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di Vincenzo Maddaloni
Il bersagliere ucciso nell’attacco talebano di pochi giorni fa rende ancor più pesante il fallimento della missione italiana in Afghanistan. Da una parte cresce a cinquanta il numero dei nostri caduti, dall’altra parte il fatto che le grandi potenze occidentali riunite nella Nato non possono che proclamare la sconfitta, dopo oltre dieci anni di conflitto.
Tuttavia, nonostante il nostro contingente in Afghanistan sia il quarto per numero, non ha impedito che in Italia più che altrove la politica estera resti un’appendice della politica interna anche con il governo Monti (si tenga a mente come si ta gestendo la vicenda dei due marò imprigionati in India).
Infatti, per cause storiche e culturali, abbiamo una classe dirigente restia non solo a pensare la politica estera in termini globali, ma persino a coltivare curiosità per quelle zone dove sono presenti i soldati italiani e lo Stato spende.
Che tutto questo sia reale lo conferma la gran parte di quanto è stato detto e scritto in Italia negli ultimi dieci anni e passa a proposito dei grandi temi della politica estera, incluso l’Afghanistan con i suoi talebani. Eppure, per rimediare basterebbe un semplice ripasso ricordando, per esempio, che ben tre guerre furono perse con l'Afghanistan, nell'Ottocento e nel Novecento. L’Inghilterra le perdette perché insediò a Kabul dei governi fantocci, perché non tenne in alcuna considerazione le sue antiche decentrate strutture tribali, perché credeva che era il miglior modo per fare dell’Afghanistan uno Stato cuscinetto tra Russia, Persia, India.
Sono errori che continuano a ripetersi, e fa impressione che nessuno se ne sia rammentato. Mi tornano sempre in mente le parole di Boris Gromov, il generale comandante dell’Armata Rossa che seppe uscire con dignità dalla trappola afghana:« Abbiamo perso la guerra perché non abbiamo rispettato le promesse con la popolazione, come non era mai accaduto prima. Infatti - mi spiegava (anno 1989) - prima la nostra tattica prevedeva la distruzione dei centri di potere dei tiranni e poi intervenire in soccorso della popolazione con ingenti aiuti economici. Così facendo abbiamo sempre vinto. Siamo stati sconfitti in Afghanistan perché è venuta a mancare questa seconda fase. Gli ottusi dirigenti che avevano preceduto Gorbaciov non avevano rispettato le promesse, e i pastori afghani delusi ci si sono rivoltati contro. Non vi si poteva rimediare se non ritirandosi».
Beninteso, anche la guerra afghana in versione Nato ha messo in evidenza tanto gli errori politici quanto quelli militari. Fin dall’inizio (anno 2001) si sono declamati un’infinità di obiettivi: abbattere il regime talebano, distruggere l’infrastruttura di Al Qaeda, catturare bin Laden, diffondere pratiche e istituzioni più democratiche, lottare contro la corruzione, sostenere il governo di Karzai, limitare l’influenza delle potenze regionali vicine. Morale, si è realizzato poco o nulla di questo ambizioso, articolato e mutevole programma.
bin Laden è morto? Probabilmente non è mai esistito. Al Qaeda ha subito colpi durissimi e molti leaders sono stati fisicamente eliminati? È vero,ma molti altri ne hanno preso il posto e, cosa ben più grave, persino quella parte di popolazione che aveva salutato con speranza l’intervento occidentale ha girato le spalle ai “liberatori”, come aveva profetizzato vent'anni fa il generale Gromov.
Che cosa pensare? In un mondo mediatico in cui si continua a incoraggiare un giornalismo speculativo e spettacolare, a scapito di un giornalismo d’informazione e che dequalifica la figura stessa del giornalista fino ad annullarla, c’è poco da pensare. In Italia ha "perso di valore" il professionista esperto e aggiornato che possa intervenire con sicura competenza sui nodi sempre più ardui del mondo contemporaneo e spiegarli.
La funzione critica del giornalismo in Italia rischia l'estinzione. L’ultima parola - è diventata ormai una prassi - la si dà al conduttore televisivo, al maggiordomo del salotto mediatico. Così facendo, accade che siano i non giornalisti ad essere catapultati ai vertici della professione. Poi ci sono i politici che sempre di più intervengono nel mestiere del giornalista, e infine gli editori che sono imprenditori, attivi in molti campi, ai quali interessa solo e soltanto il business.
Sicché in un simile panorama si sono letti i commenti più disparati su tutta una serie di episodi come quelli sui soldati americani che «impazziscono» e massacrano civili inermi per difendere i quali sono stati inviati in Afghanistan. Oppure sulle immagini di soldati Usa che offendevano nel modo più volgare cadaveri di talebani. Oppure sui militari afghani che sparano e uccidono i soldati che li stavano addestrando. Oppure i commenti sulle copie del Corano bruciate che hanno provocato violente manifestazioni e assalti ai compounds alleati durante i quali sono morti decine di afghani. Sui Droni che ammazzano persone a casaccio col preteso di eliminare questo o quel capobanda. Infine sull'inaudito massacro di 16 civili afghani ad opera del sergente Robert Bales.
Così la sequenza di «incidenti» ha fatto esplodere il clima di sfiducia già da tempo latente negli Usa scatenando un dibattito che, dietro le quinte dell'ufficialità, è ancora lontano da conclusioni condivise. Inoltre ha moltiplicato i dubbi dei nostri alleati europei al punto che in molti si chiedono se sia realistico pensare di ritirare il grosso delle truppe straniere dal Paese entro il 2014, come la Nato ha annunciato di voler fare da oltre un anno. L'Italia che fa? Stando così le cose che senso ha per un paese nelle condizioni economiche dell’Italia tirare fino al 2014? Se ci fosse una risposta chiara avremmo tutti da guadagnarne, a cominciare dal risparmio sulle spese militari. Ma Monti, come si vede, glissa. Per non dispiacere Obama.
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di Fabrizio Verde
Ha organizzato una nuova “presa” della Bastiglia, inondando una piazza gremita da almeno centoventimila persone, in un tripudio di rosse bandiere - lo scorso 18 di marzo - simbolica data dell'insurrezione popolare che nel 1871 diede via alla “Comune di Parigi”. Il primo esperimento di governo socialista, nel cuore dell'Europa, che adottò come bandiera il drappo rosso, e tra l'altro sancì la separazione tra Stato e Chiesa, istituì l'istruzione laica e gratuita, eliminò l'esercito permanente ed armò i cittadini, rese elettive tutte le cariche pubbliche retribuendo funzionari e membri del Consiglio della Comune con salari di livello operaio.
Il tutto adottando l'istituto assembleare in luogo di quello parlamentare. Impresa titanica per il generoso popolo parigino, che finì sotto la scure della reazione governativa: un bagno di sangue per gli operai comunardi.
Non c’è oggi in discussione una nuova presa della Bastiglia, ma chi a questo s’ispira è Jean-Luc Mèlenchon. Il candidato alle prossime elezioni presidenziali francesi per il Front de Gauche, coalizione elettorale che comprende il Partito Comunista Francese, il Partito della Sinistra e movimenti ambientalisti ed anticapitalisti riuniti sotto la sigla della Federazione per un'Alternativa Sociale ed Ecologica.
Inizialmente snobbato dai media, il sessantunenne ex senatore della componente di sinistra del Partito Socialista, già ministro dal 2000 al 2002, nel governo presieduto da Lionel Jospin, si è imposto all'attenzione dapprima dei francesi e poi dei media a livello continentale. Dando vita ad una inattesa, quanto irresistibile, ascesa nei sondaggi, che adesso - con il 14% dei consensi - lo accreditano in terza posizione alle spalle dei favoriti Hollande (PS) e Sarkozy (UMP).
Alcune sue proposte per combattere la violenta crisi che attanaglia senza soluzione di continuità la Francia e l'intera economia occidentale, così come la manifestata intenzione di tassare fortemente chi detiene un alto reddito, hanno costretto il candidato del Partito Socialista, afferente alla “sinistra” moderata e riformista come si afferma nella comune vulgata, a scendere sul suo terreno.
Addirittura, alla questione, si è accodato anche l'attuale presidente uscente Nicolas Sarkozy, notoriamente liberista e conservatore, che è arrivato ad annunciare l'intenzione di alzare la tassazione e ricorrere ad un aumento dell'Iva previsto già prima delle elezioni.
Inizialmente, Mèlenchon era accreditato di un misero 5% nelle intenzioni di voto, tanto che tra i principali competitori nella corsa all'Eliseo, non veniva nemmeno menzionato al pari dei candidati considerati “minori” come i trotzkysti Poutou (Nuovo Partito Anticapitalista) e Arthaud (Lotta Operaia), piuttosto che della candidata ecologista Joly.
Ma il navigato fondatore del Partito della Sinistra che in gioventù aveva scelto un evocativo nome di battaglia, Joseph Santerre (in omaggio al mitico birraio che fu tra i protagonisti della presa della Bastiglia nel luglio del 1789) è forte anche dell'appoggio di un partito comunista storico oltre che autorevole come quello francese, anche se in declino dal punto di vista elettorale.
Grazie al suo carisma, le sue doti oratorie, ma soprattutto grazie alle sue proposte di chiaro stampo anti-liberista, fortemente improntate alla rottura con le politiche di austerità (che, come mostra in maniera inconfutabile la Grecia, deprimono ancor di più l'economia) con slogan netti e chiari come “prenez le pouvoir”, è riuscito a riunire sotto le insegne del Front de Gauche una sinistra spesso riottosa e frammentata, proprio come nella vicina Italia.
Lo ha fatto galvanizzando il suo popolo e attirando i consensi di larghi strati di popolazione, inesorabilmente colpiti dai morsi di una crisi dalle dimensioni sempre più ampie, che ha scatenato anche oltralpe un processo di oggettiva proletarizzazione di ampie fasce appartenenti al cosiddetto ceto medio.
Il programma del Front de Gauche guidato da Mèlenchon, é in netto contrasto con i dettami ultraliberisti “dell'abbietta trojka” da cui non si discostano, sostanzialmente, i partiti socialisti “riformisti” d'Europa
E’ imperniato sul rilancio del concetto di uguaglianza ritenuto dirimente a sinistra, prevede una «Costituente per la VI Repubblica», la «fine dei privilegi del capitale», il salario minimo a 1700 euro, tassazione al 100% per i redditi superiori ai 360000 euro, età pensionabile fissata a 60 anni, un massiccio piano di assunzioni nella funzione pubblica, nazionalizzazione delle grandi banche al fine di fondare un polo bancario - finanziario pubblico, la difesa dell'ambiente e dei beni comuni, come acqua ed energia. Questi i punti principali del programma della sinistra d'alternativa francese, unita e fautrice di una nuova Europa «sociale, democratica ed ecologica».
I principali media, mainstream, tacciano il Front de Gauche di populismo, paragonando il programma gauchiste a quello dell'estrema destra del Front National guidato da Marine Le Pen. Intanto Mèlenchon continua la sua ascesa nei sondaggi, nonostante gli appelli di Hollande al «voto utile»: secondo l'ultima rilevazione dell'istituto BVA per RTL, sarebbe balzato in un mese al 14% (+5%), mentre Hollande con il 29,5% perde mezzo punto percentuale, con Sarkozy invece, che guadagna due punti attestandosi al 28%. Il Front National di Le Pen perde due punti scendendo al 13%, come il centrista Bayrou, sostenuto in Italia da una corrente del Partito Democratico, che scende al 12% perdendo un punto percentuale. Marginali gli altri candidati, con i trotzkysti fermi allo 0,5% dopo anni di buone affermazioni.
La sinistra francese promette di creare un sommovimento capace di scuotere il torpore che pervade i popoli europei. A cominciare dall'Italia, dove una parte della sinistra guarda con interesse all'esperimento d'oltralpe. Sarà, anche nel ventunesimo secolo, il suolo transalpino a trasmettere il fermento rivoluzionario al resto del continente?
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di Michele Paris
Giovedì scorso, una giunta militare ha conquistato il potere in Mali dopo aver rimosso il presidente Amadou Toumani Touré, due volte democraticamente eletto alla guida del paese dell’Africa occidentale. Il nuovo regime degli ufficiali golpisti è stato immediatamente condannato da una comunità internazionale che da qualche giorno si sta muovendo per adottare iniziative volte a ristabilire la democrazia.
Alla base del rovesciamento del governo legittimo ci sono problemi di natura economica e sociale precipitati negli ultimi mesi, in particolare dopo la caduta del regime di Gheddafi in seguito all’intervento NATO dello scorso anno.
Il colpo di stato sembra essere scaturito da un’insurrezione dei militari in una caserma nella capitale, Bamako, mercoledì scorso. Alla testa dei soldati ribelli ci sarebbe il capitano Amadou Sanogo, addestrato negli Stati Uniti nel corso di svariati soggiorni presso alcune accademie militari americane.
La giunta, dopo aver preso possesso del palazzo presidenziale e il controllo delle trasmissioni televisive, ha annunciato la sospensione della Costituzione, ha adottato il coprifuoco e chiuso le frontiere, anche se alcune misure di emergenza sono state annullate negli ultimi giorni per dare un’apparenza di normalità al paese.
La giunta militare, autodefinitasi “Comitato Nazionale per il Ristabilimento della Democrazia e la Rinascita dello Stato”, sembra avere ancora un controllo precario del paese ed è formata da ufficiali di basso grado. Il motivo ufficiale del golpe contro un presidente che avrebbe dovuto lasciare il potere al termine del suo secondo mandato il mese prossimo, sembra essere stata l’incapacità di quest’ultimo di sedare la rivolta dei Tuareg in corso da qualche mese nel nord del Mali.
L’insurrezione era iniziata attorno alla metà di gennaio sotto la guida del Movimento di Liberazione Nazionale Azawad (MNLA), creato dalla fusione di vari gruppi ribelli, anche grazie all’afflusso in Mali di centinaia di Tuareg armati che avevano lasciato la Libia dopo il crollo di Gheddafi, per il quale avevano combattuto contro le milizie sostenute dalla NATO. I combattimenti che sono seguiti hanno permesso all’MNLA di strappare al controllo governativo ampie porzioni di territorio e importanti città, mentre hanno causato l’evacuazione di centinaia di migliaia di persone, costrette a lasciare i propri villaggi per cercare rifugio nei paesi confinanti.
La scarsa preparazione delle truppe inviate al nord per spegnere la rivolta e gli equipaggiamenti inadeguati forniti dal governo avevano provocato una profonda insofferenza verso il presidente Touré tra le forze armate. Il primo febbraio, inoltre, le mogli e le madri dei membri dell’esercito uccisi nei combattimenti con i Tuareg avevano organizzato una manifestazione di protesta dopo la scoperta di una fossa comune con una quarantina di corpi di soldati, a fronte di un bilancio ufficiale di appena due decessi.
Pochi giorno dopo il colpo di stato, gli Stati Uniti, la Francia e l’Unione Europea hanno congelato gli aiuti economici destinati al Mali che ammontano a decine di milioni di dollari. Nella capitale della vicina Costa d’Avorio, inoltre, è stata convocata una riunione di emergenza della Comunità Economica dei Paesi dell’Africa Occidentale (ECOWAS), da cui il Mali è già stato sospeso.
Il presidente ivoriano Alassane Ouattara ha minacciato sanzioni contro la giunta al potere e ha annunciato la messa in stato di allerta di un contingente di peacekeepers da inviare in Mali se sarà necessario. Una delegazione composta da cinque presidenti di paesi africani sta infine per recarsi a Bamako per cercare di “ristabilire l’ordine costituzionale”.
Nella serata di martedì, intanto, un portavoce della giunta apparso in diretta TV ha affermato che il Mali avrà a breve una nuova costituzione, lasciando intendere che verrà formato un nuovo governo nonostante gli appelli a reinsediare quello del presidente Touré. Mercoledì, poi, Al Jazeera ha dato notizia di una manifestazione a favore degli stessi militari per le strade di Bamako, con ogni probabilità orchestrata da essi stessi per mostrare un qualche appoggio popolare al golpe.
Il deposto presidente Amadou Toumani Touré era stato anch’egli a capo di un golpe militare in veste di generale nel 1991, quando l’esercito depose il dittatore Moussa Traoré sull’onda delle proteste popolari esplose nel paese. Soprannominato “Soldato della Democrazia”, l’anno successivo Touré facilitò la transizione democratica e le elezioni presidenziali, vinte da Alpha Oumar Konaré. Alla scadenza del secondo mandato di quest’ultimo, Touré conquistò la presidenza nelle elezioni del 2002 e venne rieletto nel 2007.
Dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1960, il Mali si allineò al blocco sovietico, anche se successivamente le relazioni con l’Occidente migliorarono notevolmente. In particolare, dopo l’11 settembre e l’ascesa al potere di Touré, il governo del Mali si è mostrato un partner affidabile nella guerra al terrore lanciata dagli Stati Uniti. La cooperazione militare con Washington si è intensificata, anche per il ruolo di Bamako nel contenimento della minaccia più o meno reale dei gruppi affiliati ad Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) attivi nella regione sahariana e del Sahel.
Anche se Washington e Parigi hanno ufficialmente condannato in maniera decisa il golpe in Mali, chiedendo il ristabilimento del potere civile, da qualche tempo erano giunti svariati segnali della crescente impazienza occidentale nei confronti del governo di Touré. Questi malumori erano dovuti all’inadeguatezza sempre più evidente nel fronteggiare i gruppi integralisti operanti nel nord del paese e che sembrano aver stabilito qualche legame proprio con i ribelli Tuareg. Il Mali, inoltre, è diventato un punto di transito importante per il traffico di droga proveniente dall’America Latina e diretto al mercato europeo.
La situazione interna sempre più precaria del Mali, tuttavia, è la conseguenza diretta proprio dell’intervento NATO in Libia. Come aveva ricordato lo stesso Touré in un’intervista rilasciata lo scorso febbraio al settimanale francese L’Express, Gheddafi aveva infatti agito da mediatore e pacificatore sulla questione dei Tuareg, favorendo il disarmo dei ribelli e la loro integrazione nella società. Il regime di Tripoli aveva costruito stretti legami con il Mali, dove i massicci investimenti libici avevano prodotto una certa crescita di alcuni settori dell’economia locale.
Il ritorno dei Tuareg reclutati dal rais e l’improvvisa disponibilità di armi in Libia dopo il tracollo dell’autorità centrale a Tripoli ha dunque riportato alla luce i problemi che lacerano la società maliana gettando il paese nel caos.
Il malcontento ampiamente diffuso tra le popolazioni nomadi dei Tuareg contribuisce inoltre a spiegare la persistenza dei rigurgiti di violenza nelle regioni desertiche settentrionali del Mali, dove gravi ribellioni avevano già avuto luogo tra il 1962 e il 1964, tra il 1990 e il 1995 e, più recentemente, tra il 2007 e il 2009. Tra i paesi più poveri dell’intero pianeta, il Mali registra oltretutto forti differenze tra un sud dove si concentrano le attività economiche e un nord impoverito.
Sparsi entro i confini di Algeria, Burkina Faso, Libia e Niger, i Tuareg in Africa del nord sarebbero complessivamente, a seconda delle stime, tra i due e i tre milioni. Nel solo Mali sono invece almeno un milione e nutrono invariabilmente un profondo risentimento verso un governo centrale incapace di porre rimedio all’emarginazione e alla povertà cui sono sottoposti da decenni.
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di Michele Paris
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha iniziato lunedì una tre giorni di udienze per esaminare la costituzionalità di una parte fondamentale della riforma sanitaria firmata dal presidente Obama nel marzo 2010. L’insolito spazio dedicato dal più alto tribunale americano ad un caso portato alla propria attenzione testimonia dell’importanza di una decisione che inciderà pesantemente sul futuro del provvedimento di ampio respiro faticosamente approvato dall’allora maggioranza democratica al Congresso.
A ben vedere, tuttavia, l’intero dibattito sembra riflettere più che altro le posizioni contrastanti all’interno delle varie sezioni della classe dirigente d’oltreoceano su una riforma che, in ogni caso, porterà ben pochi reali benefici per la maggioranza della popolazione.
Il tribunale costituzionale statunitense ha riservato ben sei ore, suddivise in tre giorni, per ascoltare i pareri delle parti in causa in un’aula affollata di spettatori. A questi si sono poi aggiunti numerosi manifestanti a favore e contro la riforma, accampati da giorni fuori dall’edificio che ospita la Corte a Washington.
Nei mesi scorsi, contro il cosiddetto Patient Protection and Affordable Care Act (PPACA), svariati tribunali federali avevano assistito all’apertura di una serie di procedimenti legali, tra cui quelli presentati da 26 stati americani e da alcune organizzazioni imprenditoriali. Le varie corti distrettuali e d’appello interpellate avevano emesso verdetti contrastanti sulla riforma sanitaria di Obama, finendo per rimettere l’intera questione della sua costituzionalità nelle mani dei nove giudici della Corte Suprema.
Il nodo cruciale del dibattimento risulta essere la legittimità dell’obbligo imposto dal governo federale a tutti gli americani, ad esclusione di coloro che vivono di fatto in condizioni di povertà, di ottenere un’assicurazione sanitaria, pena il pagamento di una sanzione che può arrivare fino al 2% del reddito.
Nella giornata di lunedì, la prima udienza è stata però dedicata ad un aspetto preliminare, cioè se la Corte Suprema abbia la facoltà di esprimersi sulla questione centrale della riforma prima che essa sia stata implementata. Secondo una norma del 1867 (Anti-Injunction Act), infatti, contro le leggi che riguardano una tassa - in questo caso la sanzione prevista per coloro che non avranno una polizza - non possono essere valutati ricorsi prima che qualche cittadino abbia effettivamente iniziato a pagare la tassa stessa. Per la causa in discussione, tale data sarebbe non prima dell’aprile 2015, cioè un anno dopo l’entrata in vigore del provvedimento.
Alla legge del XIX secolo aveva fatto riferimento una sentenza dello scorso anno della Corte d’Appello di Richmond, in Virginia, secondo la quale non era appunto possibile deliberare sulla questione prima del 2015. L’amministrazione Obama aveva inizialmente puntato su quest’ultimo parere per evitare che la causa potesse finire da subito all’attenzione della Corte Suprema, ma ha poi desistito chiedendo anch’essa un verdetto immediato. Con tutte e due le parti d’accordo sull’invalidità della legge del 1867 riguardo al caso specifico, è altamente probabile che i giudici della Corte Suprema emetteranno una sentenza a breve.
Sia ieri che oggi, all’ordine del giorno è invece il cuore stesso della questione, il cosiddetto “individual mandate”, difeso per la Casa Bianca dal procuratore (“Solicitor General”) Donald B. Verrilli jr. Per l’amministrazione Obama, l’obbligo imposto agli americani di ottenere un’assicurazione sanitaria rientra tra le facoltà del governo stabilite dalle leggi che regolano il commercio interstatale.
Secondo questa interpretazione, il mancato ottenimento della copertura inciderebbe pesantemente sull’intero sistema, il quale, dal momento che proibirà alle compagnie di rifiutare l’assicurazione a pazienti con malattie pregresse, si regge precisamente sul pagamento delle polizze da parte della maggior parte della popolazione.
Nel valutare la costituzionalità dell’obbligo individuale, la Corte Suprema potrebbe anche decidere l’eventuale legittimità dell’intera riforma. Oltre a questo punto, la Corte ha accettato di esprimersi su un’altra misura prevista dalla legge Obama, quella dell’autorità del governo federale di ampliare il numero di americani coperti dal programma pubblico di assistenza Medicaid, previsto per i redditi più bassi.
La sentenza definitiva verrà emessa nel mese di giugno, inserendosi nel pieno della campagna elettorale per la Casa Bianca. A giudicare dalle perplessità rivelate dalle domande poste martedì dai componenti della Corte Suprema al procuratore Verrilli, i sostenitori della riforma dovranno assicurarsi il voto di almeno uno dei quattro giudici dell’ala conservatrice (Samuel Alito, Antonin Scalia, Anthony Kennedy e il presidente John Roberts). I quattro moderati (Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Sonia Sotomayor e Elena Kagan) si schiereranno invece quasi sicuramente a favore del mandato individuale, mentre l’altro giudice conservatore, Clarence Thomas, dovrebbe esprimere parere contrario.
Come già ricordato, la riforma voluta dal presidente democratico prevede che tutti gli americani attualmente senza copertura sanitaria, per non incorrere in una sanzione, debbano stipulare una polizza entro il 2014, tramite il proprio datore di lavoro, un programma pubblico o con l’acquisto individuale in un mercato delle assicurazioni (“exchange”), creato appositamente dai singoli stati. Parallelamente, le aziende con più di 50 addetti dovranno offrire loro una copertura sanitaria oppure pagare una sanzione minima, pari a 2.000 dollari per ogni dipendente.
Proprio quest’ultimo punto rappresenta uno degli aspetti più negativi della riforma. Come ha messo in luce recentemente uno studio dell’Ufficio per il Budget del Congresso, entro la fine di questo decennio fino a 20 milioni di americani potrebbero perdere la copertura assicurativa attualmente garantita dai datori di lavoro, ovviamente incentivati a pagare una sanzione insignificante piuttosto che accollarsi costosi piani di assistenza sanitaria. Coloro che resteranno privi della copertura in questo modo saranno costretti ad acquistare di tasca propria una polizza sul mercato regolato dagli stati (“exchange”), con ogni probabilità costituito da piani decisamente meno vantaggiosi.
Più in generale, nonostante la riforma di Obama sia stata presentata come una conquista fondamentale per gli americani senza una copertura sanitaria, in realtà essa rappresenta pressoché esclusivamente un regalo alle compagnie assicurative private. Queste ultime hanno infatti abbandonato la loro ferma opposizione alla nuova legge nel momento in cui l’amministrazione Obama aveva rinunciato ad ogni tentativo di introdurre un piano pubblico nel sistema sanitario degli Stati Uniti. Grazie al provvedimento finale, così, queste compagnie si sono ritrovate con decine di milioni di nuovi potenziali clienti, obbligati per legge ad acquistare una polizza assicurativa.
Anche se la riforma si basa dunque quasi del tutto sul settore privato, il Partito Repubblicano e gli ambienti di estrema destra hanno criticato duramente da subito il provvedimento e, in particolare, l’obbligo individuale di ottenere un’assicurazione, definito, contro ogni logica ed evidenza, il primo passo verso un sistema sanitario di stampo “socialista”.
Lo stesso Obama, anzi, aveva fin dall’inizio messo in chiaro che lo scopo della riforma non era la creazione di un sistema universale nel quale l’accesso a cure sanitarie adeguate veniva considerato un diritto fondamentale. Al contrario, gli obiettivi principali sono sempre stati la riduzione dei costi per il governo federale e l’aumento dei profitti per le compagnie private, con il conseguente deterioramento dei servizi offerti.
Con queste premesse, qualsiasi decisione prenderanno i nove giudici della Corte Suprema di qui a tre mesi servirà solo ad alterare gli equilibri nello scontro tra i due principali partiti americani e i grandi interessi economici e finanziari a cui essi fanno riferimento.
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di Michele Paris
Il secondo turno delle elezioni presidenziali in Senegal ha sancito domenica la definitiva sconfitta dell’85enne Abdoulaye Wade. Il presidente uscente, in carica dal 2000, era alla ricerca di un terzo mandato alla guida del paese dell’Africa occidentale nonostante le proteste dell’opposizione e di decine di migliaia di manifestanti che erano scesi nelle piazze lo scorso mese di febbraio alla vigilia del primo turno.
Ancora prima della diffusione dei dati definitivi, lo stesso Wade nella serata di domenica ha riconosciuto la propria sconfitta e la vittoria del rivale, il suo ex primo ministro Macky Sall. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa ufficiale senegalese, Wade si sarebbe anche congratulato di persona con il neo-presidente.
Alla notizia del sospirato cambio alla guida del paese, migliaia di persone nella capitale, Dakar, si sono precipitate nelle strade per festeggiare. L’epilogo del voto in Senegal sembra chiudere così un periodo caratterizzato da insolite tensioni in questo paese che nella sua storia post-coloniale non ha mai conosciuto un solo colpo di stato.
Ampiamente disprezzato nel paese, il presidente Wade lo scorso dicembre aveva annunciato a sorpresa l’intenzione di correre per un terzo incarico dopo la promessa fatta nel 2007 di dare l’addio alla politica attiva nel 2012. La promessa faceva seguito ad una modifica costituzionale che imponeva un limite di due mandati per la carica più alta del Senegal. Secondo Wade, tuttavia, essa non doveva applicarsi al suo caso perché introdotta dopo l’inizio della sua presidenza. A sancire la legalità della nuova candidatura di Wade era stata a gennaio una sentenza della Corte Costituzionale, in seguito alla quale erano scoppiati scontri in alcune città del paese tra manifestanti e forze di sicurezza, con un bilancio finale di almeno sei morti.
La modifica alla Costituzione più importante per la permanenza al potere dell’anziano leader era invece naufragata nell’estate del 2011. In quell’occasione, Wade aveva cercato di abolire il ballottaggio nelle elezioni presidenziali nel caso un candidato avesse raccolto almeno il 25% dei consensi al primo turno. Con un livello di popolarità crollato da tempo nel paese, il presidente era ben consapevole che un’opposizione compatta al secondo turno avrebbe potuto sconfiggerlo.
Ciò è precisamente quello che è accaduto domenica. Dopo che Wade aveva ottenuto il 34,8% dei voti al primo turno, contro il 26,6% di Sall, attorno a quest’ultimo si sono coalizzati praticamente tutti i candidati sconfitti, determinando l’inevitabile sconfitta del presidente in carica.
Se i risultati finali non saranno resi noti ancora per qualche giorno, alcuni dati parziali testimoniano il sentimento diffuso in tutto il Senegal verso Wade. Sall, ad esempio, avrebbe addirittura ottenuto oltre il triplo dei voti del presidente nello stesso collegio elettorale di quest’ultimo a Dakar. Alcuni brogli segnalati dagli osservatori internazionali, inoltre, non hanno influito in maniera decisiva sull’esito del voto.
A segnare la sorte di Wade era stato anche il voltafaccia nei suoi confronti dei governi francese e americano, i due principali sponsor di Dakar. La sua inclinazione a lanciare progetti grandiosi in un paese dove la grande maggioranza della popolazione vive in condizioni di povertà rischiava infatti di scatenare una rivolta nel paese che avrebbe potuto mettere in discussione le stesse “riforme” neoliberiste dettate dall’estero e che hanno beneficiato solo una ristretta élite di potere.
Il presidente francese Sarkozy, dopo aver chiesto a Wade nei mesi precedenti di farsi da parte, è stato uno dei primi a congratularsi con Macky Sall, già considerato garanzia di continuità per gli interessi francesi. Lo stesso programma elettorale del presidente eletto, infatti, si basa in gran parte sulla critica dello stile di governo di Wade, così da ridurre le ingenti spese destinate alle opere faraoniche intraprese in questi anni.
Le promesse di Sall comprendono tra l’altro, oltre al rispetto del limite dei due mandati alla guida del paese, un generico piano per migliorare le condizioni di vita dei senegalesi, il rilancio del settore agricolo e l’adozione di modalità di governo più “sobrie ed efficienti”.
Per quanto riguarda l’apertura del paese al capitale straniero, la rotta seguita da Wade verrà perseguita invariabilmente anche dal suo successore. Il nuovo presidente senegalese, d’altra parte, è stato a lungo membro del partito di Wade (Partito Democratico del Senegal, PDS), per il quale ha guidato il governo dall’aprile 2004 al giugno del 2007. Sall è stato anche presidente dell’Assemblea Nazionale, una carica che ha perso nel novembre 2008 dopo uno scontro con lo stesso Wade proprio attorno alla gestione di un grandioso progetto per una conferenza islamica nella capitale. In seguito alla rottura con Wade, Sall è passato all’opposizione e ha fondato un proprio partito, l’Alleanza per la Repubblica.
Come durante le proteste del mese scorso, anche alla vigilia del ballottaggio di domenica qualsiasi prospettiva di cambiamento per la maggioranza della popolazione senegalese è rimasta fuori dal dibattito politico. A monopolizzare l’attenzione sono state così le tendenze autoritarie e gli eccessi di Wade, sfruttati dall’opposizione per rimuovere un presidente sempre più impopolare e poter proseguire le stesse politiche economiche richieste dall’estero. Il tutto, per evitare il contagio della rivolta in tempi di Primavera Araba, nel rispetto delle formalità democratiche previste dalla Costituzione.