di Michele Paris

Da qualche tempo gli Stati Uniti stanno facendo enormi pressioni sul governo dell’Iraq per cercare di mantenere una presenza consistente di proprie truppe in questo paese oltre il 31 dicembre prossimo. Lo spostamento della data fissata bilateralmente per il ritiro di tutti i soldati americani potrebbe tuttavia creare non pochi problemi al governo del premier Maliki e minacciare la stabilità stessa del paese. Con l’avanzata delle proteste nel mondo arabo, da Washington sembrano in ogni caso pronti ad accettare il rischio pur di avanzare i propri interessi strategici nella regione mediorientale.

Secondo l’accordo firmato con il governo di Baghdad dal presidente Bush nel novembre 2008, tutte le truppe statunitensi sul suolo iracheno dovranno ritirarsi entro la fine dell’anno 2011. Attualmente, in Iraq sono presenti poco meno di 50 mila soldati occupanti. Nonostante Barack Obama nell’agosto scorso dichiarò ufficialmente concluse le operazioni di combattimento, la svolta è stata puramente di facciata e gli americani continuano a mantenere numerose basi militari nel paese.

Ad alzare la voce a Washington negli ultimi giorni è stato il Segretario alla Difesa uscente, Robert Gates, destinato il 30 giugno prossimo a lasciare l’incarico affidatogli da George W. Bush nel 2006 al direttore della CIA, Leon Panetta. In una conferenza presso il think tank conservatore "American Enterprise Institute", il numero uno del Pentagono ha sostenuto chiaramente la volontà del proprio governo di continuare a mantenere un contingente militare in Iraq ben oltre il 31 dicembre 2011.

Ciò che spinge gli americani a volere rimanere, a detta di Gates, è l’incapacità dei militari iracheni a difendere da soli il paese. L’esercito locale sarebbe sprovvisto degli strumenti logistici e di intelligence necessari a far fronte alle minacce interne ed esterne. Le carenze dell’Iraq sono peraltro la diretta conseguenza dell’invasione illegale degli Stati Uniti nel 2003 e della successiva incapacità degli occupanti di costruire una struttura statale e di difesa autonoma ed efficace. Ciò corrisponde d’altra parte alla strategia americana che punta precisamente su una controparte irachena debole per giustificare la propria permanenza nel paese.

Le dichiarazioni di Gates sono solo l’ultimo di una serie di interventi dei vertici politici e militari americani sul governo di Maliki per convincerlo a richiedere in maniera formale il prolungamento della scadenza del 31 dicembre. Lo stesso Segretario alla Difesa e il Capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen, erano stati a Baghdad lo scorso mese di aprile per premere sul primo ministro, così come hanno fatto altri esponenti di spicco del Dipartimento di Stato inviati nelle ultime settimane a Baghdad.

A oltre otto anni dall’invasione dell’Iraq, l’atteggiamento americano rivela ancora una volta le ragioni che hanno spinto gli Stati Uniti a rovesciare il regime di Saddam Hussein. Nel suo intervento all’American Enterprise Institute, Gates ha affermato che la permanenza di truppe USA in Iraq manderebbe un segnale forte a tutta la regione. Un segnale rassicurante per le monarchie dittatoriali del Golfo - impegnate nella repressione del dissenso interno con l’avallo di Washington - e, al contrario, ben poco incoraggiante per l’Iran, con cui si getterebbero le basi per un ulteriore inasprimento dei rapporti.

Un’avventura bellica intrapresa per impedire il proliferare d’inesistenti armi di distruzione di massa e per portare la democrazia viene dunque ora prolungata a oltranza per consentire il controllo da parte americana del quarto paese del pianeta per riserve petrolifere accertate. Il diffondersi delle inquietudini nei paesi arabi rende poi ancora più urgenti le necessità strategiche americane di continuare ad esercitare la propria influenza in un Medio Oriente in pieno fermento.

Chiedere ai vertici militari degli Stati Uniti di rimanere nel paese indefinitamente è in ogni caso una decisione a dir poco complicata per Maliki, dal momento che l’occupazione americana è comprensibilmente avversata dalla stragrande maggioranza degli iracheni. In suo soccorso potrebbe però giungere un imminente rapporto sulle condizioni delle forze armate locali stilato dai comandanti militari, i quali hanno ottenuto i loro incarichi proprio grazie agli Stati Uniti. Secondo quanto scritto dalla Reuters un paio di giorni fa, il quadro dipinto dai generali iracheni sarebbe quello di un esercito impreparato a difendere il paese e a contrastare eventuali attacchi degli “insorti”.

Se questa relazione potrebbe fornire al premier Maliki l’assist per chiedere la permanenza delle truppe USA, la questione rimane comunque estremamente delicata. Tant’è vero che lo stesso Maliki aveva sempre respinto fermamente ogni ipotesi di prolungamento del trattato con Washington. Dietro insistenza americana, il primo ministro solo recentemente ha mostrato maggiore disponibilità, vincolando però la decisione ad un accordo da cercare con la maggioranza delle forze politiche irachene.

Sempre il Segretario Gates ha apertamente ammesso di perseguire una politica rischiosa per la stabilità del paese e che va contro i sentimenti della popolazione irachena. Per Gates, infatti, “prolungare l’occupazione americana è una sfida politica perché, che ci piaccia o meno, non siamo molto popolari in Iraq”. Alla luce della distruzione della società irachena dopo l’invasione del 2003, della morte di oltre un milione di persone e di un’occupazione senza fine in vista, l’analisi del capo del Pentagono risulta facilmente condivisibile.

All’interno del gabinetto di Maliki le resistenze maggiori sono quelle dei sadristi di Muqtada al-Sadr che continuano a mettere in guardia da un allungamento dei tempi per il ritiro delle forze americane. Le loro minacce risultano particolarmente preoccupanti, visto che il secondo governo Maliki è potuto nascere solo grazie al supporto dei trenta parlamentari sadristi dopo uno stallo durato nove mesi in seguito alle elezioni del marzo 2010. In questo scenario, è facile prevedere che un accordo tra Maliki e gli americani provocherebbe una rapida caduta del governo a Baghdad e una nuova escalation di violenze nel paese.

I sadristi e il loro “esercito di Mahdi” condussero già una lotta armata contro gli statunitensi nel 2004 e oggi possono contare su un vasto seguito tra gli sciiti più poveri residenti a Baghdad e nel sud dell’Iraq. Le sole voci di una possibile permanenza nel paese di truppe americane dopo la fine dell’anno hanno causato negli ultimi mesi un intensificarsi degli attacchi contro i soldati occupanti.

Contro l’occupazione non mancano poi anche accese manifestazioni di protesta, come quella andata in scena proprio giovedì a Baghdad e a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone. Sciiti dei quartieri più disagiati e sostenitori di Muqtada al-Sadr hanno sfilato per le strade della capitale calpestando e bruciando bandiere americane e di Israele. Un messaggio chiaro quello lanciato dai partner di governo di Maliki e con il quale il premier iracheno dovrà fare i conti se deciderà di assecondare i progetti di Washington per il futuro del suo paese.

di Carlo Musilli

I socialisti di Zapatero sono crollati. Alle elezioni amministrative di domenica il Partito Popolare li ha staccati di 10 punti. Il Governo forse non resterà in carica fino alla fine del mandato, nel marzo 2012, ma la vera notizia è che il bipolarismo spagnolo sembra resistere. Non c'è stata un'esplosione di astensionismo (che addirittura è diminuito di due punti), né un grosso recupero dei partiti minori. E questo nonostante il "Movimento degli Indignati", che la settimana scorsa ha tenuto banco in tutto il Paese.

Migliaia di studenti, precari e disoccupati si sono accampati per giorni nei luoghi più rappresentativi di varie città. Su tutti, Puerta del Sol a Madrid e Plaza de Catalunya a Barcellona. Altre manifestazioni si sono svolte a Valencia, Saragozza, Palma de Mallorca, Siviglia e Bilbao, giusto per citare i centri maggiori. Sembra che in tutto i comuni coinvolti siano stati 166. "I politici non ci rappresentano", "siamo stufi", si leggeva un po' ovunque su cartelli e striscioni.

In realtà, gli Indignados non hanno dato indicazioni di voto. Non hanno nemmeno chiesto l'astensione. Hanno protestato in modo pacifico, seduti per terra a parlare. Al contrario di quello che spesso avviene in Italia, non hanno offerto alla Polizia la soluzione facile di una bella carica vecchio stile. Per queste ragioni la loro è stata una protesta efficace.

A questo punto, sgomberare i giovani con la forza sarebbe stato il suicidio politico definitivo. Così dal primo ministro sono arrivate solo delle frasi un po' ruffiane e un po' goffe, vaghe al punto giusto da non voler dire niente. Di fronte alle manifestazioni, il governo si è comportato "in maniera corretta e intelligente", dando prova "di comprensione e sensibilità". D'altra parte, la protesta si è espressa in maniera pacifica "e questo è stato importante".

Anche se la Commissione elettorale aveva dichiarato illegali le concentrazioni di protesta alla vigilia del voto, il governo non ha potuto fare nulla contro questi ragazzi. Aveva in mano una pistola scarica. "Non stiamo facendo politica", dicevano dalle piazze. Eppure i giovani hanno messo nero su bianco un manifesto chiaro e conciso. Con richieste secche e pragmatiche, mica campate in aria. Su alcuni punti forse sono andati un po' fuori tema, ma non li si può comunque tacciare di ingenuità.

Gli Indignados combattono la loro battaglia principalmente sul piano del lavoro, esasperati da un tasso di disoccupazione giovanile siderale (addirittura il 45%). A Bruxelles come a Madrid, i potenti devono rendersi conto che gambizzare una generazione non è un modo efficace di uscire dalla crisi. Purtroppo il Governo è troppo impegnato a inventarsi misure rocambolesche per rianimare un Pil moribondo. Non vuole capire che per far risorgere il Paese è indispensabile investire in formazione e occupazione. Anche se i piani di ripresa economica funzionassero davvero, finché non ci sarà un'adeguata tutela del diritto al lavoro, il Paese continuerà a non avere futuro.

Ma non basta. Gli Indignados parlano anche di una metamorfosi completa del sistema. Vogliono una riforma elettorale e una fiscale, una tassa sulle speculazioni finanziarie e la nazionalizzazione delle banche salvate dallo Stato. Vogliono che la monarchia sia abolita, che in politica si combatta la corruzione e che agli indagati non sia permesso di ricandidarsi. Chiedono poi una nuova legge sul finanziamento ai partiti, la soppressione dei fondi alla Chiesa, il decentramento amministrativo. E che siano chiuse tutte le centrali nucleari.

La posizione del governo socialista nei confronti degli Indignados è stata ambigua. Non poteva essere diversamente. Il partito di Zapatero, lo stesso che fino a qualche anno fa era esaltato come l'araldo del rinnovamento europeo, non è mai arrivato così in basso nella classifica di chi promette e non mantiene. Dopo gli ultimi, duri interventi per mettere un freno al deficit galoppante, gli elettori sono scappati. Il rischio però è che, qualora la destra dovesse tornare al governo, nessuna delle richieste degli Indinados troverebbe ascolto; anzi, le politiche economiche, sociali e il rapporto con la chiesa e la monarchia andrebbero proprio nella direzione opposta da quella auspicata dai manifestanti.

Nemmeno tanto tempo fa, Zapatero avrebbe avuto buon gioco a cavalcare l'onda di un movimento giovanile che riscuote tante simpatie in tutto il Paese. Oggi che quel movimento si rivolta contro di lui, il suo imbarazzo è evidente. Forse ha perfino paura. Vorrebbe riavvicinarsi alle piazze, ma è come un elefante che cerca di destreggiarsi in una cristalleria. Quanto all'opposizione, sarebbe troppo chiedere al Partito Popolare di Mariano Rajoy di ricavare qualcosa dagli avvenimenti della settimana scorsa. L'unico tentativo che hanno fatto è stato quello di sfruttare la protesta per attaccare i socialisti. Nemmeno a dirlo, con risultati patetici di questo livello: "Quando governava il Pp nessuno era indignato!". Davvero poco per tirarsi fuori da quella che ormai sembra una plaza de toros nazionale. Gli indignados ce l'hanno anche con loro.

Nel frattempo il movimento si è espanso anche fuori dalla Spagna: Buenos Aires, Bogotà, Città del Messico, Bruxelles, Edimburgo, Berlino, Parigi. E perfino Roma. Solo che da noi, come sempre, arrivano in piazza anche i politici di professione. Magari in sordina, con passo felpato, ma alla fine arrivano. In Spagna li avrebbero cacciati.

 

di Vincenzo Maddaloni

TEHERAN. L’ultima esternazione è di qualche giorno fa, quando ha affermato che l'eliminazione di Osama bin Laden é stata tutta una montatura per aiutare Barack Obama a riconquistare la Casa Bianca nel 2012. Con l’occasione il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha pure affermato che gli americani avevano già nelle loro mani «da un po' di tempo» il fondatore di al Qaeda e che hanno deciso di ucciderlo «per motivi di politica interna».

La notizia sull’intervento del Presidente iraniano potrebbe concludersi con queste battute se non fosse che - udite,udite - l’uomo che l’Occidente vede come un minaccioso oscurantista, da qualche tempo a questa parte appare agli iraniani come un liberal, un laico sovversivo. http://online.wsj.com/article/SB10001424052748704693104575638210916460270.html .

All’origine, si sussurra, c’è la lotta tra gli ayatollah per la successione a Khamenei che scuote il Paese. Ma se restiamo ai fatti, vanno ricordati i ripetuti attacchi con i quali il partito conservatore mira ad erodere progressivamente il  potere del Presidente.  Ad Ahmadinejad  si rimprovera l’impegno più volte dichiarato di voler celebrare gli antichi fasti di in un Paese dove la popolazione tuttora parla di “invasione araba” per eventi che risalgono a oltre un millennio fa e continua a utilizzare con orgoglio la lingua persiana, sopravvissuta all’imperialismo arabo che convertì l’antica Persia all’Islam.

Infatti, Ahmadinejad e il suo consigliere più fidato, Esfandiar Mashaei, hanno rivalutato, con tutta una serie di celebrazioni, il concetto di “Islam Iraniano”, facendo del nazionalismo una colonna portante della politica governativa e rievocando in più occasioni la grandezza pre-islamica dell’Iran. Naturalmente, le mosse del presidente hanno irritato il clero più conservatore, poiché malgrado in ogni paese l’elogio delle memorie antiche sia ben accetto, nella Repubblica Islamica invece, esso è considerato un’eresia.

Il conflitto tra gli ayatollah e Ahmadinejad è diventato pubblico dopo che a metà aprile il presidente ha costretto alle dimissioni il ministro del Servizi segreti, Heydar Moslehi, molto legato alla guida suprema, l’ayatollah Khamenei. Pochi giorni dopo, però, egli è stato di nuovo reintegrato nella carica e nel medesimo tempo l’ufficio di Khamenei ha diffuso un comunicato nel quale si dichiarava che il comportamento di Ahmadineijad equivaleva a un «rinnegamento della fede» http://www.nationalreview.com/articles/254072/islamist-turkey-vs-secular-iran-daniel-pipes .

Un’accusa pesante, poiché nella Repubblica islamica dell’Iran spetta ai preti l’ultima parola su ogni singolo atto del governo della nazione. Essi conserveranno questo potere che li pone al di sopra di tutto e di tutti fino a quando non ricomparirà sulla terra il “Dodicesimo Imam”, il Mahdî, come promette il credo sciita. Quindi il solo tentativo di governare lo Stato come un ente a sé stante, senza interpellare le tonache che rappresentano la volontà divina diventa, in Iran, blasfemia.

E dunque Ahmadinejad avrebbe peccato non soltanto per l’eccessiva indulgenza con la quale è stata “concessa” alle donne la possibilità di presenziare alle manifestazioni sportive, ma perché egli ha rivendicato la centralità della sua figura di Presidente laico nel sistema teocratico vigente a Teheran, dichiarando non indispensabile l’approvazione del Parlamento per ogni suo atto. Così facendo egli ha innescato una sorta di conflitto istituzionale subito stoppato dall’intervento di Ali Khamenei che ha nominato una commissione arbitrale per la risoluzione della controversia. Il che significa, in questa parte di mondo, che bisogna prepararsi al peggio.

Tuttavia, Ahmadinejad non sembra preoccuparsene, perché ha licenziato altri tre ministri (del Petrolio, del Benessere sociale e dell’Industria) senza chiedere al Parlamento l’autorizzazione. L’obiettivo è evidente: ridurli da 21 a 17 perché con meno ministri e dovendo egli da ora rappresentare anche i tre ministeri, vede accrescere il suo potere. http://news.yahoo.com/s/afp/20110516/bs_afp/iranoilopec_20110516072527. E’ accaduto benché il presidente del Parlamento, Ali Larijani, gli avesse intimato di non trasgredire la Costituzione, «perché la nomina e l’assetto del governo sono una prerogativa parlamentare». Sicché la Guida suprema si ritrova con un’altra grana sulla scrivania, e sarà costretta a prendere una decisione che in ogni caso allargherà la frattura all’interno delle istituzioni. http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-11824142. Ecco perché sostenere che ci si “prepara al peggio” non è affatto un’esagerazione.

Evidentemente, Ahmadinejad non agisce a caso. Il suo stile populista fa ancora presa sui poveri e i ceti bassi, soprattutto è condiviso sul piano culturale. Ha ancora la sua Peugeot vecchia di 30 anni, e continua a ripetere che « i soldi delle mafie del petrolio devono finire sul sofreh degli iraniani poveri», con un riferimento al tappeto su cui le famiglie più umili si siedono per mangiare. L’umile figlio della rivoluzione, il semisconosciuto sindaco di Teheran, è diventato - ricordate - il presidente più temuto della Terra nel modo più brutale con quella dichiarazione:«Israele va cancellata dalle carte geografiche», con la quale si era guadagnato le prime pagine dei giornali a livello internazionale.

Apriti cielo, da allora non ci siamo persi una battuta. Anche quando, qualche tempo dopo, alla Conferenza islamica alla Mecca, in un clima di estrema religiosità, se ne uscì con una dichiarazione bomba quando affermò che l’Israele deve essere trasferita in una località dell’ Europa o del Canada o dell’ Alaska. Poi ancora, nella città di Zahedan, quando aveva definito l’olocausto «un mito» raccogliendo l’ovazione delle «genti più povere». E infine - pochi giorni fa - quando commentando l’uccisione di bin Laden ha detto di essere in possesso di «precise informazioni» a comprova della sua versione dei fatti, aggiungendo che l'ex presidente americano George W. Bush «ha invaso la nostra regione per salvare l'economia degli Usa e guadagnare i voti degli americani, e il suo successore è arrivato al potere seguendo la stessa linea».

Per meglio capire, si tenga a mente che sul versante religioso, il primo mentore di Ahmadinejad è l’ayatollah Mohammad Taqi Mesbah Yazdi. E’ uno che conta, uno tosto, un accanito sostenitore del confronto non soltanto ideologico. http://en.wikipedia.org/wiki/Mohammad-Taqi_Mesbah-Yazdi. Egli è il titolare della più agguerrita scuola islamica del centro religioso della città santa di Qom, a cento chilometri da Teheran, ma soprattutto è il leader di un’associazione islamica che in questi anni in Iran si è mossa come una consorteria potentissima. Il teologo pubblicamente guida l’Istituto Imam Khomeini, la più ricca università islamica di Qom, e discretamente benedice l’associazione Hogiatieyeh, una sorta di Opus Dei islamica, fondata all’inizio del 1900 e che lavora nell’ombra, adocchiando e allevando gli studenti migliori nelle madrasse di Qom, seguendoli nell’ingresso nel mondo del lavoro, collocandoli - soprattutto dopo la rivoluzione - nei posti chiave, ma anche in quelli di medio livello di tutte le organizzazioni che contano.

Con l’ayatollah Mesbah Yazdi il presidente Ahmadinejad tiene da sempre, come usa dire, un rapporto da discepolo a maestro, e quindi di stretta consulenza, che ricade su ogni sua azione politica connotandola di sapori ecclesiali. Yazdi l’ha plasmato come si conviene. Infatti, per mantenere alto il consenso interno Ahmadinejad sempre più nei suoi discorsi cita Abul-Kasim Muhammad che per gli sciiti duodecimani è il dodicesimo Imam, il Mahdî (“ben guidato [da Dio]”), l’ “Imam nascosto” colui che ha il compito di ristabilire la giustizia prima del Giudizio Universale e di guidare la comunità persiana fino alla fine del mondo.

Sicuramente l’ayatollah Yazdi continua a vegliare sul suo pupillo sul quale ha investito molto del suo prestigio e perciò si adopera - è opinione diffusa - per ricucirgli lo strappo con Khamenei, anzi come si sostiene qui il “gesto d'insubordinazione” nei confronti della Guida Suprema, che  è dovuta più volte intervenire per riaffermare il primato delle “teste fasciate”. Tuttavia l’ayatollah Yazdi, che ha tanto di sito web personale, e i suoi testi teologici sono offerti su Amazon, sa che l’Ahmadinejad furibondo, il quale per una decina di giorni ha disertato gli impegni istituzionali, riassume il crescente malessere delle masse.

Accade in un Paese nel quale la Banca centrale ha appena annunciato che l’inflazione sui generi alimentari è del 25 per cento e la disoccupazione reale intorno al 30 per cento (anche se un importante membro del Parlamento ha dichiarato che si tratta di cifre ritoccate, e che i dati reali sono più preoccupanti). La novità comunque è che anche loro, le classi più povere, le più numerose si sono stancate di questo governo di preti che continua a promettere e non riesce a concretizzare.

Ne è la conferma più evidente Ahmadinejad che prende le distanze da un establishment clericale con il prestigio compromesso e in erosione, e lo sfida in vista delle elezioni del prossimo anno per il rinnovo del Parlamento dove appunto forte è la presenza dei preti. Egli conta, così facendo, di aumentare la propria popolarità. In quest’ottica la decisione di sfoltire i ministri sarebbe soltanto il primo atto di un confronto che dovrebbe concludersi con un ridimensionamento del potere politico degli ayatollah.

Non si annuncia facile poiché da una parte c’è il clero che si arroga il diritto di governare perché - sostiene - esso si radica  sulla sovranità di Dio, sulla centralità dell’Onnipotente e sul consenso di coloro che vengono governati. Dall’altra parte c’è soltanto la constatazione che nella culla del modello teocratico dell’Islam sciita, l’ultimo elemento, il consenso, si sta sbriciolando. Un dato comunque non da poco per chi vuol perseverare nel confronto. Che in questa parte di mondo è ideologico, religioso, culturale, sociale, politico. Non sul Bunga bunga, per intenderci.

 

 

 

 

 

 

 

 

di Michele Paris

Le attività dell’ENI costituiscono da tempo un motivo di apprensione per gli Stati Uniti. L’indipendenza del gigante energetico italiano sembra suscitare profonde preoccupazioni per Washington soprattutto a causa delle relazioni stabilite con la compagnia (semi) pubblica russa Gazprom e del coinvolgimento in progetti estrattivi in Iran. A rivelare le manovre messe in atto da Washington per convincere l’ENI e il suo amministratore delegato, Paolo Scaroni, a conformarsi ad una politica più consona agli obiettivi strategici americani ed europei, sono alcuni cablo recentemente divulgati da Wikileaks, che lasciano intravedere anche i veri motivi che stanno dietro all’aggressione in corso contro il regime di Gheddafi in Libia.

Si deve premettere che gli oltre 250 mila cablo della diplomazia americana su cui ha messo le mani Wikileaks continuano a vedere la luce su svariati giornali di tutto il mondo. Negli USA, la testata McClatchy ha raggiunto un accordo con il sito fondato da Julian Assange per la pubblicazione di quasi 24 mila documenti. Tra questi ve ne sono molti che descrivono con perizia come a guidare la politica estera americana sia principalmente la necessità di controllare le fonti energetiche del pianeta.

Proprio McClatchy ha pubblicato qualche giorno fa due cablogrammi che riguardano l’ENI, redatti dall’ambasciatore americano a Roma tra il 2005 e il 2009, Ronald P. Spogli. Il primo documento è datato 12 gennaio 2007 e indirizzato al Dipartimento di Stato sotto la classificazione di “segreto”. In esso si racconta di un incontro del precedente 9 gennaio tra Spogli e Scaroni, nel quale quest’ultimo riferisce di un’offerta fatta all’ENI da parte del Ministero dell’Energia iraniano a margine di una conferenza OPEC. I funzionari del governo di Teheran in quell’occasione proposero alla multinazionale italiana la possibilità di investire nei giacimenti petroliferi di Azadegan e South Pars.

Nel diligente resoconto fatto agli americani, Scaroni afferma di aver risposto agli iraniani che l’ENI era interessato all’investimento, ma ad alcune condizioni. I ricavi dell’ENI dovevano essere cioè basati sul prezzo internazionale di petrolio e gas naturale piuttosto che su importi predefiniti in relazione al prodotto estratto, mentre i nuovi investimenti sarebbero dovuti rientrare nell’ambito dei contratti già in essere con l’Iran. In questo modo sarebbe stata soddisfatta la terza condizione posta dal manager italiano, quella di non incorrere nelle sanzioni applicate contro la Repubblica Islamica a causa del suo presunto programma nucleare.

Della proposta iraniana Scaroni aveva discusso con l’allora premier Prodi e con il Ministro degli Esteri D’Alema, e all’ambasciatore USA aveva confermato il desiderio dell’ENI di avere un rapporto trasparente con Washington riguardo i propri rapporti d’affari con l’Iran. Per alleviare i timori statunitensi, Scaroni aveva sottolineato come l’Iran fosse l’unica valida alternativa alla Russia per l’approvvigionamento di gas naturale destinato al mercato Europeo.

Le rassicurazioni di Scaroni non fecero tuttavia nulla per dissipare le perplessità americane. Spogli, infatti, fece intendere chiaramente come il suo governo fosse contrario a qualsiasi investimento che andava a favorire il regime di Teheran. L’ambasciatore americano a Roma sollecitava poi l’Amministrazione Bush a premere allo stesso modo su Scaroni nel corso del suo imminente viaggio a Washington (4 e 5 febbraio 2007) per il forum dell’Aspen Institute su energia e sicurezza.

Per Spogli gli incontri di Scaroni con i funzionari USA sarebbero stati un’eccellente opportunità per far comprendere all’ENI le conseguenze di eventuali nuovi investimenti nel settore energetico dell’Iran, dove la compagnia ha peraltro già investito 2,5 miliardi di dollari a partire dagli anni Cinquanta.

Anche nel secondo cablo pubblicato da McClatchy si riscontrano identiche preoccupazioni per gli affari dell’ENI in Iran (“vorremmo che l’ENI abbandonasse l’Iran”, sostiene senza mezzi termini l’ambasciatore americano), ma a prevalere sono in questo caso le inquietudini per gli stretti legami con Gazprom. La data è quella del 24 aprile 2008 e la classificazione è “confidenziale”. Un’altra visita di Scaroni a Washington, in programma tra il 5 e il 6 maggio dello stesso anno, secondo l’ambasciatore Spogli avrebbe fornito l’opportunità di ricordare “in maniera molto chiara” al numero uno dell’ENI la posizione americana circa le attività della sua compagnia.

Lo scrupolo immediato per gli Stati Uniti è rappresentato dal fatto che ENI è un partner al 50 per cento di Gazprom nel progetto South Stream, il gasdotto che dovrebbe collegare la Russia con l’Europa passando per il Mar Nero. Anche se un dirigente della compagnia italiana aveva confidato all’ambasciata USA che vi erano difficoltà nell’avanzamento del South Stream a causa di contrasti con Serbia e Romania. Per Washington questo progetto continuava a rappresentare una minaccia alla costruzione del gasdotto Nabucco, sponsorizzato dagli stessi americani e dall’Unione Europea per trasportare il gas estratto dai giacimenti nel bacino del Mar Caspio e ridurre così la dipendenza dalle forniture russe.

La diversificazione degli approvvigionamenti europei viene continuamente citata nel cablo diffuso da Wikileaks e ritorna in un passaggio chiave per comprendere forse anche le origini dell’aggressione militare in corso in Libia. L’ambasciatore Spogli fa riferimento a un recente “accordo con Gazprom secondo il quale ENI faciliterebbe l’accesso dei russi ai giacimenti di gas naturale in Nord Africa” - più precisamente in Libia - in cambio della concessione alla stessa ENI di operare in quelli situati in Russia.

Per convincere Scaroni a rinunciare all’alleanza con Gazprom - che nell’ottica americana minaccia il controllo delle ingenti risorse energetiche nordafricane da parte di Washington - si propongono allora pressioni sul premier in pectore Silvio Berlusconi, fresco vincitore dalle elezioni politiche (13 e 14 aprile 2008) e autore della nomina dello stesso manager al vertice dell’ENI nel 2005. Se i rapporti di Berlusconi con Putin sono visti come una complicazione, gli americani intravedono però maggiori possibilità di intesa con altre personalità che stavano per far parte del nascente governo, a partire da Giulio Tremonti.

Al futuro Ministro dell’Economia viene attribuito un commento negativo sulle attività dell’ENI (“è andato troppo in là”) che indicava un possibile malcontento all’interno del nascente gabinetto Berlusconi circa la condotta di Scaroni. Con la consueta fermezza, l’ambasciata americana a Roma - dopo aver citato le accuse di corruzione sollevate in tempi più o meno recenti nei confronti di Scaroni - raccomanda ancora una volta di manifestare all’ENI tutto il dissenso del governo di Washington e di “sollecitare … un riallineamento dei progetti e della politica aziendale agli sforzi dell’UE nel diversificare le fonti dei rifornimenti energetici”.

Mentre dalle precedenti visite negli Stati Uniti Scaroni era tornato con l’impressione che gli affari dell’ENI non rappresentavano motivo di grave preoccupazione per Washington (sostiene il diplomatico americano) nell’imminente incontro dei primi di maggio del 2008 sarebbe stato utile, al contrario, trasmettergli una maggiore consapevolezza della profonda disapprovazione degli USA per la vicinanza a Gazprom e le operazioni condotte in Iran.

Se le iniziative diplomatiche statunitensi non riuscirono nell’obiettivo di escludere la compagnia russa dalla Libia e dal Nord Africa, maggiore successo hanno avuto le operazioni militari attualmente in corso, non a caso duramente criticate da Mosca. Puntualmente, un mese dopo l’inizio dei bombardamenti NATO contro il regime di Gheddafi, i vertici di ENI e Gazprom hanno annunciato, infatti, il congelamento “temporaneo” dell’accordo che avrebbe consentito alla compagnia russa di assicurarsi una buona fetta del petrolio e del gas libico.

Un epilogo inevitabile con l’arrivo delle bombe occidentali sulla Libia e che, come mostrano i documenti resi pubblici da Wikileaks, gli Stati Uniti auspicavano, e per il quale si erano adoperati, a partire almeno dal 2008.

di Carlo Musilli

Lo chiamano Saif Al-Adeli, "Spada della Giustizia", ma il suo vero nome è Muhammad Ibrahim Makkawi. Secondo la Cnn, che ha ripreso alcune indiscrezioni apparse sulla stampa pakistana, sarebbe il successore di Bin Laden. Makkawi è un cinquantenne egiziano, ex ufficiale delle Forze speciali poi diventato comandante del ramo di Al Qaeda attivo nel suo Paese. Ci dobbiamo credere? Sembra tanto un'investitura di comodo, arrivata perché proprio non se ne poteva fare a meno.

Pare che negli ultimi giorni la comunità jihadista abbia espresso su internet un certo nervosismo. Dopo la morte dello sceicco, la latitanza del successore non giovava alla loro causa. D'altra parte, Al-Adeli non è stato eletto secondo copione. E' un tantino pericoloso riunire il Consiglio della Shura proprio adesso, quindi alla nomina ci hanno pensato una manciata di leader sparsi tra Afghanistan e Pakistan. Qualcuno dice che tra i fondamentalisti siano nate tensioni perché la scelta è ricaduta su un egiziano: avrebbero preferito un islamico puro, originario della penisola arabica.

Nemmeno questa posizione è tanto credibile. Se non altro perché è egiziano anche Al Zawahiri, ex braccio destro di Osama, da molti considerato suo naturale successore. Era la sua investitura che il mondo aspettava. Secondo Noman Benotman, ex militante di un gruppo libico affiliato al network terroristico e oggi analista a Londra, "il ruolo assunto da Al-Adeli non è di leadership complessiva, ma solo di natura operativa e militare".

Anzi, sempre secondo Benotman, la sua nomina "ad interim" aprirebbe addirittura la strada "all'ascesa di Al Zawahiri", che avrà più tempo per convincere la base dell'organizzazione della propria fedeltà. Pur essendo lui il più vecchio fra i pretendenti al trono (ha 59 anni), i vertici di Al Qaeda in Iraq e nello Yemen hanno già dato l'ok alla sua elezione.

Fin qui tutto chiaro, ma il punto è un altro. Ammettiamo che Bin Laden, prima di beccarsi una pallottola in faccia, avesse avuto ancora un ruolo concreto nel coordinamento dell'intera organizzazione. Ammettiamo che fosse stato ancora un vero capo e non più che altro un simbolo. Che speranze avrebbe avuto un suo eventuale successore di svolgere la stessa funzione? Poche.

Ormai da anni Al Qaeda continua a spezzettarsi come una tavoletta di cioccolata. La nuova frammentazione non è la ragione principale per cui l'organizzazione appare meno pericolosa di un tempo, ma certo rende meno credibile l'immagine del grande burattinaio che regge i fili dal suo misterioso bunker pakistano.

Nella rete dei terroristi, le lotte tra fazioni sono all'ordine del giorno. Le primavere del mondo arabo non hanno sicuramente giovato ai rapporti fra il ramo egiziano e quello libico di Al Qaeda, che già da qualche tempo erano piuttosto conflittuali. Per non parlare delle dispute generazionali all'interno dei singoli schieramenti. O delle visioni contrastanti sulle tattiche e le strategie da seguire.

La maggior parte delle azioni ormai viene progettata e realizzata in completa autonomia dalle diverse cellule. Qua e là nascono ancora gruppi di jihadisti che si autodefiniscono "membri di Al Qaeda", ma che in realtà difficilmente hanno contatti con i vertici dell'organizzazione. In uno scenario del genere, la figura di Bin Laden svolgeva quantomeno una funzione di collante ideologico. Il suo carisma era tale da suscitare una sorta di ammirazione spirituale nei seguaci della guerra santa. Per molti non era più un comandante da seguire direttamente sul campo di battaglia, ma poteva ancora rappresentare un punto di riferimento simbolico per adepti vecchi e nuovi.

Bin Laden poteva. Al Zawahiri, semplicemente, non può. Quel carisma a lui manca. Forse anche per questo l'organizzazione ha scelto di mettere in prima linea, almeno per il momento, uno come Al-Adel. Di natura più pragmatica, la nuova guida potrebbe ispirare un ritorno alle azioni in grande stile.

Il curriculum non gli manca. E' stato lui a ideare gli attacchi del 1998 contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania che provocarono 86 morti e oltre mille feriti. Fuggito in Iran dopo l'invasione americana dell'Afghanistan, fu messo agli arresti domiciliari. Secondo la stampa araba é stato rilasciato un anno fa e da allora si muove nell'area di confine tra il nord del Pakistan e l'Afghanistan. Sulla sua testa l'Fbi ha messo una taglia da 5 milioni di dollari

Resta da capire quali siano le attuali capacità operative dei terroristi. In Afghanistan non possono più contare sull'appoggio diretto dei talebani, che già da qualche tempo si sono defilati per tentare di riconquistare il potere battendo altre strade. Il Pakistan invece deve recuperare in termini d’immagine dopo l'operazione di Abbottabad, che ha rivelato la sfiducia di Washington nell'intelligence di Islamabad, troppo compromessa con il terrorismo. Ora più che mai ad Al Qaeda servirebbe qualcosa di più che un leader di facciata. La tenaglia tra le esigenze di Washington e quelle di Islamabad é letale.

 


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