di Mario Braconi

Dopo una nottata al cardiopalma, Boris Johnson è sindaco di Londra per un altro mandato di quattro anni: benché dall’entourage dell’avversario Ken “il Rosso” Livingstone si ammettesse a mezza bocca la sconfitta sin dal primo pomeriggio di ieri, la vittoria del candidato conservatore è stata di misura. A Johnson sono andate, infatti, il 51,53% delle preferenze, contro il 48,47% totalizzate dall’avversario: il che comporta un margine di poco meno di 63.000 voti, il più ridotto nella storia delle elezioni amministrative di Londra.

A rendere più emozionante il finale della disfida, una paio di incidenti (sospetti?): dapprima i conteggi interrotti per ore a seguito del ritrovamento di due casse di voti non conteggiati nel collegio elettorale di Harrow e Brent (dove è forte il consenso per Livingstone); e poi problemi con i dispositivi elettronici conta-voti ed un centro di conteggio rimasto per qualche tempo senza corrente elettrica.

La vittoria del candidato conservatore non va però letta come un successo del suo partito: al contrario, i risultati del partito conservatore, al di là di quanto accaduto a Londra, non sono certo confortanti, e sono l’ovvia conseguenza di una serie di azioni politiche del governo assai poco gradite, perfino ai cittadini meno progressisti, quali l’introduzione di nuove tasse sulle pensioni, sulle donazioni alle onlus e perfino sui prodotti da forno.

Proiettando i dati delle elezioni a livello nazionale, il partito conservatore arriva oggi al 31% delle preferenze, mentre il Labour di Miliband tocca il 38;% dei consensi; i Liberaldemocratici devono accontentarsi invece di un magro 16%.

A dispetto della sconfitta del Rosso, i nemici interni di Miliband, che attendevano una sua disfatta alle elezioni di Londra per regolare i conti in sospeso, debbano attendere un’altra occasione. Anche nel 2012 Livingstone si è rivelato un mal di testa per la dirigenza laburista: Miliband si è assunto un notevole rischio politico, candidando il sessantaseienne ed alquanto indigesto Ken all'incarico di sindaco di Londra.

A sua discolpa si può dire che non avesse molta scelta, almeno a dar credito alle voci di corridoio riferite da Jon Craig su SkyNews, secondo cui Red Ken, rientrato nei ranghi laburisti nel 2004, anche questa volta avrebbe ricattato la dirigenza del partito, rendendo più convincente la sua candidatura sventolando lo spauracchio di una sua possibile corsa da indipendente. Lo stesso copione visto alle elezioni del 2000, quando Livingstone, indispettito dal veto di Blair sul suo nominativo, corse e vinse da solo, ma umiliando la leadership.

Ma Miliband esce comunque vincitore dall’agone elettorale delle amministrative: innanzitutto tradizionalmente le elezioni per il sindaco di Londra sono guidate più dal confronto delle personalità che dalle idee politiche. E Livingston, se da un lato è un candidato simpatico e poco incline al compromesso, va anche detto che alcune sue uscite velatamente anti-semite, e il sospetto di movimenti non chiarissimi di milioni di sterline che coinvolgono la sua amministrazione della capitale, ne hanno depauperato non poco il capitale politico. Inoltre, a causare la sconfitta laburista di Londra è stato un numero limitato di voti.

Ma soprattutto ad incoronare Ed Miliband è il grande successo ottenuto dal partito nel Paese, al di là dell’incidente di Londra. Come ricorda il commento politico del Guardian, il 38% dei consensi, pur lontanto dal 43% dei tempi di Blair, non è poi troppo lontano da quel 40% che viene considerato la garanzia di vittoria alle elezioni generali nazionali. Sembra funzionare, insomma, la strategia del nuovo capo del partito del lavoro britannico, che ha abbandonato la deleteria strada di sorpassare a destra i conservatori.

In effetti, anche la composizione del consiglio comunale della Capitale del Regno dopo le elezioni conferma una situazione politica contraddittoria rispetto alla vittoria di facciata del candidato conservatore: i Tory perdono due seggi, passando da 11 a 9; i laburisti ne guadagnano ben quattro, che, sommati agli otto pre-esistenti, portano il loro numero a 12, cosa che ne fa il gruppo in maggioranza relativa; débacle per i liberaldemocratici, che perdono uno dei loro tre seggi. Al momento, insomma, le opposizioni non sono in grado di bloccare la legge di spesa di Johnson, ma perfino gli elettori di Londra hanno dato un segnale chiaro.

I conservatori potranno anche festeggiare il successo di Johnson, ma le cose non vanno certo bene per il partito. Pare infatti che gli elettori conservatori più destrorsi abbiano letto l’indebolimento dei consensi dei Tories come la conseguenza della strategia centrista adottata da Cameron, dettata da questioni di opportunismo in generale e dalla contingenza dell’alleanza con i Liberaldemocratici in particolare: basta insomma, con queste sciocchezze come i diritti delle persone omosessuali, cari agli alleati liberal-democratici. E' possibile perciò che i conservatori tentino ora un rilancio con politiche più chiaramente reazionarie.

Insomma, guai in vista per Cameron, che peraltro si potrebbe trovare un nuovo nemico in casa: Boris Johnson, indubbiamente rafforzato dall rinnovato mandato a Londra. Il sindaco Tory, peraltro, deve già fronteggiare la prima grana: le dimissioni, date ormai per certe, del suo numero due Guto Harri, che avrebbe accettato un nuovo incarico nell’alta dirigenza a News International di Murdoch, che, dopo una stagione segnata da gravissimi scandali, suicidi ed arresti tenta disperatamente di risollevare la sua immagine.

 

di Carlo Musilli

In Serbia si è chiuso un weekend di bulimia elettorale: sette milioni di persone chiamate alle urne per scegliere un nuovo presidente, nuovi parlamentari e perfino nuovi amministratori locali. Sulla carta sarebbe possibile un vero sconvolgimento, ma la sensazione è che il destino del piccolo Paese balcanico sia già legato alla volontà di Bruxelles. Lo scorso primo marzo è arrivato il via libera alla candidatura per l'ingresso nell'Ue e, comunque siano andate le ultime consultazioni, il cammino della Serbia verso l'Europa non dovrebbe più essere in discussione.

Questo ovviamente significherà un surplus di austerity per una popolazione già ridotta alla fame. Fra i compiti del Parlamento in arrivo - ad esempio - ci sarà la riduzione del rapporto deficit-Pil fino al 4,25%, come già concordato con il Fondo Monetario Internazionale.

E' praticamente certo che il prossimo presidente serbo non ostacolerà questo percorso. I candidati alla poltrona più prestigiosa sono ben 12, ma i grandi favoriti al primo turno sono solo due, gli stessi di quattro anni fa: il riformista filoeuropeo Boris Tadic, presidente uscente, e il conservatore nazionalista Tomislav Nikolic, capo dell'opposizione. A meno di miracoli, saranno loro a contendersi lo scettro nel ballottaggio in programma fra due settimane. Fondamentali saranno i voti dei socialisti guidati da Ivica Dacic, nella scorsa legislatura alleato di Tadic e ministro degli Interni, in passato portavoce di Slobodan Milosevic.

Nel corso della campagna elettorale, per la prima volta l'adesione all'Ue non è stata un argomento centrale. I due super favoriti hanno anche evitato di toccare con troppa enfasi il tasto più incandescente a livello internazionale, quello del Kosovo. Sulla ex provincia proclamatasi indipendente nel 2008 i serbi si esprimeranno con un voto organizzato dall'Ocse. Ma anche su questo fronte sembra che a Bruxelles dormano sonni tranquilli: qualunque sia la composizione del nuovo governo, nessuno oserà tornare ai vecchi toni delle rivendicazioni territoriali.

Alle elezioni di quattro anni fa l'Europa aveva appoggiato apertamente Tadic. Il voto arrivava ad appena quattro mesi dalla secessione dei kosovari e il timore era che il Paese potesse ripiombare nel nazionalismo.

La vera novità di oggi è lo sdoganamento internazionale di Nikolic: pur continuando a preferire l'ex presidente, l'Ue non ritiene più che il suo avversario rappresenti una minaccia. Questo non toglie che l'ok alla candidatura per l'ingresso nell'Unione sia stata letta da molti come un indiretto sostegno al vecchio amico Tadic, che non ha mancato di esaltare il fatto come un successo personale.

Quanto alla battaglia per i seggi in Parlamento, è un'altra storia. Da questo punto di vista le parti sono invertite rispetto alle presidenziali: prima del voto era dato in vantaggio il partito di Nikolic (Sns), che secondo i sondaggi potrebbe staccare i democratici di Tadic di ben cinque punti (33% a 28%). A quel punto la strada più probabile dovrebbe essere l'alleanza con i nazionalisti di Vojislav Kostunica per creare la coalizione di governo.

Ma si tratterebbe di un matrimonio problematico, perché Kostunica è rimasto l'unico vero spauracchio euroscettico. Non è poi da escludere che i socialisti prendano abbastanza voti da compensare il gap e che il trucchetto di Tadic dia i suoi frutti: l'ex presidente ha scelto le dimissioni proprio per far in modo che tutte le elezioni si svolgessero lo stesso giorno, nella speranza che questo gli consenta di recuperare un po' di terreno alle legislative.

Intanto i serbi hanno altro a cui pensare. La disgregazione sociale del Paese è grave e ad approfittarne potrebbe essere Dveri, un nuovo partito di estrema destra, intollerante e xenofobo, che rischia di entrare in Parlamento superando la soglia di sbarramento al 5%.

Non è sbagliato parlare di euroscetticismo diffuso (anzi, il 70% della popolazione si dice contrario perfino all'ingresso nella Nato). Il malcontento dei cittadini è però legato in primo luogo alla pesantezza della crisi economica. La disoccupazione è arrivata al 23% (+10% negli ultimi quattro anni) e per i fortunati che ancora hanno un lavoro lo stipendio medio è di 360 euro al mese.

L'economia sommersa è pari a un terzo del Pil, per un valore di quattro miliardi l'anno. Solo nell'ultimo quadriennio la moneta serba, il dinaro, ha perso il 30% del suo valore e il debito pubblico è cresciuto del 16%, a 14,4 miliardi di euro. Chi è andato a votare ieri lo ha fatto sperando in migliori prospettive di lavoro, in un salario più dignitoso, in uno Stato meno corrotto. Difficile che tutto questo possa arrivare dalla grande famiglia Ue. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Michele Paris

Come ampiamente previsto, i due principali partiti greci hanno subito una pesante sconfitta nelle elezioni anticipate di domenica. La Nuova Democrazia (ND) e il Partito Socialista (PASOK), secondo le proiezioni, avrebbero ottenuto complessivamente circa il 33% dei consensi, un risultato che rende incerta la creazione di un governo di unità nazionale, anche con il premio di maggioranza assegnato al partito con il maggior numero di voti.

ND e PASOK avevano dominato le elezioni del 2009, nelle quali si erano aggiudicati il 77% dei voti totali. Il partito di centro-destra guidato da Antonis Samaras è diventato il primo partito greco, ma il 20% circa raccolto si traduce in una perdita di almeno 13 punti percentuali rispetto a tre anni fa.

Decisamente più grave è stata la punizione inflitta al PASOK, crollato dal 44% al 14%, dietro addirittura alla Coalizione della Sinistra Radicale (SYRIZA) che ha più che triplicato il risultato del 2009, conquistando oltre il 16%. Meglio del 2009 ha fatto anche il Partito Comunista Greco (KKE), il quale, dopo una campagna elettorale nella quale ha chiesto apertamente l’uscita di Atene dall’eurozona, è salito attorno al 9%.

Se pure l’ND e il PASOK dovessero riuscire a continuare l’alleanza di governo che da qualche mese sostiene il primo ministro tecnico Lucas Papademos, la loro maggioranza sarebbe estremamente ridotta e, anche includendo un terzo partito in un’eventuale coalizione, tutt’altro che stabile. In caso di mancato accordo o senza una chiara maggioranza, si renderanno invece necessarie nuove elezioni a breve, come molti avevano previsto nei giorni scorsi.

Dopo avere ammesso il tracollo del suo partito, il leader del PASOK, Evangelos Venizelos, già domenica sera ha fatto appello ad un governo di unità nazionale per continuare l’implementazione delle misure di austerity richieste dagli ambienti finanziari internazionali. Gli stessi vertici dell’ND, alla vigilia del voto poco propensi ad un accordo di governo con il PASOK, hanno a loro volta ammorbidito le loro posizioni visto la deludente prestazione del loro partito.

In quello che si prospetta come il più frammentato parlamento greco dal ritorno alla democrazia, il partito neo-nazista Alba Dorata otterrà per la prima volta dei seggi dopo essere passato dall’irrilevanza del recente passato ad un risultato compreso tra il 6 e l’8%. L’altro partito di estrema destra, il Raggruppamento Popolare Ortodosso (LAOS), è invece sceso dal 5,6% al 3% circa, pagando il sostegno garantito al governo Papademos.

Oltre alle formazioni di sinistra e di estrema destra, a beneficiare del voto di protesta è stato anche il partito dei Greci Indipendenti recentemente creato da fuoriusciti ND, in grado di superare il 10% grazie ad un messaggio di stampo nazionalista. Il suo leader, Panos Kammenos, ha già escluso di voler entrare in una coalizione con l’ND o il PASOK.

Ciò che è emerso chiaramente dal voto di ieri è dunque il chiarissimo rifiuto da parte della grande maggioranza degli elettori greci delle politiche di rigore profondamente anti-democratiche adottate negli ultimi tre anni e che hanno prodotto una crisi economica e sociale dai contorni drammatici. La maggioranza del voto è andata infatti alle forze politiche contrarie totalmente o in parte ai termini dell’accordo siglato tra la troika (UE, FMI, BCE) e Atene sul pacchetto di aiuti al paese.

Ciò che si prospetta, in ogni caso, è un periodo di instabilità durante il quale aumenteranno le pressioni dell’Europa e dei mercati finanziari affinché qualsiasi governo si installerà ad Atene mantenga gli impegni presi nel recente passato in cambio dell’erogazione della seconda tranche del prestito negoziato lo scorso marzo. In particolare, la Grecia è attesa da un appuntamento delicato a giugno, quando dovrà trovare altri 11 miliardi di euro di tagli alla propria spesa pubblica.

Secondo la costituzione greca, il presidente, Karolos Papoulias, chiederà ora al leader del primo partito uscito dal voto di provare a formare un nuovo governo. Nel caso il tentativo dovesse fallire, l’incarico verrà assegnato ai leader delle altre formazioni con più seggi e, in assenza di una maggioranza adeguata, nuove elezioni dovranno essere indette in circa tre settimane.

di Fabrizio Casari

Diciassette anni dopo Francoise Mitterrand, Francois Hollande, socialista, è il nuovo Presidente della Repubblica francese, avendo battuto al ballottaggio il Presidente uscente Sarkozy, tra i peggiori capi di Stato della storia moderna d’Oltralpe. Un risultato che era prevedibile sia in virtù dei sondaggi, sia perché mai era accaduto che il presidente uscente fosse uscito dal primo turno elettorale in svantaggio nei confronti dello sfidante.

A nulla sono valse le sue bassezze elettorali, quali l’agitare lo spettro dell’isolamento francese in Europa, indicando nei mercati internazionali i primi avversari delle tesi socialiste e della stessa persona di Hollande, prefigurando sciagure finanziarie per i Transalpini.

L’inquilino - ora sfrattato - dell’Eliseo, nella disperata rincorsa ai voti dell’estrema destra, aveva apertamente dichiarato di voler assumere alcuni dei temi agitati dai lepenisti come agenda politica per il prossimo mandato, violando così la tradizione repubblicana gaullista che mai aveva avuto tentennamenti nei confronti della destra, sapendo discernere con nettezza le politiche conservatrici da quelle apertamente reazionarie.

Sarkozy, dunque, ha pagato amaramente sia il suo narciso egocentrismo, sia aver rotto il patto costituzionale storico francese, che impone la salvaguardia dei valori repubblicani nati dalla guerra di liberazione dal nazifascismo.

Alcuni degli analisti e dei commentatori rilevano come, dal momento che la somma dei voti al primo turno ha mostrato una maggioranza di destra nell’elettorato francese, più che la vittoria di Hollande la Francia abbia voluto sconfiggere Sarkozy. A riprova di questa tesi si ricorda che i conservatori, forti del 9% dei voti, abbiano detto sin dal giorno successivo al primo turno che non avrebbero dato indicazioni di voto per Sarkozy ed è anche vero che la stessa Le Pen ha rifiutato d’indicare in Sarkozy un’ipotesi di voto per il suo elettorato. Il disprezzo per l’ex inquilino dell’Eliseo ha indubbiamente attraversato il paese intero.

Ma ritenere questi gli elementi decisivi sarebbe limitato: sostenere che il mancato appoggio dell’elettorato reazionario francese sia la causa dell’esito finale, quindi in sostanza affermare che Hollande abbia vinto solo perché Sarkozy ha perso, è una lettura errata, aritmetica e non politica.

Una lettura tende ad “italianizzare” la Francia, giacché si fonda sul paradigma solo italiano che somma l’accozzaglia neofascista con la destra e il centro-destra pur di veder prevalere lo schieramento reazionario e conservatore, mentre in Francia ciò non è realizzabile. La sommatoria dei voti resta numerica, non diventa politica: in Francia non sono sommabili i due elettorati e le due leadership (conservatori e reazionari), mentre lo sono (purtroppo) in Italia.

Sarkozy ha perso perché ha esibito uno stile di governo di scarsa eleganza, che ha caratterizzato la sua corte con gossip, tradimenti, voltafaccia, corruzione e un livello privo di profilo presidenziale nell’agire politico e personale, che ha spesso sovrapposto il grottesco della sua figura personale con il ruolo austero di quella istituzionale (ricorda qualcuno?). Sul piano delle scelte politiche, poi, ancora peggio: è stato l’interprete di una linea di politica economica e sociale priva di respiro e autonomia, avendo letteralmente sposato le tesi tedesche sull’Europa e consegnato il paese alle unghie del rapace teutonico. Il prezzo della guerra elettorale di Libia ha poi svelato l’ambizione e la disperazione dell’ex-presidente e il tentativo di scaricare anche il suo ex-sodale e amico, Berlusconi, ha solo offerto un’ulteriore lettura dell’opportunismo e del cinismo del marito di Carla Bruni.

Hollande ha caratterizzato il suo programma con la proposta di patrimoniale, la difesa del salario minimo e dell’indennità di disoccupazione, la volontà di non rimanere inerti di fronte alla speculazione finanziaria, disegnando in senso progressista il programma di governo e rimettendo al centro del dibattito politico la Francia e non solo l’Europa. Convinto di dover improntare il suo programma elettorale al recupero della dimensione centrale del welfare nel sistema economico e nella promessa di riformare le linee rigoriste dell’impianto ideologico europeo, il neo presidente socialista si è detto convinto di dover ristabilire la relazione con Berlino quale asse centrale delle politiche europee, ma riequilibrando i pesi specifici tra i due paesi e imponendo un significativo cambio di rotta che metta al centro la crescita economica in luogo della centralità esclusiva di quella finanziaria.

La vittoria di Hollande avrà comunque dei riflessi importanti nello scenario internazionale. Le tendenze sempre più forti ad una revisione sostanziale delle linee del patto finanziario europeo, uniscono infatti una parte cospicua dell’elettorato europeo e sono decisamente sostenute dagli Stati Uniti, che insieme ai paesi del BRICS imputano ormai alle politiche della BCE una minaccia gravissima alla stabilità ed alla ripresa del ciclo economico internazionale.

E' poi un’autentica doccia fredda per la signora Merkel, che deve affrontare le elezioni odierne in alcuni Leander non semplici e che si trova ormai con lo spettro delle politiche che potrebbero decretare la fine del suo regno; intanto la notizia che arriva dalla Francia dice chiaro che non disporrà più di un cameriere all’Eliseo.

E, tornando a Parigi, tra circa un mese le legislative determineranno sia maggioranza e  minoranza parlamentare che la compagine governativa, ma risentiranno certamente della crisi dei conservatori che, da oggi, si apre in tutta la sua ampiezza. D’altra parte il peso che la sinistra del Front de Gauche e dei Verdi (che hanno votato in massa per Hollande) otterranno nelle legislative sarà decisivo per il sostegno ai socialisti, che s’immagina possano ricevere un ulteriore spinta dalla vittoria nelle presidenziali.

Sarkozy, nel confronto televisivo che l’aveva opposto al suo sfidante, aveva sostenuto che la Francia non aveva bisogno di un presidente “normale”, con cìò indicando come il leader socialista fosse privo di brillantezza e autorevolezza necessarie per guidare il paese. Ma l’elettorato francese ha invece dimostrato che la congiuntura internazionale deve riprendere a camminare su due gambe: quella che poggia sul recupero di sovranità economica e politica della Francia, in una logica europea basata sulla Carta di Roma più che sul Trattato di Lisbona e l’altra fondata su uno stile di governo ed una moralità che sappiano indicare sobrietà e giustizia sociale nella distribuzione dei carichi di sacrifici. Un Presidente “normale” è dunque necessario per il futuro, tanto quanto era necessario archiviare una macchietta che volle farsi re.

di Michele Paris

Gli elettori greci che si recheranno alle urne domenica per scegliere il nuovo parlamento si apprestano con ogni probabilità ad infliggere una severa lezione ai principali partiti politici che hanno applicato le politiche di austerity dettate dagli ambienti finanziari internazionali, gettando il paese in una situazione a dir poco disastrosa. Nell’imminente voto anticipato, la Nuova Democrazia (ND) e, soprattutto, il Partito Socialista (PASOK) andranno così incontro ad un vero e proprio tracollo, a tutto beneficio delle formazioni politiche estreme di destra e di sinistra che in questa campagna elettorale hanno alimentato l’illusione di un percorso alternativo per il paese europeo maggiormente colpito dalla crisi del debito.

I più recenti sondaggi assegnano al PASOK un consenso più che dimezzato rispetto al 2009, quando vinse le elezioni con il 44% dei voti. Meno pesante dovrebbe essere invece il calo dell’ND di centro-destra, attestato attorno al 22% contro il 33% di tre anni fa. I due più importanti partiti greci pagano ovviamente il loro sostegno all’attuale governo tecnico guidato dall’ex governatore della Banca Centrale, Lucas Papademos, succeduto nel novembre dello scorso anno al leader del PASOK, George Papandreou, già scrupoloso esecutore delle misure draconiane richieste da Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale in cambio del cosiddetto “piano di salvataggio”.

In netta crescita appaiono al contrario i partiti di opposizione della sinistra che approfitteranno dell’emorragia di voti del PASOK - Coalizione della Sinistra Radicale (SYRIZA), Partito Comunista Greco (KKE) e Fronte della Sinistra Anti-Capitalista (ANTARSYA) - e della destra, su cui convergerà parte degli elettori dell’ND ma anche del Raggruppamento Popolare Ortodosso (LAOS) di estrema destra, anch’esso facente parte della coalizione che appoggia il premier Papademos.

I due partiti della destra greca in ascesa sono i Greci Indipendenti, una formazione creata recentemente da fuoriusciti dell’ND, e il movimento neo-nazista Alba Dorata, accreditato dai sondaggi di circa il 5%. Complessivamente, si prevede che saranno una decina i partiti in grado di superare la soglia di sbarramento del 3%, facendo nascere il parlamento greco più frammentato dalla fine del regime militare nel 1974.

Il primo partito dopo le elezioni di domenica dovrebbe dunque tornare ad essere la Nuova Democrazia ma, secondo le previsioni, il suo leader Antonis Samaras, per diventare primo ministro, dovrà accontentarsi di formare una scomoda alleanza di governo con il PASOK. Insieme, i due partiti potrebbero sfiorare quota 40%, forse abbastanza per ottenere la maggioranza in parlamento, dal momento che la legge elettorale greca prevede un premio di 50 seggi per il partito che raccoglie più voti.

I vertici dell’ND hanno però già fatto intendere di non essere particolarmente entusiasti di entrare in una nuova coalizione con il PASOK, che si baserebbe peraltro su un una maggioranza risicata e su un partito di centro-sinistra gravemente screditato dall’esito elettorale. L’altra ipotesi sarebbe quella di un’alleanza che includa i partiti minori, magari tra il PASOK e le sinistre, la quale darebbe vita in ogni caso ad un governo ugualmente instabile e precario.

Per questa ragione, molti leader politici greci, soprattutto dell’ND, parlano già apertamente di altre elezioni entro pochi mesi, qualcuno addirittura già a giugno, se non si riuscirà a mettere assieme una maggioranza stabile. L’aspirazione dell’ND sarebbe appunto di ottenere una chiara vittoria in un secondo round elettorale nel 2012, così da formare in autonomia un governo che continui ad ubbidire prontamente all’UE e all’FMI, contrariamente alla volontà espressa in maniera chiara dalla vasta maggioranza della popolazione greca.

Che le vie alternative per Atene dopo il voto non siano molte è reso evidente dalle scadenze fissate dalla troika (UE, FMI, BCE) con cui il governo Papademos ha raggiunto l’accordo per il prestito da 173 miliardi di euro lo scorso marzo. In una situazione di impoverimento diffuso, di gravissima recessione e con una disoccupazione ufficialmente al 14%, la Grecia dovrà infatti tagliare la propria spesa pubblica di altri 11,5 miliardi di euro entro giugno. Anche un eventuale nuovo esecutivo formato da forze attualmente all’opposizione, che si dicono contrarie all’austerity o che chiedono di rinegoziare l’accordo con UE/FMI, sarebbe perciò esposto ad enormi pressioni da parte degli ambienti finanziari internazionali per ritrattare in fretta le promesse elettorali.

Come ha significativamente scritto ieri il Wall Street Journal, se la Grecia non avrà un governo stabile e pronto a mettere in atto ulteriori privatizzazioni, tagli alla spesa e licenziamenti nel settore pubblico, l’Unione Europea e il Fondo Monetario potrebbero sospendere gli aiuti finanziari, aggravando la crisi politica e sociale nel paese con conseguenze sull’intera unione monetaria.

A ribadire l’accoglienza riservata ad un eventuale gabinetto che mostrerebbe anche solo qualche esitazione nel rispettare gli impegni internazionali è stata, ad esempio, una recente analisi di Bank of America citata sempre ieri dalla Reuters, nella quale si afferma che “la paralisi politica in Grecia dopo le elezioni potrebbe portare al default e addirittura all’uscita dall’euro”. Per questo, continua il documento della banca statunitense, “crediamo che la troika non potrebbe avere altra scelta che congelare i fondi diretti alla Grecia se non ci sarà un governo stabile”.

Inoltre, visto che Atene nel recente passato ha più volte mancato alcuni degli obiettivi di rigore imposti da UE/FMI, in molti ritengono che da parte di questi ultimi ci sarebbe ora ancora meno tolleranza verso leader greci intenzionati a rinegoziare l’accordo, anche per evitare un destabilizzante effetto domino in altri paesi europei dove, come in Grecia, le politiche di austerity sono estremamente impopolari.

Come esempio della sorte a cui andrebbe incontro un governo democraticamente eletto che manifestasse l’intenzione di discostarsi dai diktat di Unione Europea e Fondo Monetario, per quanto riguarda la Grecia, c’è d’altra parte quello del gabinetto Papandreou. Quando il leader del PASOK lo scorso ottobre annunciò un possibile referendum popolare sul pacchetto di salvataggio da poco approvato a livello europeo, venne infatti travolto dalle critiche e fu costretto a dimettersi di lì a pochi giorni.

In definitiva, anche se i media occidentali continuano a ipotizzare che un’affermazione delle forze di sinistra ad Atene, assieme ad una eventuale vittoria nelle presidenziali francesi del candidato socialista François Hollande, potrebbe produrre un ripensamento generale delle politiche di rigore, le pressioni e i ricatti dei mercati finanziari farebbero in modo, tutt’al più, di limitare i cambiamenti a qualche concessione di secondaria importanza, lasciando sostanzialmente invariato il drammatico quadro generale nei paesi europei più in difficoltà come la Grecia.


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