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di Michele Paris
Il secondo summit del Gruppo di Contatto Internazionale, impegnato nell’aggressione militare contro la Libia, si apre oggi a Roma per cercare di dare un nuovo impulso ad un’operazione che fatica a centrare gli obiettivi fissati dai paesi occidentali. Ospite di spicco dei lavori sarà il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, giunta già ieri sera nella capitale nel tentativo di potenziare la partecipazione italiana ad un conflitto che sta causando non poche spaccature tra gli alleati della NATO.
Il primo vertice tra i governi delle potenze occidentali e di alcuni paesi arabi che stanno appoggiando l’avventura libica era andato in scena lo scorso mese di aprile a Doha, nel Qatar. A presiedere questo secondo incontro, al quale parteciperanno le delegazioni di ventidue governi più quelle delle organizzazioni internazionali e dei paesi osservatori, saranno il Ministro degli Esteri italiano Frattini e il suo omologo del Qatar, Sheik Hamad bin Jassim bin Jabr al-Thani. Da parte sua, la Clinton vedrà successivamente, nel pomeriggio, il premier Berlusconi a Palazzo Chigi in un giro di colloqui che dovrebbe includere anche Napolitano e lo stesso Frattini.
Il vertice romano sulla Libia giunge in un momento molto delicato per i paesi aggressori, in evidente difficoltà e in disaccordo sulla condotta da tenere nell’iniziativa militare. Le divisioni all’interno dell’alleanza erano emerse già all’indomani della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, approvata il 17 marzo, visto che la NATO è andata subito ben al di là del mandato che le era stato conferito.
La no-fly zone imposta alla Libia per difendere i civili, infatti, è stata ben presto superata da bombardamenti che nulla hanno a che vedere con l’impegno umanitario. Un’ulteriore prova di ciò si è avuta solo pochi giorni fa, quando un’incursione aerea ha colpito il complesso residenziale Bab al-Azizyah di Gheddafi a Tripoli, causando la morte del suo ultimo figlio, Saif al-Arab, e di tre giovanissimi nipoti.
Il tentativo del tutto illegale di assassinare il leader libico, peraltro già avvenuto una prima volta nelle scorse settimane, è la conferma che l’obiettivo della NATO va ben oltre le ragioni umanitarie a cui fa appello la risoluzione ONU. La pretesa di colpire esclusivamente le installazioni militari o le forze armate coinvolte nella repressione dei civili è stata completamente smentita, solo per citare i più recenti episodi, anche da due raid occidentali sulla sede della televisione di stato libica mentre Gheddafi stava parlando in diretta e, addirittura, su una scuola per bambini disabili.
Nonostante le smentite dei governi alleati e del comando NATO, è evidente che l’obiettivo principale dei bombardamenti rimane il cambiamento di regime e la rimozione di Gheddafi, anche tramite un assassinio mirato contrario al diritto internazionale. Oltre due mila incursioni aeree occidentali non sono state d’altra parte sufficienti all’esercito ribelle di stanza a Bengasi per condurre un’offensiva militare efficace contro le forze fedeli al rais. Uno scenario questo che suscita più di un dubbio circa l’effettivo sostegno raccolto nel paese da parte di un gruppo di ribelli formato per lo più da ex membri del regime, uomini della CIA ed estremisti islamici.
Di fronte ad un panorama simile, le questioni sul tavolo durante il summit di Roma saranno le stesse che sono rimaste irrisolte dopo il precedente incontro di Doha. Secondo la retorica ufficiale, la comunità internazionale dovrà cioè prendere iniziative per risolvere la crisi libica, continuando ad assicurare la protezione dei civili. In altre parole, dietro il paravento dell’intervento umanitario, si proverà ad aggirare nuovamente la risoluzione del Consiglio di Sicurezza così da consentire un impegno più incisivo della NATO in Libia, senza escludere l’invio di truppe di terra, cui si oppongono però ancora molti paesi.
L’altra questione urgente è poi quella degli aiuti da far pervenire in qualche modo ai ribelli. Anche in questo caso si è già ampiamente trasgredito al mandato ONU, con vari paesi che stanno fornendo armi e contributi finanziari agli insorti, violando la prescrizione di non schierarsi a fianco di una delle due parti coinvolte nel conflitto in corso.
Il denaro da far pervenire a Bengasi, una volta trovato un meccanismo per superare gli ostacoli legali, dovrebbe provenire dai fondi esteri della famiglia Gheddafi già congelati da molti paesi e dalla vendita del petrolio estratto dai pozzi della Cirenaica e per il quale il Qatar si è offerto di agire da intermediario.
Le pressioni su Gheddafi proseguono poi anche sul fronte diplomatico. Proprio un paio di giorni fa, il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, ha infatti chiesto ufficialmente al leader libico di farsi da parte per evitare ulteriori spargimenti di sangue. L’appello di Erdogan rappresenta una svolta significativa, dal momento che la Turchia era stata una delle voci più moderate nella NATO ed aveva cercato di promuovere una soluzione concordata della crisi.
L’inversione di rotta della Turchia è arrivata in seguito alle pressioni esercitate dagli stessi rappresentati del governo provvisorio libico che da tempo accusavano Ankara di fare il doppio gioco nei confronti di Tripoli e di frenare l’azione militare della NATO.
Un cambio di marcia nell’impegno in Libia sarà verosimilmente richiesto da Hillary Clinton anche al governo italiano. Il coinvolgimento del nostro paese ha in ogni caso già subito un’accelerazione con la recente decisione di partecipare ai raid aerei. In precedenza, inoltre, l’Italia era stata il terzo paese - assieme a Francia e Qatar - a riconoscere ufficialmente il governo provvisorio dei ribelli libici.
Come ha affermato il ministro Frattini ieri alla Camera, in riferimento ai bombardamenti italiani nella ex colonia nordafricana, “non potevamo stare a guardare”; non certo per fermare un massacro di civili la cui portata è ancora tutta da verificare, quanto per non perdere terreno nei confronti di Stati Uniti, Gran Bretagna e, soprattutto, Francia in un’eventuale spartizione delle ricchezze energetiche libiche una volta caduto il regime di Gheddafi.
Il governo Berlusconi sembra poi aver superato le divisioni interne con l’approvazione alla Camera di una mozione che dovrebbe fissare dei paletti all’impegno in Libia. La messinscena della maggioranza era scaturita dalle perplessità della Lega Nord sulla partecipazione ai bombardamenti degli aerei da guerra italiani.
I dubbi dei leghisti, peraltro, non derivavano da scrupoli morali o umanitari, bensì dal timore di nuovi possibili sbarchi sulle coste italiane. Il via libera ai raid da parte della Lega doveva essere perciò vincolato a una data precisa per la fine delle ostilità in Libia.
Nella mozione di maggioranza si chiede così al governo italiano di stabilire assieme agli alleati e alle organizzazioni internazionali un termine temporale certo delle operazioni militari contro il regime di Gheddafi. Nonostante i consueti toni trionfalistici dei leader di maggioranza sulla coesione del governo, la mozione appena approvata non ha in realtà alcuna rilevanza, tanto che la possibilità di fissare una data alla fine dei bombardamenti è stata respinta dallo stesso Frattini alla vigilia del voto alla Camera.
La NATO, inoltre, ha fatto sapere chiaramente che non esiste al momento alcuna possibilità di concordare uno stop all’aggressione militare alla Libia. La fine degli attacchi arriverà infatti solo una volta ottenuta l’eliminazione di Gheddafi e l’instaurazione di un governo fantoccio pronto ad assecondare gli interessi strategici dei paesi occidentali e dei loro alleati nel mondo arabo.
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di Eugenio Roscini Vitali
E’ il gennaio 2006 quando ha inizio la guerra civile palestinese, un conflitto che vede di fronte Fatah ed Hamas e che in quasi 18 mesi fa più di 600 vittime: mercoledì 4 maggio, a 5 anni da quei tragici fatti, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Abu Mazen, e il leader politico di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya (Hamas), Khaled Meshal, s’incontreranno al Cairo per sottoscrivere l’accordo di riconciliazione mediato dall’Egitto.
L’intesa prevede la formazione di un governo tecnico di unità nazionale, l’istituzione di un organismo congiunto in materia di sicurezza e la creazione di una commissione che avrà il compito di organizzare e monitorare tutte le attività collegate alle elezioni parlamentari e presidenziali che dovrebbero tenersi entro otto mesi.
E’ chiaro però che non tutti sono favorevoli al ritrovato dinamismo politico palestinese e c’è chi guarda al nuovo corso come ad un ostacolo al già agonizzante processo di pace mediorientale, un’occasione per ricordare che Hamas è ancora considerato un pericoloso gruppo terroristico e come tale non può diventare uno dei futuri interlocutori di Israele.
L’annuncio fatto nei giorni scorsi dal portavoce di Fatah ha subito scatenato le prime reazioni: il ministro israeliano delle Finanze, Yuval Steinitz, ha reso noto che Tel Aviv sospenderà il versamento dei fondi alle casse dell’Anp, 50 milioni di euro al mese di tasse e dazi doganali raccolti per conto del governo palestinese. Stesso tono da parte del direttore politico del dipartimento di Stato USA, Jacob Sullivan, che alla stampa ha ricordato come l’amministrazione americana sia pronta a rivedere la sua politica di aiuti verso Ramallah: «Il nostro attuale sostegno all'Autorità palestinese rappresenta un forte contributo alla costruzione delle istituzioni palestinesi necessarie a un futuro Stato, ma se dovesse nascere un nuovo governo dovremo valutare i suoi principi politici e decidere quali saranno le conseguenze sul nostro aiuto, definito dalla legge americana».
Washington è pronta a sostenere la riconciliazione palestinese a patto che gli accordi del Cairo incoraggino comunque la pace e che il nuovo governo di unità nazionale s’impegni a rispettare le condizioni imposte dal Quartetto (Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Onu): fine delle violenze, riconoscimento dei trattati firmati in passato da Israele e dai rappresentanti dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e riconoscimento del diritto allo Stato ebraico di esistere.
Pur non dichiarandosi disposto a dare al governo unitario palestinese il mandato per portare avanti i negoziati con Israele, Hamas sembra comunque pronto a collaborare. Il Movimento di resistenza islamico ha infatti garantito di non imporre a Fatah l’abbandono del processo di pace e, per favorire l’accordo di riconciliazione, il primo ministro in carica nella Striscia di Gaza, Ismail Haniyeh, ha confermato la propria disponibilità a rassegnare le dimissioni: «Questo accordo è molto importante e dobbiamo moltiplicare gli sforzi per porre fine alle divisioni ed incoraggiare l’unità del popolo palestinese».
Chi più di ogni altro è rimasto spiazzato da questo nuovo corso della storia politica palestinese è senza dubbio il governo israeliano, che ora si trova a dover ridefinire la propria posizione e lo deve fare prima del 24 maggio, prima cioè che primo ministro, Benyamin Netanyahu, si rechi a Washington per parlare di fronte alle Camere riunite. Tra i banchi della Knesset il fronte degli intransigenti é sempre ampio e molti membri dell’Esecutivo hanno già fatto appello affinché i principali paesi della comunità internazionale boicottino l’accordo di riconciliazione tra Fatah ed Hamas.
Ma non tutta l’opinione pubblica israeliana è concorde; in un editoriale pubblicato dal quotidiano Haaretz, lo scrittore Gideon Levy denuncia una posizione di diritto che non da nessuna risposta al problema israelo-palestinese e chiede che al Movimento di resistenza islamico sia data una chance: “Non c’è ancora una riconciliazione, ma in Israele il pianto degli oppositori si è già fatto sentire; il contenuto è sempre lo stesso, parola per parola, come negli anni ’70 e ’80, un’organizzazione terroristica con la quale non si potrà mai negoziare”.
Appoggiato dal suo Gabinetto, Netanyahu ha liquidato l’argomento, affermando che con i terroristi non si tratta: «Fatah scelga, la pace con Israele o la pace con Hamas»; ancora più drastico è il giudizio del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, che alla stampa ha parlato di “linea rossa varcata” e di inevitabili conseguenze. Il leader del partito ultranazionalista Israel Beitenu è certo che pur guidato da Abu Mazen, un governo di unità nazionale porterà alla liberazione dei rispettivi prigionieri, terroristi attivi che invaderanno la Cisgiordania e che metteranno in pericola la sicurezza dello Stato ebraico.
Lieberman è convinto che le due organizzazioni sentono la pressione delle rivolte mediorientali e che l’accordo non è altro se non una via d’uscita per recupera il terreno politico perso in Siria, dove Hamas rischia di veder sfumare l’appoggio del presidente Bashar al Assad, sempre più vicino ad una resa dei conti ormai inevitabile, e in Egitto, dove Fatah paga gli effetti della “rivoluzione del 25 gennaio” che ha portato alla caduta di Hosni Mubarak e ha rilanciato i Fratelli Musulmani, la potente organizzazione pan-islamica ideologicamente molto più vicini a Gaza che a Ramallah.
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di Alessandro Iacuelli
Si chiama Eurogendfor. Una siglia, solo una sigla apparentemente innocua, che però in italiano diventa "Gendarmeria europea". Proprio in questi giorni, circondata da uno strano silenzio della stampa, è in discussione presso le commissioni Esteri e Difesa della Camera dei Deputati la proposta di legge di ratifica del trattato, datato 18 ottobre 2007, che istituisce questa strana gendarmeria: una forza militare sub-europea indipendente.
Andando a scavare nella documentazione dell'Unione Europea risulta difficile scovare genesi e obiettivi di questo organismo. Sulla carta è nato il 18 ottobre 2007, con il Trattato di Velsen, anche questo poco o nulla pubblicizzato presso i cittadini europei. Ne fanno parte non tutti i Paesi UE, ma solo quelli dotati di una polizia militare: Francia, Spagna, Portogallo, Olanda e Italia. Secondo il Trattato, si tratta di una sorta di super-polizia sovranazionale a disposizione della UE, dell’OSCE, della NATO o di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche.
Una forza pre-organizzata, robusta e rapidamente schierabile, composta esclusivamente da elementi delle forze di polizia con status militare, al fine di svolgere tutti i compiti di polizia nell'ambito delle operazioni di gestione delle crisi. Dal 17 Dicembre 2008, fa parte a pieno titolo di Eurogendfor anche la Gendarmeria romena, portando quindi a sei il totale degli Stati membri.
Eurogendfor può contare su una forza di 800 "gendarmi" mobilitabile in 30 giorni, più una riserva di altri 1.500; il tutto gestito da due organi centrali, uno politico e uno tecnico. Il primo è il comitato interdipartimentale di alto livello, chiamato CIMIN, acronimo di Comité InterMInistériel de haut Niveau, composto dai rappresentanti dei ministeri degli Esteri e della Difesa aderenti al trattato. L’altro è il Quartier generale permanente (PHQ), composto da 16 ufficiali e 14 sottufficiali (di cui rispettivamente 6 e 5 italiani). I sei incarichi principali (comandante, vicecomandante, capo di stato maggiore e sottocapi per operazioni, pianificazione e logistica) sono ripartiti a rotazione biennale tra le varie nazionalità, secondo gli usuali criteri per la composizione delle forze multinazionali.
Non si tratta quindi di un vero corpo armato europeo, un inizio di esercito unico europeo, nel qual caso si collocherebbe alle dipendenze di Commissione e Parlamento Europeo, ma di un semplice corpo armato sovra-nazionale che, in quanto tale, gode di piena autonomia. Non risponde delle proprie azioni a nessun Parlamento nazionale, né al parlamento europeo. Dunque, a chi risponde?
La sede del Quartier generale di Eurogendfor è in Italia, precisamente nella Caserma Chinotto a a Vicenza, dopo un lungo e silenzioso negoziato con la solita Francia. Ma a cosa serve, e soprattutto perché tanto silenzio? Non lo sappiamo per certo, ma la circostanza del silenzio mediatico pone determinati e seri interrogativi, soprattutto in considerazione del fatto che alcuni articoli del trattato prevedono una totale immunità giudiziaria a livello nazionale ed internazionale.
Non solo. L'articolo 21 del trattato di Velsen prevede infatti l'inviolabilità dei locali, degli edifici e degli archivi di Eurogendfor. L'articolo 22 immunizza le proprietà ed i capitali di Eurogendfor da provvedimenti esecutivi dell'autorità giudiziaria dei singoli stati nazionali. L'articolo 23 prevede che tutte le comunicazioni degli ufficiali di Eurogendfor non possano essere intercettate.
L'articolo 28 prevede che i Paesi firmatari rinuncino a chiedere un indennizzo per danni procurati alle proprietà nel corso della preparazione o esecuzione delle operazioni. L'articolo 29 prevede infine che gli appartenenti ad Eurogendfor non potranno subire procedimenti a loro carico a seguito di una sentenza emanata contro di loro, sia nello Stato ospitante che nel ricevente, in tutti quei casi collegati all’adempimento del loro servizio.
Queste sono le inquietanti protezioni di cui la struttura si è dotata. Ma che compiti avrebbe? Nel trattato di Velsen c'è un'intera sezione intitolata "Missions and tasks", in cui si apprende che Eurogendfor potrà operare "anche in sostituzione delle forze di polizia aventi status civile", in tutte le fasi di gestione di una crisi e che il proprio personale potrà essere sottoposto all'autorità civile o sotto comando militare.
Vastissimi sono i compiti che il trattato affida a Eurogendfor: tra le altre cose garantire la pubblica sicurezza e l’ordine pubblico, eseguire compiti di polizia giudiziaria (anche se non si capisce per conto di quale Autorità Giudiziaria, controllo, consulenza e supervisione della polizia locale, compreso il lavoro di indagine penale, dirigere la pubblica sorveglianza, operare come polizia di frontiera, acquisire informazioni e svolgere operazioni di intelligence.
Forse il vero scopo di Eurogendfor è proprio in questo ultimo punto: con tutte le immunità e le protezioni di cui si è dotata, la struttura somiglia più a un servizio di spionaggio interno ed esterno, che ad uno di polizia. E’ stata progettata una sorta di struttura militare sovranazionale che potrà operare in qualsiasi parte del mondo, sostituirsi alle forze di Polizia locali, agire nella più totale libertà e che, al termine dell’ingaggio, dovrà rispondere delle sue azioni al solo comitato interno. Pertanto, non sembra una Polizia, ma qualcosa di simile al KGB sovietico, alla Stasi della DDR, all'OVRA di Mussolini, alla Gestapo di Hitler.
In Italia, i relatori del provvedimento di ratifica sono gli onorevoli Filippo Ascierto e Gennaro Malgieri, entrambi del PDL, che assicurano che i chiarimenti del caso potranno essere dati in Aula, a Montecitorio, precisando che questa squadra speciale di polizia militare extra-nazionale risponderà solo ai ministri degli Esteri e della Difesa degli Stati membri. Cosa alquanto pericolosa, perché dietro vi è celato il potere, dato ad ogni Paese firmatario, di espropriare i propri parlamenti dalle decisioni sull’impiego delle proprie truppe. E consente di farlo in piena legalità.
In pratica, è un altro pezzo di democrazia che va via, che toglie potere ai parlamenti regolarmente eletti. L'opinione pubblica non lo sa, perché i mezzi d'informazione tacciono. Sappiamo infatti tutto sulle liberta sessuali del Premier, ma poco su quelle civili di noi tutti. Quando la democrazia va in deficit, l’informazione si adegua?
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di Michele Paris
Con un’apparizione a sorpresa nella tarda serata americana di domenica, Barack Obama ha annunciato l’uccisione da parte delle forze speciali del proprio paese del terrorista più famoso e ricercato del pianeta. La notizia é stata accolta da festeggiamenti nelle strade delle città americane e il Presidente Obama ha certamente guadagnato popolarità e consensi in ogni dove del paese.
L’esecuzione di Osama bin Laden in una cittadina pakistana presenta ancora molti lati oscuri e, nonostante venga propagandata dalla Casa Bianca e dai principali media occidentali come un momento di svolta nella guerra al terrore, difficilmente influirà significativamente sul futuro della strategia bellica statunitense in Asia centrale.
Fin dall’attentato del 29 dicembre 1992 contro un hotel di Aden, nello Yemen, poco dopo essere stato abbandonato da soldati americani diretti in Somalia, il leader di Al-Qaeda è finito puntualmente sugli elenchi dei terroristi più ricercati dagli Stati Uniti. Diciassettesimo figlio di un immigrato yemenita in Arabia Saudita, Osama bin Laden ereditò una parte cospicua della fortuna del padre, messa assieme grazie al favore dei reali sauditi nei confronti della sua compagnia di costruzioni, che avrebbe utilizzato più tardi per costruire una rete di adepti della guerra santa.
Il “giovane leone” - questo il significato del nome Osama - che era cresciuto giocando con i principi sauditi, sarebbe diventato dopo l’11 settembre 2001 il simbolo stesso del male per l’America sconvolta dagli attacchi alle Torri Gemelle. Nell’ultimo decennio, la sua immagine è stata evocata praticamente dopo ogni attentato o minaccia terroristica in qualsiasi angolo del mondo, facendo passare in secondo piano qualunque dubbio o responsabilità nascoste.
Tutto questo nonostante la nascita stessa dell’organizzazione creata da bin Laden affondi le proprie radici nel jihadismo sostenuto e finanziato da Washington contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan e, ancor più, alla luce dell’incertezza nella quale sono tuttora avvolti i contorni e la reale consistenza di Al-Qaeda.
Secondo le ricostruzioni ufficiali, l’operazione che ha portato all’uccisione di Osama bin Laden era iniziata lo scorso mese di agosto, quando i servizi segreti americani, grazie alle informazioni fornite da alcuni detenuti nel carcere di Guantánamo, riuscirono a individuare l’uomo incaricato di tenere i contatti con il numero uno di Al-Qaeda nella città di Abbottabad, nel Pakistan settentrionale. Solo un mese più tardi la CIA sarebbe riuscita a stabilire la presenza certa di bin Laden in un edificio lussuoso ma privo di collegamento telefonico o a internet.
A partire poi dalla metà di marzo, Obama ha tenuto una serie di riunioni con i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale per decidere il da farsi. Venerdì scorso, infine, il presidente ha firmato l’ordine che ha autorizzato il blitz delle forze speciali in territorio pakistano, tenendo all’oscuro dell’operazione le stesse autorità locali. L’intervento del commando americano ha innescato un conflitto a fuoco che ha causato la morte di cinque persone, tra cui Osama bin Laden. Il corpo di quest’ultimo è stato poi trasportato in Afghanistan e, da qui, seppellito in mare.
Nel suo annuncio, il presidente americano ha fatto ampio uso dei consueti proclami retorici che hanno accompagnato la lotta al terrorismo inaugurata dal suo predecessore e che hanno puntualmente nascosto agli americani le vere ragioni del conflitto seguito all’11 settembre. Il discorso di Obama e i toni celebrativi dei giornali rappresentano un tentativo di unire il paese in un momento di grave crisi economica e di profonda sfiducia per le avventure belliche in corso.
La descrizione degli eventi, in ogni caso, lascia aperti molti interrogativi sia sull’operazione che sugli sviluppi del conflitto in Pakistan e Afghanistan. Innanzitutto, Osama bin Laden non era latitante in un’inospitale località di confine tra questi due paesi, bensì in una confortevole abitazione alla periferia di una città situata ad una sessantina di chilometri dalla capitale pakistana, Islamabad, e ancora più vicina a Rawalpindi, ovvero il quartier generale dell’esercito del Pakistan. Come se non bastasse, ad Abbottabad è stata documentata la presenza di altri affiliati ad Al-Qaeda in passato e, lo scorso mese di marzo, proprio qui venne catturato un militante islamico di spicco, l’indonesiano Umar Patek, membro del gruppo Jemaah Islamiyah. Secondo le parole di Obama, poi, la localizzazione di bin Laden è stata il frutto della collaborazione con i servizi pakistani.
Com’è evidente, la presenza di bin Laden in Pakistan sarebbe stata del tutto impossibile senza la protezione dei vertici governativi, militari e, soprattutto, dell’intelligence di questo paese. Più che dal paziente lavoro dei servizi segreti e dall’efficienza delle forze speciali USA, la fine di bin Laden sembra dunque essere stata resa possibile, per motivi ancora da chiarire, dalla decisione dei pakistani di liberarsi dello scomodo ospite al quale da anni avevano garantito protezione.
Come ha scritto ad esempio la testata on-line Asia Times, inoltre, bin Laden potrebbe essere la vittima indiretta degli sconvolgimenti che stanno attraversando il mondo arabo in questo 2011. A decretarne la fine, secondo questa ipotesi, sarebbe stata la stessa Arabia Saudita da dove - va ricordato - provengono i più ingenti finanziamenti a beneficio di Al-Qaeda e degli altri gruppi integralisti che operano in Pakistan.
Per i sauditi, nonostante tutto, bin Laden e i suoi non rappresentavano finora una vera minaccia alla sopravvivenza del loro regime. Con le recenti ondate di protesta, però, si è concretizzato il rischio di destabilizzazione anche per Riyadh e il vicino Yemen, una eventualità che andrebbe a tutto favore degli arcirivali iraniani e che Al-Qaeda potrebbe strumentalizzare e rendere ancora più pericolosa.
Uno scenario da evitare ad ogni costo per l’Arabia Saudita - da dove è verosimile si conosca qualcosa circa i movimenti dei gruppi legati ad Al-Qaeda, visto il flusso di denaro a loro destinato e che da qui ha origine - così che la continua presenza di Osama bin Laden è sembrata diventare improvvisamente troppo rischiosa.
Il fatto che bin Laden trovasse rifugio in Pakistan conferma anche l’assurdità delle pretese americane di combattere in Afghanistan per proteggere gli USA da Al-Qaeda. In Afghanistan, per ammissione stessa del governo americano, opera solo una manciata di uomini legati ad Al-Qaeda, mentre i gruppi jihadisti sono attivi per lo più in Pakistan, frequentemente sotto la protezione di un governo alleato degli Stati Uniti. Ciononostante, Washington ha aumentato massicciamente il dispiegamento di proprie truppe in Afghanistan negli ultimi anni.
Oltre ai possibili attentati in Occidente da cui la Casa Bianca ha messo in guardia, la rappresaglia di Al-Qaeda per vendicare la morte di bin Laden finirà probabilmente per concentrarsi nel prossimo futuro contro il Pakistan, intensificando la recente escalation di episodi sanguinosi. I vari accordi di cessate il fuoco tra i gruppi ribelli e i militari pakistani potrebbero saltare del tutto, così come verranno verosimilmente interrotti i negoziati per una possibile riconciliazione tra i militanti e le autorità.
Dal momento che Osama bin Laden in questi anni era diventato sempre più una figura simbolica - lasciando la gestione delle operazioni sul campo ad altri leader, come il suo numero due, l’egiziano Ayman al-Zawahiri - l’attività di Al-Qaeda non dovrebbe subire trasformazioni significative. Allo stesso modo, l’uccisione del nemico giurato degli USA non produrrà cambiamenti di rilievo nella strategia americana contro il terrore, come ha fatto intendere Obama nel suo annuncio.
L’impegno militare in Afghanistan come altrove rimane infatti legato esclusivamente alla difesa degli interessi strategici di Washington nelle aree cruciali del globo. Le quasi tre mila vittime degli attacchi dell’11 settembre, a cui bin Laden è legato, diventarono il pretesto per l’occupazione del paese e del successivo espansionismo militare americano. La più recente aggressione della Libia, per non parlare dell’invasione irachena del 2003, conferma d’altra parte come spesso gli obiettivi degli USA coincidano in maniera singolare con quelli dei gruppi fondamentalisti legati all’organizzazione fondata da Osama bin Laden, alcuni dei quali fanno parte appunto delle forze ribelli sostenute dai bombardamenti NATO e che si battono per il rovesciamento del regime di Gheddafi.
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di mazzetta
Il nuovo governo egiziano, nonostante il suo stato di governo provvisorio per portare il paese alle prime elezioni democratiche della sua storia recente, è molto attivo nel cercare di distanziarsi dalle imprese della dittatura di Mubarak. Addirittura ardito per la velocità e l'efficacia con la quale ha ridisegnato la politica internazionale egiziana, in particolare nei confronti di Israele e Palestina.
In pochi giorni e senza destare sospetti nelle altre cancellerie, è riuscito nella difficile impresa di far siglare la pace tra Fatah ed Hamas, le due fazioni palestinesi che sembravano inconciliabili dopo che Fatah aveva emarginato Hamas a Gaza dopo aver tentato e fallito un golpe armato sostenuto proprio da Egitto, Israele e Stati Uniti contro la formazione radiclae che aveva vinto le prime elezioni palestinesi da anni, volute proprio da Stati Uniti ed Israele.
Ai palestinesi non più divisi l'Egitto ha offerto la liberazione di Gaza, a distanza di un paio di giorni dall'annuncio dello storico accordo il ministro degli esteri egiziano ha dichiarato in televisione che l'Egitto porrà fine all'assedio di Gaza aprendo il valico di Rafah, sigillato da Mubarak, d'accordo con Israele. per punire gli abitanti di Gaza, colpevoli di aver votato Hamas. La pretesa israeliana era quella di far così crollare il consenso per Hamas, ma è un'intenzione alla quale non ha mai creduto nessuno.
In più il governo egiziano si è posto come tutore e facilitatore dei nuovi rapporti tra Hamas e Fatah, approntando una missione militare di specialisti che avrà il compito di stabilirsi a Gaza e gestire l'applicazione dell'accordo e definirne i numerosi dettagli pratici ed operativi.
Abbandonato da tutti e pesantemente delegittimato dall'aver agito di concerto con i governi israeliani senza ottenere null'altro che l'aumento delle colonie illegali nella West Bank, Abbas ha colto l'occasione per uscire dall'impasse e dare un senso al suo progetto di dichiarare la costituzione dello stato palestinese a settembre. Stato già riconosciuto da diversi paesi, con una lista complessiva di ben centossessanta governi che hanno già dato il loro consenso a riconoscere il futuro stato di Palestina, un riconoscimento che si rafforza indubbiamente grazie alla ritrovata unità politica dei palestinesi.
Unità che sembra aver gettato nel panico il governo di Netanyahu, che ha gridato allo scandalo, annunciando che con un governo che comprende i "terroristi" di Hamas, Israele non potrà mai far la pace. Il suo discorso non è piaciuto a nessuno e non solo perché la pace si fa necessariamente con i nemici o perché gli ultimi governi d'Israele hanno sulla coscienza, tra punizioni collettive, omicidi mirati, la devastazione di Gaza e del Libano e la colonizzazione della West Bank, crimini paragonabili a quelli di Hamas. Il governo israeliano è oggi isolato come non mai e non ha spazi di manovra. Il nuovo scenario è ben visto anche dagli Stati Uniti e dall'UE, che con un rumoroso silenzio hanno evitato di unirsi alle condanne israeliane e osservano con malcelata soddisfazione l'evoluzione degli eventi, che mantengono l'Egitto nella sfera d'influenza americana e che smuovono una situazione che sembrava immutabile quanto foriera di violenze insensate per gli anni a venire.
Tocca ora al governo israeliano cambiare politica, rinunciando al plateale boicottaggio del processo di pace dimostrato sulla carta dai Palestinian Papers e sul campo dall'ottusa spinta alla colonizzazione della West Bank e dalla pretesa, inventata quando ormai non c'era più nulla da inventare, di un riconoscimento da parte di arabi e palestinesi del carattere "ebraico" dello stato d'Israele. Un'assurdità inaudita, perché il riconoscimento internazionale non è mai condizionato alla religione dominante in un paese, nesuno riconosce l'Italia come paese cattolico o l'Arabia Saudita come paese islamico, il riconoscimento vale come licenza a fare del proprio paese quello che si vuole, non certo a scrivere da qualche parte che sarà ebraico, cristiano o musulmano nei secoli.
Anche perché l'annunciata decisione di Hamas di confluire in un'unica formazione politica con Fatah risolve alla radice il problema del riconoscimento d'Israele (già riconosciuto dall'OLP) e dello statuto di Hamas che invoca la distruzione d'Israele, due posizioni che Hamas si era sempre detta disposta a superare di fronte a colloqui di pace seri e che Israele ha sempre citato per giustificare il sabotaggio dei coloqui di pace.
L'evoluzione della politica egiziana nei confronti d'Israele corrisponde al sentire della maggioranza degli egiziani, ma anche, in maniera straordinaria, agli interessi degli Stati Uniti, che da tempo lamentano il prezzo straordinariamente alto richiesto dalla protezione di un paese, Israele, completamente isolato sulla scena internazionale. Un paese che reagisce con arroganza e disprezzo a qualsiasi sollecitazione esterna fidando proprio sulla protezione americana. Un atteggiamento che agli occhi delle opinioni pubbliche mondiali, ma soprattutto di quella americana, rende Washington corresponsabile della politiche di un governo dominato da elementi nazionalisti e razzisti e da partiti che rappresentano un fanatismo religioso in tutto simile a quello dei talebani o di altri estremismi islamici.
Forse è giunto anche per Israele il momento di cambiare drasticamente politica, di smettere d'insultare pubblicamente il presidente Obama e altri leader europei e di sostituire il ministro degli esteri Lieberman, che più che alla diplomazia sembra dedito ad esibizioni di pessimo gusto e che ha un repertorio molto monotono, fatto esclusivamente d'insulti e minacce, per tutti. Israele non può più contare sulla spaccatura tra i palestinesi, cha ha a lungo coltivato fin da quando ha favorito l'emersione di Hamas contro Fatah in una tragica riedizione del sostegno offerto dagli Usa agli estremisti islamici in Afghanistan in chiave anti-sovietica. Israele non può più nemmeno dirsi minacciata, perché la devastazione dell'Iraq, di Gaza e del Libano hanno dimostrato che non esiste alcun nemico in grado di minacciare veramente Israele, quanto piuttosto è ben presente il problema dell'aggressività israeliana.Mubarak non c'è più, bisogna che il governo israeliano se ne renda conto la più presto. Non c'è più il leader corrotto, non c'è più suo figlio che prendeva tangenti da Israele per le forniture di gas e non c'è più la strategia della tensione di matrice governativa. Non c'è più un governo che fa gli attentati ai cristiani copti per offrirsi poi come protettore contro i qaedisti fantasma, non c'è più il governo che nel 2005 incolpò gli islamici per l'attentato di Sharm el Sheik, che oggi i documenti dei servizi israeliani hanno rivelato essere stato una rappresagli contro un concorrente di Gamal Mubarak nel settore del turismo e nella divisione delle tangenti israeliane.
Attentato nel quale morirono sei italiani: Sebastiano e Giovanni Conti, Giovanni Conti, Daniela e Paola Bastianutti, Daniela Maiorana e Rita Privitera, i parenti dei quali saranno ancora convinti che siano stati vittima dei feroci islamisti, visto che i media italiani non hanno dato nessuna evidenza alla notizia e che la Farnesina, che ha difeso fino all'ultimo Mubarak e si era mobilitata per aiutarlo nel "proteggere i cristiani", difficilmente li avrà informati degli sviluppi.
Tutto questo non esiste più, si è aperta una nuova era con la quale misurarsi e forse è tempo che anche in Israele si affaccino nuovi leader e un nuovo ceto politico, magari non scelto tra i generali come da tradizione israeliana. È tempo di una fuga in avanti verso la civiltà, lontano dagli scenari da Guerra Fredda e dalle miserie cresciute all'ombra prima del conflitto arabo-israeliano e poi degenerate negli anni di Bush e della War On Terror.
L'Egitto ha lanciato la palla nel campo israeliano, tocca ora ad Israele dimostrarsi all'altezza della sfida senza scappare negli spogliatoi dicendo che non vuole giocare con i cattivi.