di mazzetta

Con la terza vittoria consecutiva dell'AKP e di Erdogan, si può considerare compiuta e matura la transizione della Turchia dal governo sotto tutela dei militari a una democrazia funzionante secondo gli standard europei. Condizione da soddisfare per accedere a pieno titolo nell'Unione Europea, ma soprattutto un guadagno netto per i cittadini turchi, che da un decennio di governi Erdogan hanno ricavato pace sociale e un indubbio sviluppo economico.

Queste ultime elezioni, pur assegnando la maggioranza assoluta dei consensi al partito islamico, hanno probabilmente segnato il limite massimo di penetrazione dell'AKP nella società turca. Il restante quasi 50% dell'elettorato è rappresentato da un partito repubblicano al 25%, un'estrema destra fascista e nazionalista che resiste al 16% e dal voto dell'elettorato curdo, che è riuscito comunque a eleggere qualche decina di parlamentari come indipendenti, per aggirare la clausola di sbarramento.

L'AKP può costituire un governo monocolore, ma non ha i numeri per procedere a riforme costituzionali senza passare per le forche caudine dei referendum confermativi e dovrebbe rendersi conto che il consenso di della metà dei turchi è il massimo cui può aspirare ed è, nello stesso tempo, tantissimo. Forte come non mai, Erdogan si è mosso con accortezza in questi anni ed è riuscito a rendere la Turchia un paese attivo e considerato sulla scena internazionale, in particolare sul delicatissimo scacchiere mediorientale. Erdogan non è mai apparso eccezionale, ma se l'è cavata con dignità in situazioni molto difficili e di questi tempi non è facile trovare leader e paesi che riescano a non perdere la faccia in mezzo agli stravolgimenti politici vicini e lontani.

Lo sviluppo economico di questi anni ha reso più forte il suo partito, finora molto simile a una Democrazia Cristiana di stampo islamico, eccessi bigotti compresi, ma ha fatto crescere moltissimo anche il resto della società turca secolarizzata, che si è emancipata in gran parte dalla tutela dell'esercito.

Militari che, da tempo, non hanno più occasione di atteggiarsi a protettori della laicità della repubblica turca e nell'ultimo decennio hanno perso peso sotto i colpi di numerosi scandali e della pressione europea, che governi militari o controllati dai militari in Europa non li vuole.

Peccato che l'anticamera per la Turchia sia destinata a durare fino a quando non si sfogherà l'ondata di consensi per la destra xenofoba europea, ormai unico vero ostacolo all'adesione turca all'UE. E peccato anche che i turchi se ne sentano giustamente offesi, non lo meritano.

In casa la quiete con i curdi regge, anche se non si può dire consolidata e le domande dei curdi sono ancora lontane dall'avere soddisfazione; ma oltre i confini turchi ci sono il Caucaso, l'Iran, l'Iraq e la Siria che adesso sforna migliaia di profughi. La Turchia resta una porta aperta verso i regimi difficili, in particolare quelli minacciati dalla primavera araba e quello iraniano, che però fino ad ora hanno educatamente rifiutato le mediazioni turche e hanno preferito giocare il tutto per tutto.

Anche la storica alleanza con Israele, costruita dal regime militare, è stata interpretata con misura e maggiore indipendenza di giudizio, tanto che è proprio nei momenti di frizione con Israele che Erdogan ha guadagnato punti presso le cancellerie occidentali, riuscendo ad affermare le ragioni del suo paese con grande dignità e misura.

Anche con la Siria Erdogan ha agito con il tempismo giusto e senza turbare nessuno dei numerosi occidentali dalle strane pretese. Prima ha avvicinato il governo di Assad e cercato di accompagnarlo per anni nella direzione gradita agli Stati Uniti, poi l’ha mollato all'unisono con l'Europa associandosi alla condanna britannica del regime quando il regime si è fatto sordo agli inviti a non massacrare i siriani. Facendo per di più una discreta figura, non come i voltafaccia del governo italiano su Gheddafi, Ben Alì e Mubarak. Erdogan non lo deride nessuno.

A meno di evoluzioni imprevedibili, l'AKP è destinato a rimanere a lungo il primo partito turco, ma  anche se il terzo mandato di Erdogan si dovesse confermare all'altezza dei due precedenti, non sembra proprio che ci sia da temere la trasformazione di uno stato islamico sul Bosforo.

Per ora, pur nella vittoria di un partito d'ispirazione confessionale, ci sarebbe da festeggiare la nascita di una democrazia compiuta, per le paranoie contro lo “Stato islamico di Turchia” e l'invasione dei musulmani in Europa non è tempo e non è luogo e si può sperare che non lo diventi mai.

 

 

di Michele Paris

La dodicesima settimana dell’aggressione militare NATO contro la Libia è iniziata con una serie d’incursioni aeree tra le più intense finora registrate. Un’escalation, quella messa in atto da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e dai loro alleati, avvenuta in contemporanea con un meeting dei membri del Patto Atlantico a Bruxelles per aumentare le pressioni su Gheddafi e favorire un cambiamento di regime.

Nel corso del summit dei paesi aggressori, il Segretario alla Difesa americano uscente, Robert Gates, assieme ai suoi colleghi di Parigi e Londra, ha sollecitato alcuni governi ad aumentare il loro impegno bellico. Destinatari delle richieste americane sono stati quei paesi che hanno finora dimostrato le maggiori perplessità circa le operazioni contro la Libia, vale a dire Germania, Turchia, Spagna, Polonia e Olanda.

Il tentativo di coinvolgere nell’intervento altri governi è stato fatto per alleviare il peso, soprattutto economico, degli attacchi, finora a carico di una manciata di paesi. Nonostante le cifre ufficiali parlino di oltre dieci mila incursioni effettuate sulla Libia dalla fine di marzo, l’obiettivo della NATO di piegare la resistenza delle forze fedeli a Gheddafi e spianare la strada per i ribelli di stanza a Bengasi è, infatti, ancora lontano dall’essere raggiunto.

Come tutta l’operazione, anche la retorica di Gates tesa ad allargare la coalizione si basa su una falsa preoccupazione “umanitaria”. Il numero uno del Pentagono ha così insistito perché paesi come Germania o Turchia facciano di più per implementare la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che autorizza l’uso della forza per proteggere la popolazione civile. Un appello singolare quello di Gates, dal momento che fin dal giorno successivo al voto dell’ONU, la NATO ha calpestato quella stessa risoluzione, schierandosi a fianco di una delle due parti coinvolte nel conflitto, senza alcuno riguardo per i civili residenti nelle località controllate da Gheddafi.

Pur senza nuovi contributi, le forze attuali della NATO hanno comunque portato a termine intensi bombardamenti negli ultimi giorni. Nella sola giornata di martedì, come ha testimoniato un inviato del New York Times a Tripoli, sono state ben 157 le incursioni aeree nella capitale libica, tre volte di più rispetto alla precedente media giornaliera. A differenza di quanto fatto finora, i bombardamenti sono poi avvenuti in pieno giorno, rivelando sia l’intenzione di terrorizzare la popolazione sia l’abbandono definitivo dei rimanenti scrupoli per eventuali vittime civili.

Con le difese aeree libiche pressoché completamente annientate, le bombe occidentali, secondo alcune fonti, avrebbero causato solo tra martedì e mercoledì più di trenta morti, distrutto svariati edifici governativi e danneggiato pesantemente abitazioni, scuole e ospedali. Con la consueta giustificazione che gli obiettivi colpiti sarebbero “centri di comando” da cui partono gli ordini del regime per colpire i civili, le forze NATO hanno praticamente raso al suolo il complesso residenziale di Gheddafi Bab al-Aziziya, ma anche l’accampamento nel deserto a sud di Tripoli dove il rais era solito accogliere i propri ospiti stranieri all’interno di lussuose tende.

Questi ultimi bersagli, assieme a varie dichiarazioni dei leader politici e militari alleati, evidenziano come l’assassinio mirato di Gheddafi - del tutto illegale - sia ormai un obiettivo principale delle operazioni NATO. La sua rimozione con mezzi meno estremi era d’altra parte apparsa da subito complicata alla luce dell’inadeguatezza delle forze del governo di transizione sostenuto dall’Occidente. Allo stesso modo, il tentativo di fomentare una rivolta contro Gheddafi all’interno del regime non ha ancora prodotto risultati concreti.

Il cambio di marcia nei bombardamenti è stato segnato inoltre dai recenti annunci da parte di Francia e Gran Bretagna dell’impiego di elicotteri d’attacco che, volando a quote più basse, sono in grado di colpire con maggiore precisione ed efficacia, pur essendo esposti più facilmente al fuoco nemico. Gli Apache britannici e i Tiger francesi hanno iniziato le loro incursioni sabato scorso e, come ha fatto notare alla stampa il vice-premier russo Sergei Ivanov, il loro utilizzo rappresenta “l’ultimo passo che precede un’operazione di terra”.

Il giorno successivo al meeting di Bruxelles, si è riunito poi per la terza volta il cosiddetto “Gruppo di contatto” per discutere del dopo Gheddafi, quando alla guida del paese nord-africano dovrebbe esserci un governo fantoccio formato dai leader dei ribelli di Bengasi. Ad Abu Dhabi, oltre alla promessa di stanziare un miliardo di dollari a beneficio di un “Consiglio Nazionale di Transizione” alla ricerca disperata di fondi, si è parlato in sostanza dei progetti di spartizione delle ricchezze energetiche della Libia nel prossimo futuro.

Oltre a gas e petrolio, all’Occidente fanno gola però anche i miliardi di dollari del fondo sovrano libico depositati dalla famiglia Gheddafi all’estero e che vari paesi hanno da tempo provveduto a congelare. L’intraprendenza finanziaria del rais e della sua cerchia aveva d’altra parte attirato come avvoltoi banche e governi occidentali quando ancora il regime di Tripoli veniva considerato un affidabile partner d’affari.

I rapporti tra le istituzioni finanziarie occidentali e Gheddafi, com’è noto, erano ben consolidati e, alla vigilia delle rivolte nel mondo arabo, poco o nulla ci si curava dei diritti umani della popolazione libica. Le transazioni finanziarie avvenivano ai più alti livelli dei vertici bancari, facendo ricorso quando necessario a pratiche illegali, verosimilmente con il più o meno tacito consenso dei governi.

Tra gli esempi emersi più recentemente, come ha rivelato l’altro giorno il Wall Street Journal, ci sarebbe ad esempio un’indagine aperta negli USA dalla SEC (Securities and Exchange Commission, l’agenzia federale che vigila sul mercato azionario americano) e che riguarda alcune importanti banche d’investimenti.

Secondo gli ispettori statunitensi il gigante Goldman Sachs avrebbe violato una legge sulla corruzione progettando di versare 50 milioni di dollari all’Autorità per gli Investimenti della Libia, incaricata di gestire un fondo sovrano di oltre 40 miliardi di dollari e controllata appunto dalla famiglia Gheddafi. Il pagamento - alla fine bloccato dalla rivolta esplosa nel paese - avrebbe dovuto rientrare in un piano per recuperare le pesanti perdite subite dal fondo libico su un investimento di 1,3 miliardi di dollari gestito da Goldman Sachs.

A intrattenere proficui rapporti con il fondo di Tripoli, secondo le carte delle indagini in corso, sarebbero state però anche altre banche di primo piano nel panorama finanziario internazionale, tra cui almeno Société Générale, HSBC, Carlyle Group, Bear Sterns e la ormai defunta Lehman Brothers.

di Michele Paris

A spuntarla nell’incertissimo ballottaggio delle elezioni presidenziali in Perù, domenica scorsa, è stato l’ex ufficiale dell’esercito Ollanta Humala. Il candidato nazionalista di sinistra dell’alleanza elettorale “Gana Peru” ha beneficiato della diffusa voglia di cambiamento tra i ceti più disagiati del paese andino, superando con un margine inferiore al 3 per cento Keiko Fujimori Higuchi, la 36enne figlia dell’ex presidente peruviano, ora in carcere, Alberto Fujimori.

Per parecchie ore dopo la chiusura dei seggi, la corsa a due per la successione al presidente Alan García è risultata troppo incerta per proclamare un vincitore. Quando alla conta finale dei voti espressi mancavano solo alcuni distretti rurali e più poveri - favorevoli a Humala - il risultato è apparso ormai acquisito. Humala ha così conquistato la presidenza, che gli era sfuggita nel 2006, con poco più del 51 per cento delle preferenze, mentre Keiko Fujimori si è fermata al di sotto del 49 per cento.

A influire in maniera decisiva sull’esito finale è stato probabilmente il risultato della capitale Lima, dove Fujimori si è imposta sul suo rivale con un margine del 15 per cento, cioè notevolmente inferiore rispetto a quanto ci si attendeva. Non solo Humala ha raccolto la maggioranza dei consensi nelle aree più povere della metropoli, ma sembra avere anche convinto almeno una parte della classe media, la quale ha correttamente interpretato la trasformazione di un candidato che cinque anni fa si era presentato agli elettori come l’incarnazione peruviana del presidente venezuelano Hugo Chávez.

Per alleviare i timori delle élites economiche e finanziarie del paese, il neo presidente aveva infatti condotto una campagna elettorale all’insegna della moderazione. La svolta socialista prospettata agli elettori per l’economia peruviana nel 2006 è stata così abbandonata e la promessa di modesti provvedimenti per aumentare la spesa sociale si è accompagnata alle rassicurazioni circa il sostanziale mantenimento del sistema ultraliberista che ha caratterizzato gli ultimi due decenni sotto la guida dei presidenti Fujimori, Toledo e García.

Per Humala la fonte d’ispirazione non è stato più Chavez, bensì l’ex presidente brasiliano Lula, modello decisamente più adattabile alla compatibilità tra progresso sociale e garanzie per i mercati finanziari nel contempo. Già all’indomani della sconfitta di misura del 2006, d’altra parte, Humala aveva cercato di presentarsi con un volto moderato, come hanno rivelato alcuni documenti pubblicati recentemente da Wikileaks. In essi vengono descritte alcune sue visite all’ambasciata USA di Lima per convincere gli americani del suo “pragmatismo” in ambito economico e per affermare il suo contributo alla stabilità del paese di fronte a frange “radicali che minacciano il sistema”.

Nel suo discorso subito dopo la diffusione dei primi risultati, Humala ha chiaramente espresso la volontà della sua amministrazione di continuare a promuovere maggiori investimenti esteri in Perù. Ciononostante, a dimostrazione che anche un sussulto della casa latifondista viene percepito come una minaccia, la risposta dei mercati alla sua elezione è stata del tutto negativa. Le contrattazioni alla borsa peruviana lunedì sono state addirittura sospese per alcune ore dopo un crollo dell’indice del 12,5 per cento. A far segnare i ribassi più significativi sono stati i titoli delle compagnie estrattive, a causa dei timori per una imminente nuova tassa sui loro enormi profitti.

Il presidente dell’associazione degli industriali del Perù si è affrettato poi a chiedere al presidente eletto un gesto che possa assicurare quei settori maggiormente in apprensione per la sua elezione. A chi gli ha fatto notare come la Borsa fosse già crollata dopo la sua affermazione nel primo turno del 10 aprile scorso, Humala tramite un suo portavoce ha tenuto ad affermare che la stabilità del paese non sarà messa a repentaglio dalla sua azione di governo.

Queste paure non rappresentano in ogni caso una predisposizione univoca verso Ollanta Humala dei centri di potere economco-finanziari peruviani. Così come le divisioni al loro interno avevano già permesso la vittoria di Humala al primo turno delle presidenziali disperdendo il voto tra vari candidati di centro, allo stesso modo il successo nel ballottaggio di domenica è giunto in parte grazie all’appoggio esplicito di rappresentanti di spicco della classe dirigente. Tra di essi, hanno appoggiato Humala in maniera più o meno convinta l’ex presidente Alejandro Toledo e lo scrittore premio Nobel Mario Vargas Llosa.

Quest’ultimo, in particolare, dopo aver definito il ballottaggio tra Humala e Keiko Fujimori come una scelta tra “l’AIDS e il cancro”, è risultato decisivo nel dissipare le paure nutrite nei confronti del primo. “Una vittoria di Humala - ha sostenuto Vargas Llosa alla vigilia del voto - non metterebbe in pericolo lo sviluppo economico in Perù, dal momento che il sistema democratico, l’economia di mercato e la proprietà privata saranno rispettati”.

Tra la maggioranza della popolazione peruviana, la candidatura di Humala è stata vista comunque come un’opportunità per porre un freno alle politiche neo-liberiste e allo sfruttamento delle risorse energetiche del paese da parte delle multinazionali estere. Per gli strati più poveri la speranza è ora quella di una qualche redistribuzione della ricchezza prodotta in un paese la cui economia è cresciuta del 60 percento nell’ultimo decennio e di quasi il 9 per cento nel solo 2010. A beneficiare di questa ricchezza è stata tuttavia solo una minima parte della popolazione del Perù, mentre il resto continua a fare i conti con povertà persistente, stipendi inadeguati e aumento del prezzo dei beni di prima necessità.

A testimonianza della profonda avversione popolare per le politiche implementate in questi anni, così come delle aspettative alimentate da Ollanta Humala, nei quartieri più poveri di Lima e in molte altre città del Perù sono scese in piazza migliaia di persone per festeggiare la vittoria elettorale. A ciò va aggiunto inoltre il pericolo evitato di ritrovare il paese immerso nuovamente nell’incubo del “fujimorismo” a poco più di dieci anni dalla caduta dell’ex presidente, condannato a 25 anni di detenzione per corruzione e per i massacri commessi dagli squadroni della morte durante la sua presidenza.

Il vantaggio di cui godrà Humala è quello di avere come partner Bolivia ed Ecuador, che con programmi di riforma ben più accentuati di quello proposto dall’ex ufficiale, garantiranno un retroterra di scambi politici e commerciali regionali attraverso i quali reperire risorse per finanziare i piani di miglioramento economico del Perù. E l'ingresso del Perù nel Banco del Sur e in Unasur, costituirà, comunque, un oggettivo rafforzamento del blocco democratico latinoamericano.

Nonostante ciò, però, l’immediato futuro per il nuovo presidente sarà poi complicato anche dalle inquietudini che pervadono le comunità indigene, preoccupate per l’indifferenza del governo nei loro confronti sulla questione delle concessioni delle terre all’industria estrattiva. In definitiva, Humala sarà chiamato a fare una scelta tra le necessità delle comunità agricole e quelle delle multinazionali, con possibili nuove proteste e la prospettiva di vedere crollare in fretta il gradimento del proprio governo.

La condotta moderata dell’amministrazione Humala, infine, sarà verosimilmente dettata anche dalla realtà politica. Il movimento del presidente eletto può contare infatti su appena 47 seggi dei 130 che compongono il Parlamento di Lima, costringendolo così a cercare l’appoggio e il consenso delle formazioni politiche di centro. Ma nonostante il quadro appena descritto, la vittoria dell’ex militare apre comunque una diversa fase politica per il paese andino. E forse, più che le rassicurazioni di Humala, per la borghesia nazionale e le multinazionali, conta maggiormente un programma di riforme sociali ed economiche che, pur non radicali, sarebbero sufficienti a destabilizzare un sistema che si regge solo grazie al combinato di miseria e repressione che detta il miracolo economico per l’economia e l’asfissia dei settori popolari che lo determinano.

di Michele Paris

Invece dell’equilibrio previsto dai sondaggi alla vigilia, il voto di domenica scorsa in Portogallo ha decretato una netta vittoria del Partito Social Democratico (PSD) di centro destra. Il crollo dei Socialisti (PS) del premier uscente José Sócrates è giunto in seguito all’accordo sul prestito da 78 miliardi di euro, garantito da Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale, per “salvare” il paese dalla crisi finanziaria e alle devastanti misure di austerity già adottate e che nuovamente si prospettano nel prossimo futuro.

Se il presidente della Commissione Europea, l’ex primo ministro portoghese José Manuel Barroso, aveva definito quelle dell’altro giorno le elezioni più importanti per il suo paese dalla fine della dittatura nel 1974, le decisioni che il prossimo governo di Lisbona sarà chiamato a prendere erano in realtà già state prese altrove. Non è stata una sorpresa perciò che la questione politica più scottante all’ordine del giorno - vale a dire i termini del prestito – non sia stata praticamente mai discussa durante la campagna elettorale.

Le elezioni anticipate in Portogallo erano state indette in seguito alla crisi del governo di minoranza guidato da José Sócrates, caduto lo scorso mese di marzo. Dopo aver potuto contare sul tacito appoggio delle opposizioni, astenutesi durante il voto sulle precedenti manovre finanziarie di emergenza, il governo socialista aveva infine incassato il voto contrario del PSD sul più recente pacchetto di austerity.

Di fronte ad una crescente opposizione nel paese, i centri di potere economico-finanziari locali ed europei avevano così provocato la caduta del debole governo Sócrates, in modo da legittimare tramite il voto gli attacchi contro i ceti più deboli della popolazione di cui il nuovo esecutivo avrebbe dovuto farsi carico. Una campagna mediatica pressoché a senso unico ha poi imposto il punto di vista dei creditori internazionali, presentando come inevitabile e irreversibile l’opzione del “salvataggio” UE/FMI per risolvere la crisi del debito portoghese.

Secondo i dati ufficiali, in ogni caso, nel voto di domenica i Social Democratici del futuro premier, Pedro Passos Coelho, hanno raccolto il 39 per cento dei consensi, contro il 28 per cento andato al Partito Socialista, che ha fatto segnare il peggiore risultato da oltre due decenni a questa parte. Il PSD darà così vita ad un governo di coalizione assieme ai conservatori del Partito Popolare (CDS-PP), attestatosi attorno al 12 per cento.

L’annuncio dei risultati elettorali è stato accolto con soddisfazione da parte dei mercati, come ha confermato l’apertura in rialzo della borsa portoghese lunedì. Gli investitori internazionali hanno tirato un sospiro di sollievo dopo le preoccupazioni per una possibile incertezza sull’esito del voto. Come avevano spiegato fino alla nausea svariati analisti finanziari europei ai principali organi di stampa, il rischio maggiore era la mancanza di un chiaro vincitore. Che a prevalere fosse poi il PSD o il PS poco cambiava, dal momento che entrambi i partiti avevano già chiaramente espresso la volontà di assecondare il dettato del Fondo Monetario e dell’Unione Europea.

Il presunto robusto mandato ottenuto dal Partito Social Democratico per somministrare la medicina che già sta facendo sprofondare ancor più nella crisi Grecia e Irlanda deve fare i conti con un astensionismo del 40 per cento e con diffuse proteste di piazza che sono andate in scena nelle ultime settimane. In Portogallo come altrove è d’altra parte sempre più evidente lo scollamento tra la classe politica e la gran parte della popolazione, ostile a un percorso che porti fuori dalla crisi in atto come quello invariabilmente stabilito a Bruxelles o a Washington.

I più importanti partiti portoghesi avevano già dato tutti il loro assenso al pacchetto di salvataggio, lasciando ben poca scelta agli elettori. La stessa alleanza (CDU) tra il Partito Comunista (PCP) e i Verdi (PEV), così come il Blocco della Sinistra (BE), non ha rappresentato una reale alternativa. Per entrambi - rispettivamente fermi al 7,9 e al 5,2 per cento - l’opposizione alla cessione della sovranità economica del loro paese all’Unione Europea e al Fondo Monetario non va infatti al di là di una rinegoziazione dei termini del prestito da 78 miliardi di euro.

Per continuare a sviare la questione del prestito internazionale e delle sue ripercussioni interne, il premier in pectore Passos Coelho nel primo discorso dopo il successo elettorale ha affermato che, nonostante, la terribile situazione in cui si trova il paese, il suo governo cercherà di “andare oltre il programma UE/FMI”. Un proposito quest’ultimo del tutto inverosimile e che non può celare gli ulteriori sacrifici che saranno imposti agli strati più deboli della società portoghese per garantire i creditori internazionali.

I reali contenuti del programma del nuovo gabinetto portoghese si possono trovare piuttosto nelle 34 pagine del memorandum d’intesa firmato lo scorso 5 maggio tra la “troika” - formata da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale - e il governo Sócrates. Tanto per cominciare, il governo entrante (che assumerà i pieni poteri non prima di un mese) dovrà far approvare al Parlamento le nuove misure di austerity entro la fine di luglio, quando i rappresentanti della troika si recheranno a Lisbona per verificare i progressi del loro piano.

Sotto la supervisione di funzionari non eletti, il governo di Passos Coelho sarà inoltre chiamato a implementare tagli alla spesa pubblica pari al 3,5 per cento del PIL nel 2012 e nel 2013. Tutto questo a fronte di un’economia portoghese che dovrebbe contrarsi del due per cento sia quest’anno che il prossimo e di una disoccupazione già al 12,6 per cento e destinata a superare il 13 per cento nel 2012.

Come già accaduto in Grecia e in Irlanda, questi provvedimenti getteranno anche l’economia portoghese in una recessione ancora più grave, causando enormi sofferenze per i redditi più bassi. Come per Grecia e Irlanda, poi, identica la ricetta amara che attende lavoratori, studenti, pensionati e disoccupati portoghesi: smantellamento dei servizi pubblici, congelamento degli stipendi, licenziamenti di migliaia di dipendenti pubblici, privatizzazioni e ulteriore apertura (“riforma”) del mercato del lavoro.

Un’autentica devastazione che renderà rapidamente impopolare il nuovo governo appena uscito dalle urne, ma che servirà ad evitare perdite agli investitori esposti in Portogallo e che libererà decine di miliardi di euro per la ristrutturazione degli istituti bancari in affanno.

di Carlo Musilli

Alla fine sono arrivati i colpi di mortaio. Hanno centrato la moschea del palazzo presidenziale di Sana'a durante la preghiera del venerdì. All'interno c'era Ali Abdullah Saleh, leader dello Yemen dal 1978, che è riuscito a scappare nonostante le ferite. La tv Al Arabiya ha dato la notizia della sua morte, ma presto è stata smentita. Il Presidente in persona ha diffuso un messaggio audio: "Sto bene. Quella banda di fuorilegge ha ammazzato sette persone".

Insieme al dittatore sono rimasti feriti anche il presidente del Parlamento, quello della Camera, il primo ministro e il suo vice. Sabato le vittime dell'attacco sono salite a otto: il premier Ali Mohammad Moujawar è morto in un ospedale saudita. Anche Saleh è stato affidato alle cure dei medici di Riyadh. L’hanno operato per rimuovergli dal torace una scheggia metallica conficcata in un polmone, appena sotto al cuore. Meno gravi le ustioni sullo stomaco e sul volto.

Secondo Al Jazeera, l'interim della presidenza è stato assunto dal vice di Saleh, Abd-Rabbu Mansour Hadi, che per il momento comanda anche le forze armate. Fonti ufficiali yemenite hanno fatto sapere che il Presidente tornerà in patria entro pochi giorni. Ma il fronte dell'opposizione è determinato ad evitare che questo avvenga.

Nel frattempo i combattimenti si sono spostati dal nord al sud della Capitale. Continui bombardamenti hanno colpito la casa dello sceicco Sadiq al-Ahmar, capo della confederazione tribale degli Hashid, che da un paio di settimane ha sposato la causa dei dissidenti. Sono stati loro ad attaccare il palazzo presidenziale. In risposta, sabato le bombe della Guardia repubblicana, il corpo d'elite dell'esercito yemenita, sono cadute anche sulla casa di un altro leader tribale, lo sceicco Hamid, dirigente del partito islamista Al Islah e fratello di Sadiq. Distrutta anche l'abitazione di un terzo fratello, Mizhij, e quella del più potente fra i generali ribelli, Ali Mohsen.

Nelle stesse ore, secondo fonti militari, sarebbe passato al fronte dei ribelli anche un altro pezzo grosso dell'esercito: il generale Jebrane Yahia al Hashedi. Si tratta del comandante della 33esima divisione blindata dell'esercito, che controlla la vasta regione sudoccidentale del Paese, un'area di collegamento strategico tra l'Oceano Indiano e il Mediterraneo, dove passano le petroliere.

Hashedi ha annunciato la sua defezione dalla città meridionale di Taiz. Qui a fine maggio un sit in di manifestanti era stato disperso a suon di pallottole. Sono morte 50 persone. Ancora oggi le forze di sicurezza sparano con regolarità contro i gruppi che scendono in piazza a protestare. Venerdì si sono registrati altri sei morti. A quel punto i soldati della 33esima divisione si sono rifiutati di continuare a premere il grilletto.

Mentre lo Yemen va a fuoco, il resto del mondo sta a guardare, nemmeno troppo interessato. Il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, ha assicurato che la Ue si sta organizzando per evacuare i suoi cittadini. La Germania ha già chiuso la sua ambasciata. Gli Usa si sono sprecati a chiedere il cessate il fuoco e l'avvio pacifico del trasferimento dei poteri in base al piano stabilito dal Consiglio di Cooperazione del Golfo. Le monarchie arabe, a loro volta, hanno detto di voler riprendere l'opera di mediazione interrotta lo scorso 23 maggio.

Dall'inizio della rivolta yemenita, nel gennaio scorso, sono state uccise circa 400 persone. Di queste, oltre 150 sono morte a Sana'a negli ultimi 10 giorni. Cosa succederà adesso è difficile da prevedere. L'unica certezza è che gli scontri armati continueranno a lungo. Sul piano diplomatico e politico, data la sonnolenza degli Stati Uniti e l'assoluto menefreghismo dell'Onu, la comunità internazionale spera nella mediazione dell'Arabia Saudita.

Ryiadh teme il rafforzarsi di Al Qaeda nella Penisola Arabica, che in passato ha tentato di assassinare diversi membri della famiglia reale saudita. Ma soprattutto la ribellione yemenita si concentra nei territori settentrionali del Paese, pericolosamente vicini alla frontiera con l'Arabia. E il contagio della rivolta sciita è più temibile della peste nera.

Per riprendere la strada della trattativa, nei prossimi giorni alcuni rappresentante degli Ahmar potrebbero atterrare a Riyadh. Con ogni probabilità le parti cercheranno di sedurre il grande arbitro saudita affermando la propria autorità, la propria capacita di controllo del territorio. Saleh continuerà a ripetere che, nonostante tutto, la maggior parte dell'esercito è ancora fedele a lui. Ma non sarà sufficiente. Nessuno ha più rispetto del vecchio e malridotto Presidente. In un cablo pubblicato da WikiLeaks, il ministro degli Interni saudita ha scritto ad alcuni diplomatici americani che ormai "al leader yemenita la situazione è completamente sfuggita di mano".

D'altra parte gli Ahmar sono dei semi-sconosciuti. Lo sceicco Sadiq è un politicante d'esperienza, ma non ha mai ricoperto alcun incarico pubblico. Sono i soldi e la leadership tribale a dargli credibilità, al punto che perfino molti degli studenti da cui è partita la rivolta vedono in lui un'alternativa accettabile a Saleh. Se qualcosa è cambiato negli ultimi giorni, oltre all'escalation di violenza, è proprio il ruolo dell'Arabia Saudita. Accogliendo il dittatore yemenita nei propri confini, il più importante fra i Paesi arabi si é definitivamente assunto delle precise responsabilità. E a Washington hanno tirato un bel sospiro di sollievo.

 


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