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di Michele Paris
Lo scorso fine settimana a Jakarta, in Indonesia, si è tenuto il diciottesimo summit dell’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (ASEAN). Sul tavolo c’erano parecchi temi e delicate questioni che stanno causando profonde divergenze tra i dieci paesi membri, a cominciare dalla disputa di frontiera tra Cambogia e Thailandia, sfociata recentemente nell’ennesimo conflitto a fuoco. Con la rivalità crescente tra Cina e Stati Uniti sullo sfondo, il vertice si è però concluso senza risultati concreti di rilievo, rimandando indefinitamente qualsiasi discorso serio sulla risoluzione dei conflitti che attraversano quest’area cruciale del pianeta.
La due giorni indonesiana si è conclusa con l’impegno da parte del segretario generale, il tailandese Surin Pitsuwan, e dei leader presenti, di lavorare per la creazione di una comunità economica tra i paesi membri entro il 2015. La dichiarazione finale ha compreso anche generiche iniziative per contrastare il traffico di esseri umani e la promessa di creare un “Istituto per la Pace e la Riconciliazione” e di implementare un piano di “connettività” per sviluppare le infrastrutture e rafforzare le istituzioni nella regione.
Sullo scontro in corso tra Thailandia e Cambogia, la mediazione indonesiana ha portato ad un faccia a faccia tra i rispettivi primi ministri, Abhisit Vejjajiva e Hun Sen, i quali non hanno tuttavia trovato un accordo per la risoluzione della crisi. La diatriba tra i due paesi è scaturita attorno alla contesa di un tempio indù situato in una zona di confine, che ha già provocato svariati scontri a fuoco nel recente passato. I ministri degli Esteri dei due paesi sembravano successivamente aver trovato un punto d’incontro su un cessate il fuoco e l’invio di osservatori internazionali, ma a tutt’oggi non si intravede ancora una via d’uscita concordata.
Le tensioni tra i due paesi confinanti pare essere legata in particolare ai problemi interni della Thailandia, alle prese da tempo con una complicata crisi del sistema politico che difficilmente verrà risolta dalle elezioni da poco annunciate per il prossimo 3 luglio. Sul conflitto tra Cambogia e Thailandia influisce però anche l’antagonismo tra Cina, legata al governo di Phnom Penh, e Stati Uniti, tradizionalmente alleati di Bangkok.
Alla consolidata influenza cinese nel sud-est asiatico si è aggiunta da poco la rinnovata intraprendenza americana in un’area strategicamente delicata per Washington e da dove transitano importanti rotte commerciali. Il rilancio degli USA ha coinciso sostanzialmente con l’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama. Con quest’obiettivo, il presidente nel novembre 2010 aveva creato appositamente la carica di ambasciatore presso l’ASEAN, ufficio in precedenza detenuto solo dal Giappone. A marzo di quest’anno, l’incarico è andato a David Lee Carden, noto avvocato di molte banche di Wall Street e uno dei principali finanziatori della campagna elettorale dello stesso Obama.
La lunga ombra proiettata dagli Stati Uniti sull’ASEAN in funzione anti-cinese (assieme ad un maggiore impegno dell’Indonesia, alla ricerca di un rinnovato ruolo di potenza regionale) ha paradossalmente contribuito all’incapacità dell’associazione di risolvere le problematiche che si trova a dover fronteggiare. Un intervento quello di Pechino e Washington che ha finito così per dividere i membri dell’organizzazione dei paesi dell’Asia sud-orientale, indecisi tra l’apertura totale alle relazioni commerciali con la Cina e la conservazione, o il consolidamento, della protezione militari garantita dagli USA.
Oltre al conflitto tra Thailandia e Cambogia, queste divisioni si sono potute osservare su altre questioni, come quella relativa alla possibile assegnazione della presidenza a rotazione dell’ASEAN al Myanmar nel 2014. Il regime militare birmano ha chiesto, infatti, di guidare il gruppo dei dieci paesi al posto del Laos tra tre anni. La presidenza sarebbe dovuta toccare al Myanmar già nel 2005, quando gli venne impedito a causa delle persistenti carenze sul fronte della democrazia e dei diritti umani. Dopo le elezioni dello scorso anno, che hanno sancito un trasferimento di facciata dei poteri dai militari a un governo civile, e la liberazione dell’icona dell’opposizione, Aung San Suu Kyi, il Myanmar ha rivendicato il proprio turno per la presidenza, nel tentativo di riscattare la propria immagine di fronte al mondo.
Mentre paesi come Indonesia e Filippine, alleati degli Stati Uniti, si sono detti contrari all’assunzione della presidenza da parte della ex Birmania nel 2014, il Laos ha manifestato la disponibilità a cedere il proprio turno al vicino occidentale. Il segretario generale ha a sua volta appoggiato la richiesta del Myanmar ma, senza poter raggiungere alcun consenso, l’ASEAN ha alla fine rinunciato ad assumere una posizione chiara sulla questione.
Sulla mancata decisione hanno pesato appunto gli stretti legami economici e militari della Cina con il Myanmar - dove Pechino sta investendo massicciamente in rotte di transito alternative allo Stretto di Malacca, pattugliato dalla Marina statunitense, per le proprie forniture energetiche - e le pressioni degli americani che ufficialmente condannano la situazione dei diritti umani in questo paese, pur intrattenendo rapporti più che cordiali con dittature e regimi assoluti in mezzo mondo.
Analoga incertezza ha segnato anche la discussione attorno ad altre questioni in agenda. Ad esempio, l’ammissione all’ASEAN di Timor Est è stata rimandata, secondo quanto riferito dalla stampa tailandese, a causa della crescente influenza cinese sul piccolo paese separatosi dall’Indonesia nel 2002.
Le dispute territoriali tra vari paesi nel Mare Cinese Meridionale sono poi ancora più emblematiche delle rivalità tra Pechino e gli Stati Uniti, soprattutto dopo che il Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, nel luglio dell’anno scorso affermò il ruolo di mediatore di Washington all’interno di negoziazioni multilaterali. Una presa di posizione, questa, che si è scontrata con la volontà di Pechino di risolvere invece questi conflitti in maniera bilaterale. Durante il recente summit, così, l’ASEAN non ha potuto raggiungere alcun accordo tra i membri che rivendicano le varie isole nel Mare Cinese Meridionale.
Accese rivalità hanno impedito infine anche passi avanti sulla complessa questione della suddivisione delle acque del fiume Mekong, attorno al quale stanno nascendo dighe e altre costosissime infrastrutture che mettono in competizione improvvisati consorzi costituiti dai vari paesi dell’ASEAN e dalla Cina.
Se sul fronte dei rapporti interni ai suoi membri il vertice dell’ASEAN è risultato deludente, a Jakarta hanno fatto al contrario ottimi affari le aziende americane ed europee. Oltre alla corsia preferenziale concessa ai rappresentanti del business a stelle e strisce, prima dell’apertura dei lavori è andato in scena anche il primo “Business Summit” tra ASEAN e UE. L’incontro ha fornito l’occasione ai paesi europei e alle compagnie private di trattare direttamente con i membri dei governi di questi paesi asiatici, con i quali hanno gettato le basi per accordi commerciali e lucrosi contratti di fornitura.
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di Carlo Musilli
"Rimpiangerete i giorni dello sceicco. Le braci della jihad ardono più di quando lui era in vita". Le ultime minacce agli Stati Uniti arrivano dalla penna dello yemenita Nasser al-Wahishi, capo di Al Qaeda nella Penisola Arabica (Aqpa). Braccio destro di Bin Laden in Afghanistan negli Anni 90, al-Wahishi è oggi uno degli obiettivi principali delle forze speciali americane. Nel comunicato diffuso l’altro ieri su internet, il terrorista ha fatto sapere che "la guerra santa contro l'Occidente sarà intensificata. Il peggio deve ancora venire".
Da più di una settimana sentiamo ripetere che la morte di Osama scatenerà ritorsioni dei fondamentalisti islamici in Europa e negli Usa. Governi in ansia, livelli d'allerta che cambiano colore, sfumando verso il rosso. Se davvero corriamo un pericolo maggiore proprio ora che Bin Laden non c'è più, resta da capire da dove arrivi la minaccia più seria. Gli analisti di tutto il mondo non hanno dubbi: dallo Yemen.
L'Aqpa è nata nel gennaio 2009 dalla fusione delle branche yemenita e saudita di Al Qaeda. Il gruppo saudita è stato combattuto con successo dal governo di Riyadh e i suoi membri sono stati costretti a riparare in Yemen. Qui la miseria nera della popolazione civile e la latitanza del governo centrale hanno costituito un terreno fertile per il proliferare della rete.
Nel dicembre 2009 il segretario di Stato americano, Hilary Clinton, ha attribuito formalmente al gruppo la status di organizzazione terroristica. Solo nove mesi dopo, la Cia ha definito l'Aqpa "il ramo più pericoloso di Al Qaeda". Anche più di quello principale con sede in Pakistan, direttamente controllato da Bin Laden. Fra le varie azioni, gli yemeniti sono responsabili del fallito attentato sul volo Amsterdam-Detroit del dicembre 2009 e dei pacchi bomba spediti negli Usa alla fine dello scorso ottobre.
Il ruolo centrale dello Yemen nella ragnatela del terrorismo internazionale sembra essere confermato dall'atteggiamento degli americani. L'ultimo bombardamento Usa nel Paese risale a giovedì scorso, quando un drone si è messo a sparare un po' alla cieca nella provincia sudorientale di Shabwa. Due membri di Al Qaeda sono stati uccisi, ma il bersaglio numero uno è stato mancato. Era Anwar al Awlaki, un fondamentalista nato proprio in America che ha dedicato la vita a propagandare la jihad nel mondo.
Ma sarà poi così vero che gli occhi spaventati di tutto il mondo debbano puntarsi proprio sul più disgraziato dei Paesi arabi? Il ruolo e l'organizzazione di Al Qaeda sono profondamente cambiati negli ultimi dieci anni e questo spiega il nuovo ruolo assunto dallo Yemen. In origine la struttura del comando era fortemente gerarchizzata e centralizzata. I dettagli di ogni operazione, dal reclutamento all'attentato, erano definiti da un ristretto numero di persone: Bin Laden, il suo secondo al Zawahiri e una manciata di altri miliziani.
Oggi Al Qaeda è una realtà molto più frammentata. La maggior parte degli attacchi viene pianificata e messa in atto su iniziativa dei singoli quartier generali. Questo non vuol dire che i terroristi siano meno pericolosi. Riescono ancora ad ispirare jihadisti in tutto il mondo. Questa nuova natura dell'organizzazione spiega però l'emergere di sezioni apparentemente periferiche come quella yemenita. Bisogna poi considerare che da qualche mese Al Qaeda deve fare i conti anche con un nuovo e inaspettato nemico: le rivolte contro i dittatori del mondo arabo.
Prima della primavera araba il messaggio veicolato dai terroristi era molto più efficace. Si trattava di combattere contro governi empi e oppressori, collusi con il potere ancora più empio degli imperialisti americani. Una missione facile da diffondere fra popolazioni ridotte in schiavitù. Peccato che oggi molte di quelle popolazioni si siano rese conto di poter rivendicare in modo autonomo la propria libertà. In Maghreb come in Siria.
E così anche nello Yemen, dove da quasi quattro mesi le principali città, sostenute da alcune falangi dell'esercito, sono insorte contro il potere trentennale di Abdullah Saleh. Non è un caso che proprio in questo Paese Al Qaeda abbia messo radici più profonde. Incapace di gestire i nodi di una società tribale, la dittatura yemenita ha sempre avuto un controllo del territorio minimo se paragonato a quella degli altri Paesi arabi.
Ma paradossalmente qui lo scoppio della protesta ha fatto fare dei nuovi passi avanti ai terroristi. I manifestanti yemeniti non hanno i numeri né la forza di quelli egiziani o tunisini, né le capacità militari dei ribelli libici. L'unica strada per superare la crisi è quella politica. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo ha proposto un piano di transizione inizialmente accettato sia da Saleh che dai suoi oppositori. Poi però la trattativa si è inceppata nella definizione degli ultimi dettagli, ed è arrivato lo stallo. Il che vuol dire scontri a fuoco quotidiani, morti e sostanziale anarchia. Al Qaeda non poteva chiedere di meglio.
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di Mario Braconi
Una nuova generazione di “oligarchi” sta razziando le risorse del Sud Africa? A questo sembra alludere la storia che Martin Plaut della BBC racconta nel suo programma radiofonico Crossing Continents. Le miniere di Orkney e di Grootvlei, che davano lavoro ad oltre 5.000 persone, appartenevano alla società Pamodzi Gold Ltd. Ad ottobre 2009, a circa sei mesi dal fallimento della Pamodzi Gold, si è fatto avanti un possibile acquirente, Aurora, con un’offerta di 605 milioni di rand (oltre 60 milioni di euro ai cambi attuali). Un curatore fallimentare, nominato dall’Alta Corte, attribuì ufficialmente ad Aurora il controllo dei due siti a dispetto del fatto che nessuno dei suoi dirigenti potesse vantare un’esperienza, sia pur minima, nell’industria estrattiva. Come vedremo, le credenziali degli alti papaveri della Aurora erano di tipo diverso.
Nonostante le solenni promesse del management ai sindacati, nei primi cinque mesi del 2010 i lavoratori non hanno ricevuto lo stipendio; ad agosto del 2010 un dirigente della Aurora convocò addirittura una conferenza stampa per spiegare che ormai si era al termine del tunnel, e che il giorno successivo le competenze dovute sarebbero state liquidate (una somma che a novembre 2010 si aggirava attorno ai 16 milioni di rand, 1,6 milioni di euro al cambio attuale). Ma non è stato liquidato niente.
Dopo lo sciopero indetto per protesta, Aurora ha cessato le sue operazioni estrattive, lasciando negli stabilimenti solo un centinaio di lavoratori, a svolgere operazioni di manutenzione. Gli oltre 5.000 lavoratori non sono stati propriamente licenziati: semplicemente, non è richiesto il loro lavoro, per cui vivono in un limbo. Non hanno più alcuna fonte di reddito e sono costretti a sopravvivere negli ostelli per minatori, costruzioni-ghetto semi-fatiscenti realizzate a distanza di chilometri dalle miniere. Significativamente, le sole attività che dimostrano una qualche vivacità all’interno di questi villaggi sono i mercatini in cui la gente si scambia cose usate: vestiti, apparecchi elettrici, mobilia.
Non sono mancati episodi drammatici: ad agosto, a Grootvlei, sono stati trovati quattro cadaveri con segni di ferite da arma da fuoco. Secondo il presidente di Aurora, i quattro erano minatori illegali (come se questo bastasse a giustificare il loro assassinio); il sindacato sostiene invece che si trattava di lavoratori messi a riposo forzato, introdottisi illegalmente nella miniera per procurarsi con il proprio lavoro (illegale?) qualcosa da vendere per campare.
Plaut intervista due minatrici rimaste senza salario da più di un anno: il bel volto della signora Primrose Javu è pieno di rabbia e dignità: “E’ dura, sa, vivere della carità degli altri”, confessa al giornalista. Già, perché, per sopravvivere, Primrose e i suoi compagni di sventura possono contare solo sui pacchi-dono di alimentari, gentilmente messi a disposizione da qualche “filantropo” tutt’altro che disinteressato. In tempi migliori, a regalare cibarie era il sindacato, il NUM (National Union of Mineworkers).
Ma oggi quell’istituzione tanto vicina al potere (ovvero all’African National Congress), rimasta con le mani in mano di fronte allo scempio, è comprensibilmente non molto popolare. In compenso, sono molto attivi quelli dell’ANC, subentrati al sindacato, guarda caso in tempo di elezioni. Ma Primrose, e le persone come lei l’hanno capito e lo dichiarano alla stampa senza tanti giri di parole: quelli dell’African National Congress, mirano solo ai voti degli ex-minatori disperati.
Il rappresentante di un’altra sigla sindacale, più rappresentativa dei lavoratori specializzati, fa notare anche che, da quando le mani di Aurora si sono piazzate sulla facility di Grootvlei, la miniera è stata saccheggiata di tutta l’attrezzatura di valore, presumibilmente rivenduta come materiale di scarto: un vero e proprio furto, dato che ad oggi Aurora non ha ancora tirato fuori nemmeno uno degli oltre 600 milioni di rand che si era impegnata a pagare in sede di selezione. E dire che un dirigente di alto livello parlò di fatturati potenziali compresi tra i cinque e i dieci miliardi di dollari, da sviluppare in pochi anni.
Com’è possibile che le istituzioni sudafricane ignorino questo dramma, restando indifferenti agli abusi e alle violenze di Aurora? Forse la risposta è nella composizione dei primi livelli della dirigenza di Aurora: amministratore delegato di Aurora è infatti Zondwa Gadaffi Mandela, nipote di Nelson, mentre il presidente è Khulubuse Zuma, nipote dell’attuale presidente. Né si può dire che quanto sta accadendo a Orkney e a Grootvlei sia un caso isolato; molto scalpore ha suscitato nel Paese anche la vendita del 26% della ArcelorMittal South Africa all’Ayigobi Consortium, di cui è membro anche il figlio di Zuma, Duduzane.
Per usare le parole di Steven Friedman, direttore del "Johannesburg’s Centre for The Study of Democracy", queste sono dimostrazioni di come “taluni, facendo leva sui contatti politici più che sulle competenze, riescano a mettere le mani sulle risorse del paese a danno dei lavoratori”. Segno dunque che la giovane democrazia sudafricana, nata dalle ceneri dell’abominio razzista, deve oggi lottare anche contro nemici meno ovvi di quelli di un tempo: corruzione e nepotismo prima di tutto. Senza dimenticare ovviamente gli interessi esteri: secondo Bloomberg, infatti, la filiale tedesca della nostra Unicredit è tra i creditori più esposti verso Aurora, che rischia di passare alla storia come l’azienda sudafricana che affama i sudafricani.
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di Carlo Musilli
Usare la democrazia come contentino, annunciare riforme vaghe per calmare gli animi nelle piazze. Da un paio di mesi il presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, cerca di salvare la sua poltrona battendo questa strada. Ma ormai potrebbe non bastare più. L'opposizione non è disposta a credergli, pretende un cambiamento concreto e radicale. Purtroppo la lezione di Tunisia ed Egitto non è penetrata a sufficienza in terra d'Algeria. Il fronte della protesta è ancora troppo frammentato e ricattabile per organizzare una vera rivolta. Tuttavia le false promesse del governo illiberale che regge il Paese non abbagliano più la società civile. E le manifestazioni continuano.
L'ultima trovata di Bouteflika è arrivata mercoledì scorso. Dopo una riunione del Consiglio dei ministri, ha annunciato una road map per le riforme. A guidare il cambiamento sarà Abdelkader Bensalah, presidente del Consiglio della Nazione (la Camera alta algerina) e probabile successore del Presidente. Lavorerà a stretto contatto con i partiti e con "personalità nazionali" in rappresentanza della società civile.
Chi siano queste "personalità" non è dato sapere. Molte leggi subiranno una "revisione profonda", ma i cambiamenti dovranno compiersi nel rispetto di non meglio precisati "valori nazionali". Gli ambiti d’intervento andranno dal modello elettorale all'informazione, attualmente controllata dal governo. Fin qui soltanto belle parole. Poca sostanza. Bouteflika ha spiegato che alcune riforme arriveranno in Parlamento entro la fine dell'anno. Per quanto riguarda le modifiche alla Costituzione, invece, bisognerà aspettare fino alle prossime elezioni, che si terranno nel maggio del 2012. Il Presidente deve aver capito che tutto questo non sarebbe stato sufficiente a calmare le acque. Così ha messo mano al portafoglio.
Lunedì scorso il governo ha stabilito di alzare la spesa pubblica addirittura del 25%, attingendo alle ampie riserve di liquidità del Paese (circa 150 miliardi di dollari). Gli interventi dovrebbero creare nuovi posti di lavoro, aumentare i salari e abbassare i prezzi alimentari. L'opposizione si aspettava mosse del genere da parte di Bouteflika e non ci sta a farsi comprare. Il Presidente aveva annunciato il programma di riforme politiche ed economiche già a metà aprile, ma le proteste erano continuate come nulla fosse. Naturale quindi che tentasse un ulteriore passo avanti, dando alle sue promesse una veste solo leggermente più credibile.
Il Coordinamento nazionale per il cambiamento e la democrazia (Cncd) ha giocato d'anticipo, mettendo per iscritto già a fine aprile le rivendicazioni condivise con le altre forze d'opposizione. Chiede che venga istituito un Consiglio nazionale di transizione, che dovrebbe rimanere in carica un anno. Il suo compito sarebbe di nominare un governo provvisorio che scriva una nuova costituzione. Dovrebbe inoltre essere creato un Consiglio indipendente "per stabilire la verità e la giustizia" sulle attività di governo. Non basta quindi cambiare le leggi: le opposizioni chiedono la metamorfosi delle istituzioni e soprattutto che l'intera oligarchia corrotta a capo del Paese sia sostituita.
Se non inizierà un vero dialogo fra Bouteflika e i suoi avversari, la situazione potrebbe precipitare verso uno scenario a cui nessuno è preparato. Le manifestazioni sono state proibite in Algeria lo scorso dicembre, ma da allora diverse comunità di studenti universitari sono scese in piazza lo stesso per protestare contro il governo.
A febbraio l'Esecutivo ha ritirato lo stato d'emergenza imposto al Paese nel 1992, ma nemmeno questo è stato utile a riportare la stabilità. Anzi, il provvedimento ha dato ulteriore motivazioni ai manifestanti. Lo scopo annunciato era di ripristinare la liberà d'espressione e di associazione, ma per ora tutte le restrizioni restano al loro posto. E questo la dice lunga sulle reali intenzioni del governo.
Le ultime promesse di Bouteflika sono soltanto l'ennesimo specchietto per le allodole. Non è quindi sorprendente che manifestazioni, violenze e illegalità continuino ad essere all'ordine del giorno in Algeria. Mercoledì scorso centinaia di medici in sciopero sono scesi in piazza davanti al palazzo presidenziale di Algeri. La polizia li ha aggrediti. Molti sono stati arrestati e non se ne è più saputo nulla. Gli agenti hanno sequestrato i telefonini e malmenato i reporter perché nessuno venisse a sapere dell'accaduto.
L'unica storia d'Algeria che in questi giorni gode di una qualche risonanza è quella di Ahmed Kerroumi, professore universitario e membro del Cncd, trovato morto la settimana scorsa. Era stato rapito il 19 aprile. Frank La Rue, relatore speciale dell’Onu sulla libertà d’espressione, ha condannato la morte dell'attivista algerino e ha chiesto al governo che sia aperta un'inchiesta indipendente sul caso. Chissà che a lui diano ascolto.
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di Luca Mazzucato
PROVIDENCE. Secondo Romano Prodi, i movimenti epocali che stanno sconquassando il Nord Africa potranno dare frutti solo se faremo partire un nuovo “Piano Marshall.” Chi ci guadagnerà dalla guerra in Libia, una volta che le bombe smetteranno di cadere? Turchia e Cina, che fino ad ora non hanno aperto bocca...Il Professore si è ritirato dalla vita politica: la sua esperienza è ora al servizio degli studenti e della ricerca. Nulla a che fare con il famoso “semaforo” di Corrado Guzzanti: da quando non è più Presidente del Consiglio, Romani Prodi non sta fermo un attimo. Passa il suo tempo visitando le più prestigiose università del pianeta ed è “molto contento,” ci confessa con un sorriso sornione. Lo incontriamo durante un seminario al Dipartimento di Scienze Politiche della Brown University in Rhode Island.
Il tema dell'incontro è il parallelo tra le rivolte in Medioriente e la crisi finanziaria del 2008. Secondo il politologo Mark Blyth, la parola d'ordine è “constrained volatility, ovvero “volatilità vincolata.” Nessuno ha previsto lo scoppio delle rivolte, così come nessuno aveva visto arrivare l'esplosione della bolla immobiliare. Ovvero, “tutto è stabile, finché non lo è più.” I governi occidentali hanno sempre confermato gli autocrati mediorientali in nome della “stabilità”, creando una vera e proprio “bolla politica”.
Il motivo? Non c'era alcun modo di valutare il rischio che si sarebbe presentato nel caso di cambio di regime. Il fenomeno è lo stesso che ha portato al salvataggio delle grandi banche: l'impossibilità di calcolare il rischio. E quando il sistema salta, la scossa è imprevedibile. Nessuno ha anticipato la rivolta giovanile, perché tutti gli analisti occidentali si sono concentrati soltanto sul pericolo islamico, che si è dimostrato del tutto trascurabile.
“Tutti sapevamo della grande ingiustizia e della povertà e delle tensioni sociali presenti nei Paesi del Nord Africa da almeno quarant'anni - dice Prodi - ma nessuno aveva idea di quello che sarebbe successo. Un mese prima della rivolta in Egitto ho partecipato ad un incontro con esperti mediorientali. L'unica domanda sul tavolo era: quando Mubarak se ne andrà, il successore sarà suo figlio oppure Omar Suleiman? Lo scoop del momento: uno dei suoi sarti aveva notato che Mubarak aveva perso qualche chilo e quindi forse era ammalato”…
“In un Paese turistico come l'Egitto - prosegue l’ex Premier italiano - non si può oscurare per molto tempo Internet, oppure bloccare i telefoni cellulari e così via. Per questo la rivolta ha avuto un'enorme diffusione. Si possono invece controllare la stampa e la televisione, media che però non influenzano la giovane popolazione urbana. Anni fa, mi trovavo ad una conferenza stampa ad Alessandria d'Egitto, due ore di discussione con i giornalisti egiziani in cui abbiamo parlato di tutto. Alla fine, i giornalisti mi hanno ringraziato per la meravigliosa discussione, confessandomi però che il giorno seguente avrebbero potuto scrivere solo un articolo sulla moglie di Mubarak. Ma Internet non si può oscurare, perché altrimenti come fai la prenotazione all'albergo”?
“Non saprei dire se si tratti di rivoluzione o rivolta - ha aggiunto il professore - ma quando questa cosa è successa in Egitto, politicamente tutta la zona ha iniziato a trasformarsi. L'Egitto è fondamentale per tutto il mondo arabo, le università egiziane sono il punto di riferimento culturale a cui tutta la cultura musulmana e il resto dell'Africa guardano”.
Quale scenario, dunque, a breve-medio termine? “Guardiamo al futuro: l'esercito è al potere. L'esercito non è la temuta polizia di Mubarak, ma un'istituzione rispettata e relativamente meritocratica. I Fratelli Musulmani d'altra parte rappresentano l'unica forza organizzata nel Paese e hanno costruito un'enorme rete di stato sociale per la popolazione. Ma succedono cose strane: i Fratelli Musulmani sono l'unica forza politica al mondo che parteciperà alle elezioni cercando di perdere! Sono consapevoli che la loro vittoria sarebbe vista con sospetto negli Stati Uniti. Il nuovo equilibrio è dunque tra il movimento islamico e l'esercito. Ma c'è un grossissimo problema: l'economia egiziana è al tracollo, durante i primi giorni della rivolta una buona parte dei capitali finanziari investiti in Egitto hanno levato le tende. Dal punto di vista politico si sta facendo progresso con le future elezioni, ma la situazione giornaliera della popolazione è in rapido declino.”
Per l’ex presidente della Commissione europea “un cambiamento sicuramente ci sarà presto. Nessun governo egiziano sarà abbastanza forte da continuare il blocco totale di Gaza, come aveva fatto Mubarak. Dunque il confine tra Gaza ed Egitto sarà finalmente aperto. Gli israeliani, d'altro canto, hanno un atteggiamento ambivalente sulla rivolta egiziana: vorrebbero un esercito forte che rispetti i trattati di pace con Israele, ma per alcuni se l'esercito egiziano collasserà, l'unica minaccia reale per lo Stato ebraico sparirà”.
Scenario diverso, invece, quello tunisino: “In Tunisia la situazione è diversa: il ruolo dell'esercito è marginale. Ma il problema della corruzione è impressionante, tutto il Paese era in mano alla famiglia di Ben Alì. Era uno Stato familiare. Una volta Ben Alì mi disse: “Tu non sai niente di me, ma io so tutto di te! Io ho i miei servizi segreti e tu non ce li hai”! Non vi dico le conversazioni che ho avuto con Mubarak perché erano allucinanti... Ma la Tunisia è meno importante dell'Egitto e più tranquilla, il Paese è piccolo, la società è più benestante e l'Europa è vicina e può far ripartire l'economia.”
Lo sguardo si allarga a Tripoli: “La situazione in Libia è ancora una volta completamente diversa. Un Paese di sei milioni di abitanti, con un milione d’immigrati che sono la forza lavoro del Paese. Lo stesso modello dell'Arabia Saudita. Socialmente, la Libia è spaccata in due. Ma anche geograficamente lo è: Cirenaica e Tripolitania sono divise dall'epoca romana. Non si sono mai unificate realmente. Gheddafi viene dalla Tripolitania, mentre il re che ha spodestato veniva dalla Cirenaica”. La guerra in Libia è cominciata con motivazioni nobili: proteggere i civili dai mercenari di Gheddafi. Ma nessuno sa veramente chi stiamo aiutando. Le varie tribù sono in lotta tra loro, i migliori leader ribelli sono ex alleati di Gheddafi. Tutte le nostre scommesse sono riposte su dei traditori: un bel rischio!”
Del resto, a detta del professore, “l''Unione Africana fatica a mediare, perché è già coinvolta in Costa d'Avorio, oltre ad essere vista dai ribelli come un'estensione del potere di Gheddafi, che la finanzia sostanzialmente. Il mandato dell'ONU è molto limitato e l'unico modo di far vincere i ribelli è di istruirli militarmente e armarli. La personalità di Sarkozy sarà determinante anche negli sviluppi futuri, così come lo è stata finora. Gli attacchi aerei, una volta distrutte le strutture militari di Gheddafi, non possono far più nulla. Dunque siamo in uno stallo, in cui l'Europa è spaccata e gli Stati Uniti sono riluttanti ad azioni ulteriori.”
Ci si chiede quali conseguenze avranno gli attacchi militari occidentali sulla regione nordafricana e il Professore propone una lettura delle ricadute sull’Italia in termini d’immigrazione: “Per dare un semplice esempio, trentottomila cinesi sono stati evacuati dalla Libia nei primi giorni di guerra. Centinaia di migliaia di lavoratori stranieri si sono riversati in Egitto e Tunisia e li stanno destabilizzando. In Italia non abbiamo mai avuto immigranti dalla Tunisia, ora per la prima volta ne stanno arrivando a migliaia.”
L’Italia, del resto, poteva giocare un ruolo diverso, ma non ne ha avuto la volontà e la capacità. “Non vorrei parlare dell'Italia - prosegue Prodi - ma visto che insistete... Il governo italiano all'inizio ha sottovalutato la gravità della situazione in Libia. Pensavano si trattasse di un piccolo problema, ma l'opinione pubblica europea ha appoggiato inizialmente le rivolte, e dunque il governo italiano, come quello francese, si è adeguato. All'interno del nostro governo si è dibattuta la convenienza di un intervento militare e si è deciso di farlo. Chiaramente l'Italia è il Paese che soffrirà più di ogni altro per gli eventi in Libia. La maggior parte del petrolio libico si trova in Cirenaica dai ribelli. Pensa all'attivismo di Sarkozy: Total, la compagnia petrolifera francese, è l'unica che finora non ha avuto pozzi in Libia. Per Sarkozy e Cameron è stata anche una grande occasione per uscire dall'angolo in cui si trovavano in politica interna. Dopo l'iniziale tentennamento, il governo italiano è leale all'alleanza occidentale. Ma in sordina. Se, al contrario, avesse mantenuto la posizione neutrale della Germania, potrebbe essere cruciale come mediatore tra i ribelli e Gheddafi. Ora non è più possibile farlo”.
E ancora: “Cina e Turchia sono nella posizione più favorevole rispetto alla Libia e finora non si sono espressi. Dovevi esserci quando ho visitato due mesi fa l'Università di Pechino: mi hanno spremuto come un'arancia. I cinesi volevano sapere tutto della Libia, fin nei minimi particolari”.
Inevitabile porsi domande circa gli sbocchi futuri della situazione in nord Africa: “Per tornare alle prospettive future, le città nordafricane sono esplose grazie al fatto che la maggior parte della popolazione attiva è formata da giovani, che hanno studiato e sanno usare Internet, ma sono disoccupati. Un'intera generazione di diseredati. Oltre ad essere il motore della rivolta, questo è anche il problema principale: per cambiare la situazione in Egitto bisogna creare un milione di posti di lavoro all'anno per dieci anni. Sembra impossibile. Chiunque vincerà le elezioni si troverà di fronte a questo”.
E l’Occidente, par di capire, non sembra ancora aver trovato una linea politica comune per far fronte a questo scenario. “Se non ci sarà un nuovo Piano Marshall coordinato tra Stati Uniti, Europa e Cina, non credo che potrà succedere nulla di buono per la popolazione del Nord Africa. In Egitto il potere è ancora in mano ai militari, ma anche se passerà ai civili, rimane il problema della disoccupazione di massa. Un altro esempio: non c'è più acqua nel Nilo da quando l'Etiopia ha deciso di usarla a piene mani per l'irrigazione e anche il cibo scarseggia in Egitto, dove l'ottanta percento viene importato dall'estero. Con un Piano Marshall - conclude Prodi - si potrebbe persino usare la leva finanziaria per dettare i termini della svolta politica verso la democrazia. Ma al momento non c'è niente di simile all'orizzonte”.