di Michele Paris

Qualche giorno fa, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha stabilito la legalità dell’estradizione verso gli Stati Uniti di cinque accusati di terrorismo da tempo detenuti in Gran Bretagna. L’importante sentenza, oltre a segnare un precedente nefasto e ad assestare un colpo gravissimo ai diritti democratici dei cittadini, per i sospettati in questione apre la strada alla detenzione a vita in un carcere di massima sicurezza in territorio americano.

Tra i cinque accusati, il più famoso è Abu Hamza al-Masri, egiziano di nascita e già predicatore radicale a capo della famigerata moschea di Finsbury Park, a Londra, da dove prima dell’11 settembre sono passati numerosi estremisti islamici coinvolti in svariati attentati portati a termine o falliti.

Nel 2006, Masri fu processato e condannato a sette anni di carcere in Gran Bretagna per aver incitato alla jihad nei suoi discorsi. Masri, il quale ha perso un occhio e l’avambraccio destro in un’esplosione in Afghanistan nel 1989, deve fronteggiare negli USA undici capi d’imputazione in relazione a rapimenti di turisti in Yemen nel 1998, incitamento alla guerra santa in Afghanistan nel 2001 e per il tentativo di istituire un campo di addestramento per militanti a Bly, in Oregon, tra il 2000 e il 2001.

Gli altri quattro, invece, non mai stati accusati formalmente né processati in Gran Bretagna ma rimangono incarcerati secondo le consuetudini pseudo-legali adottate anche in questo paese dopo l’11 settembre e il lancio della guerra al terrore.

Tra di essi vi è Babar Ahmad, cittadino britannico detenuto da otto anni durante i quali è stato sottoposto a ripetuti abusi psicologici e sessuali. Arrestato per la prima volta nel 2003, Ahmad ricevette dal governo di Londra svariate decine di migliaia di sterline come riparazione per il trattamento subito, anche se è rimasto in carcere in seguito alla richiesta di estradizione dagli Stati Uniti. Assieme a Seyla Talha Ahsan, Babar Ahmad è accusato di aver gestito in Inghilterra dei siti web radicali legati ad Al-Qaeda tra il 1997 e il 2004. La giustificazione per la richiesta di estradizione americana è la registrazione in Connecticut dei server utilizzati.

Gli ultimi due accusati - Adel Abdul Bary e Khaled al-Fawwaz, rispettivamente egiziano e saudita - sono detenuti senza processo da dodici anni e vennero arrestati per la loro presunta responsabilità negli attentati del 1998 contro le ambasciate americane di Dar es Salaam, in Tanzania, e di Nairobi, in Kenya, che fecero più di 200 morti. Il destino di un ultimo accusato, Haroon Rashid Aswat, resta ancora da stabilire, mentre gli altri cinque sui quali la Corte con sede a Strasburgo ha deciso martedì avranno tre mesi di tempo per presentare appello alla cosiddetta Grande Camera con ben poche probabilità di successo.

Le richieste di estradizione dagli Stati Uniti sono state emesse in base ad un trattato con la Gran Bretagna siglato all’indomani dell’11 settembre. Questo trattato concede ampi poteri alle autorità giudiziarie britanniche sulla sorte dei sospettati e afferma che chiunque abbia commesso reati che infrangono la legge americana, anche se commessi in Gran Bretagna, possa essere estradato negli USA. Inoltre, gli Stati Uniti non sono tenuti a presentare prove delle accuse, bensì soltanto “ragionevoli sospetti”.

Il caso di Masri e degli altri sospettati di terrorismo era finito davanti alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo dopo che le autorità britanniche avevano dato l’OK alla loro estradizione. Per ottenere il parere positivo di queste ultime, da Washington erano stati costretti ad assicurare, come se fosse necessario per un paese civile, che gli accusati non sarebbero stati sottoposti a “rendition”, che avrebbero avuto processi in corti federali civili e non sarebbe stata chiesta per loro la pena capitale.

Il trasferimento negli Stati Uniti era stato comunque bloccato nel luglio 2010 in attesa di un parere della stessa Corte, la quale in quell’occasione aveva espresso il timore che gli accusati avrebbero potuto andare incontro negli USA a “punizioni inumane e degradanti”, proibite dalla legislazione europea. Tra le questioni che preoccupavano maggiormente la Corte vi erano l’eventualità di una detenzione prolungata in stato di isolamento e la prospettiva dell’ergastolo senza possibilità di libertà sulla parola.

Con la sentenza di martedì la stessa Corte ha invece stabilito che questi punti non rappresentano una violazione dei diritti umani degli accusati. L’isolamento, infatti, sarebbe “una modalità di vita normale” nelle prigioni di massima sicurezza come quella in Colorado che attende i cinque presunti terroristi. Inoltre, qui essi avrebbero a disposizione attività e servizi che “superano quelli offerti dalla maggior parte delle carceri europee”. La detenzione a vita e senza libertà sulla parola, secondo i membri della Corte, appare infine “proporzionata alla serietà delle accuse in questione”.

Prima di essere verosimilmente destinati al carcere di Florence, in Colorado, tre degli accusati - Masri, Bary e Fawwaz - finiranno con ogni probabilità sotto custodia in un carcere di Manhattan, dove contro di loro sono aperti dei procedimenti presso la Corte federale del distretto meridionale di New York.

Sulla decisione presa dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo hanno pesato le pressioni di molti politici britannici, il quali alla vigilia avevano sostenuto che un verdetto contro l’estradizione avrebbe danneggiato gravemente i rapporti tra Washington e Londra. Per altri, addirittura, un parere a favore agli accusati avrebbe dovuto far considerare al governo il ritiro della Gran Bretagna dalla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, la quale ha appunto istituito la Corte nel 1959.

Tanto più che lo scorso gennaio la stessa Corte aveva respinto la richiesta di estradizione verso la nativa Giordania di Abu Qatada, un altro predicatore radicale accusato di essere uno dei leader di Al-Qaeda in Nord Africa, detenuto senza processo in Gran Bretagna dal 2005 e rilasciato solo nel mese di febbraio. Il caso Qatada aveva sollevato le proteste del premier David Cameron e del presidente francese, Nicolas Sarkozy, entrambi molto critici nei confronti della Corte Europea.

La nuova attitudine della Corte, confermata dalla sentenza di questa settimana, ha implicazioni che vanno ben al di là delle questioni relative al terrorismo. Solo qualche settimana fa, infatti, un’altra sentenza a dir poco discutibile aveva deliberato l’estradizione negli USA di uno studente britannico, Richard O’Dwyer, accusato di aver violato la legge sul diritto d’autore con il suo sito che proponeva dei link ad altri siti che offrivano il download di programmi televisivi protetti da copyright.

Soprattutto, la decisione di martedì sembra preannunciare la sorte del fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, in attesa dell’imminente sentenza d’appello presso la Corte Suprema britannica circa la sua estradizione in Svezia - e da qui negli Stati Uniti - per fronteggiare accuse di stupro gonfiate e politicamente motivate. Se la Corte Suprema di Londra dovesse infatti negare il ricorso di Assange, la sua ultima speranza sarebbe appunto la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo.

di Michele Paris

Con un annuncio a sorpresa, martedì Rick Santorum ha improvvisamente abbandonato la corsa alla nomination per il Partito Repubblicano, lasciando via libera al già favoritissimo rivale interno, Mitt Romney. Le chances dell’ex senatore ultraconservatore della Pennsylvania di diventare il candidato repubblicano per la Casa Bianca erano in realtà svanite da tempo, anche se sembrava sussistere un’esile speranza di giocarsi il tutto per tutto in una convention “aperta” a fine agosto, uno scenario peraltro estremamente remoto nel panorama politico moderno degli Stati Uniti.

L’annuncio ufficiale del ritiro è andato in scena a Gettysburg, nella sua Pennsylvania, le cui primarie del prossimo 24 aprile erano viste fino a un paio di giorni fa come l’ultima spiaggia per la sua campagna, al termine di un mese complicato e in vista di stati più favorevoli che avrebbero dovuto invece votare a maggio. A fianco della moglie in lacrime e di quattro dei suoi sette figli, il figlio di immigrati italiani originari di Riva del Garda ha tenuto un discorso di pochi minuti in una sala conferenze di un piccolo hotel, affermando che la decisione di lasciare era stata presa già nel fine settimana e che, nonostante “questa corsa alla presidenza per noi è finita, non smetteremo di lottare”.

Come da copione per i candidati alla Casa Bianca, fino a lunedì Santorum e il suo staff avevano assicurato di voler rimanere in corsa ancora a lungo. Le indiscrezioni su un suo possibile ritiro erano però iniziate a circolare da qualche giorno dopo il ricovero in ospedale avvenuto venerdì scorso della sua ultima figlia di tre anni, Bella, affetta da una grave malattia genetica (Trisomia 18 o Sindrome di Edwards).

Il dramma familiare di Santorum ha forse fornito l’occasione all’ex senatore di abbandonare con onore la corsa ad una nomination che sembrava sempre più lontana. L’esito della competizione ha così evitato una disputa prolungata all’interno del partito che avrebbe potuto compromettere una già difficile sfida a Barack Obama il prossimo novembre. Per questo, gli stessi vertici repubblicani avevano progressivamente aumentato le pressioni su Santorum per interrompere la corsa, soprattutto dopo la decisiva sconfitta della settimana scorsa in Wisconsin.

La permanenza nella competizione fino ad aprile inoltrato, malgrado meno della metà dei delegati conquistati rispetto a Romney, è stata dovuta principalmente al consenso raccolto da Santorum tra le frange di estrema destra del partito, in particolare tra gli evangelici e gli affiliati ai Tea Party che, insieme, compongono una consistente fetta dell’elettorato repubblicano, in particolare nel sud del paese.

Questo successo, assieme allo scetticismo dei votanti più conservatori nei confronti di Romney, ha così permesso a Santorum di vincere inaspettatamente una serie di primarie, a cominciare dai caucus dell’Iowa che avevano aperto la stagione elettorale 2012 ai primi di gennaio.

Il fattore finanziario ha anch’esso avuto un ruolo fondamentale nella decisione presa da Santorum. Costretto fin dall’inizio a gestire una complessa campagna con mezzi limitati, quest’ultimo ha visto a poco a poco scemare l’entusiasmo dei suoi più generosi donatori. La mancanza di fondi avrebbe inoltre determinato con ogni probabilità una sconfitta devastante in Pennsylvania - dove Romney aveva pianificato un massiccio investimento di denaro - determinando a sua volta un ulteriore calo delle entrate per finanziare la campagna del mese di maggio.

La conquista di fatto della nomination rappresenta invece per Romney il coronamento di un sogno perseguito almeno fin dal 2007, quando scese in campo per succedere a George W. Bush ma fu sconfitto precocemente da John McCain nonostante l’ampio vantaggio in termini di disponibilità finanziarie. La possibilità di correre per la Casa Bianca è costata a Mitt Romney in questi anni decide di milioni di dollari e lo ha costretto a rinnegare praticamente ogni opinione o iniziativa di stampo moderato che avevano caratterizzato la sua precedente carriera politica, così da accreditarsi come autentico conservatore.

Pur esponendosi alle accuse d’incoerenza e trasformismo, grazie soprattutto alle donazioni incassate da finanziatori in gran parte di Wall Street, con i quali aveva coltivato proficui rapporti durante i suoi anni alla guida di una compagnia operante nel “private equity”, Romney ha assistito fin dallo scorso anno all’ascesa e alla più o meno rapida caduta di uno sfidante dopo l’altro, da Rick Perry a Michele Bachmann, da Herman Cain a Newt Gingrich, fino a Rick Santorum.

Dal Delaware, dove il 24 aprile si terranno le primarie dello stato, Romney ha accolto la notizia del ritiro del suo principale rivale elogiandolo per “l’importante contributo portato al processo politico” e, già preannunciando un’offensiva per ingraziarsi i suoi sostenitori, ha ringraziato Santorum per aver sollevato una serie di questioni che gli stanno molto a cuore. Un riferimento, quest’ultimo, ai temi sociali che l’hanno messo in difficoltà fin da subito con gli elettori conservatori.

L’addio di Santorum consentirà a Romney di risparmiare parecchio denaro che avrebbe dovuto spendere nelle prossime primarie in calendario, a cominciare proprio dalla Pennsylvania, dove la sua organizzazione aveva preventivato un esborso di quasi 3 milioni di dollari in campagne pubblicitarie, cioè un importo pari a circa il 40% del denaro totale a disposizione alla fine di febbraio. Il nuovo scenario, oltretutto, eviterà al miliardario mormone un’altra serie di sconfitte umilianti negli stati del sud che andranno alle urne a breve, come Arkansas o North Carolina.

Per Romney, in ogni caso, rimane aperta la questione del voto conservatore tutto da conquistare, proprio mentre si sta per aprire una nuova fase della campagna elettorale nella quale in genere i candidati alla Casa Bianca tendono a spostarsi su posizioni più moderate per attrarre il consenso degli elettori indipendenti.

L’essersi scrollato di dosso Santorum segna comunque una tappa importante nella corsa di Romney, il quale potrà ora dedicarsi alla raccolta di fondi per l’elezione generale, ma anche parlare delle questioni economiche invece dei temi sociali e concentrare i propri attacchi sul presidente Obama, la cui organizzazione per la rielezione ha da poco iniziato a prendere di mira il suo prossimo sfidante.

Nelle restanti primarie rimarranno ancora in corsa gli altri due sfidanti, il deputato libertario del Texas, Ron Paul, e l’ex speaker della Camera, Newt Gingrich, la cui presenza sulle schede elettorali è però solo simbolica, dal momento che nessuno dei due ha nemmeno la possibilità di aggiudicarsi una sola competizione da qui a giugno.

Per quanto riguarda Santorum, invece, oltre all’eventualità di ottenere un qualche incarico in un’ipotetica amministrazione Romney in cambio del suo abbandono e di un possibile “endorsement” a breve, secondo alcuni osservatori si potrebbe aprire un percorso nuovo che lo condurrebbe ad un secondo tentativo nel 2016, potendo contare su una consolidata rete di sostenitori e finanziatori, nonché su un panorama politico americano che continua a spostarsi sempre più a destra.

Il bilancio finale della sua corsa nelle primarie 2012 è stato di dieci vittorie in altrettanti stati con la conquista, secondo le stime della Associated Press, di 285 delegati, contro i 661 finora accumulati da Romney. Una parte dei delegati vinti, circa un terzo, erano cosiddetti “unbound” e cioè già liberi di votare qualsiasi candidato alla convention di agosto. Gli altri due terzi, al contrario, rimarranno vincolati a Santorum, costringendo Romney ad attendere ancora qualche settimana per raggiungere la soglia dei 1.144 delegati necessari per assicurarsi formalmente la nomination, a meno che l’ex senatore della Pennsylvania non dichiari in maniera ufficiale di lasciarli liberi di scegliere il candidato preferito.

di Michele Paris

I colloqui sul nucleare tra l’Iran e i cinque membri del Consiglio di Sicurezza ONU più la Germania riprenderanno nel fine settimana a Istanbul dopo lo stallo dell’ultimo round di negoziati nel gennaio 2011. La vigilia del summit è stata prevedibilmente animata dalle minacce di Stati Uniti e Israele verso Teheran e dall’imposizione di ultimatum e condizioni inaccettabili che già fanno presagire un nuovo fallimento dell’atteso vertice.

Negli ultimi giorni, da Washington e Tel Aviv sono giunte dichiarazioni nelle quali, in sostanza, in cambio della firma di un accordo, si chiede all’Iran di fermare l’arricchimento dell’uranio al 20%, il trasferimento di quello già arricchito a questo livello ad un paese estero “affidabile”, lo smantellamento dell’impianto sotterraneo di Fordo e l’apertura ad ispezioni a tappeto nel paese da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).

A ribadire le condizioni poste dall’Occidente e da Israele all’Iran per evitare ulteriori sanzioni, o un attacco militare, sono stati più recentemente il Ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, nel corso di un’intervista rilasciata domenica alla CNN e lo stesso Segretario di Stato americano, Hillary Clinton.

I rappresentanti iraniani dovrebbero incontrare quelli del gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania) a partire da sabato prossimo a Istanbul per trovare un punto di incontro sull’annosa questione del programma nucleare di Teheran. Le parti restano però molto lontane tra loro, come conferma la risposta alle imposizioni occidentali del Ministro degli Esteri iraniano. Secondo quanto riportato dalla stampa ufficiale, lunedì Ali Akbar Salehi ha infatti affermato che il suo paese non intende accettare le pre-condizioni stabilite dagli USA e dai loro alleati per la riapertura dei negoziati.

Che la Repubblica Islamica, o per lo meno alcuni settori all’interno del regime, intenda evitare l’ennesimo scontro frontale con l’Occidente in un momento in cui le sanzioni stanno danneggiando l’economia del paese, è apparso chiaro da altri segnali provenienti da Teheran. Sempre lunedì, il capo del nucleare iraniano, Fereydoun Abbasi, in un’intervista a una rete televisiva locale, ha lasciato intendere che Teheran potrebbe mostrare una certa flessibilità sullo stop all’arricchimento dell’uranio al 20%. Tutt’altro che chiara appare tuttavia al momento la posizione ufficiale che l’Iran terrà a Istanbul tra qualche giorno.

La gravità dello scontro tra Iran e Occidente era emersa nei giorni scorsi anche relativamente alla località prescelta per gli stessi colloqui. Da Teheran avevano cioè fatto sapere di non gradire Istanbul, verosimilmente a causa delle profonde divergenze con il governo turco su almeno due questioni: la Siria e la decisione di Ankara di ospitare sul proprio territorio un sistema di difesa anti-missile della NATO rivolto proprio contro l’Iran. Il premier turco Erdogan, recatosi a Teheran giusto qualche giorno prima, aveva reagito duramente alle polemiche su Istanbul, anche se alla fine il governo iraniano ha deciso di dare l’OK alla metropoli sul Bosforo.

Quanto alle già ricordate condizioni elencate dagli Stati Uniti e da Israele, invece, esse vengono poste precisamente per provocare una reazione negativa da parte iraniana, così da far naufragare i negoziati accusando Teheran e giustificare l’adozione di nuove pesanti sanzioni o un attacco militare contro le installazioni nucleari.

Oltre ad aver affermato ufficialmente in varie occasioni che il proprio governo non intende perseguire la costruzione di armi atomiche, l’Iran ha in ogni caso il diritto di sviluppare un programma nucleare a scopi civili, in quanto firmatario del Trattato di Non Proliferazione (TNP). L’impianto di Fordo, poi, è stato costruito in un ambiente più facilmente difendibile in seguito alle ripetute minacce di attacco militare da parte di USA e Israele.

La rinuncia a questa struttura appare perciò difficilmente accettabile, poiché significherebbe trasferire tutte le attrezzature operanti a Fordo in un sito più vulnerabile ai bombardamenti americani o israeliani. Le ispezioni dell’AIEA, infine, sono definite dallo stesso TNP e le richieste di visitare strutture non incluse dagli accordi già presi non sono mai state ratificate dall’Iran.

Ciononostante, le manipolazioni delle missioni AIEA e dei resoconti giornalistici seguiti alle ispezioni sono pratica corrente. A questo proposito, un articolo datato 20 marzo del giornalista investigativo americano Gareth Porter per l’agenzia IPS News ha smentito quanto riportato dai media occidentali e cioè che l’Iran si sarebbe rifiutato di collaborare con l’AIEA dopo la missione di quest’ultima a fine gennaio.

Basandosi su quanto rivelato dal rappresentante iraniano presso l’AIEA a Vienna, Ali Asghar Soltanieh, Porter scrive che durante l’ultima ispezione, l’agenzia aveva chiesto di recarsi alla base militare di Parchin - dove, secondo un rapporto della stessa AIEA del novembre 2011, erano emersi possibili indizi di un test nucleare a scopi militari - sconfessando un accordo con il governo iraniano che prevedeva una tale visita di lì a qualche settimana. Al comprensibile rifiuto di Teheran, il direttore generale dell’AIEA, Yukia Amano, con ogni probabilità dopo essersi consultato con Washington, ha ordinato il ritiro degli ispettori, respingendo l’invito fatto dall’Iran di rimanere per un altro giorno nel paese.

Inoltre, sempre secondo Soltanieh, durante la stessa visita, l’AIEA avrebbe preteso di riaprire una serie di questioni legate al programma nucleare alle quali l’Iran aveva già dato risposta. Per la Repubblica Islamica, accettare queste condizioni e tornare su argomenti già chiariti avrebbe innescato un “processo infinito”. La vicenda descritta da Gareth Porter rappresenta un perfetto esempio di come le missioni di un’agenzia ONU vengano manipolate dai suoi stessi vertici, dai governi occidentali e dai media per fabbricare accuse di mancata collaborazione con l’AIEA nei confronti dell’Iran, dove, di conseguenza, esisterebbe un programma nucleare militare da nascondere a tutti i costi.

Con questi pretesti, dunque, è possibile continuare ad alimentare le tensioni e ad esercitare pressioni sull’Iran, in primo luogo da parte di Israele, un paese che con il pieno appoggio degli Stati Uniti ha ammassato centinaia di testate nucleari non dichiarate pur non essendo firmatario del TNP e non accettando alcuna ispezione di organi internazionali sul proprio territorio.

Veri responsabili della destabilizzazione del Medio Oriente, Washington e Tel Aviv intendono assicurarsi che l’Iran non raggiunga nemmeno la capacità teorica di costruire un’arma nucleare, così da mantenere la propria supremazia militare nella regione e intraprendere campagne di aggressione senza incorrere in ritorsioni significative.

In ultima analisi, l’obiettivo rimane quello di piegare il governo di Teheran con sanzioni economiche e, eventualmente, un’aggressione militare per giungere a un cambio di regime che, una volta caduto anche Assad in Siria, consentirebbe di espandere l’egemonia statunitense dal Mediterraneo all’Afghanistan, un territorio sconfinato che conserva la maggior parte delle risorse energetiche del pianeta.

Oltre alle sanzioni implementate o annunciate nelle ultime settimane, gli Stati Uniti continuano a preparare il terreno anche per una possibile operazione militare, come conferma il recente invio di altre due portaerei (USS Abraham Lincoln e USS Enterprise) nel Golfo Persico. Altre provocazioni e attività illegali contro l’Iran sono state poi documentate da due recenti articoli apparsi su altrettanti media d’oltreoceano.

Settimana scorsa, sul New Yorker, Seymour Hersh ha citato fonti anonime di intelligence e degli ambienti militari, secondo le quali le forze speciali a stelle e strisce (JSOC) hanno regolarmente addestrato membri del gruppo terroristico Mujahedin-e-Khalq (MEK) - già impiegati dal Mossad per compiere attentati in territorio iraniano - per condurre operazioni sotto copertura. Il Washington Post, infine, ha pubblicato domenica scorsa una lunga indagine che descrive come i servizi segreti americani da oltre tre anni a questa parte utilizzino una flotta di droni per sorvolare l’Iran e raccogliere preziose informazioni nel paese mediorientale.

di Michele Paris

L’amministrazione Obama, qualche giorno fa, ha annunciato ufficialmente che i cinque detenuti a Guantanamo accusati di aver orchestrato la strage dell’11 settembre saranno processati in un tribunale militare speciale presso la base americana sull’isola di Cuba. Il presunto principale ideatore degli attacchi alle Torri Gemelle, Khalid Sheikh Mohammed, e gli altri quattro accusati dovranno fronteggiare accuse che prevedono la pena capitale in un procedimento nel quale saranno esclusi gran parte dei diritti basilari garantiti agli imputati in un normale processo civile.

Oltre al kuwaitiano Mohammed, davanti alla commissione militare appariranno anche gli yemeniti Walid bin Attash - accusato di aver reclutato e addestrato alcuni dirottatori - e Ramzi bin al-Shibh, uno degli architetti dell’11 settembre e membro della cosiddetta “cellula di Amburgo” che non ottenne tuttavia il visto per entrare negli Stati Uniti nel 2001; il pakistano Ali Abdul Aziz Ali (Ammar al-Baluchi), nipote di Mohammed, e il saudita Mustafa Ahmed al-Hawsawi, entrambi responsabili del trasferimento di denaro ai dirottatori dagli Emirati Arabi.

Tutti e cinque gli imputati sono stati arrestati in Pakistan tra il 2002 e il 2003, detenuti e torturati in prigioni segrete della CIA e trasferiti nel lager di Guantanamo nel settembre 2006. Khalid Sheikh Mohammed, in particolare, pare sia stato sottoposto per ben 183 volte a waterboarding, o annegamento simulato, così come ad altre forme di tortura per mano dei servizi segreti statunitensi prima di confessare le proprie responsabilità nei fatti dell’11 settembre e in svariati altri crimini reali o presunti.

La decisione presa questa settimana dal Pentagono è il risultato dell’inversione di rotta del presidente Obama e del suo ministro della Giustizia, Eric Holder, sul precedente impegno di processare i fautori degli attentati in un tribunale civile a New York. La scelta di un tribunale militare a Guantanamo permetterà così al governo americano di evitare qualsiasi controversia pubblica sulle detenzioni illegali e i metodi di tortura messi regolarmente in atto nella “guerra al terrore”, ma anche l’emergere di rivelazioni scomode relative ad eventuali responsabilità dei servizi segreti USA.

Il processo prenderà il via il mese prossimo e sarà soggetto al rigido controllo delle autorità militari. Come ha svelato un recente articolo del Miami Herald, ad esempio, le fasi del procedimento che verranno trasmesse in video ai famigliari delle vittime dell’11 settembre avranno un ritardo di 40 secondi, in modo da poter bloccare la diffusione di informazioni riservate.

I cinque imputati, inoltre, saranno sottoposti ad un unico processo collettivo e tutti rischiano concretamente la pena di morte nonostante i crimini di cui sono accusati siano molto diversi tra loro. Ali Abdul Aziz Ali, come ha denunciato il suo legale, è accusato soltanto di aver trasferito del denaro, un reato ovviamente non perseguibile con la pena capitale in un tribunale federale americano.

Le commissioni militari speciali erano state istituite dall’amministrazione Bush con il Military Commission Act del 2006 per poi essere sospese temporaneamente dopo l’elezione di Obama, il quale aveva promesso di eliminare questa sorta di giustizia a doppio binario e di chiudere il carcere di Guantanamo.

Nel febbraio del 2008, i cinque imputati in questione erano stati formalmente accusati di aver pianificato e messo in atto gli attacchi dell’11 settembre a New York, Washington e Shanksville, in Pennsylvania, risultanti nell’uccisione di 2.976 persone e per aver commesso altri crimini di terrorismo, dirottamento, cospirazione e omicidi in violazione del diritto di guerra.

Il procedimento era stato successivamente congelato dal nuovo inquilino della Casa Bianca, secondo il quale tutti i detenuti a Guantanamo avrebbero dovuto perciò essere liberati o processati in tribunali civili in territorio americano. Questa svolta ha però incontrato la ferma resistenza dei repubblicani e di buona parte dei democratici al Congresso che hanno ben presto approvato alcune misure per bloccare il trasferimento dei detenuti dalla giustizia miliare a quella civile. Obama ha alla fine ceduto e, nel marzo dello scorso anno, oltre ad ammettere l’impossibilità di chiudere il famigerato carcere di Guantanamo in tempi brevi, ha resuscitato i tribunali militari, sia pure introducendo qualche debole garanzia in più per gli imputati.

Allo stesso tempo, il presidente democratico, eletto nel 2008 grazie alla mobilitazione di gran parte della popolazione americana desiderosa di chiudere una delle pagine più nere della storia del proprio paese, ha firmato un decreto per consentire la detenzione indefinita e senza accuse formali né processo dei presunti terroristi a Guantanamo. Esattamente un anno fa, poi, il ministro Holder, anche se in maniera “riluttante”, ha ufficialmente rinunciato a portare Mohammed e gli altri quattro imputati di fronte ad una corte federale di New York, riconoscendo l’inevitabilità di processarli in un tribunale militare secondo il Military Commission Act.

Dopo il voltafaccia dell’amministrazione Obama, nel giugno 2011 le stesse accuse relativamente ai fatti dell’11 settembre sono state nuovamente formulate contro i cinque sospettati. Mercoledì scorso, infine, il vice ammiraglio in pensione Bruce MacDonald del Dipartimento della Difesa, cioè l’ufficiale con l’incarico di supervisionare la commissione militare, ha autorizzato l’apertura del processo a Guantanamo.

La decisione presa dall’amministrazione Obama ha suscitato le dure proteste delle associazioni a difesa dei diritti civili. L’American Civil Liberties Union (ACLU) in una dichiarazione ufficiale ha affermato che il presidente “sta facendo un terribile errore sottoponendo il più importante processo di terrorismo dei nostri tempi ad un sistema giudiziario di seconda classe”.

Le commissioni militari, secondo l’ACLU, “sono state istituite per ottenere facili condanne e nascondere la realtà delle torture, non per assicurare un giusto processo”. Inoltre, qualsiasi verdetto emesso risulterà “macchiato”, mentre il ricorso ai tribunali militari “significa che, agli occhi della nostra nazione e del resto del mondo, giustizia non sarà mai realmente fatta”.

Più che un “errore”, in realtà, la decisione rappresenta la logica conseguenza di una politica perseguita da Obama in materia di anti-terrorismo che è spesso andata ben oltre le aberrazioni legali di cui si era macchiato il suo predecessore.

Alcune delle tappe fondamentali del processo di smantellamento dei diritti democratici negli Stati Uniti sono giunte proprio in questi ultimi mesi. Lo scorso 31 dicembre, il presidente ha posto la propria firma su un provvedimento che legalizza la detenzione indefinita presso l’autorità militare, anche senza prove né processo, di chiunque sia sospettato di legami con gruppi terroristici. Ai primi di marzo, invece, lo stesso Holder ha esposto la giustificazione pseudo-legale attribuita al presidente di ordinare l’uccisione di presunti accusati di terrorismo, cittadini americani compresi, in qualunque angolo del pianeta.

Ben lontano dal rendere giustizia per un orrendo crimine che è costato la vita a quasi 3 mila persone, il processo che si prepara a Guantanamo contro Khalid Sheikh Mohammed e i suoi complici è un atto che svilisce il diritto e calpesta le garanzie costituzionali degli imputati, creato appositamente per ottenere un verdetto già scritto e per seppellire una volta per tutte le ombre che tuttora avvolgono i fatti dell’11 settembre 2001.

di Michele Paris

A pochi giorni dal voto in Myanmar che ha segnato l’ingresso in Parlamento di Aung San Suu Kyi e del suo partito (LND), gli Stati Uniti hanno prontamente annunciato iniziative per rimuovere alcune delle sanzioni economiche che pesano sul paese del sud-est asiatico. La mossa di Washington si accompagna ad una serie di misure già implementate dal regime o in fase di adozione, volte a modernizzare il proprio sistema finanziario per favorire l’afflusso di capitali esteri.

Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, mercoledì ha reso noto che la Casa Bianca ha iniziato il processo di “allentamento mirato” delle restrizioni, a cominciare dal divieto alle compagnie statunitensi di esportare servizi finanziari e di investire in Myanmar. Come già anticipato a gennaio, per la prima volta dal 1990, gli Stati Uniti sono anche ad un passo dal nominare un ambasciatore in questo paese.

Secondo Hillary, la quale lo scorso dicembre era stata protagonista di una storica visita nella ex Birmania, l’amministrazione Obama dovrebbe poi tornare a consentire l’ingresso negli USA dei membri del regime, così come riaprire in Myanmar un ufficio dell’agenzia americana per lo Sviluppo Internazionale, che servirà a veicolare gli aiuti economici provenienti da donatori stranieri. Inoltre, verranno cancellate le restrizioni sull’attività in Myanmar delle organizzazioni non governative operanti negli ambiti sanitario, ambientale e dell’educazione.

La maggior parte delle sanzioni americane, tuttavia, sono il risultato di leggi approvate dopo la repressione seguita alle elezioni del 1990 vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, così che per rimuoverle definitivamente sarà necessario un voto del Congresso. L’amministrazione Obama ha però affermato che farà quanto le è consentito per eliminare alcuni di questi ostacoli. Il Dipartimento del Tesoro, ad esempio, ha facoltà di rilasciare licenze speciali per coloro che, sotto stretto controllo governativo, intendono investire in Myanmar.

Il gesto di distensione di Washington era ampiamente atteso ed è la risposta diretta alle “riforme” democratiche di facciata messe in atto dopo le elezioni del 2010 dal regime nominalmente civile con a capo il presidente Thein Sein, ex primo ministro e già membro della giunta militare al potere da oltre due decenni.

La presunta svolta del Myanmar è dettata principalmente da ragioni strategiche. L’obiettivo del governo è cioè quello di allentare i legami con Pechino per riavvicinarsi all’Occidente e, in particolare, agli Stati Uniti, a loro volta nel pieno di uno storico riorientamento della propria politica estera con al centro dell’attenzione l’estremo oriente in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese.

Il Myanmar rimane comunque uno dei paesi più poveri e arretrati del sud-est asiatico e, dopo vent’anni di sanzioni dispone di un sistema finanziario totalmente inadeguato. Ciononostante, la ex Birmania vanta ingenti risorse naturali tuttora inesplorate e offre una vasta manodopera che le multinazionali potranno sfruttare a costi irrisori.

Alcune delle iniziative che il regime sta intraprendendo per facilitare l’ingresso dei capitali esteri nel paese sono state descritte dal vice governatore della Banca Centrale birmana, Maung Maung Win, in un’intervista rilasciata questa settimana al Wall Street Journal.

l governo starebbe appunto cercando di riformare il sistema finanziario con l’adozione di un regime meno restrittivo della conversione della valuta locale, nuovi piani per il rilancio della Borsa, maggiore indipendenza per la Banca Centrale e l’introduzione di carte di debito locali. Inoltre, il regime sta valutando l’ipotesi di permettere alle banche estere di operare nel paese, anche se ciò causerebbe notevoli problemi per quelle locali ancora impreparate a sostenere la concorrenza.

Ufficialmente, gli Stati Uniti e gli altri governi occidentali si dicono ancora preoccupati per le continue violazioni dei diritti umani nel paese e invitano il regime a fare di più in questo senso. In realtà, simili scrupoli servono solo per confortare l’opinione pubblica, mentre le vere apprensioni sembrano essere legate alla creazione di un ambiente sicuro per le compagnie private che a breve si precipiteranno a fare affari in Myanmar.

Le opportunità di profitto e la corsa che si sta preparando negli ambienti finanziari e imprenditoriali occidentali e non solo, sono d’altra parte ben note. Il Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, ha recentemente pubblicato uno studio che mette in risalto “l’elevato potenziale di crescita” di un paese che “potrebbe diventare la prossima frontiera economica in Asia”. Il rapporto sosteneva che il provvedimento più urgente era mettere fine al tasso parallelo di cambio del kyat birmano, cosa che il regime ha prontamente fatto pochi giorni prima del voto di domenica scorsa.

L’evoluzione dei rapporti tra Occidente ed ex Birmania, in ogni caso, non ha praticamente nulla a che fare con la promozione della libertà e della democrazia in quest’ultimo paese. Le “riforme” del sistema economico e finanziario in senso liberista che il regime sta mettendo in atto, nonostante vengano puntualmente associate dai governi e dai media occidentali a quelle politiche, porteranno infatti benefici solo per la ristretta oligarchia che controlla il potere in Myanmar e, tutt’al più, per la borghesia birmana filo-occidentale rappresentata dall’LND di Aung San Suu Kyi.

Le misure per attirare investimenti dall’estero provocheranno, per cominciare, un rapido aumento del livello di inflazione che andrà a colpire in maniera pesante la maggior parte della popolazione impoverita del Myanmar. Le altre “riforme” che si stanno preparando sono allo stesso modo intese a favorire i grandi interessi esteri e le élite locali, come l’esenzione fiscale per almeno cinque anni per gli investitori stranieri, le garanzie contro eventuali progetti di nazionalizzazione e l’eliminazione dell’obbligo di avere partner birmani per coloro che intendono fare affari in Myanmar. Il piano di privatizzazione delle compagnie pubbliche, infine, causerà la perdita di migliaia di posti di lavoro e, con ogni probabilità, un abbassamento delle retribuzioni.

Per consentire al regime di portare a termine questo processo che causerà un aggravamento delle disuguaglianze sociali, giocheranno un ruolo fondamentale Aung San Suu Kyi e il suo partito, reintegrati nella politica birmana appositamente per mediare il riavvicinamento con l’Occidente e, in prospettiva futura, per contenere il malcontento e le tensioni sociali che inevitabilmente esploderanno nel paese.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy