di Michele Paris

Nel secondo dei tre appuntamenti elettorali in programma in Nigeria durante il mese di aprile, qualche giorno fa il presidente in carica Goodluck Jonathan ha conquistato una chiara vittoria già al primo turno. L’affermazione dell’ex vice-presidente ha però scatenato violente proteste da parte dei sostenitori del suo più immediato rivale, facendo riemergere tutte le tensioni religiose e sociali che pervadono il più popoloso stato africano.

La più recente tornata elettorale è andata in scena sabato scorso ed è stata definita dalle autorità locali e dalla maggior parte degli osservatori internazionali come la più corretta dal 1999, anno che ha segnato la fine del regime militare in Nigeria. In precedenza, il 9 aprile, si era tenuto in maniera pacifica il voto per l’Assemblea Nazionale, mentre il 26 gli elettori saranno chiamati a scegliere i propri rappresentanti a livello locale.

Secondo i dati resi noti dalla Commissione Elettorale Indipendente lunedì scorso, Goodluck Jonathan del partito di governo PDP (Partito Democratico del Popolo) ha ottenuto il 57 per cento dei consensi, contro il 31 per cento raccolto dal generale Muhammadu Buhari, già a capo di un governo militare in Nigeria tra il 1983 e il 1985.

Il voto per le presidenziali ha messo in evidenza le profonde divisioni che caratterizzano questo paese. Mentre Jonathan, di religione cristiana, ha trionfato nelle regioni meridionali, Buhari ha potuto contare su un largo seguito nel nord del paese, in prevalenza musulmano. I risultati superiori al 90 per cento in alcuni stati hanno spinto il principale sfidante del presidente in carica a denunciare diffusi brogli durante le operazioni di voto.

Alimentando ulteriormente un violento conflitto già esploso più volte negli ultimi anni, il malcontento tra gli sconfitti ha scatenato numerosi incidenti, soprattutto nel nord del paese. Le città settentrionali di Kano e Kaduna, in particolare, sarebbero state teatro di violenti scontri. In tutto il paese il bilancio provvisorio è già di oltre cento morti. A rendere incandescente il clima in cui si sono svolte le elezioni non sono stati soltanto gli annosi problemi che affliggono la Nigeria, come la lotta armata del Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger (MEND) o il persistente conflitto tra cristiani e musulmani. È stata infatti la stessa ascesa alla presidenza di Goodluck Jonathan ad aver sollevato pesanti critiche.

Le inquietudini tra le élites locali erano iniziate in seguito alla prolungata assenza dell’allora presidente Umaru Yar’Adua, il quale per gravi motivi di salute si era recato in Arabia Saudita nel novembre 2009. La sua partenza era avvenuta praticamente all’insaputa del governo nigeriano, provocando una crisi del sistema politico. Nella confusione più totale, e al di fuori delle regole costituzionali, nel febbraio 2010 l’Assemblea Nazionale trasferì allora le funzioni presidenziali di Yar’Adua al suo vice, Goodluck Jonathan. Solo nel maggio successivo, quest’ultimo è infine diventato presidente a tutti gli effetti, in seguito al decesso di Umaru Yar’Adua.

Oltre alle manovre di dubbia legalità che hanno accompagnato la scalata alla guida del paese di Jonathan, anche la sua candidatura per le presidenziali del 2011 ha contribuito ad innescare nuove tensioni inter-etniche in Nigeria. L’equilibrio politico raggiunto a partire dal ritorno alla “democrazia” dodici anni fa si era basato sull’alternanza alla presidenza del paese tra un cristiano del sud e un musulmano del nord per otto anni (due mandati) ciascuno. Allo stesso modo, durante il mandato di un presidente musulmano, il suo vice dovrebbe essere un cristiano e viceversa.

Dal momento che il defunto presidente musulmano Yar’Adua era stato eletto per la prima volta nel 2007, il suo successore aveva inizialmente promesso che, una volta completato il mandato quadriennale, la candidatura alla presidenza per il PDP sarebbe toccata ad un politico di fede islamica. Al momento della scelta del candidato, tuttavia, Jonathan si è mosso per conquistare la nomination – secondo alcuni pagando profumatamente i delegati del partito – a spese del musulmano Atiku Abubakar, già vice del presidente Olusegun Obasanjo tra il 1999 e il 2007.

La candidatura e l’elezione di sabato scorso di Goodluck Jonathan hanno così decretato la fine di un accordo di spartizione del potere - peraltro tra politici finora tutti appartenenti allo stesso partito - che, come ha scritto l’autorevole magazine americano Foreign Affairs, “rappresentava un importante strumento in mano alle élite per controllare le innumerevoli divisioni all’interno della Nigeria”.

La fine dell’accordo, nonché la deposizione di Yar’Adua di fatto ancora prima della sua morte, è stata peraltro orchestrata tra Jonathan e i governi occidentali, in primo luogo quello americano. A rivelarlo è un cablo del febbraio 2010 pubblicato da Wikileaks lo scorso dicembre. In esso viene descritto l’impegno del presidente nigeriano ad interim nel cercare l’appoggio dei diplomatici statunitensi per il suo progetto di successione e il via libera di Washington, nonostante il rischio di far riesplodere la violenza nel paese e di dividere la stessa classe dirigente nigeriana.

Ben consolidata è d’altra parte l’intromissione delle potenze occidentali in un paese la cui rilevanza strategica difficilmente può essere sopravvalutata. La Nigeria è infatti il maggior produttore di petrolio di tutta l’Africa e provvede al dieci per cento delle importazioni di greggio degli Stati Uniti. Considerevoli depositi onshore e offshore ne fanno inoltre il decimo paese con le maggiori riserve di gas naturale. Con la terza economia del continente e i sui 150 milioni di abitanti, la Nigeria contribuisce anche in maniera determinante alla stabilità dell’intera Africa occidentale.

L’interventismo occidentale è perciò giustificato, in primo luogo, da motivi di politica energetica ed è completamente al servizio delle compagnie petrolifere che in Nigeria detengono un potere comparabile, se non superiore, a quello dello stesso governo centrale. Fin dall’arrivo della Shell nel 1927 per iniziare lo sfruttamento delle riserve petrolifere situate nel delta del fiume Niger, i colossi del petrolio hanno puntualmente messo in atto politiche che hanno calpestato i diritti e le esigenze della popolazione locale, causando oltretutto gravissimi danni ambientali.

Lo strapotere dei cartelli del petrolio in Nigeria è stato reso possibile grazie alla complicità di una classe politica che, come in molte altre realtà africane e mediorientali, ha prodotto differenze sociali colossali, con una ristretta oligarchia corrotta arricchitasi alle spalle di ampi strati della popolazione ridotti in misera. Per tutelare le proprie compagnie operanti in Nigeria, i governi occidentali devono dunque poter contare su un presidente - come Goodluck Jonathan e i suoi predecessori - che amministri secondo il loro volere i vasti poteri riconosciutigli dalla Costituzione in merito alla spartizione dei profitti derivanti dall’attività estrattiva.

La gran parte della popolazione continua invece ad essere esclusa da qualsiasi beneficio derivante da una tale ricchezza del sottosuolo. Secondo i dati delle Nazioni Unite, oltre il 70 per cento degli abitanti è costretto a vivere con meno di un dollaro al giorno e la Nigeria è tra i venti paesi più poveri del pianeta in termini di reddito effettivo pro-capite.

Le condizioni politiche, sociali ed economiche del paese non sono altro che la diretta conseguenza del sistema imposto dalla cerchia di potere indigena, dai governi occidentali e dai giganti privati del petrolio e che, inevitabilmente, la recente elezione di Goodluck Jonathan alla presidenza non farà altro che perpetuare.

di Roberta Pasini

E' giunta da pochi giorni la tanto attesa notizia dell'abolizione dello stato di emergenza in Siria in vigore senza interruzione da quasi 50 anni. L'eliminazione della legge d'emergenza appare a prima vista una vittoria significativa del movimento riformista siriano, che si è destato il 18 marzo scorso travolto, o forse sarebbe meglio dire ispirato, dal contestuale risveglio della società civile negli altri paesi arabi.

Lo stato di emergenza venne promulgato nel 1963, dopo che il partito Ba'ath salì al potere l'8 marzo dello stesso anno, ed è la legge che ha sottratto i cittadini siriani alla protezione costituzionale limitandone le libertà civili e individuali. Grazie a questa legge il regime siriano ha potuto estendere il suo rigido controllo sulla popolazione attraverso l'indiscriminato arresto dei cittadini sospettati di mettere a repentaglio la sicurezza dello stato.

A diffondere la notizia è stata l'agenzia stampa governativa Sana che annunciava la fine dello stato di emergenza, l'abolizione della Corte Suprema di Sicurezza dello Stato, organo responsabile dei processi ai prigionieri politici, e una nuova regolamentazione che prevede il diritto di protestare pacificamente, previa autorizzazione del Ministero degli Interni.

Lo stesso giorno però, sempre sull'agenzia Sana, appare il messaggio del Ministro degli Interni che fa appello ai cittadini siriani affinchè ''contribuiscano alla realizzazione della stabilità e sicurezza (del paese)'' e si ''astengano da qualsiasi manifestazione, marcia, o sit-in di qualsiasi tipo''. Una sorta di appello che suona più come una minaccia per chi avesse intenzione di continuare le proteste pubbliche.

Tra le altre proposte di legge discusse si parla anche di alcune riforme economiche per la creazione di 10.000 nuovi posti di lavoro in posti pubblici e per favorire l'impiego giovanile e contrastare in questo modo la crescente crisi economica. Il Presidente Bashar al-Asad assicura infine che nelle intenzioni del governo c'è in programma anche una nuova legge di riforma che regoli l’attività dei partiti politici e dei mezzi d’informazione.

Intanto questo primo importante decreto per l'abrogazione della legge di emergenza, dopo essere stato approvato dal Consiglio dei Ministri, per entrare pienamente in vigore deve aspettare l'approvazione del Parlamento che con tutta probabilità non si riunirà prima d’inizio maggio. Ma aldilà dei tempi tecnici, questo importante e simbolico atto di riforma politica rimane offuscato da meno ecclatanti ma ugualmente preoccupanti segnali contraddittori.

A cominciare dalle definizioni che le autorità governative stanno usando per descrivere le manifestazioni di protesta e di malcontento di un numero crescente di cittadini. Inizialmente indicati come ''atti di sabotaggio'', lunedì scorso il Ministro degli Interni non ha esitato ad attribuire i disordini che stanno agitando la Siria a ''un'insurrezione armata di gruppi armati appartenti a organizzazioni salafite (gruppi islamisti radicali ndr), specialmente nelle città di Homs e Baniyas''. Il linguaggio politico usato dal regime non lascia presagire una sostanziale inversione di rotta, ma al contrario legittima la repressione.

Passando dalle parole ai fatti, ben più allarmante è stata la reazione delle forze di sicurezza durante le manifestazioni a Homs, città industriale a nord di Damasco, dove solo poche ore dopo la notizia dell'eliminazione dello stato di emergenza, le forze di polizia non hanno esitato a sparare sulla folla, provocando un numero ancora non accertato di morti. Non solo uccisioni ma anche nuove ondate di arresti. Lunedì sera, sempre dalla città di Homs, arriva la notizia della cattura del militante di opposizione, Mahmud Issa, prelevato dalla propria abitazione dalle forze di sicurezza siriane dopo un'intervista con l'emittente televisiva al-Jazeera.

Non è la prima volta che le autorità siriane incarcerano Mahmud Issa, conosciuto per il suo impegno a favore della democrazia. L'ultima volta nel 2006, quando scontò una pena di tre anni di reclusione, reo di aver firmato la Dichiarazione di Beirut-Damasco con la quale 300 attivisti e intellettuali chiedevano la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi dopo l'assassinio di Rafiq Hariri a Beirut del 2005.

Nemmeno dopo l'approvazione della fine della legge d'emergenza sono stati bloccati gli arresti arbitrari, che stanno proseguendo anche in questi giorni. Attivisti on line denunciano l'arresto e le percosse ai danni di decine di manifestanti, soprattutto giovani e studenti, durante le agitazioni degli ultimi giorni che si stanno verificando in diverse città della Siria. Le stime arrivano a calcolare almeno un centinaio di arresti.

Manifestazioni studentesche sono state organizzate ieri presso le Università di Aleppo, Damasco, al-Hasakah e Daraa, manifestazioni che sono continuate anche oggi. Secondo al-Jazeera solo ad Aleppo sono almeno 37 gli studenti arrestati. Altre città, piccole e grandi, in cui si sono registrate manifestazioni sono Homs a nord di Damasco, Baniyas, Lattakia e Saraqib a nord-est del paese, e al-Kiswah, a sud.

Sembra difficile a questo punto che la popolazione faccia marcia indietro, dimenticando i morti e gli arresti che il governo sordo alle richieste di maggiori libertà civili ha provocato. Dalle iniziali, timide invocazioni ''il popolo siriano non deve essere umiliato'', le rivendicazioni politiche per la libertà si sono fatte via via più precise, chiedendo la liberazione dei prigionieri, la fine delle leggi d'emergenza e l'attuazione di riforme democratiche, si è arrivati ora a richiedere a voce chiara e ferma la caduta del governo, rivendicazione impensabile solo fino a qualche settimana fa.

La maggior parte dei commentatori concorda nel dire che l'abrogazione dello stato d'emergenza, oltre ad arrivare con troppo ritardo nel tentativo di sedare le rivolte, non sarà sufficiente a migliorare le condizioni dei diritti civili in Siria se non sarà accompagnata da ulteriori radicali trasformazioni del regime. Nonostante, infatti, questa sia la principale forma di limitazione delle libertà civili, che proibisce incontri pubblici tra i cittadini e consente l'arresto di chiunque sia sospettato di costituire una minaccia per la sicurezza dello stato, se questo provvedimento non sarà accompagnato da un cambio di politica reale e dall'introduzione di ulteriori leggi che limitino il potere delle forze di sicurezza e dei servizi segreti, vera fonte di terrore per i cittadini, da solo non basterà a placare il dissenso della popolazione.

Le ''vere'' riforme auspicate dagli attivisti per i diritti umani e la democrazia prevedono, oltre all'abolizione dello stato di emergenza, la liberazione di tutti i prigionieri politici incarcerati proprio in virtù di questa legge speciale e la cancellazione delle attuali procedure giudiziarie che consentono l'applicazione della legge militare anche per processi civili. Nel frattempo, invece, il governo si prepara ad elaborare una nuova legge per la cosiddetta lotta contro il terrorismo, che potrebbe rivelarsi anche peggiore dello stato d'emergenza.

 

di Alberto Novelli

Poco meno di 80 giorni. Sono quelli che separano il continente africano dalla nascita del suo 55esimo stato, che dovrebbe chiamarsi, a meno di sconvolgimenti dell’ ultim’ora,  Repubblica del Sud Sudan. Il 9 Luglio si dovrebbe infatti porre fine ai 6 anni del Comprehensive Peace Agreement (CPA), siglati nel 2005 a Naivasha, in Kenya, tra  il National Congress Party ( NCP), partito al governo del Sudan dal 1989 e il Sudan People Liberation Movement/Army (SPLM/A), guidato dal defunto John Garang de Mabior e assunto come unico rappresentante delle istanze delle popolazioni sud sudanesi, dopo decenni di guerra civile tra il Nord prevalentemente arabo e musulmano e il Sud popolato di tribù africane cristiano-animiste.

Da allora molte cose sono cambiate, a cominciare dalla morte del grande leader John  Garang, che era riuscito, talvolta con la forza talvolta con il suo carisma, spesso con una combinazione di entrambi, a  canalizzare le istanze indipendentiste del sud in un unico movimento. Inoltre, nonostante il momentum iniziale, molti punti chiave del CPA non sono stati implementati. Per citarne alcuni, Nord e Sud non hanno ancora trovato accordi definitivi sulla divisione delle risorse economiche (principalmente petrolio e acqua), sulla futura cittadinanza dei cittadini sud-sudanesi residenti al Nord e viceversa e sulla demarcazione del confine tra Nord e Sud. A tutto questo si aggiunge uno sviluppo economico che tarda ad arrivare e investitori stranieri che latitano a causa - in parte - del clima di instabilità e delle tensioni ancora troppo forti.

Per questo ed altri motivi le paure e i timori della comunità internazionale e di alcuni Sud Sudanesi stessi sono riposti sulla capacità del nuovo stato di far fronte a queste enormi sfide ed evitare di implodere su se stesso, trascinando così ancora una volta il Sudan e l’ intera regione nel caos. A Gennaio di quest’anno la comunità internazionale nella sua totalità si era congratulata per il successo del referendum per la secessione, in cui più del 95% dei Sud Sudanesi, si é espresso a favore dell’ indipendenza dal Nord, a seguito di una settimana di votazioni che hanno richiesto uno sforzo enorme da parte della Missione delle Nazioni Unite (UNMIS) e del Governo del Sud Sudan, in termini di sicurezza e organizzazione logistica.

Il referendum seguiva di qualche mese le elezioni politiche, tenutesi ad Aprile 2010. Nonostante un giudizio tutto sommato positivo sul processo elettorale, non si possono dimenticare, per gli effetti che stiamo vedendo in questi giorni, le accuse reciproche di frodi e intimidazioni e il consolidamento al potere del Sudan People Liberation Movement (SPLM) a discapito delle forze di opposizione e dei candidati indipendenti.

Le elezioni hanno riportato alla superficie - e in alcuni casi creato dal nulla -  antagonismi e rivalità che in questi mesi successivi al referendum stanno creando enormi problemi di stabilità interna e ponendo una minaccia seria al governo embrionico Sud Sudanese  prima ancora del suo consolidamento e del riconoscimento da parte dalla comunità internazionale. Il caso più eclatante é quello della ribellione del Generale George Athor nello stato di Jonglei.

Jonglei é storicamente una delle regioni più complicate del Sud Sudan, a causa delle divisione etniche (Dinka, Nuer e Murle) e della sua estensione geografica, che rende il dispiegamento di forze di sicurezza (Polizia e SPLA), così come di altre autorità statali, molto difficile, se non impossibile durante la stagione delle pioggie. Athor ha militato tra gli alti ranghi del SPLA per parecchi anni prima di dimettersi per concorrere come candidato indipendente per la posizione di Governatore di Jonglei State.

Come successo in altri stati, la sua sconfitta a favore del candidato ufficiale del SPLM ha dato il via a una serie di tensioni/scontri che sono sfociati in una vera e propria ribellione. Dopo la sconfitta Athor ha disertato e arruolato decine di soldati tra le sue fila. Da un anno a questa parte, le forze di Athor si continuano a scontrarsi con quelle governative al confine tra gli stati di Jonglei e Upper Nile, causando morti, spostamenti interni e instabilità.

Lo scontro é culminato nel febbraio 2011, quando le forze di Athor e l’SPLA hanno rotto il cessate il fuoco che era stato raggiunto con l‘aiuto del Presidente Kiir e siglato il 5 Gennaio, pochi giorni prima del referendum, e si sono scontrate nel nord di Jonglei, lasciando più di 200 persone, tra cui molti civili, vittime.

Da allora, nessun progresso significativo é stato compiuto e le due parti sembra siano in attesa dell’ indipendenza prossima per decidere quale strategia adottare. A inizio 2011, l’SPLA è stata duramente impegnata anche nello stato di Unity, per contrastare e sedare i gruppi armati guidati dagli ex-SPLA Gatluak Gai e James Gai Yoach, presumibilmente legati, direttamente o indirettamente, a George Athor stesso. Sono di questi giorni rapporti confidenziali che indicano un reclutamento forzato di nuove reclute tra la popolazione civile di Unity da impiegare nella lotta a queste milizie.

Sebbene il gruppo di Athor rappresenti la punta dell’ iceberg, il problema é più vasto e riguarda il controllo quasi esclusivo che l’ SPLM/A, in quanto rappresentante della lotta di liberazione e firmatario del CPA, ha esercitato e continua ad esercitare sul potere legislativo ed esecutivo in Sud Sudan. Al tempo stesso, la situazione é resa instabile dalla brama di potere di coloro che hanno preso parte alla guerra civile ma non sono stati ricompensati a sufficienza, dal loro punto di vista, con cariche governative e/o di potere e che vedono nella creazione del nuovo stato opportunità di incarichi prestigiosi e/o profittevoli.

In seguito alla defezione di Athor, altri ex-generali o personalità più o meno note hanno seguito le sue tracce e organizzato rivolte in varie parti del Sud Sudan. Tra gli altri, Gabirel Tang Ginye in Jonglei, un ex leader delle milizie sudiste diventato Maggiore Generale tra le fila delle Sudan Armed Forces (SAF, l’ esercito di Khartoum), e che ha il controllo di buona parte dell’ SPLA nello Stato Upper Nile. O, ancora, Peter Gadet, Maggiore Generale dell’ SPLA, che durante la Guerra Civile é stato legato al leader delle South Sudan Defence Forces Paulino Matip.

La defezione di Gadet é particolarmente preoccupante, vista la sua influenza nella tribù Nuer a cui appartiene e la facilità con cui durante la guerra si schierò col Nord dopo la divisione nell’ SPLA del 1991. Come per George Athor, alcune fonti tra i ranghi dell’ SPLM/A ritengono che questi personaggi ricevano supporto logisitico e armi dal Governo Cebtrale a Khartoum, che beneficierebbe del clima di instabilità in Sud Sudan.

Che queste accuse trovino fondamento oppure no, per sopravvivere agli scossoni di assestamento che seguiranno inevitabilmente l’indipendenza del 9 Luglio, il Governo Sud Sudanese dovrà adottare un approccio improntato all’inclusione delle forze e dei partiti di opposizione, e gestire le aspettative della popolazione civile cominciando a fornire quei “peace dividends” da troppo tempo attesi.

Oltre a questo compito non facile, é necessario fin da ora adottare una strategia comune per sedare le ribellioni. Se alcuni esponenti del governo e analisti politici optano per un inclusione dei generali ribelli e dei loro uomini nella sfera politica tramite la distribuzione di alte cariche e assunzioni a pioggia nella pubblica amministrazione, altri sono convinti che tale apertura potrebbe lanciare un gesto sbagliato e invogliare altri leader locali a seguire le loro orme. 

 

 

di Fabrizio Casari

Lo si può obiettivamente definire un Congresso straordinario quello che ha appena celebrato il Partito Comunista di Cuba. Straordinario perché straordinarie sono le misure che ha adottato e straordinario perché ha raccolto una sfida per il futuro che, piaccia o no, lontano dalle letture stereotipate e ignoranti che la stampa italiana propone, prefigura un’evoluzione autentica, profonda, del sistema socialista. Magari non sarà di moda, non catturerà gli elogi delle major della comunicazione, ma raccoglie e valorizza le istanze popolari del Paese: che, alla fine, è quello che conta.

Il Congresso si è tenuto in concomitanza con il 50esimo anniversario della fallita invasione mercenaria alla Baia dei porci e, forse, non poteva esserci data più simbolica per indicare una nuova fase. Cinquant’anni fa la resistenza popolare che ricacciò in mare i mercenari aprì la strada al carattere socialista della Rivoluzione e oggi, le misure adottate, sembrano voler ratificare per il futuro la medesima scelta.

L’indicazione che viene da questa terza fase della vita della Rivoluzione cubana è che si negoziano politiche e forme dell’organizzazione sociale, non i princìpi. Il disegno del nuovo corso cubano risiede fondamentalmente nell’adeguamento del progetto economico e sociale della Rivoluzione alle condizioni generali internazionali e interne. Proiettare il socialismo dalla storia passata e presente a quella futura è la scommessa e cambiare il modello per rafforzare il sistema è il modo di vincerla. Il preambolo del progetto è, infatti, la sua stessa sostanza: il sistema socialista si evolve per vincere. Si deve cambiare il modello per rivitalizzare il sistema e si deve mantenere il sistema per far vivere Cuba.

Il piano di riassetto economico dell’isola era stato ampiamente esposto dal documento che convocava il Congresso. Ne avevamo già scritto su Altrenotizie al momento della sua diffusione (http://www.altrenotizie.org/esteri/3595-cuba-socialismo-del-terzo-millennio.html). Averlo sottoposto al giudizio popolare in lungo e largo del Paese per cinque mesi ha prodotto diverse modifiche al testo originario, ma la sostanza dell’operazione politica è stata confermata. E qui, davvero, non si può non cogliere un elemento di merito sul piano della democrazia reale: sarebbe interessante verificare in quali dei paesi che si autocelebrano democratici (e magari accusano Cuba di non esserlo) i piani di riforme economiche sono sottoposti al vincolante vaglio popolare.

Questa è l’essenza delle riforme approvate e, in questo senso, esse aprono la strada al cambiamento compatibile. Compatibile, sì, perché sono riforme che partono non da teorie economiche astratte, ma che si misurano con la situazione concreta del Paese.

Nascono dall’individuazione dei bisogni e anche dei limiti sin qui palesati; si proiettano sull’esigenza di crescita interna in base alle necessità e alle possibilità concrete. Non hanno riferimenti dottrinari, dal deciso sapore teologico, sbertucciati da teorie universitarie; non obbediscono cioè ai modelli predefiniti - imperanti quanto fallimentari - ma, sfida nella sfida, propongono una “via cubana” per l’economia di Cuba.

Un modello adatto all’isola, cucito su misura delle esigenze interne, perché quello vigente è incompatibile con il quadro generale. Si vuole superare un’identità dogmatica - e in ultima analisi inefficace - che persisteva a dispetto delle profonde modificazioni nella realtà nella quale vive. Cuba ha scelto di adeguare e non di cancellare, di riformare e non di abdicare, di evolversi e non di cristallizzarsi.

La riforma del mercato del lavoro è certamente il fatto nuovo, che rompe schemi consolidati e apre scenari diversi da quelli ipotizzati fino a pochi anni orsono e determina comunque la necessità di formare diverse generazioni di cubani a un nuovo modello di sviluppo. L’intenzione chiara è quella di far funzionare ciò che non funziona, giacché l’inefficienza e la disorganizzazione diventano insopportabili in un’economia già prostrata dal blocco economico statunitense lungo più di cinquant’anni e che ha rappresentato l’impossibilità per Cuba di programmare la sua economia come qualunque altro paese del mondo.

L’economia pianificata e i rigidi piani quinquennali cedono ora progressivamente il posto a un’idea dinamica e d’aggiornamento costante del processo di crescita economica. Agricoltura, edilizia, trasporti, falegnameria, servizi generali alla cittadinanza e al turismo, sono le aree dove maggiormente verranno indirizzati gli sforzi di modernizzazione e trasformazione. Apertura alle piccole imprese, preferibilmente su base cooperativa ma non solo; cessione di sovranità dall’alto verso il basso nella regolamentazione della legge della domanda e dell’offerta, nell’obiettivo di ridisegnare la mappa dei bisogni della popolazione e del loro soddisfacimento; abolizione sostanziale del valore assistenziale del salario per trasformarlo in elemento di valore concreto rispetto all’opera sostenuta ed al valore sociale che essa rappresenta.

I passi sono diversi e gradualmente verranno effettuati. La restituzione della terra ai privati si prevede che impiegherà 130.000 nuovi contadini e saranno quasi 200.000 le licenze di commercio destinate alle piccole aziende, dove verranno allocati i circa 2 milioni di lavoratori (su un totale di 5) che usciranno dal settore pubblico per entrare in quello privato. Oltre a ciò, l’emersione legale delle attività fino a ieri svolte illegalmente, eliminerà il mercato parallelo esistente, dove tanto per le prestazioni come per i materiali si trova tutto quello che ufficialmente non c’è e che, alterando in profondità il dato ufficiale, produce ricadute fortemente negative per la pianificazione l’organizzazione del mercato interno. L’obiettivo finale è ridurre al minimo la distanza tra domanda di beni e servizi alla cittadinanza e la loro offerta.

Dallo sviluppo del settore privato, che si prevede possa portare al 40% del Pil nei prossimi cinque anni, giungeranno sia i risparmi derivanti dalla minore inefficienza, sia le risorse (sotto forma d’imposte) che verranno utilizzate per il mantenimento dello stato sociale, già di per se alleggerito dalla progressiva eliminazione delle forme generalizzate di sussidi che, pure se insufficienti, rappresentano comunque un macigno per l’economia del Paese.

La caratteristica storica principale del sistema cubano è stata, infatti, quella di riuscire a sostenere un livello di welfare state senza uguali al mondo. Al mantenimento di questo sono state dedicate risorse infinite e per questo sono state affrontate e sostenute difficoltà crescenti, nel convincimento che l’egualitarismo dovesse essere il tratto identitario del modello. Da oggi, alla luce dell’impossibilità di continuare a sostenere economicamente quel modello, ma nella volontà decisa di mantenere il sistema, si cambia.

La via scelta è quella della trasformazione di un’economia rigidamente ed esclusivamente statale, in un’economia mista (pubblica e privata) che generi il gettito fiscale per la copertura del welfare. Verrà aperta la strada ai capitali privati dall’estero, fondamentali per finanziare l’aggiornamento tecnologico e delle infrastrutture necessario a recuperare quote di produzione, tanto per l’export come per il consumo interno. Sarà lecito il profitto e la tassazione dello stesso, che servirà a dotare la fiscalità generale delle risorse finanziarie di cui ha bisogno per la gestione ordinaria e straordinaria del Paese.

Dove si potrà e dove si vorrà, i dipendenti di ieri potranno essere i soci di domani. Uguali opportunità e uguali diritti; valore del lavoro e quindi del salario sono i nuovi parametri di un’organizzazione sociale capace di proiettare il paese verso la stabilità economica. E questa che, insieme alla sovranità politica, garantisce l’indipendenza e lo sviluppo, sinonimi veri dell’uguaglianza tra tutti i cubani.

La riorganizzazione della società cubana è un altro dei passi verso una nuova Cuba. L’elemento “politico” più importante sembra quindi essere quello del ristabilimento dei ruoli nella società cubana. Si tratta di una trasformazione determinante, anche sotto l’aspetto della battaglia contro l’inefficienza e la corruzione, che sposta l’asse dell’equilibrio della società cubana su parametri diversi, ridisegnando la mappa delle forze sociali che agiscono nel tessuto del Paese.

La nuova articolazione delle forze sociali sull’isola sarà motore e misura del cambiamento. Le diverse componenti sulle quali si articola la società cubana avranno compiti diversi perché diverse sono le ragioni sociali su cui si fondano e avranno ruoli diversi perché diversi saranno i campi nei quali si cimenteranno. Quando Raul afferma che “bisogna togliere al partito le funzioni che non gli competono”, si capisce che la sovrapposizione e la mescolanza tra Partito e Stato é destinata a essere superata da una divisione chiara per ruoli diversi.

Il partito, infatti, perno centrale della direzione politica, viene sollevato dalla direzione della gestione amministrativa. Pur mantenendo il suo ruolo di collante sociale e politico, di luogo di elaborazione d’idee e proposte che però, sotto il profilo della gestione economica e amministrativa, sarà lo Stato a dover gestire.

In simultanea con la progressiva riduzione del peso del partito nella gestione amministrativa, emerge con evidenza il ruolo delle Forze Armate, che dall’inizio degli anni ’90 sono impegnate seriamente anche nelle attività economiche. Analisti improvvisati da un tanto al chilo, ritengono che in questo risieda la prova di un riassetto dei poteri funzionale al nuovo gruppo dirigente che ha nei militari il nuovo fulcro. Ma una simile lettura è come minimo superficiale, legata a un’interpretazione politicista e tutta avvitata sulle suggestioni eurocentriche dell’organizzazione sociopolitica. E’ invece opinione diffusa, a Cuba, che siano proprio quelle gestite dalle FAR le attività economiche più efficienti. Del resto é questa una caratteristica peculiare di Cuba, che anche qui si rivela Paese assolutamente diverso dagli altri.

E risulta chiaro come la difesa dell’indipendenza, della sovranità nazionale e dell’integrità territoriale di Cuba passi anche dalla sua capacità di far evolvere la sua economia; l’indipendenza politica non è sufficiente se non c’è quella economica. Difendere il Paese dalle aggressioni esterne, quindi, deve accompagnarsi anche con la difesa del suo modello sociale ed economico dall’erosione costante, che potrebbe altrimenti generare fenomeni d’implosione interna non meno minacciosi dell’aggressione imperiale a stelle e strisce.

E’ qui che va collocata la nuova centralità delle FAR nel processo di rilancio dell’economia. Il recupero della capacità produttiva si fonda su una diversa organizzazione del mercato del lavoro e Cuba dovrà tornare a produrre per poter di nuovo esportare. Ma non potrebbe determinarsi una battaglia vincente contro l’assenza di disciplina lavorativa e per la gestione efficace delle risorse se l’interprete migliore di queste dinamiche fosse confinata nel suo esclusivo ruolo istituzionale. Sprechi, inefficienze e abusi possono essere fortemente ridotti proprio attraverso politiche premianti e calibrate sulle necessità del consumo interno oltre che da una disciplina maggiore. Le inefficienze e gli abusi, infatti, prosperano nell’illegalità, che dapprima trasforma i diritti in privilegi e poi i privilegi in diritti acquisiti.

L’egualitarismo assoluto, icona ideologica dell’apparenza, può diventare sostanza proprio nello smascheramento della diseguaglianza intrinseca e la denuncia della sua insopportabilità é condizione primaria per affermare l’uguaglianza nei fatti. I diritti sono collettivi, le responsabilità sono (anche) personali. Non più il livellamento salariale al netto di qualunque differenza nella responsabilità sociale dell’impiego; non più la garanzia di uno stipendio a prescindere dallo svolgimento delle mansioni per le quali quello stipendio si riceve. Le politiche salariali premianti saranno la base concettuale sulla quale restituire efficienza e disciplina lavorativa. Lo Stato dovrà riprogrammare quanto e cosa produrre e, quindi, la forza lavoro necessaria allo scopo. Affidare ai privati la produzione dei servizi destinati al consumo interno è un’utile primo passo verso la modernizzazione del Paese in un contesto di rinnovamento senza abiure.

Per chi quindi si affretta a dipingere la fine del socialismo, nascondendo nelle righe la sua personale aspirazione e per chi (dalla parte talmente opposta che finisce per congiungersi alla precedente) inorridisce di fronte al cambiamento che minerebbe l’essenza socialista dell’isola, si prevedono delusioni a raffica.

L’aspetto più netto della nuova identità socialista di Cuba è quello d’identificare l’esercizio della democrazia con un sistema valoriale che propone uguali diritti, uguali doveri e uguali responsabilità.

Che traccia il cammino collettivo intendendo la società non più come somma numerica d’individui forzatamente uguali e nella sostanza diversi, ma come dimensione armonica delle diverse individualità che nello sforzo comune diventa sostanziale uguaglianza, garantendo ognuno per garantire tutti e non più tutto a tutti a prescindere dal contributo di ognuno verso il bene comune.

Il nuovo obiettivo è raggiungere gli obiettivi. La nuova dottrina è l’abolizione delle dottrine. La riforma del modello sarà la base del rafforzamento del suo sistema. E’ un vento nuovo dal sapore antico quello che soffia sul Malecon. Il socialismo è entrato nel terzo millennio e, stando a ciò che si vede, non ha alcuna intenzione di uscirne.

 

 

 

di Eugenio Roscini Vitali

Ad una settimana dalla tregua mediata dall’Onu e dall’Egitto, sul confine che separa la Striscia di Gaza da Israele si è tornati a sparare. Gli ultimi razzi palestinesi erano caduti sul Negev il 10 aprile scorso: due caduti nei pressi di Sha’ar HaNegev e Sdot Negev ed uno in un’area disabitata a sud di Ashkelon, preceduto da tre colpi di mortaio sparati contro le zone agricole del Consiglio Regionale di Eshkol.

Il cessate il fuoco informale si è interrotto  nella notte tra venerdì e sabato, con due missili Grad lanciati verso la città di Ashdod, che non hanno comunque causato né danni né feriti, e con l’immediata risposta degli F-16 dell’aviazione israeliana che, poche ore dopo, hanno centrato due campi di addestramento delle brigate al-Qassam, uno ad ovest e l’atro a sud di Gaza City, nel quartiere periferico di Zaytoun.

L’escalation dello scontro era iniziata il 7 aprile scorso, quando un ragazzo israeliano era rimato gravemente ferito in un attentato portato contro uno scuola bus da gruppo di combattenti vicino alle brigate al-Qassam: il mezzo su cui viaggiava lo studente - morto dopo dieci giorni di ricovero presso l’ospedale Soroka di Be’er Sheva - era stato centrato e sventrato da un missile anti-carro Kornet (codice NATO: AT-14 Spriggan) mentre percorreva la strada che costeggia la frontiera settentrionale con la Striscia di Gaza, all’altezza del kibbutz di Sa’ad, Consiglio regionale di Sdot Negev.

All’azione, rivendicata da  Hamas come ritorsione “agli assassinii extragiudiziali condotti dall’aviazione  israeliana”, e più precisamente contro l’attacco missilistico avvenuto alcuni giorni prima a nord di Deir al-Balah, nel quale erano morti  tre leader delle brigate al-Qassam, era seguita la durissima reazione di Tel Aviv: nell’arco di quattro giorni i raid aerei e terrestri delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) causavano la morte di 19 arabi e più di 70 feriti, alcuni dei quali civili, mentre l’ala militare del movimento radicale palestinese rispondeva colpendo il Negev occidentale con otre 140 fra razzi e compi di mortaio.

Per dare un’idea della vastità dell’offensiva israeliana basta ricordare come tra l’8 e il 10 aprile le IDF siano state in grado di colpire quasi tutta la Striscia di Gaza: danneggiati e distrutti molti tunnel con che collegano l’enclave all’Egitto; centrate le postazioni delle brigate di al-Quds ed attaccati il quartiere as-Sultan di Rafah e la spiaggie di ash-Shawa e as-Sudaniyah, a nord-ovest della Striscia di Gaza; colpite le strutture delle brigate al-Qassam nel campo rifugiati di Ash-Shati, la città di Beit Lahiya e i quartieri di ad-Daraj, ash-Shuja’iyah e Zaytoun, a Gaza City; bombardate la città di Jabaliya e i quartieri di al-‘Umur e Kuza’ah a Khan Younes, l’area di Hajar ad-Dik, nel centro della Striscia, e il quartiere di Tuffah, ad est di Gaza City.

L’escalation della violenza nel vicino Medio Oriente è confermata anche dalle statistiche e dai numerosi scontri che si stanno verificando lungo la buffer zone di 300 metri che circonda l’enclave palestinese. L’Istituto internazionale per i diritti umani “Tadamun” ha reso noto che dall’inizio dell’anno sono aumentate considerevolmente le violazioni israeliane nella Striscia di Gaza. Nel mese di marzo gli attacchi aerei e il fuoco dell’artiglieria sarebbe diventato un fatto quasi quotidiano che avrebbe causato la morte di 16 palestinesi, 5 dei quali  adolescenti, e il ferimenti di circa 70 persone.

Un report pubblicato dall’agenzia israeliana "General Security Service", denuncia altresì che nello stesso periodo la regione del Negev occidente avrebbe subito 47 attacchi nei quali sarebbero stati sparati 38 razzi e 87 colpi di mortaio (14 gli attacchi a febbraio con 6 razzi e 19 colpi di mortaio). Nel resto del Paese le autorità israeliane avrebbero inoltre registrato 78 azioni terroristiche, 42 delle quali nell’area di Gerusalemme e 36 nella Giudea e nella Samaria, due delle quali particolarmente feroci: le cinque vittime della strage di Itamar e il morto e i 23 feriti causati da una bomba fatta esplodere a Gerusalemme il 23 marzo scorso.

Nei giorni in cui a Gaza si è tornato a combattere e in Israele è ripresa la querelle sul rapporto Goldstone: in un articolo pubblicato il 1° Aprile scorso sul Washington Post, il giudice che ha investigato sulle violazioni ai diritti umani commesse all’interno del conflitto israelo-palestinese del 2008 ha modifica alcuni dei concetti espressi il 15 settembre 2009, ripensamenti che ammorbidiscono la posizione su quelli che Richard Goldstone aveva definito “crimini di guerra”.

Il giurista sudafricano di origine ebrea afferma di essere giunto alla conclusione che le azioni condotte dalle IDF durante l’operazione “Piombo fuso” non erano deliberatamente dirette contro i civili e che quindi la metà dei 1.432 palestinesi morti tra 27 dicembre 2008 e il 17 gennaio 2009, 400 dei quali bambini, non possono essere considerati l’obbiettivo dei bombardamenti  ma danni collaterali, persone che si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Una “giustificazione” che, di fatto, conferma come tutti quei palestinesi non combattenti rimasti vittime della guerra non erano altro che civili inermi ed indifesi; un verdetto che riempie di gioia i responsabili di quei massacri ma che danneggia la reputazione di Israele più di quanto fecero quelle stesse morti.

 

 


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