di Carlo Musilli

Di quella villa rimane solo un immenso cratere. Per la seconda volta in due giorni le forze Nato hanno cercato di uccidere a suon di bombe intelligenti il rais libico, Muammar Gheddafi.  E per la seconda volta hanno fatto cilecca. Il Colonnello si trovava con amici e parenti nella casa del suo ultimogenito ed è rimasto illeso. Secondo fonti libiche, a morire sono stati tre nipotini di Gheddafi e il più giovane dei suoi figli, Saif al-Arab, 29 anni.

Che il vero obiettivo del raid Nato fosse il rais in persona lo sostiene Mussa Ibrahim, portavoce del governo di Tripoli. Almeno su questo c’è da credergli. Difficile immaginare per l’Alleanza atlantica un uomo più inutile da uccidere di Saif. Della sua famiglia era probabilmente il membro più innocuo. Di certo quello meno coinvolto nella gestione dello Stato. Il giovane Said era piuttosto incline alla bisboccia e ai reati minori dei bulletti di strada.

Durante gli anni universitari passati a Monaco, ad esempio, rimase coinvolto in una rissa col buttafuori di un night per difendere l’onore della sua fidanzatina. In un’altra occasione la polizia tedesca gli sequestrò la Ferrari 430 per disturbo alla quiete pubblica. A Saif piaceva sgasare col suo bolide tenendo il cambio in folle. Insomma, il ragazzo non era davvero un obiettivo militare primario. A differenza di quanto previsto per gli altri cinque figli di Gheddafi, l’Onu non ha mai disposto per lui il sequestro dei beni all’estero, ma semplicemente il divieto di viaggiare.

Questo la dice lunga sulla famosa precisione chirurgica dei bombardamenti Nato. Sparare più o meno a caso su un quartiere residenziale di Tripoli, sulla base di informazioni sbagliate, non sembra una mossa astuta. Soprattutto, non sembra questo il modo di “assicurare la protezione dei civili e delle aree a popolazione civile”, com’è scritto nella risoluzione Onu 1973 sull’intervento militare in Libia. Di civili, infatti, ne sono morti troppi. A cominciare dai tre bambini di sabato, tutti sotto i dodici anni.

Ma per dei civili che muoiono, ce ne sono altri che festeggiano. E lo fanno scaricando in aria i caricatori delle loro mitragliatrici. “I ribelli sono così contenti che Gheddafi abbia perso suo figlio che stanno sparando in aria per celebrare l’evento”, ha detto il colonnello Ahmed Omar Bani, portavoce militare del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi.

Un evento che potrebbe trasformarsi in un boomerang per i paesi occidentali e che inevitabilmente modificherà la politica di Gheddafi. Poche ore prima dell’uccisione di Saif, il dittatore si era detto pronto a negoziare con i paesi Nato. Già allora le sue parole erano suonate come un clamoroso bluff, figuriamoci adesso.

Nella sua ultima comparsata televisiva, Gheddafi ha proposto un disarmante mix di inviti alla pace e minacce sanguinarie. Le più pesanti, nemmeno a dirlo, quelle contro il nostro Paese (“Porteremo la guerra in Italia”). Nel frattempo, i suoi uomini continuavano a sparare su Misurata e al porto della città veniva imposto il blocco navale. Alcune unità dell’esercito superavano il confine con la Tunisia per inseguire i profughi libici, spesso dei disertori.

Il regime userà la morte dei quattro membri della famiglia Gheddafi per ribadire l’illegalità dell’azione Nato. La risoluzione Onu 1973 definisce le finalità dell’intervento militare in termini esclusivamente umanitari. I jet possono bombardare praticamente tutti gli edifici pubblici: dai centri amministrativi agli uffici parlamentari fino alle sedi delle varie associazioni governative.

Quello che i top-gun dell’Alleanza atlantica non possono fare è prendere di mira singoli individui. Ma a nessuno dispiacerebbe se per caso una bomba cadesse chirurgicamente proprio sulla testa del rais. Ormai è fin troppo chiaro. Lo è soprattutto ai governi di Russia e Venezuela, che hanno criticato ufficialmente l’attacco Nato. “Quanto accaduto è una chiara conferma dell’uso indiscriminato della forza da parte della Coalizione - ha detto il deputato russo Konstantin Kosachev, secondo quanto riporta l’agenzia Interfax - i fatti indicano che l’obiettivo è distruggere fisicamente Gheddafi”.

Il rais era già sopravvissuto a un bombardamento in cui rimase ucciso uno dei suoi figli. Nell’aprile del 1986 gli Usa lanciarono un raid sulla residenza del dittatore a Tripoli. Anche allora il Colonnello rimase illeso. Perse la vita Hanna, sua figlia adottiva. All’epoca, Ronald Reagan si mosse dopo che una bomba libica aveva ucciso due americani in un club di Berlino Ovest. Ora si teme che l’ordine degli eventi possa invertirsi. Si teme che il nuovo raid significhi bombe in nuovi club, o magari stazioni o chiese. Ad avere più paura è il nostro Paese: "La minaccia non va sottovalutata. Non mi sento di dire che quelle di Gheddafi siano battute propagandistiche - ha detto il ministro degli Interni, Roberto Maroni - L'uccisione di uno dei figli farà arrabbiare Gheddafi ancora di più".  

 

di Michele Paris

A poco più di due anni dal suo approdo alla Casa Bianca, il presidente Obama sta procedendo in questi giorni a un primo rimpasto dei vertici militari e dell’intelligence. Il trasferimento più significativo è quello che assegnerà la guida della CIA al generale David Petraeus, capo delle forze americane di occupazione in Afghanistan. Una nomina che sposterà al Pentagono l’attuale numero uno della principale agenzia spionistica statunitense, Leon Panetta, destinato a sostituire il Segretario alla Difesa uscente Robert Gates, scelto da George W. Bush per guidare l’apparato militare americano nel dicembre 2006.

La scelta di Petraeus come prossimo direttore della CIA la dice lunga sulla metamorfosi di Barack Obama da candidato alla presidenza a presidente degli Stati Uniti. Petraeus, già scelto da Obama lo scorso anno per sostituire Stanley McChrystal al comando delle forze armate in Afghanistan fu, infatti, il principale artefice dell’aumento di truppe in Iraq deciso da Bush nel 2007 - al quale Obama si era opposto - per cercare di invertire le sorti della guerra di occupazione in questo paese.

Nel suo successivo incarico a capo del Comando Centrale (CENTCOM) che comprende il Medio Oriente, l’Egitto e l’Asia Centrale, Petraeus si era distinto inoltre per l’impiego delle Forze Speciali in operazioni clandestine in paesi non in guerra con gli Stati Uniti come Yemen e Iran, ma anche Arabia Saudita e Giordania, per contrastare le presunte attività delle organizzazioni legate ad Al-Qaeda.

Il dispiegamento dei reparti speciali in queste operazioni - solitamente condotte dagli uomini della CIA - ha determinato il confondersi tra la sfera militare e quella dell’intelligence civile. Con l’arrivo del generale Petraeus a Langley, sarà dunque ancora più evidente il sovrapporsi tra i due ambiti, con il rischio di rafforzare un pericoloso sistema di potere militare e d’intelligence dai contorni non ben definiti, in grado di esercitare un’enorme influenza sulla politica estera americana al di fuori di qualsiasi controllo dell’autorità politica.

La strategia di Petraeus contro i cosiddetti “insorti” in Iraq è stata poi replicata in Afghanistan, traducendosi in un’escalation di violenza, spesso ai danni di civili innocenti, per mezzo degli attacchi con i droni e di raid notturni delle forze speciali che alimentano inevitabilmente l’odio delle popolazioni locali nei confronti degli occupanti americani. Sotto la sua guida è facile ipotizzare dunque un’ulteriore militarizzazione della CIA ed un ampliamento delle sue prerogative nelle zone nevralgiche del Medio Oriente e dell’Asia Centrale.

A mettere in guardia dalla militarizzazione dell’intelligence a stelle e strisce sono anche autorevoli voci di Washington, come Henry Crumpton, ex funzionario della stessa CIA e già membro dell’antiterrorismo americano al Dipartimento di Stato, in una recente intervista al New York Times,. Tanto più che l’attuale primo consigliere di Obama per l’intelligence, il direttore dell’Intelligence Nazionale, è anch’egli un ex generale dell’Aviazione, James Clapper, e che il prossimo vice di quest’ultimo sarà a sua volta un generale dell’esercito, Michael Flynn.

Questa evoluzione è d’altra parte una delle eredità più nefaste della guerra totale al terrorismo del post 11 settembre. Lo stesso direttore uscente della CIA, Panetta, pur provenendo dall’establishment politico democratico, in questi due anni ha dato un contributo non indifferente, nelle parole dello stesso Times,  a “trasformare l’agenzia spionistica in un’organizzazione paramilitare”.

L’autorità di Petraeus all’interno dell’agenzia sarà tuttavia da verificare, dal momento che lo spionaggio americano nutre da sempre una certa diffidenza nei confronti dei militari. Petraeus in ogni caso sembra essere da tempo in sintonia con la CIA. Il già citato ordine di utilizzare le forze speciali in operazioni d’intelligence in Yemen e altrove, pare essere stato impartito dietro consultazione con i vertici dell’agenzia. I suoi stretti rapporti con la CIA iniziarono peraltro già durante la guerra nei Balcani negli anni Novanta e si sono consolidati più recentemente in Iraq e Afghanistan.

Molto vicino alla cerchia dell’ex presidente Bush, David Petraeus gode in ogni caso della stima di gran parte dei congressisti repubblicani, così che la sua conferma da parte del Congresso al vertice della CIA appare scontato. La nomina di Petraeus potrebbe però accrescere le tensioni già alle stelle con il Pakistan, dal momento che i suoi rapporti con i vertici militari e spionistici di questo paese sono stati molto difficili negli ultimi anni.

Sul fronte del Pentagono, il dirottamento di Panetta è stato giudicato dai principali media americani come una scelta fatta da Obama per facilitare l’implementazione dei modesti tagli alla spesa militare che si prospettano nel prossimo futuro e che richiederanno complicate trattative con il Congresso. Il 72enne figlio d’immigrati calabresi è decisamente ben inserito negli ambienti del potere di Washington. Tra il 1994 e il 1997 Panetta è stato il Capo di Gabinetto del presidente Clinton, mentre in precedenza aveva ricoperto l’incarico di direttore del budget per la Casa Bianca.

Con un militare alla CIA, l’amministrazione Obama ha optato così per un politico puro al Dipartimento della Difesa, anche se, al contrario di Petraeus, nella sua veste di direttore della CIA Panetta ha in questi anni coltivato rapporti più cordiali con i vertici dell’intelligence pakistana. Proprio dagli sviluppi delle relazioni di Washington con Islamabad e alle sorti dell’avventura ormai quasi decennale in Afghanistan, che ad esse sono strettamente legate, nei prossimi mesi si misureranno in buona parte gli effetti del rimescolamento delle carte all’interno dello staff di Obama.

di Carlo Musilli

La svolta è arrivata sabato scorso. Ali Abdullah Saleh, dittatore dello Yemen dal 1978, ha accettato il piano di transizione messo a punto dal Consiglio di Cooperazione del Golfo con la collaborazione di Usa e Ue. Sembra ora più vicina la fine della crisi politica e delle proteste che da oltre tre mesi sconvolgono il Paese. Fin qui, secondo Amnesty International, negli scontri quotidiani fra esercito e manifestanti sono morte almeno 120 persone.

Se le parti sottoscriveranno il piano, il Presidente dovrà lasciare il potere entro 30 giorni. Durante questo periodo Saleh guiderà un governo di unità nazionale insieme a un altro primo ministro scelto dall’opposizione. Nuove elezioni presidenziali si terranno 60 giorni dopo le dimissioni del dittatore, come previsto dalla costituzione yemenita.

L’opposizione ha accettato il piano lunedì, a condizione che le proteste siano autorizzate a continuare fino al definitivo abbandono del Presidente. Questo è un nodo ancora da sciogliere. Saleh sabato scorso aveva dato la propria disponibilità a collaborare solo se le manifestazioni si fossero immediatamente interrotte.

Sarebbe questo uno dei temi da affrontare lunedì prossimo a Riyadh, in Arabia Saudita, dove una delegazione del partito di governo (il Congresso Generale del Popolo) dovrebbe incontrare le opposizioni per siglare formalmente l’accordo. Ancora non si ha alcuna certezza. Saleh infatti non sarà presente all’appuntamento. I suoi avversari hanno fatto sapere che parteciperanno ai colloqui di Riyadh solo se prima il dittatore avrà firmato il piano. La sua parola non basta.

Al momento, l’unica verità è che l’accordo verbale raggiunto con il governo ha creato una frattura profondissima fra l’opposizione politica e quella di strada. Non è solo mancanza di fiducia. I manifestanti sono contrari al piano dei Paesi del Golfo soprattutto perché garantirebbe l’immunità al Presidente e alla sua famiglia.

E’ inaccettabile l’idea di un esilio dorato per chi ha massacrato il Paese negli ultimi 30 anni. Devono finire in tribunale e poi in carcere. Per calmare le acque, Saleh ha sostenuto ai microfoni della BBC che Al Qaeda si sia infiltrata negli accampamenti dei manifestanti. Parole che, insieme al nuovo compromesso raggiunto, hanno infiammato ancor di più le proteste in tutto il Paese. E le violenze continuano, insieme alla conta dei morti.

Martedì a Taez  (200 chilometri a sud di Sana’a) alcuni cecchini appostati sui tetti hanno fatto fuoco su una folla di ragazzi, uccidendone uno e ferendone almeno dieci. Mercoledì un altro manifestante è morto in uno scontro con l’esercito nella città di Aden. Lo stesso giorno anche i terroristi si sono fatti sentire. Si sospetta che ci sia proprio Al Qaeda dietro ad un attacco avvenuto a Zinjibar, capoluogo della provincia meridionale di Abyan. Un uomo ha aperto il fuoco contro un checkpoint dei militari, uccidendo due soldati e ferendone altri cinque.

Ormai storie del genere sono diventate ordinaria amministrazione per gli yemeniti. E non è che facciano poi così notizia fra la popolazione civile. Lo Yemen è il più povero dei Paesi arabi. Secondo il Programma Alimentare Mondiale, un terzo della sua popolazione (più di 7 milioni di persone) fatica a procurarsi il cibo. In alcune zone del Paese, l’emergenza malnutrizione è talmente grave da essere paragonabile a quella che si registra in Afghanistan e in Niger.

La crisi politica ha causato un ulteriore aumento dei prezzi alimentari. Anche il petrolio costa troppo: in molti sono tornati a bruciare legno e carbone. Nel frattempo, la moneta yemenita - il Riyal - continua a perdere terreno rispetto al dollaro. Secondo alcuni analisti è ormai vicina al collasso definitivo. Gli aiuti umanitari internazionali non bastano. Negli ultimi mesi il programma amministrato dalle Nazioni Unite è riuscito a recapitare a mala pena la metà delle risorse necessarie. Tutto questo dà la misura di come i giochi di potere e gli scontri armati fra manifestanti e polizia siano solo una delle preoccupazioni del popolo yemenita.

Se davvero il piano dei Paesi del Golfo andrà a buon fine, lo Yemen imboccherà forse la strada della riconciliazione istituzionale. Smetterà di essere una preoccupazione per chi è interessato solo agli equilibri geopolitici. A quel punto, con ogni probabilità, sarà di nuovo dimenticato. Comunque vada a finire, la tragedia yemenita non finirà a Riyadh.

di Michele Paris

Da qualche giorno, parallelamente all’intensificarsi della repressione delle rivolte in Siria, i governi occidentali stanno aumentando le pressioni sul regime di Damasco. Mentre sono ancora poche le voci che chiedono apertamente la deposizione del presidente Bashar al-Assad, verosimilmente per timore del caos che ne potrebbe seguire, l’atteggiamento sempre più aggressivo mostrato dagli Stati Uniti e dai loro alleati lascia intravedere a breve un probabile maggiore coinvolgimento per modellare il futuro di questo paese strategicamente fondamentale negli equilibri mediorientali.

Fin dall’inizio delle proteste in Siria lo scorso mese di marzo, i media di tutto il mondo hanno descritto ripetutamente l’approccio molto cauto dei governi di USA e Israele. Se, da un lato, entrambi hanno condannato la mano pesante nel reprimere le proteste da parte del regime, dall’altro hanno evitato di spingere troppo in là le proprie critiche. Com’è risaputo, nonostante sia sulla lista nera di Washington e Tel Aviv, la Siria di Assad rappresenta in realtà una sorta di nemico affidabile. Come tale, ha ad esempio assicurato finora una certa stabilità al confine settentrionale israeliano.

Inoltre, le profonde divisioni settarie all’interno del paese e la consueta apprensione per un ipotetico ruolo di spicco che potrebbero giocare i gruppi islamici nella Siria del dopo Assad stanno suggerendo una certa prudenza nelle capitali occidentali. Con un’opposizione ancora frammentata e dall’identità tutta da verificare, la destabilizzazione immediata del paese sembrerebbe insomma comportare più rischi che vantaggi.

D’altro canto, però, un cambiamento di regime in Siria rappresenterebbe un colpo importante per i governi di Stati Uniti e Israele che solo poco più di due mesi fa faticavano a tenere il passo con gli effetti dell’ondata di malcontento diffuso in Nord Africa e in Medio Oriente. La Siria, infatti, pur non disponendo di considerevoli risorse energetiche, confina con paesi alleati degli americani, come Iraq, Giordania, Israele, Libano e Turchia. Come se non bastasse, la Siria appoggia Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina ed è anche e soprattutto l’unico paese arabo alleato dell’Iran.

Per questi motivi, la posta in gioco a Damasco appare davvero troppo invitante per l’Occidente e per Israele, per non cogliere l’occasione. Si cerca quindi di volgere a proprio favore il malcontento comprensibilmente diffuso nel paese e, possibilmente, coltivare un movimento di opposizione pronto a garantire un trasferimento dei poteri senza scosse. A premere esplicitamente per il cambio di regime in Siria sono per ora solo voci isolate, come hanno fatto qualche giorno fa, ad esempio, i senatori americani John McCain e Joe Lieberman sulle televisioni statunitensi.

I segnali del cambiamento di rotta sulla questione siriana in corso a Washington e in Europa si stanno nel frattempo moltiplicando, così come cresce d’intensità una campagna mediatica a senso unico che è difficile non accostare a quella che ha permesso l’intervento armato contro la Libia.

Al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Francia, Germania, Gran Bretagna e Portogallo stanno cercando in questi giorni di far approvare una risoluzione di condanna nei confronti del regime di Assad per la dura repressione delle manifestazioni di piazza. Dopo la manipolazione da parte della NATO della risoluzione 1973 che ha dato il via libera alle operazioni in Libia, le resistenze di Cina e Russia - ma anche del Libano - hanno per il momento impedito di trovare un accordo.

Sempre dal Palazzo di Vetro, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha poi proposto un’indagine indipendente sulle violenze in Siria, mentre l’ambasciatore americano, Susan Rice, ha sostenuto che gli Stati Uniti dispongono di prove che dimostrano il coinvolgimento dell’Iran nella repressione messa in atto da Damasco.

In precedenza, era stata l’amministrazione Obama a segnare il cambiamento di passo con l’annuncio di possibili nuove sanzioni. Questo provvedimento avrebbe in realtà un valore poco più che simbolico, dal momento che gli Stati Uniti impongono già pesanti sanzioni economiche alla Siria, con la quale peraltro hanno rapporti commerciali trascurabili. Ulteriori sanzioni americane servirebbero però a convincere i governi europei a muoversi di conseguenza. Sanzioni imposte dall’Europa avrebbero allora conseguenze più profonde sull’economia della Siria, il cui commercio estero avviene per circa un quarto proprio con i paesi UE.

Al coro di condanne si sono aggiunti poi anche i principali protagonisti dell’aggressione per motivi “umanitari” alla Libia. Il presidente francese Sarkozy, al termine del recente meeting con Berlusconi, ha avuto parole molto dure per Assad, minacciando un intervento militare che potrebbe avvenire in ogni caso solo con l’avallo dell’ONU. Il Ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha a sua volta chiesto al regime siriano di interrompere le violenze sui manifestanti ed ha confermato che l’UE sta valutando l’imposizione di sanzioni economiche.

In Siria, intanto, il soffocamento con la forza delle proteste si accompagna alle concessioni del governo di Assad, tra cui la revoca della legge sullo stato di emergenza, in vigore dal 1963 e che ha permesso al regime baathista di neutralizzare qualsiasi segnale di dissenso. La reale portata della repressione in atto nel paese rimane tuttavia difficile da valutare in maniera obiettiva.

Il regime non permette, infatti, l’ingresso di giornalisti stranieri nel paese e i dati circa le vittime e i manifestanti arrestati sono perciò forniti principalmente da attivisti locali. Questi ultimi si dimostrano spesso tutt’altro che imparziali oppure hanno legami con i governi occidentali, con l’Arabia Saudita o con l’opposizione dei Fratelli Musulmani, tutti ostili alla minoranza alauita al potere in Siria e ai legami che essa mantiene con l’Iran.

A conferma della presenza di formazioni tutt’altro che spontanee tra i manifestanti siriani, la settimana scorsa il Washington Post ha rivelato come il Dipartimento di Stato americano da qualche anno stia finanziando segretamente gruppi e partiti di opposizione al regime di Assad. Tramite il programma “Middle East Partnership Initiative” (MEPI), il governo americano fornisce sostegno economico, ad esempio, al cosiddetto Gruppo della Dichiarazione di Damasco, un raggruppamento di movimenti di opposizione - secolari e religiosi, come i Fratelli Musulmani - fondato nel 2005.

Sempre il Dipartimento di Stato ha contribuito alla creazione di un partito islamico moderato, il Movimento per la Giustizia e lo Sviluppo, modellato sull’omonimo partito di governo di Erdogan in Turchia e formato da esuli siriani di stanza a Londra. Nella capitale britannica opera con il denaro americano anche il network satellitare Barada TV, voce dell’opposizione espatriata e in queste settimane impegnata a diffondere gli aggiornamenti sulla situazione in Siria.

Come in Libia e altrove, dunque, anche le legittime proteste popolari in Siria rischiano di essere strumentalizzate dalle potenze occidentali, pronte a intervenire sì, ma solo per difendere i propri interessi nella regione. Un’evoluzione della crisi siriana che manda un segnale chiarissimo al regime di Bashar al-Assad, tuttora pericolosamente diviso tra volontà di vera riforma e rigurgiti di repressione violenta.

di Carlo Musilli

Dio, patria e famiglia conditi con intolleranza, nazionalismo e retorica neofascista. Sono questi gli ingredienti fondamentali della nuova Carta Costituzionale approvata lunedì scorso dal Parlamento ungherese. Ben 262 voti favorevoli, solo 44 i contrari. Un testo vergognoso e palesemente antidemocratico che riporta la memoria agli anni bui dei totalitarismi. Peccato che oggi l'Ungheria sia membro della Nato e presidente di turno dell'Unione Europea.

La nuova Costituzione di Budapest non definisce più lo Stato nei termini di una repubblica, ma identifica la nazione politica con le sue radici etniche e cristiane. I diritti delle minoranze non vengono nemmeno contemplati. Negli articoli D e G si legge che il Paese "deve farsi carico del destino degli ungheresi che vivono fuori dai suoi confini", a quali sarà concesso diritto di voto, anche perché "il figlio di un cittadino ungherese è ungherese, a prescindere da dove si trovi". Frasi che molti hanno interpretato come la rivendicazione dei territori sottratti al Paese dopo la prima guerra mondiale, oggi divisi fra Serbia, Romania, Croazia e Slovacchia.

Il testo definisce poi il Cristianesimo come elemento fondante della nazione. Un'affermazione che non solo discrimina gli atei e i cittadini di fede diversa, ma umilia anche i diritti delle donne e degli omosessuali. Nell'esaltare il valore della famiglia, infatti, l'Ungheria vieta per legge l'aborto e s’impegna a proteggere "il matrimonio, inteso come unione coniugale fra un uomo e una donna".

Ce ne sarebbe già abbastanza per parlare di atteggiamento medievale, ma non è finita. La parte più spaventosa della nuova Costituzione è quella che sconvolge l'assetto dei poteri. Una serie di organi di garanzia, fino a ieri indipendenti, vengono portati sotto il controllo del governo. L'esecutivo ha il diritto di nominare i membri della Corte Costituzionale, che viene privata delle sue competenze in tema di bilancio, fisco e dogane.

Nel documento viene poi riconosciuto esplicitamente il ruolo dell'Nmhh, l'autorità di controllo dei media instituita quattro mesi fa. Nemmeno a dirlo, i suoi membri sono di nomina governativa. Sarà invece direttamente il Premier a scegliere i componenti del nuovo Consiglio Fiscale della Banca Nazionale, che avrà potere di veto sui temi di bilancio. Una bocciatura del Consiglio consentirebbe al Presidente di sciogliere il Parlamento. E non è un dettaglio: se questo governo cadesse, infatti, il nuovo esecutivo sarebbe tenuto in ostaggio da uomini fedeli al vecchio premier.

Completano il rassicurante quadretto una serie di altre norme. Fra queste, ricordiamo la non commutabilità del carcere a vita, la possibilità di tenere in casa armi da fuoco pur non avendo la licenza, la definizione del lavoro come "dovere" e non più come "diritto".

Questa nuova Costituzione sostituisce quella comunista del 1949, più volte modificata in senso democratico dopo la caduta del Muro, nel 1989. Fino alla settimana scorsa l'Ungheria era l'unico Paese dell'ex area sovietica a non aver completamente riscritto la sua Carta fondamentale dopo la caduta dell'Urss. Come sono arrivati, proprio ora, a un abominio del genere?

Il principale responsabile dello scempio istituzionale è stato il Premier, Viktor Orban, che si è cucito addosso una riforma perfetta per istituzionalizzare la dittatura. Una volta era un leader liberale, ma recentemente lo spirito di qualche imperatore austroungarico deve averlo posseduto. L'anno scorso il suo partito, la Fidesz, ha vinto le elezioni con il 52% dei voti, il che gli ha permesso di occupare oltre due terzi dei seggi parlamentari.

Questo significa che, per far passare qualsiasi riforma, Orban non ha bisogno dell'appoggio di nessuno, né dei socialisti, né dell'estrema destra. La nuova Carta Costituzionale, infatti, è stata votata e approvata soltanto dalla Fidesz. Per protesta, le sinistre hanno abbandonato l'aula. Comitati di cittadini si sono subito attivati per chiedere un referendum abrogativo, ma il governo ha già fatto sapere che non sarà concesso.

L'Unione Europea intanto galleggia fra l'imbarazzo e la sonnolenza. Non sono mancate le critiche contro l'esecutivo di Budapest da parte di singoli Paesi, ma generalmente ci si è limitati a reprimende moraleggianti. Il Consiglio d'Europa ha fatto presente che la bozza della nuova Costituzione è stata presentata solo il 14 marzo, rendendo impossibile qualsiasi confronto con l'Ue. Una puntualizzazione interessante, peccato che non si sia vista nemmeno l'ombra di un intervento concreto.

La voce più autorevole che si sia alzata è stata quella del vice ministro degli Esteri tedesco, Werner Hoyer. La Germania "guarda a quello che sta accadendo in Ungheria - ha detto - con grande attenzione e non senza una certa preoccupazione". Il governo di Budapest ha definito l'intromissione "sorprendente" e "inaccettabile".

Molto meno diplomatica Amnesty International, che ha parlato della nuova Costituzione ungherese come di una violazione "alle norme internazionali ed europee dei diritti dell'uomo". L'Ue dovrebbe "garantire conformità" fra "l'ordinamento ungherese" e "le norme europee". Già, dovrebbe.

 


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