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di Carlo Musilli
Il primato era già loro, ora festeggiano il compleanno. Nei giorni scorsi il Belgio senza governo ha compiuto un anno di vita. Un record assoluto in tempo di pace, che ha consentito al Paese di conquistarsi un posto nell'almanacco della Guinness. Addirittura surclassati gli iracheni, i precedenti detentori del titolo, che dopo l'invasione americana ci avevano messo solo 249 giorni a formare un nuovo esecutivo. Dilettanti.
A ben vedere, quello che sta accadendo a Bruxelles e dintorni sembra basato su una sceneggiatura di Franz Kafka. Tutto è cominciato il 14 giugno 2010, data delle ultime consultazioni politiche. Nelle Fiandre, a nord, vinsero con il 27,8% dei voti i separatisti-nazionalisti della Nuova Alleanza Fiamminga (N-Va), guidati da Bart De Wever.
Tutt'altra storia nel sud vallone e francofono, dove a spuntarla con il 37,6% furono i socialisti dell'italico Elio Di Rupo. Da allora si susseguono negoziati sempre più esasperanti per tentare di mettere in piedi un governo qualsiasi. Niente da fare. Fino ad oggi, solo fumate nere.
L'assurdità sta nel fatto che già un anno fa si era trattato di elezioni anticipate. L'obiettivo, quanto mai paradossale con il senno di poi, era di garantire stabilità a un Paese che aveva visto avvicendarsi tre diversi premier in soli quattro anni. E invece siamo ancora allo stesso punto. Più di dodici mesi con le mani nei capelli.
Durante questo lungo purgatorio, a tenere in mano le redini del Belgio è stato il povero primo ministro uscente, il cristiano-democratico fiammingo Yves Leterme, costretto a rimanere attaccato con le unghie a quella stessa poltrona da cui aveva cercato di scappare. Si era dimesso a soli cinque mesi dall'inizio del suo mandato, dopo una frattura fra i partiti fiamminghi e valloni sulla definizione della circoscrizione elettorale di Bruxelles. Naturalmente, non essendo legittimato dal voto popolare ma solo dall'imbarazzante stallo causato dai suoi colleghi, oggi Leterme non svolge le funzioni di un vero premier, limitandosi all'ordinaria amministrazione.
E in verità non se la cava affatto male: non solo è stato senza problemi presidente di turno dell'Unione europea per sei mesi, ma si è anche assunto la responsabilità di decisioni dal peso specifico rilevante. Ad esempio, la partecipazione attiva alla missione militare in Libia affianco della Nato. Per non parlare dell'economia, che negli ultimi mesi ha fatto segnare dei tassi di crescita sorprendentemente alti (nonostante il deficit sia il terzo più alto di tutta l'Ue, pari al 100% del Pil).
Ma ormai Leterme non ne può più: "Sono costretto a governare il Paese - ha detto sconsolato - mentre gli altri si riposano sugli allori. Questo non è il normale corso delle cose". Secondo lui, invece di puntare al pragmatismo per salvare la faccia, i partiti si lasciano guidare dai sondaggi. Così facendo, il compromesso si allontana sempre di più.
A risolvere la situazione potrebbe essere Di Rupo, che a fine maggio ha ricevuto per la seconda volta un mandato esplorativo da re Alberto II. In teoria, dovrebbe formare un nuovo esecutivo entro fine mese (e se ci riuscisse diventerebbe il primo presidente vallone negli ultimi trent'anni). Certo, i precedenti non incoraggiano: già sette mandati esplorativi, affidati di volta in volta al politico meno improponibile, si sono risolti in altrettanti buchi nell'acqua. A complicare ulteriormente le cose ci si sono messi anche i problemi di salute del socialista, che si è dovuto operare alle corde vocali. Secondo alcuni gli avrebbero fatto male le troppe parole al vento.
Intanto il Belgio è sempre più spaccato a metà, non solo dal punto di vista linguistico. I fiamminghi separatisti delle Fiandre (il 60% della popolazione) guardano con disprezzo al sud vallone e francofono, molto più arretrato e quindi considerato alla stregua di una zavorra, un ostacolo sulla strada dello sviluppo. Se dal nord premono per ottenere una maggiore autonomia federale, i meridionali si oppongono, terrorizzati all'idea che questo sia il primo passo verso la definitiva secessione del Paese. Insomma, il salotto buono dell'Unione europea è un Paese diviso.
Difficile prevedere come si risolverà la crisi. Secondo diverse testate di lingua francese, la prospettiva più probabile è quella di nuove elezioni all'inizio dell'autunno. Il problema è che, secondo i sondaggi, dalle urne uscirebbe un risultato pressoché identico a quello ottenuto nella primavera 2010. E la giostra belga ricomincerebbe a girare.
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di Michele Paris
Dalla scorsa domenica, la guerra contro il regime di Gheddafi viola apertamente il War Powers Act, approvato dal Congresso americano nel 1973 dopo il veto posto dall’allora presidente Nixon. Questa discussa legge era stata votata sull’onda delle polemiche relative agli abusi della loro autorità in merito all’impiego di forze in Vietnam da parte delle amministrazioni Kennedy, Johnson e Nixon. L’intenzione era inoltre quella di fare chiarezza sulle prerogative di Congresso e Presidente. Secondo la Costituzione americana, è il primo ad avere il potere di dichiarare guerra, anche se il secondo è il comandante in capo delle forze armate.
Il War Powers Act stabilisce che una guerra decisa dal Presidente debba ottenere l’approvazione da parte del Congresso entro 60 giorni dall’inizio delle ostilità. In caso contrario, la Casa Bianca ha altri 30 giorni di tempo per ritirare le forze armate dal conflitto. L’inizio dei bombardamenti americani e della NATO sulla Libia sono iniziati il 20 marzo. Due mesi sono poi trascorsi senza che l’amministrazione Obama chiedesse al Congresso di esprimersi sul conflitto. Gli ulteriori 30 giorni per la teorica cessazione delle ostilità sono infine scaduti il 19 giugno scorso.
Queste le ragioni per le quali attorno all’intervento americano in Libia, da qualche settimana a Washington sta infuriando un grave conflitto tra la Casa Bianca e il Congresso. Lo scontro tra i potere esecutivo e legislativo negli Stati Uniti sta facendo riemergere l’annosa disputa su quale organo detenga l’autorità di dichiarare guerra. Esploso già all’epoca dell’intervento in Vietnam, il dibattito è tornato d’attualità in seguito all’aggressione della Libia, diventata di fatto illegale secondo la stessa legge americana.
Nel silenzio pressoché totale sul vero carattere della guerra in Libia, il Congresso americano ha così iniziato a mettere in discussione la legittimità dell’intervento voluto da Obama. A inizio mese, il deputato democratico dell’Ohio Dennis Kucinich aveva presentato una risoluzione alla Camera dei Rappresentanti che imponeva il ritiro entro 15 giorni delle forze USA dalle basi da cui partono le incursioni sul territorio libico.
Per timore che la maggioranza dei parlamentari repubblicani appoggiasse la mozione Kucinich, lo speaker della Camera, John Boehner, aveva allora messo assieme in fretta e furia una propria risoluzione che si limitava a criticare Obama per non aver notificato al Congresso la decisione di attaccare la Libia. Nonostante alcuni repubblicani abbiano comunque votato per il testo proposto da Kucinich, la mozione di quest’ultimo non è stata approvata, mentre è andata a buon fine quella della leadership della Camera.
Lo stesso deputato progressista dell’Ohio non si è dato però per vinto, tanto che settimana scorsa ha portato avanti altre due iniziative. Da una parte, assieme a dieci altri colleghi democratici e repubblicani, ha aperto un procedimento legale contro l’amministrazione Obama per mettere fine al conflitto, e dall’altra ha presentato una nuova proposta alla Camera per tagliare i fondi destinati alle operazioni in Nord Africa.
La posizione ufficiale della Casa Bianca è stata infine chiarita la scorsa settimana con un rapporto di 38 pagine trasmesso al Congresso. Il Presidente non sarebbe in violazione del War Powers Act poiché semplicemente in Libia gli Stati Uniti non sarebbero coinvolti in “ostilità” come sono definite dalla stessa legge del 1973.
Per Obama cioè le operazioni condotte contro il regime di Gheddafi non comprendono “battaglie persistenti” o “intensi scontri a fuoco” con forze ostili. Allo stesso modo, non vengono impiegate forze di terra, non ci sono vittime americane, non sussistono rischi reali per l’incolumità dei militari e, soprattutto, l’intera operazione viene condotta per scopi “umanitari” sotto il mandato dell’ONU.
Alla luce delle conseguenze causate dalle oltre 11 mila incursioni operate finora sulla Libia da parte della NATO, l’interpretazione sostenuta dalla Casa Bianca appare del tutto insostenibile. Secondo la logica proposta da Obama, poi, un qualsiasi attacco contro forze incapaci di opporre resistenza non rientrerebbe nella definizione di guerra affermata dal War Powers Act e permetterebbe quindi al Presidente statunitense di condurre operazioni militari devastanti senza il controllo o l’approvazione del Congresso.
Inoltre, per i consiglieri legali della Casa Bianca le attività belliche americane sarebbero in ogni caso cessate il 7 aprile, quando gli USA hanno formalmente ceduto il comando delle operazioni alla NATO. Da allora le forze statunitensi svolgerebbero solo attività di supporto. Poco importa poi se gli americani, oltre a continuare a partecipare ai bombardamenti sulla Libia, esercitano un controllo quasi assoluto sull’Alleanza Atlantica
Il chiarimento fornito da Obama sulla conformità dell’impresa libica al War Powers Act è il frutto di posizioni divergenti tra i consulenti legali all’interno della sua amministrazione. Come ha rivelato qualche giorno fa il New York Times, il presidente democratico - già docente di diritto costituzionale - avrebbe apertamente respinto il parere dei consiglieri legali del Pentagono e del Dipartimento di Giustizia, rispettivamente Jeh C. Johnson e Caroline D. Krass. A prevalere è stata piuttosto l’opinione del consigliere della Casa Bianca Robert Bauer e del Dipartimento di Stato Harold H. Koh, ex docente di diritto a Yale e acceso critico dell’espansione dei poteri dell’esecutivo avvenuta durante l’amministrazione Bush.
Se anche il Presidente ha la piena facoltà di respingere l’opinione dell’Ufficio Legale del Dipartimento di Giustizia, ciò avviene in realtà piuttosto raramente. Il comportamento di Obama, soprattutto, evidenzia un’evoluzione preoccupante da parte della sua amministrazione. Nella decisione di aggredire la Libia - ma anche di condurre operazioni militari in Pakistan o in Yemen - il Presidente non ha infatti sentito la necessità di ottenere il consenso del Congresso, cosa che lo stesso George W. Bush si era invece premurato di fare sia per l’avventura in Afghanistan che per quella in Iraq.
Sul potere di dichiarare guerra la contesa tra Congresso e Casa Bianca è d’altra parte di lunga data. Dall’approvazione nel 1973, il War Powers Act è stato messo in discussione da molti presidenti, anche se nessuno è mai giunto a contestarne la costituzionalità. Il Dipartimento di Giustizia nel 1980 concluse che era piena facoltà del Congresso di imporre tali limiti alle guerre intraprese dai presidenti. A questa conclusione ha fatto riferimento anche l’amministrazione Obama, la quale ha in definitiva soltanto sostenuto che il conflitto in Libia non può essere definito una vera e propria guerra e perciò non rientra nelle competenze del War Powers Act.
L’anomalia di un presidente democratico che afferma un così significativo allargamento delle prerogative dell’esecutivo di fronte alle preoccupazioni di una Camera dei Rappresentanti a maggioranza repubblicana non è sfuggita nemmeno ai giornali liberal vicini ad Obama.
Tale posizione della Casa Bianca ha esposto il Presidente addirittura alle critiche di esponenti dell’amministrazione Bush, come l’ex direttore dell’Ufficio dei Consiglieri Legali presso il Dipartimento di Giustizia, Jack Goldsmith, il quale ha affermato che il principio enunciato da Obama fissa un pericoloso precedente per future guerre da scatenare senza autorizzazione del Congresso.
Le critiche rivolte dai parlamentari, soprattutto repubblicani, alla Casa Bianca sull’intervento in Libia non sono peraltro dettate dalla loro opposizione ad una guerra condotta in nome di un falso scrupolo umanitario. Le accuse a Obama, oltre a essere strumentalizzate per convenienza politica, vengono mosse esclusivamente sulla base di un conflitto di competenze. Ciò è evidente dal fatto che i repubblicani non hanno per il momento affondato gli attacchi contro Obama per non mettere a repentaglio un’operazione militare i cui obiettivi essi stessi condividono in pieno.
Sul fronte democratico invece, a parte alcuni parlamentari progressisti, ci si appiattisce per lo più sulle posizioni sostenute dal Presidente o, al limite, si critica la Casa Bianca per non aver chiesto l’approvazione del Congresso che sarebbe verosimilmente arrivata senza troppe difficoltà. In questo quadro ciò che inquieta maggiormente è però l’assordante silenzio di un movimento pacifista - simile a quello esploso nel 2003 alla vigilia dell’invasione dell’Iraq - che condanni l’aggressione contro la Libia in quanto tale al di là delle formalità costituzionali sul potere di emettere una dichiarazione di guerra.
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di Eugenio Roscini Vitali
Tra Egitto e Israele sale la tensione da quando le autorità del Cairo hanno annunciano l’arresto di un israeliano sospettato di essere un agente del Mossad, accusato di avere partecipato alle proteste di piazza Tahrir e di aver incitato la folla ad atti vandalici. Fermato il 12 giugno scorso, Ilan Grapel, questo il nome dell’ex ufficiale della 101 Unità paracadutisti delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), è stato sottoposto a custodia cautelare per quindici giorni; il procuratore sarebbe in possesso di testimonianze che lo collegherebbero ai violenti incidenti interreligiosi che a maggio hanno infiammato il quartiere popolare di Embaba, ad ovest del Cairo.
In quell’occasione un gruppo di ultraconservatori salafiti aveva assaltato e dato alle fiamme la chiesa copta della Vergine Maria e alcune case vicine; gli estremisti avevano raggiunto l’area affermando che una giovane donna sposata con un musulmano era tenuta in ostaggio dalla comunità cristiana. Gli incidenti erano poi proseguiti davanti alla televisione di Stato e solo dopo alcune ore le forze dell’ordine erano riuscite a riportare la situazione sotto controllo; pesante il bilancio delle violenze, con nove morti e oltre 180 feriti. Secondo fonti israeliane, subito dopo l’arresto di Grapel le autorità egiziane avrebbero inoltre accusato i servizi segreti di Tel Aviv di aver ordito un tentativo di avvelenamento ai danni di un’azienda cipriota che produce pomodori venduti in Egitto.
Le autorità israeliane negano che l’uomo sia un agente dello Stato ebraico ed affermano di non essere state informate dell’arresto di alcun cittadino israeliano, ma le foto, pubblicate con grande risalto dai quotidiani egiziani al-Ahram e al-Akhar, ritrarrebbero Grapel, israeliano con cittadinanza americana, in divisa e mentre manifesta in piazza Tahrir e mentre visita una moschea e alcuni luoghi turistici. Sempre secondo i media egiziani, nel 2006 la presunta spia, di cui esisterebbero due profili Facebook in arabo e nessuno in ebraico, avrebbe partecipato alla guerra in Libano.
Per l’ex ministro della Difesa israeliana, Benjamin Ben-Eliezer, le accuse sono ridicole, “roba da dilettanti” che il Cairo userebbe come un pretesto per spostare l’attenzione da problematiche più serie e dimostrare agli egiziani di avere sotto controllo la situazione. Concorde parte della stampa israeliana che ipotizza un tentativo egiziano di animare un sentimento antiebraico per evitare che il popolo, deluso dagli scarsi cambiamenti messi in essere, possa tornare in piazza e scatenare una nuova ondata di protesta.
Parlando dalla sua casa nel Queens, New York, il padre della presunta spia, Daniel Grapel, ha detto che il figlio, studente in legge alla Emory University School di Atlanta, Georgia, si sarebbe recato in Egitto per completare un programma di studi che avrebbe avuto termine alla fine di agosto, data prevista per il rientro negli Stati Uniti. Nei primi report pubblicati dalla stampa egiziana l’ex ufficiale dei parà era stato descritto come l’inviato speciale di un giornale americano che si trovava in Egitto nelle per mantenere contatti con un gruppo di reporter stranieri e misurare le reazione dell’opinione pubblica alle dimissioni del presidente Mubarak e al contemporaneo passaggio dei poteri al Consiglio Supremo delle forze armate.
Tra gli analisti occidentali c’è chi sospetta che per ora le autorità egiziane abbiano trovato più conveniente “trovare” una spia del Mossad anziché intraprendere altre strade; si sospetta infatti che Ilan Grapel potesse lavorare sotto copertura per un altro paese. Secondo una delle ipotesi più accreditate, al momento dell’arresto l’ex ufficiale dell’IDF era diretto in Libia; superata la frontiera si sarebbe poi unito ai ribelli anti Gheddafi.
Da un report pubblicato da al-Ahram risulta che l’ufficiale sarebbe entrato in Egitto l’11 febbraio 2011 con un volo diretto da Francoforte; il 15 dello stesso mese avrebbe lasciato il Cairo per farvi ritorno il 10 maggio. A febbraio, prima di raggiungere la capitale egiziana, Grapel si sarebbe recato nel sud del Paese per incontrasi con un con gruppo di persone, alcune delle quali europee.
Il caso Grapel si apre in un momento di estrema tensione tra i due Paesi: il nuovo clima di cooperazione fra il Cairo ed Hamas e la riapertura a tempo pieno - sei giorni la settimana - del valico di Rafah preoccupa Tel Aviv che considera il ripristino del transito delle merci fra il Sinai e la Striscia una minaccia per la sicurezza regionale. L’apprensione è giustificata dal fatto che gli uomini di Abu Mazen e gli osservatori internazionali non hanno ancora preso il controllo doganale della frontiera e questo non accadrà fin quando non verrà trovato un accordo tra i gruppi che formano il nuovo governo palestinese di unità nazionale.
Intanto fonti militari israeliane hanno rivelato che con l’attuale arsenale a disposizione - circa 10 mila razzi, con un incremento che negli ultimi mesi è pari a più di 30 vettori alla settimana - l’ala militare di Hamas sarebbe in grado di lanciare su Israele 150 missili al giorno per oltre due mesi; il flusso di armi comprenderebbe anche sistemi anti-carro e missili anti-aerei, nonché centinaia di i vettori contrabbandati dalla Libia.
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di Roberto Giardina
BERLINO. Ai tedeschi va male, e gli europei godono. Sembra che i sudditi di Frau Angela non riescano a combinarne una giusta. Sono gli unici a non voler andare alla guerra in Libia. Come osano mettere in pericolo la compatta Unione Europea, e tradiscono i britannici, i francesi, e gli americani? Loro che si spacciano per eroi nibelungici, per superuomini ariani, sono i primi a spaventarsi per un botto lontano, a Fukushima in Giappone, e in fretta e in furia abbandonano l´atomo, mentre appena a settembre avevano prolungato la vita delle centrali fino al 2040.
Provocano danni di miliardi all´Europa, soprattutto a Nicolas, che sperava di vendere le sue centrali da rottamare all´amico Silvio. Per colpa dei crucchi, anche gli italiani hanno detto “nein”. Non hanno capito che cosa si perdono. Dove è andata a finire la mitica coerenza teutonica? E´ vero che Angela è una signora, ma pur sempre Made in Germany.
Non è finita. Arriva il batterio mortale e se la fanno sotto, in tutti i sensi, figurato e realistico. Lo chiamano alla loro maniera EHEC, gli unici in Europa, così all´inizio gli altri non capiscono. Perché hanno paura del vero nome e cognome del batterio, Escherichia Coli? Sono sempre stati maniaci delle sigle: non si definiscono BRD, invece che Deutschland, e chiamavano DDR l´altra Germania? Come si può? Non è dignitoso.
Erano la patria dei geni, degli scienziati, di Einstein e di von Braun, che dalle V2 arrivò alla Luna, ed ora non riescono a debellare un semplice batterio. E sconvolgono l´Europa. Danno la colpa ai cetrioli spagnoli, poi ai pomodori olandesi, quelli bellissimi che non sanno di nulla, all´insalata di casa loro, ai céchi e ai greci. Provocano milioni di danni agli agricoltori e non vogliono rimborsarli. Accusano i germogli di soja, quelli dei fagioli, e poi i broccoli. Cambiano idea ogni giorno.
I loro politici impartiscono saggi consigli: lavatevi le mani. Lo diceva anche mia nonna. E come mai muoiono soprattutto le donne? Perché stanno più attente all´igiene dei maschi, così alla fine hanno meno anticorpi. In altre parole, noi maschi siamo dei maiali. O moriamo da giovani, o diventiamo immuni o quasi come Achille. E noi europei che ci aspettavamo un piano anti epidemia, come una Blitzkrieg, una guerra lampo.
La Germania non è più quella di una volta. E neanche ci dispiace. In tedesco si chiama Schadenfreude, che al solito non si può tradurre con una sola parola, sarebbe la gioia quando a qualcun altro va male. Dato che il termine esiste solo nella lingua di Goethe, qualcuno ha dedotto che solo i tedeschi sono così maligni. Ma almeno questo non è vero. Come dimostriamo con la nostra irrefrenabile soddisfazione per i guai di Berlino e dintorni.
Io vivo in Germania da troppi anni, e so da sempre che i tedeschi non sono perfetti. Per fortuna, altrimenti avrebbero vinto la guerra, trasformando l´Europa in un giardino tutto pulito e ordinato come piace a loro, disseminato da orripilanti nanetti. Anzi, sono ben lontani dall´essere perfetti: sono loro che hanno soprannominato la capitale “Tunis”.
Non è un omaggio alla vecchia Cartagine, per cui facevo il tifo da bambino palermitano, ma un gioco di parole con Tue nichts, non far nulla. Nella metropoli sulla Sprea nessuno lavora. Sarebbe la Napoli della Mitteleuropa. Sempre loro a sostenerlo.
I guai cominciano quando lavorano: idraulici, elettricisti, meccanici, combinano guai, a meno che non siano d´importazione, ex jugoslavi, polacchi, persino italiani. Anni fa si leggeva nei giornali l´espressione “Italienische Verhältnisse”, cioè una situazione all´italiana: scioperi, governi ballerini, corruzione. Non si legge più, sostituita da Hamburghische Verhältinisse”, una situazione all´amburghese, la città anseatica dove si ricorre da dieci anni a elezioni anticipate, rifugio di terroristi e della criminalità organizzata. Ormai li abbiamo contagiati, ma l´EHEC non c´entra.
Quando scoppiò lo scandalo dei conti neri usati da Helmut Kohl per finanziare il suo partito, m’invitarono a una trasmissione radio, dove potevano intervenire anche gli ascoltatori. “Che cosa prova lei come italiano?” mi chiese il conduttore. Come italiano mi considerava un esperto in materia. “Schadenfreude”, risposi con sincerità. Fa bene al cuore, vedere che non siamo i soli. Un´ascoltatrice mi rimproverò: “Fa male - mi disse - non siamo amici, voi italiani e noi tedeschi? Bisogna stare vicini agli amici quando va male”. Ma lei doveva essere una luterana, noi latini siamo diversi. Forse non migliori.
In questo caso con la Schadenfreude sarei prudente. Angela ha fatto benissimo a non partire per la Libia, dove gli altri si trovano già nei guai. E speriamo che non la convincano a cambiare idea. Che male c´è a restare da soli, se si ha ragione? E sull´atomo, come darle torto? Però “nein” l´avevamo detto prima noi, solo che il “nein” all´italiana è sempre particolare, non vale per sempre, e si può interpretare. Rimane il batterio: la colpa forse è che hanno parlato troppo. A Venezia quando imperversava il colera, molto simile all´EHEC, le autorità negavano tutto per non nuocere al turismo. E non facevano la conta dei morti. Grazie a loro Thomas Mann scrisse un capolavoro.
L´Istituto Roland Koch, dove gli scienziati studiano il rimedio, ha un sito internet accessibile a tutti aggiornato di ora in ora, in base alle ricerche. Le ipotesi lette da noi giornalisti diventavano certezze alla tv o sui giornali. Un eccesso di trasparenza. Ma non mi sembra un difetto. Forse sono diventato troppo tedesco, o soffro della sindrome di Stoccolma, sempre meno insidiosa di Frau Escherichia.
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di Michele Paris
A sette mesi dall’inizio della stagione delle primarie, alcuni dei principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti per il Partito Repubblicano si sono affrontati un paio di giorni fa in diretta televisiva da un campus universitario del New Hampshire. Alla luce del basso profilo di quasi tutti i sette repubblicani aspiranti alla Casa Bianca, il dibattito ha permesso a molti di loro di presentarsi al grande pubblico americano, lasciando gli attacchi personali alle fasi successive di una competizione che si preannuncia molto accesa per conquistare il diritto di sfidare Barack Obama nel 2012.
Mentre il primo “faccia a faccia” in casa repubblicana, andato in scena già nel mese di maggio in South Carolina, era stato disertato da molti candidati, in questa occasione erano presenti quasi tutti i più accreditati concorrenti per la nomination. La discussione di due ore è stata ospitata dal Saint Anselm College di Goffstown, in New Hampshire, lo stato che figura al secondo posto nel calendario delle primarie repubblicane, dopo i tradizionali caucus dell’Iowa.
La corsa alla nomination per la Casa Bianca nel Partito Repubblicano sta facendo segnare un certo ritardo rispetto agli anni precedenti e il campo di partecipanti, oltre a non far intravedere ancora un chiaro “front-runner”, è affollato da personalità politiche di secondo piano che faticano a suscitare l’interesse degli elettori. Per molti osservatori, la carenza di personaggi di peso con una riconoscibilità immediata a livello nazionale andrebbe in parte imputata all’influenza sul partito dei Tea Party con la loro presunta critica anti-establishment. Molti repubblicani di vertice apparirebbero cioè troppo legati allo status quo di Washington, contro cui la retorica populista dei Tea Party si scaglia, privandoli del loro determinante sostegno.
Ancora incerta se partecipare o meno alla gara è poi la candidata potenzialmente più controversa e in grado di catturare l’attenzione dei media nazionali, l’ex governatrice dell’Alaska Sarah Palin, beniamina proprio del movimento Tea Party. Quest’ultima, assieme ad altri due possibili contendenti tuttora in dubbio - l’ex governatore dello Utah e fino a poche settimane fa ambasciatore americano in Cina, John Huntsman, e il governatore del Texas, Rick Perry - erano gli assenti più autorevoli al dibattito di lunedì sera in New Hampshire.
I riflettori della serata dedicata ai candidati del Partito Repubblicano erano puntati in particolare su Mitt Romney, il miliardario mormone ex governatore del Massachusetts, già sconfitto nelle primarie del 2008 nonostante le enormi somme di denaro sborsate di tasca propria per finanziare la sua campagna.
Romney ha ottenuto finora il gradimento maggiore nei sondaggi preliminari tra gli elettori del suo partito, se non altro perché più conosciuto rispetto agli altri candidati. Come già nelle precedenti elezioni, tuttavia, sono già emersi tutti i limiti di un candidato tutt’altro che entusiasmante e che continua a far notizia per una serie di clamorosi voltafaccia.
Innanzitutto, Romney è esposto ai continui attacchi dei repubblicani conservatori per aver messo la propria firma su una riforma sanitaria che ha ispirato quella fatta approvare da Obama l’anno scorso quando era governatore del Massachusetts. Fin dall’annuncio della sua seconda corsa alla casa Bianca, Romney ha così rinnegato la legge da lui promossa, definendo quella uscita dal Congresso democratico una prevaricazione del governo federale e promettendo di revocarla una volta eletto. Uguale inversione di centottanta gradi, ad esempio, Romney ha fatto poi registrare anche sul fronte aborto, per il quale era in passato a favore.
Mostrarsi all’altezza della situazione in New Hampshire per Romney risultava fondamentale, dal momento che le primarie in questo stato decretarono la fine prematura delle sue speranze di nomination nel 2008. Romney in quell’occasione perse da John McCain dopo che già in precedenza aveva dovuto cedere il passo all’ultraconservatore Mike Huckabee nei caucus dell’Iowa. Per rilanciare la sua immagine, Romney ha così puntato sulla sua esperienza da manager di successo nel settore privato, in grado di creare posti di lavoro per un’economia americana in affanno.
L’alternativa all’opaco Mitt Romney sembra essere un altro ex governatore, Tim Pawlenty del Minnesota. Ancora poco conosciuto alla stragrande maggioranza degli americani, Pawlenty sta da qualche tempo portando la sua organizzazione negli stati che voteranno per primi nelle primarie del 2012. Durante il dibattito dell’altro giorno ha sottolineato nuovamente le sue origini operaie, anche se come gli altri candidati sta facendo di tutto per compiacere la base conservatrice del partito e i grandi finanziatori. In questo senso va intesa la sua recente proposta di tagliare in maniera devastante la spesa pubblica - assieme alla riduzione delle tasse per i redditi più alti - in caso di elezione.
Tra i più noti dei sette repubblicani presenti in New Hampshire è invece Newt Gingrich, speaker della Camera dei Rappresentanti dal 1995 al 1999 e protagonista della “Rivoluzione repubblicana” che portò alla conquista del Congresso da parte del suo partito nel 1994. La sua candidatura appare però moribonda già a poche settimane dall’avvio ufficiale della corsa alla nomination.
Qualche giorno fa, infatti, Gingrich ha dovuto incassare le dimissioni di massa dei vertici del suo staff, scontenti per la sua scarsa dedizione alla causa. Gingrich e signora avrebbero tra l’altro recentemente abbandonato le operazioni sul campo per una vacanza nelle isole greche di due settimane. I membri del suo entourage hanno accusato l’ex leader repubblicano di aver lanciato la campagna per la Casa Bianca solo come mezzo pubblicitario per le sue fatiche editoriali.
La sorte di Gingrich era probabilmente d’altra parte già segnata fin dal 15 maggio, quando una incauta dichiarazione al programma “Meet the Press” della NBC aveva suscitato un polverone tra i repubblicani. Durante l’intervista, il candidato repubblicano aveva criticato sia la riforma sanitaria di Obama sia, soprattutto, il progetto avanzato dal deputato Paul Ryan (presidente della Commissione Bilancio della Camera) per smantellare di fatto Medicare, il programma assistenziale pubblico per gli over 65.
Le reazioni seguite a questa presa di posizione di Gingrich - peraltro subito ritrattata - dimostrano a sufficienza lo spostamento a destra del baricentro politico negli Stati Uniti. Negli anni Novanta Newt Gingrich era considerato uno dei politici più a destra al Congresso americano, come testimoniava la sua campagna proprio contro il programma Medicare, mentre oggi appare come una delle voci più moderate all’interno del Partito Repubblicano.
In questo scenario, gli assalti non solo a Medicare, ma anche all’altro popolare programma federale Medicaid (riservato ai redditi più bassi) e al sistema pensionistico, non solo non sono più da evitare per il bene di un candidato, ma appaiono anzi elementi essenziali nella corsa a chi si posiziona più a destra per conquistare una certa credibilità tra l’elettorato conservatore e qualche elogio sui giornali più importanti.
Questa evoluzione è testimoniata anche dal leit-motiv del recente dibattito repubblicano, animato da un coro comune di critiche al presidente Obama. Nonostante quest’ultimo nei primi due anni e mezzo del suo mandato abbia perseguito pressoché esclusivamente politiche favorevoli ai grandi interessi economici e finanziari americani, nella retorica degli attacchi repubblicani viene continuamente dipinto come pseudo-socialista, anti-business e incapace di iniziative che stimolino il settore privato per generare posti di lavoro.
Di queste posizioni di estrema destra è portatrice soprattutto l’unica presenza femminile tra i sette candidati repubblicani, la deputata del Minnesota Michele Bachmann, anch’essa molto vicina ai Tea Party. Grazie anche all’assenza di Sarah Palin, la Bachmann ha mostrato forse la maggiore aggressività durante il dibattito, durante il quale ha ribadito la sua ferma opposizione all’intervento americano in Libia, così come alle riforme di Obama della sanità e del sistema finanziario.
A completare il desolante schieramento dei candidati alla Casa Bianca che hanno animato il secondo confronto pubblico tra i repubblicani sono stati infine l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, tra i più accesi conservatori sui temi sociali e gravitante attorno ai Tea Party; il deputato del Texas Ron Paul, attestato su posizioni libertarie e già in corsa alle presidenziali del 2008; e l’uomo d’affari di colore Herman Cain, ex CEO della catena di ristoranti “Godfather’s Pizza” che sta riscuotendo qualche consenso facendo leva più che altro sull’odio razziale nei confronti dei musulmani d’America.