposizione armata, tutte puntualmente seguite dall’elenco di presunte vittime civili e dalle critiche ad Assad per non aver mantenuto gli impegni con la comunità internazionale. Gli esponenti dei governi occidentali, come ha fatto recentemente anche il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, continuano inoltre a indicare come sbocco inevitabile della crisi la rimozione di Assad, nonostante essa non sia contemplata dal piano Annan, lasciando ben pochi dubbi su quale sia il loro obiettivo finale.

In questo scenario è estremamente probabile che gli osservatori che si stanno recando in Siria saranno molto attenti a riportare qualsiasi minima violazione della tregua o la mancata implementazione dei sei punti del piano Annan, mentre le opposizioni armate saranno libere di agire a loro piacimento. In caso contrario, la missione verrà fatta naufragare, come accadde a quella lanciata dalla Lega Araba nel dicembre 2011 sotto la guida del generale sudanese Mohammed Ahmed Mustafa al-Dabi, boicottata da Qatar e Arabia Saudita perché colpevole di aver documentato alcuni progressi positivi della situazione sul campo.

Il vero scopo della missione degli osservatori ONU, secondo Washington e gli altri governi che chiedono il cambio di regime a Damasco, è stato rivelato, forse involontariamente, da un recente articolo di un corrispondente del New York Times da Beirut. Il reporter americano ha scritto che, “per certi versi, il piano Annan deve fallire, in modo da convincere Russia e Cina a non utilizzare il loro potere di veto in future risoluzioni sulla Siria come hanno fatto due volte nel recente passato”.

In altre parole, il piano Annan è stato redatto includendo condizioni come la permanenza di Assad al potere e la richiesta anche all’opposizione di fermare le violenze solo per indurre Mosca e Pechino a sottoscriverlo. Invece di sostenerlo completamente però, gli Stati Uniti, l’Europa, i paesi del Golfo e la Turchia si muovono ora per farlo fallire, provocando la reazione del regime e accusando Assad di agire soltanto per reprimere nel sangue le proteste, così da ottenere il via libera anche da Russia e Cina per una futura risoluzione ONU che spiani la strada alla fornitura massiccia di armi ai “ribelli” o a un intervento armato esterno.

di Michele Paris

Gli attesi colloqui sul nucleare iraniano, andati in scena nel fine settimana a Istanbul, sembrano aver fatto segnare qualche limitato passo avanti, con Teheran e i rappresentanti del gruppo dei P5+1 accordatisi per un nuovo vertice da qui a un mese. Quest’ultimo, da tenersi a Baghdad il 23 maggio prossimo, rappresenta praticamente l’unico risultato dell’incontro appena concluso, anche se per molti appare già un successo alla luce delle tensioni che avevano caratterizzato la vigilia.

Ad annunciare il modesto risultato è stata la responsabile della politica estera dell’Unione Europea, Catherine Ashton, secondo la quale “la discussione è stata utile e costruttiva” e ora sarà necessario “procedere ad un più sostenuto processo di dialogo”. Profonde divisioni rimangono comunque non solo tra l’Iran e i P5+1 ma anche tra Russia e Cina da una parte e Stati Uniti e i loro alleati europei dall’altra (Francia, Gran Bretagna e Germania). Il capo dei negoziatori iraniani, Saeed Jalili, in ogni caso, ha anch’egli ammesso i progressi, aggiungendo che nel prossimo summit dovranno essere decise misure per costruire maggiore fiducia tra le parti.

I colloqui erano stati anticipati dalle consuete minacce di attacchi militari e nuove sanzioni, nonché dall’imposizione di condizioni inaccettabili, soprattutto dagli USA e da Israele. Alla luce della situazione, dunque, l’impegno a mantenere aperto un canale di comunicazione appariva come l’unico obiettivo raggiungibile.

Da Istanbul, così, non è uscita alcuna proposta o soluzione concreta. La stessa Ashton ha tuttavia riconosciuto la disponibilità al dialogo da parte dei rappresentanti della Repubblica Islamica e ha ribadito lo sforzo per giungere ad un accordo che garantisca il diritto di Teheran a sviluppare un proprio programma nucleare a scopi civili. Proposte più specifiche per tentare di risolvere l’annosa questione del nucleare iraniano dovrebbero verosimilmente essere presentate a Baghdad a maggio, mentre nel frattempo sarà interessante verificare l’atteggiamento di Washington e Tel Aviv.

Già a Istanbul, infatti, la posizione americana è apparsa in parte differente da quella ufficiale espressa dalla Ashton. Un anonimo diplomatico statunitense citato dal New York Times, ad esempio, ha affermato che la disponibilità al dialogo di Teheran non è sufficiente e rimane perciò valido l’ultimatum lanciato nelle scorse settimane dal presidente Obama, secondo il quale “la finestra della diplomazia si sta chiudendo” e il nuovo round di negoziati sarebbe l’ultima occasione per evitare nuove e più pesanti sanzioni o un attacco militare.

Il summit di Istanbul era iniziato con una cena informale venerdì sera, mentre i colloqui ufficiali sono iniziati sabato e sono stati caratterizzati da un’atmosfera più distesa rispetto all’ultimo incontro del gennaio 2011 che si chiuse con un nulla di fatto. Da parte iraniana, nei giorni scorsi erano giunti segnali di una qualche apertura.

Lunedì, il capo del nucleare iraniano, Fereydoun Abbasi, aveva lasciato intendere una qualche flessibilità sulla richiesta occidentale di fermare l’arricchimento di uranio al 20%. Jalili, a sua volta, aveva invece annunciato “nuove iniziative” per risolvere la crisi.

Nonostante le questioni concrete siano rimaste fuori dalle dichiarazioni ufficiali, domenica la stampa internazionale ha riportato svariate indiscrezioni. Secondo alcuni media, durante una sessione con la Ashton, Saeed Jalili avrebbe chiesto senza successo la sospensione di tutte le sanzioni applicate al suo paese alla luce della collaborazione mostrata con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).

Ancora, per il quotidiano israeliano Haaretz, gli iraniani avrebbero chiesto agli USA e ai governi europei l’impegno a non attaccare militarmente le installazioni nucleari sul proprio territorio mentre sono in corso i colloqui. L’agenzia di stampa ufficiale iraniana ISNA aveva poi scritto di una richiesta di un incontro bilaterale fatta dagli americani a Jalili e che quest’ultimo si era mostrato disponibile. Più tardi, l’agenzia di stampa Fars ha invece riportato il rifiuto del numero uno del team di Teheran a Istanbul.

Lo stesso Haaretz ha citato infine proprie fonti secondo le quali una possibile bozza di accordo da discutere a Baghdad potrebbe includere l’OK da parte dei P5+1 all’arricchimento dell’uranio ad un livello del 3,5%, invece che al 20%, in cambio del mantenimento in attività dell’installazione sotterranea di Fordo, presso la città sacra di Qom, e del continuo monitoraggio delle operazioni nucleari, cosa che Teheran ha peraltro sempre accettato.

Lo stop all’arricchimento dell’uranio al 20% e lo smantellamento di Fordo, per obbligare Teheran a trasferire gli equipaggiamenti nucleari in un sito più facilmente esposto a eventuali bombardamenti, erano due delle principali richieste fatte da USA e Israele prima del summit di Istanbul. Tra le altre, vi erano la possibilità di ispezionare qualsiasi sito da parte dell’AIEA e di intervistare tutti gli scienziati nucleari iraniani, esclusi ovviamente quelli assassinati negli ultimi anni dalle operazioni clandestine del Mossad.

Le prospettive di un accordo sul medio e lungo periodo rimangono comunque tutt’altro che rosee, soprattutto perché Stati Uniti, Israele ed altri governi europei utilizzano la questione del nucleare per giungere ad un cambiamento di regime in Iran.

Come ha scritto il giornalista investigativo americano Gareth Porter su IPS News qualche giorno fa, inoltre, gli Stati Uniti sembrano interessati non tanto ad un accordo comprensivo quanto a tenere aperto un canale di dialogo con Teheran fino a dopo l’eventuale rielezione di Barack Obama, così da tenere a bada Israele ed evitare una nuova guerra in Medio Oriente e le inevitabili ripercussioni sulla campagna elettorale per la Casa Bianca.

di Michele Paris

Il Parlamento del Pakistan ha approvato giovedì all’unanimità un documento in quattordici punti che dovrebbe riorientare la politica estera del paese centro-asiatico e ripristinare i rapporti con gli Stati Uniti, dopo il gelo seguito alla strage di soldati pakistani ad opera di aerei americani lo scorso mese di novembre. L’incidente aveva determinato la chiusura ai convogli NATO dei valichi di frontiera con l’Afghanistan, la cui riapertura dovrebbe teoricamente essere ora vincolata ad una serie di richieste sottoposte alla Casa Bianca, tra cui lo stop agli attacchi condotti dalla CIA con i droni nelle aree tribali pakistane.

Le operazioni condotte con i velivoli senza pilota sono considerate dagli USA uno strumento fondamentale per colpire le reti terroristiche che trovano rifugio nelle province pakistane al confine con l’Afghanistan. Queste incursioni, notevolmente aumentate sotto l’amministrazione Obama, causano regolarmente vittime civili e sono perciò molto impopolari tra gli abitanti dei villaggi colpiti. La cessazione dei raid della CIA, peraltro più o meno tacitamente approvati dal governo di Islamabad, è stata chiesta dal Pakistan in più occasioni in passato ma non è mai stata presa in considerazione da Washington.

La cosiddetta Commissione Parlamentare per la Sicurezza Nazionale (PCNS) ha presentato alle due camere riunite in sessione congiunta la propria proposta di revisione della politica estera, basata sulla riaffermazione della sovranità del Pakistan e sul ristabilimento dei rapporti con gli Stati Uniti sulla base del mutuo rispetto per l’indipendenza e l’integrità territoriale dei due paesi.

Quella di porre fine agli attacchi fa parte di una serie di richieste fatte dall’opposizione, tra cui la Lega Musulmana del Pakistan (PML-N) dell’ex premier Nawaz Sharif e il partito islamico Jamiat Ulema-e-Islam (JUI-F), e inserite nel documento della Commissione per assicurarsi il maggior consenso possibile in parlamento in vista dei difficili e impopolari negoziati che si apriranno a breve con gli USA per la riapertura delle rotte di transito alle forniture NATO verso l’Afghanistan.

Tra gli altri punti più importanti usciti dal lavoro di oltre due settimane della Commissione c’è la raccomandazione che il territorio pakistano non venga utilizzato per il trasporto di armi e munizioni dirette in Afghanistan. Questo riferimento lascia intendere che i valichi di frontiera potranno appunto essere riaperti, dal momento che in questi anni da essi raramente sono transitate armi o munizioni. La riapertura, in ogni caso, non viene nominata esplicitamente, così che l’incombenza della decisione ufficiale viene lasciata al governo.

Inoltre, viene stabilito che tutti gli accordi o le intese verbali relative alla sicurezza nazionale cesseranno di avere valore con effetto immediato. Un passaggio, quest’ultimo, che si riferisce probabilmente agli accordi non ufficiali siglati nel passato tra gli Stati Uniti e i potenti vertici militari pakistani.

Sempre rivolte agli americani sono anche le questioni del nucleare e della sicurezza energetica del Pakistan. La prima va fatta risalire al desiderio di Islamabad di ottenere dagli Stati Uniti un accordo sulla cooperazione nucleare civile simile a quello garantito da Washington all’India nel 2005. Questo accordo speciale, promosso dall’amministrazione Bush, per il Pakistan ha infatti modificato gli equilibri strategici nella regione a vantaggio dell’India, anch’essa come il vicino non firmataria del Trattato di Non Proliferazione Nucleare.

La seconda questione riguarda invece l’esortazione a perseguire la costruzione di nuovi gasdotti che colleghino il Pakistan con il Turkmenistan e l’Iran. Quello con la Repubblica Islamica, come ovvio, è fortemente osteggiato dagli USA e rappresenta uno dei numerosi punti critici del rapporto tra i due paesi.

Infine, la risoluzione chiede anche la proibizione dell’ingresso in Pakistan di contractors privati o agenti di intelligence stranieri. Anche in questo caso ha pesato l’ostilità diffusa nel paese verso gli operativi soprattutto americani impiegati in territorio pakistano e che nel recente passato si sono resi protagonisti di incidenti spesso mortali.

L’intero processo di revisione della politica estera pakistana appare comunque come un’operazione puramente di facciata, messa in atto dalle élite politiche del paese per rispondere in qualche modo alla profonda avversione nutrita dalla maggioranza della popolazione sia verso di esse sia per gli americani e la loro condotta, esemplificata proprio dai raid operati con i droni nelle aree tribali.

La creazione di una speciale Commissione si è resa in sostanza necessaria in seguito alle crescenti proteste nel paese, sia contro le incursioni dei droni che dopo l’incidente del novembre 2011 che ha causato la morte di 24 soldati pakistani. Per quest’ultimo episodio la Commissione chiede ora le scuse ufficiali da parte degli USA, un processo ai responsabili e la promessa che incidenti simili non si ripeteranno nuovamente.

Le raccomandazioni, in ogni caso, non sono vincolanti ma toccherà al governo implementarle dopo una serie di colloqui con gli Stati Uniti. Il governo del premier, Yousaf Raza Gilani, e del presidente, Asif Ali Zardari, così come gran parte dell’opposizione, non vuole d’altra parte rompere con gli USA, da cui il Pakistan dipende economicamente. I segnali del desiderio di ristabilire i rapporti dopo un periodo difficile erano infatti già giunti nei mesi scorsi e il percorso verso la normalizzazione, secondo alcuni, era stato aperto un paio di settimane fa nel corso di un faccia a faccia tra Obama e Gilani a margine di un summit sul nucleare a Seoul, in Corea del Sud.

Allo stesso tempo, però, nessuna parte politica intende assumersi la responsabilità di aver dato il via libera al riavvicinamento con Washington a fronte dei malumori popolari. Da qui, dunque, la soluzione di creare una Commissione con l’incarico ufficiale di fissare dei paletti alla cooperazione con gli americani e di ridisegnare i termini dell’alleanza.

Che l’esito del lavoro della Commissione Parlamentare per la Sicurezza Nazionale sia in sostanza solo fumo negli occhi per l’opinione pubblica pakistana è confermato infine anche dalle reazioni di Washington. Dagli Stati Uniti si attendeva infatti con ansia il voto del parlamento sulla risoluzione, così da dare una parvenza di dibattito attorno alle questioni più delicate e tornare in fretta alle vecchie consuetudini che prevedono, tra l’altro, incursioni indiscriminate con i droni della CIA e l’utilizzo di rotte fondamentali sul territorio del Pakistan per rifornire le forze di occupazione nel vicino Afghanistan.


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